Le denunce presentate contro il governo italiano
e gli argomeni infondati con cui vengono respinte

di Gabriele Cerminara (magistrato)
Pasquale Vilardo (avvocato)
Giuseppe Mattina (avvocato)
Aldo Bernardini (docente di diritto internazionale)

Nella primavera del 1999 la guerra della NATO contro la Repubblica Jugoslava è nella sua fase più intensa e distruttiva. Le incursioni aeree, con partenza dalle basi dei paesi limitrofi della Federazione Jugoslava, demoliscono senza sosta tutte le infrastrutture del piccolo stato e colpiscono la popolazione civile. La prima fase della guerra è ormai conclusa. Le armate di terra si preparano allo scontro diretto che si preannuncia durissimo.

Questa vicenda, che sconvolge il cuore dell'Europa per la prima volta dopo l'ultimo conflitto modiale, ha una caratteristica che accomuna tutti i paesi che partecipano all'azione. La vera natura del conflitto viene nascosta, quando non addirittura negata. I termini edulcorati come "intervento umanitario", "azione di polizia", "difesa attiva", usati negli atti ufficiali dei vari stati, servono in realtà a eludere i problemi politici che porrebbe il rispetto delle regole non solo internazionali, ma anche interne ai singoli stati.

In effetti, per la memoria non del tutto sopita degli sconvolgimenti che una guerra comporta, gli stati occidentali e le organizzazioni internazionali (tra queste la stessa NATO) hanno posto dei precisi limiti sulla natura delle guerre (che devono essere solo difensive) e previsto per decidere l'intervento armato delle procedure con meccanismi du controllo a vario livello.

In Italia, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione dei problemi insorti tra gli stati viene posto come uno dei fondamenti della Costituzione (art. 11). Solo in caso di aggressione si può rispondere con una difesa armata, ma questo estremo rimedio è sottoposto a una serie di controlli da parte delle più autorevoli istituzioni dello Stato. E' previsto infatti che il Parlamento (Senato e Camera dei Deputati congiuntamente) deliberi lo stato di guerra. L'ultima decisione spetterà poi al Capo dello Stato che dovrà assumersi la responsabilità di dichiarare le guerra. In questa rigida procedura il Governo ha solo il ruolo di esecutore delle decisioni degli organi deliberativi.

L'uso di uno di questi poteri da parte di chi non è legittimato, è considerato dalla legge italiana un delitto particolarmente grave; la pena prevista va da un minimo di 6 a un massimo di 16 anni. La particolare valenza politica di questo reato è sottolineata dall'obbligatorio intervento di un organo istituzionale (il Ministro della Giustizia), che deve dare una prima valutazione dei fatti, negando o concedendo l'autorizzazione a procedere.

Proprio facendo riferimento a un quadro giuridico così preciso, donne e uomini di tutte le estrazioni sociali, nel momento più acuto delle operazioni di guerra hanno ritenuto che il ricorso a un tribunale potesse costituire un civile strumento per bloccare il ricorso alle armi, che appariva sempre più chiaramente violare non solo accordi internazionali, ma anche norme costituzionali e penali.

E' successo così che, senza alcun collegamento tra loro, centinaia di persone hanno elaborato e inviato alla Procura della Repubblica di Roma denunzie in cui si chiedeva un esame dei fatti in relazione a delitti di usurpazione di funzione pubblica e di strage. Queste persone, compiendo questo gesto, hanno posto delle semplici domande al titolare dell'azione penale e ai giudici: è lecito che, senza alcuna decisione delle due Camere, senza alcuna dichiarazione da parte del Capo dello Stato, senza alcuna aggressione a danno del nostro paese o di paesi a noi alleati, si facciano azioni di guerra come bombardamenti su obiettivi civili, si uccida, si facciano prigionieri? Le denunzie concludevano chiedendo che, ove fossero accertate violazioni di legge costituzionali e penali, l'autorità giudiziaria compisse, come prescrive la legge, quei gesti necessari per far cessare le azioni delittuose e i loro effetti.


Trascorrono alcuni mesi. Le fasi della guerra diventano sempre più cruente. Gli attacchi ad obiettivi civili: ospedali, scuole, sedi di emittenti televisive, ponti, ferrovie, ambasciate, non sono più "effetti collaterali" dei bombardamenti, ma rientrano in un progetto di distruzione completa del paese aggredito.

Mentre tutto questo accade, il silenzio degli inquirenti è totale.

La guerra lentamente esaurisce il suo corso. I contendenti sono esausti per opposte ragioni. I paesi della NATO non trovano una soluzione sul piano militare e sono incalzati da voci di dissenso sempre più pressanti. La Federazione Jugoslava conserva intatte le sue strutture militari e politiche (queste ultime rafforzate dall'orgoglio di una resistenza popolare), ma ha subito la completa distruzione del suo sistema produttivo.

Si arriva a una pace che lascia aperte tutte le conflittualità etniche, acuite da odio e rancori nuovi.

A guerra conclusa, arriva il primo responso dell'autorità inquirente. Dubbi, problemi giuridici, sono risolti in poche righe:

"I fatti non possono essere ricondotti alla giurisdizione della magistratura ordinaria. Essi infatti sono riferibili a interessi politici essenziali dello stato e a scelte di valenza squisitamente costituzionali eseguite per effetto di impegni assunti nell'ambito di organismo internazionali".

Il principio che un accordo internazionale impedisca ai giudici di valutare eventuali violazioni di norme costituzionali e penali è del tutto inedito. Ma vi è di più. L'impegno assunto nell'ambito della NATO limita la possibilità di intentare una guerra al solo caso di aggressione di un paese terzo contro uno stato aderente al trattato. La deliberazione della guerra deve essere espressa dall'unanimità dei paesi membri. Nessuna di queste condizioni si è verificata. Mettere in atto una guerra ha comportato quindi la violazione del trattato istitutivo della NATO. Di conseguenza, anche "per effetto di impegni assunti nell'ambito di organismo internazionali", la guerra non era legittima. Perchè poi una guerra offensiva sia una "scelta di valenza squisitamente costituzionale" è un'affermazione che può essere fatta solo non tenendo conto della portata storica e della chiara lettera dell'art. 11 della Costituzione.

I giudici del "Collegio per i reati ministeriali" non paiono aver dato alcun peso all'obiezione del Procuratore della Repubblica di Roma, tanto che (cosa del tutto inusuale) non spendono una parola per respingere l'eccezione di difetto di giurisdizione e scendono nel merito delle questioni.

Le prime osservazioni del Tribunale tolgono subito di mezzo ogni equivoco sulla natura del conflitto. Scrivono i giudici:

"L'intervento - sia pure ideato e qualificato, alla stregua della esposizione svolta dal Presidente del Consiglio dinnanzi alle assemblee, come volto alla realizzazione dello scopo umanitario della preservazione dell'incolumità e delle fondamentali libertà civili e politiche della popolazione di etnia albanese del Kosovo, non poteva non comportare l'ingresso di forze militari alleate (nell'ambito dell'organizzazione NATO) nel territorio della predetta regione e cioè nello spazio di sovranità della Repubblica Federale Jugoslava e altresì l'impegno delle Forze Armate della Repubblica (anche eventualmente delle sole strutture logistiche) in una prospettiva di guerra offensiva".

Chiarito quindi che si è trattato di una guerra offensiva, restano insoluti i problemi della conciliabilità della "guerra offensiva" con gli accordi internazionali e con la precisa formulazione della norma costituzionale e della legittimità di una guerra condotta senza la decisione del Parlamento e la dichiarazione del Capo dello Stato.

Il Tribunale assicura che nessuna violazione delle regole per arrivare a una dichiarazione di guerra è stata mai commessa. A sostegno di questa convinzione i giudici osservano:

Nonostante l'autorevolezza della fonte, è difficile concordare con le argomentazioni del Tribunale.

Il Presidente del Consiglio non ha mai impegnato il Parlamento in un dibattito che comportasse la deliberazione di uno stato di guerra. Viceversa, come si legge negli Atti parlamentari, il Presidente del Consiglio ha tenuto ad assicurare l'assemblea dei limiti posti all'operatività delle Forze Armate con la testuale dichiarazione:

"Il contributo specifico delle Forze Armate italiane ... è limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale, come peraltro previsto dalla deliberazione assunta dal Governo italiano a fine settembre dell'anno scorso". In questa deliberazione si specificava: "Nell'attuale situazione costituzionale il contributo delle Forze Armate italiane sarà limitato all'attività di difesa integrata del territorio nazionale. Ogni eventuale ulteriore impiego delle Forze Armate dovrà essere autorizzato dal Parlamento".

Gli stessi contenuti hanno i numerosi comunicati della Presidenza del Consiglio, nonchè le mozioni e le risoluzioni approvate in Senato e nella Camera dei deputati. In questi documenti vengono predisposte le misure relative all'esodo coatto dei profughi dal Kosovo e si precisa che l'uso delle Forze Armate sarà destinato, oltre che per la difesa del suolo nazionale, esclusivamente per funzioni di supporto logistico, soccorso umanitario e protezione della missione umanitaria.

Non vi è dunque traccia negli Atti parlamentari di alcuna delibera che abbia programmato azioni di guerra o qualsiasi uso delle Forze Armate diverso da quelli esplicitamente approvati.

La mancata censura dell'intervento offensivo da parte del Parlamento non può in nessun caso considerarsi come una ratifica o una deliberazione di guerra. Sembra veramente molto strano ritenere che un atto così drammatico come la decisione di partecipare a un conflitto armato contro un altro paese possa essere discusso e deliberato informalmente nel corso di un dibattito che aveva un oggetto che escludeva ogni azione di guerra offensiva. Il paradosso di una guerra deliberata per segni o omissioni è ancora più eclatante per la completa assenza nella questione del Capo dello Stato. Assenza che per il Tribunale non costituisce "alcun sovvertimento o radicale deroga all'equilibrio dei poteri di governo delineati dalla Carta fondamentale ...".

C'è sa ritenere viceversa che questa omissione, in un argomento che, ripetiamo, è quanto di più drammatico possa impegnare una comunità umana, costituisca una completa estromissione del ruolo assegnato dalla Costituzione al Presidente della Repubblica.

Riteniamo che nessun parlamento possa avere avuto l'ardire di deliberare lo stato di guerra senza trasmettere tale decisione al Presidente della Repubblica. Una omissione di questa portata avrebbe privato la più alta carica dello stato (che tra l'altro ha il comando delle Forze Armate) del potere di imprimere la sua volontà dichiarando o rifiutando di dichiarare lo stato di guerra. D'altra parte un parlamento che avesse espresso la sua volontà senza alcuna forma ed evitando di percorrere il prescritto iter costituzionale avrebbe realizzato solo un atto del tutto inesistente.

Un quadro di questo genere fa sembrare, oltre che più reale, quasi rassicurante, l'ipotesi prospettata dalle denunzie, che hanno avanzato il sospetto che si siano usurpati i ruoli degli organi costituzionali, in quanto la Camera dei Deputati, il Senato, il Capo dello Stato, effettuando i controlli di costituzionalità e di coerenza con i trattati non avrebbero potuto con una dichiarazione di guerra offensiva eludere i vincoli imposti dalla Costituzione e dagli accordi internazionali.


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Ritorna alle pagine del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia sui bombardamenti della NATO:
https://www.cnj.it/24MARZO99