I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana

Recensioni e discussioni / 2011 / dalla rivista Storia e problemi contemporanei


I  partigiani jugoslavi nella resistenza italiana

di Ruggero Giacomini
dalla rivista
"Storia e problemi contemporanei"
Quadrimestrale dell'Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione delle Marche
n.57 ("Intellettuali e anticomunismo"), a.XXIV, maggio-agosto 2011, p.156. Lavis (TN): CLUEB


Redigendo alla metà degli anni Settanta la voce sugli «Jugoslavi in Italia» per l’opera monumentale in sei volumi dell’editrice La Pietra realizzata da Pietro Secchia ed Enzo Nizza, l’Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Lucifero Martini, istriano  scampato all’eccidio di Cefalonia e allora redattore capo del periodico jugoslavo «Panorama», osservava che la partecipazione jugoslava alla Resistenza italiana non era stata ancora esaminata in modo organico. (1)
Si riferiva in particolare alla realtà jugoslava, caratterizzata dall’assenza di studi specifici e da una memorialistica limitata; ma la situazione non era molto diversa sul versante italiano, dove l’opera più significativa era il testo rievocativo di un comandante partigiano di Pesaro, Giuseppe Mari, già noto come scrittore nel dopoguerra di racconti per l’infanzia ispirati alla resistenza (Padellino, Due ragazzi contro le SS). Il libro di Mari, La Resistenza in provincia di Pesaro e la partecipazione degli Jugoslavi, pubblicato a cura del Comune e dell’Amministrazione provinciale di Pesaro, era stato sollecitato dal ritorno in visita privata nell’estate 1962 di un gruppo di partigiani jugoslavi (Vinko Kozuk, Polde Ogrin, Matja Cujovic e Poldo Verbovsek) che avevano combattuto nella zona di Cagli-Serra-Cantiano, e dall’accoglienza spontanea straordinaria che essi avevano avuto dalle popolazioni, tanto che l’anno successivo c’era stato un invito ufficiale delle autorità con il coinvolgimento della Lega dei combattenti di Lubiana e si erano svolti incontri in forma solenne nei municipi a rievocare e rinsaldare l’antico spirito di fraternità solidale.  Il fatto voleva sancire anche la chiusura definitiva di una fase di polemiche e lacerazioni che avevano avvelenato i rapporti nel dopoguerra, per la questione dei confini e dei profughi, e relativamente al Pci per la rottura tra Stalin e Tito. Quel libro pionieristico di Mari sugli jugoslavi, che non si limitava in realtà alla provincia di Pesaro ma allargava lo sguardo a tutta la regione, fu propedeutico alla sua opera storica più ampia e matura, Guerriglia sull’Appennino, edito da Argalìa di Urbino nel 1965.
Nel 1972 anche la Regione Umbria da poco istituita avvertì l’esigenza, contemporaneamente all’aprirsi di una stagione di studi sulla Resistenza nella regione di cui è documento l’opera in due volumi dello stesso anno curata da Sergio Bovini per gli Editori riuniti, L’Umbria nella Resistenza, di pubblicare un opuscolo rievocativo dedicato agli Jugoslavi in Umbria. Settembre 1943 - giugno 1944: un testo essenziale, non firmato, a voler sottolineare l’ufficialità del riconoscimento e come stimolo a ulteriori specifici approfondimenti.
Nei decenni seguenti la letteratura locale e nazionale sulla Resistenza si è arricchita di studi, saggi, atti di convegni, e, soprattutto, di una nutrita memorialistica, contenente spesso riferimenti all’internamento e reclusione in Italia e alla partecipazione alla lotta partigiana degli jugoslavi. È continuato a mancare tuttavia quel lavoro d’insieme che invocava Martini, con la conseguenza che un aspetto rilevante della vicenda della seconda guerra mondiale è rimasto in ombra e sostanzialmente ignoto al grande pubblico.
Va dato merito perciò ad Andrea Martocchia, che con Susanna Angeleri, Gaetano Colantuono e Ivan Pavicevac ha sistematizzato ed approfondito la materia nel volume appena edito da Odradek di Roma, I partigiani jugoslavi nella resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata, con prefazione di Davide Conti e introduzione di Giacomo Scotti. Si tratta del risultato di un lavoro collettivo condotto e coordinato con grande impegno e passione. Gli autori, seguendo le tracce degli jugoslavi scappati dopo l’8 settembre del 1943 da vari luoghi di internamento e detenzione, come i campi di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo e di Colfiorito in provincia di Perugia o le carceri di Spoleto,  hanno percorso l’Italia, contattando sedi dell'Anpi e Istituti storici, parlando con studiosi locali e superstiti, visitando luoghi della memoria, raccogliendo documenti e testimonianze e andando anche ad intervistare a Lubiana Dragutin Drago Ivanovic, uno dei protagonisti di quell’odissea divenuto in anni recenti memorialista prolifico, autore di vari libri in serbo-croato, di cui solo alcune pagine sono state tradotte in Italia dall’Istituto umbro della Resistenza. 
Il libro che ne è scaturito raccoglie e riordina criticamente le informazioni disperse in varie fonti documentarie e pubblicazioni testimoniali, fornisce un utile e pratico strumento di conoscenza e solleva anche problemi interpretativi, mettendo in discussione alcuni stereotipi come lo spirito nazionalistico slavo o la particolare propensione alla violenza, e aprendo anche a una migliore comprensione degli avvenimenti di fine secolo che hanno portato alla dissoluzione della Federazione jugoslava.
Il progetto da cui è derivato tutto il lavoro, intitolato “Partigiani jugoslavi in Appennino”,  era nato come prosecuzione dell’attività del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, un’associazione Onlus di solidarietà italo-jugoslava attiva contro la guerra della Nato e gli scontri dissolutivi dei piccoli e feroci nazionalismi dei Balcani.
Il percorso a ritroso nel passato ha ricondotto alle contrapposizioni nazionalistiche coltivate e sostenute da Germania e Italia per consolidare la loro occupazione e il loro dominio sulla regione. Divisioni feroci che furono riassorbite poi e superate nel progetto di una Federazione degli slavi del sud, proposto dal partito comunista guidato da Tito e concretizzatosi coi successi dell’armata popolare, dando vita a un’esperienza di convivenza pacifica e solidale durata quasi mezzo secolo. Il libro accenna anche alla partecipazione alla lotta di liberazione in Jugoslavia di molte migliaia di soldati italiani sorpresi l’8 settembre nei Balcani e scampati alla cattura da parte dei tedeschi, una partecipazione anch’essa non molto nota, della cui entità parlano i ventimila caduti e dispersi italiani della guerra antinazista in Jugoslavia.
Tra i molteplici aspetti che ebbe la Resistenza e di cui si è ampiamente discusso in relazione al saggio sulla guerra civile e la moralità della Resistenza di Claudio Pavone, questo lavoro ne considera un altro sottaciuto e non meno rilevante e cioè l’aspetto internazionalista. La Resistenza fu lotta comune di popoli che attraversò, coinvolse e unì, ponendoli fianco a fianco, uomini e donne di tutte le nazionalità ovunque si trovassero o li avesse portati la guerra.
Se si va a scorrere in effetti gli elenchi dei combattenti delle varie formazioni partigiane ed anche da quanto emerge in cenni e riferimenti di molta memorialistica, si può vedere la ricca presenza di stranieri nella Resistenza italiana, non solo jugoslavi - certamente i più numerosi e con importanti ruoli dirigenti - ma anche provenienti da numerosi altri paesi, arrivati in Italia come prigionieri politici o di guerra o come ausiliari subalterni dell’esercito tedesco che abbandonavano, presentandosi l’occasione. Ci furono così combattenti russi, albanesi, inglesi, ungheresi, polacchi, cecoslovacchi, neozelandesi, sudafricani, somali e anche tedeschi. Partigiani che non si sentivano stranieri e non erano trattati da stranieri, i quali – analogamente a quanto avveniva  per gli italiani in Jugoslavia e in altri paesi - non ebbero semplicemente ruoli di fiancheggiamento, ma furono parte integrante della lotta comune, con funzioni di responsabilità e talvolta anche di alto comando.
Il libro ricorda i comandanti e commissari politici di
famosi battaglioni delle brigate Garibaldi nell’Italia centrale, come quelli intitolati al “maresciallo Tito” della brigata “Spartaco” e a “Stalingrado” della Garibaldi-Pesaro; ma anche che a capo delle formazioni partigiane della Liguria che inflissero la più dura sconfitta alle superbe divisioni tedesche c’era lo slavo Anton Ukmar, operaio figlio di contadini originario di Capodistria (Koper), formatosi alla scuola dell’Internazionale comunista. E si potrebbe aggiungere – cosa poco nota - che il famoso partigiano Urbano Lazzaro, alias Bill, a cui si deve l’arresto di Mussolini e dei gerarchi in fuga dall’Italia, era in realtà polacco: si chiamava Karol Urbaniec e dopo la liberazione tornò a Varsavia dove sarebbe morto nel 1963.
Sull'Appennino umbro-marchigiano ci fu, dopo l'8 settembre e fino ai grandi rastrellamenti nazifascisti di marzo-aprile 1944, un'ampia "zona libera" in cui l'unica autorità presente era quella partigiana. Una realtà complessa di bande, da quella sostanzialmente autonoma del capitano Melis, di cui fu esponente politico il socialista vissano Pietro Capuzi medaglia d'oro della Resistenza, a quelle promosse dal Partito comunista umbro con Alfredo Filipponi "Pasquale" e che costituirono il nucleo originario della brigata "Gramsci". In questa zona, che ebbe per epicentri Cascia in Umbria e Visso nelle Marche e a cui il CLN centrale di Roma e il generale Mèlia, plenipotenziario del governo del Sud, tentarono vanamente con interventi concorrenti di dare un comando unico interregionale, si inserirono subito agevolmente anche i detenuti politici slavi evasi ai primi di novembre 1943 dalla prigione della Rocca di Spoleto, uomini con una coscienza politica e un'esperienza di lotta, che recarono un contributo prezioso alla guerriglia umbro-marchigiana. Al primo incontro i fuggiaschi di Spoleto furono ricevuti con una certa solennità. Il comunista "Pasquale" tenne un discorso di benvenuto di fronte al capitano Melis, esponendo gli obiettivi della Resistenza italiana, che avevano al primo posto quello di «accelerare la fine della guerra fascista»; e Ivan, studente di Sebenico, rispose a nome degli jugoslavi presenti - come viene ricordato in questo libro -: «noi combatteremo al fianco vostro, come i giovani italiani combattono in territorio jugoslavo, a fianco dei nostri partigiani», con gli stessi mezzi e per lo stesso scopo, «liberare i popoli dalla schiavitù nazifascista». 
Il libro Partigiani jugoslavi nella resistenza italiana parte da una domanda: «che cosa ci facevano in Italia questi jugoslavi?». Ciò evoca fatti della seconda guerra mondiale (l’occupazione militare nazifascista della Jugoslavia e la nascita e repressione della resistenza agli occupanti), ma conduce anche direttamente nel vivo del sistema concentrazionario dell’Italia fascista, oggetto ultimamente di molti studi, ma a lungo rimosso e perfino apertamente negato, come nel caso del presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel corso di una sua visita in Germania nel 1990. Su quanti fossero gli internati nei campi fascisti in Italia alla data dell’8 settembre non si hanno cifre precise. Gli autori stimano che fossero complessivamente in tutta Italia centomila, di cui un quarto della provincia di Lubiana, annessa al regno d’Italia e sottoposta a violente misure di assimilazione. Difficile anche il calcolo di quanti dopo l’8 settembre siano riusciti a ritornare in patria o siano stati presi dai tedeschi e portati in Germania, certo è che parecchie migliaia trovarono riparo e ospitalità presso le famiglie contadine dell’Appennino, e di essi la gran parte si impegnò nella lotta partigiana.
Il volume si sofferma maggiormente sull’Italia centrale, dall’Abruzzo settentrionale, teatro della battaglia di Bosco Martese, all’Umbria e alle Marche, dove l’apporto fu quantitativamente e qualitativamente più esteso e rilevante. Ma si sofferma anche sulle altre regioni appenniniche centro-settentrionali, lasciando fuori la problematica del confine orientale, già oggetto di ampia letteratura. Un capitolo molto interessante è dedicato alle Puglie, che fecero da retrovia per la Resistenza jugoslava, luogo di reclutamento e formazione delle “brigate d’oltremare” e ricovero e cura dei più gravi feriti partigiani. Il testo contiene quindi una rassegna delle fonti, delle referenze bibliografiche e dei siti dove si possono reperire approfondimenti e nuove acquisizioni in tempo reale, un elenco dettagliato dei moltissimi luoghi di detenzione e di confino nell’Italia fascista (ne sono elencati 142), una rassegna e sommaria descrizione dei luoghi di sepoltura, monumenti e sacrari e un elenco parziale dei caduti, molti tuttora non identificati. Tra l’altro si è dovuto affrontare anche il problema della grafia dei nomi, che le fonti spesso citano in forma italianizzata e secondo il ricordo della pronuncia.
In conclusione si tratta di una prima preziosa sistematizzazione, un cantiere aperto e da sviluppare. Certamente la pubblicazione e lettura di questo libro stimolerà nuove segnalazioni e piste di ricerca, per una,
fin d’ora auspicabile, futura e più completa edizione.


NOTE

1) Si veda
Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol.III, La Pietra, Milano 1976, pp.185-191.


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 14 settembre 2011
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