Ottobre 1944: i
        giovanissimi combattenti che, nelle file della Seconda Brigata
        Proletaria, hanno preso parte ai combattimenti per la
        liberazione di Belgrado, posano soddisfatti per la foto-ricordo
        (dal libro: Pokret!, di A. Clementi, ed. ANPI Roma, 1989)

P A R T I G I A N I !

Roma, 7-8 maggio 2005


Giovanni Pesce
        "Visone"   IL PARTIGIANO VISONE CI HA LASCIATI



E' morto un partigiano, che ne nascano altri cento!
 
I compagni della Rete dei Comunisti segnalano il vuoto lasciato dalla scomparsa del compagno Giovanni Pesce ("Visone"), comandante dei GAP a Torino e Milano, comunista coerente e antifascista militante in tutta la sua vita.
Le memorabili pagine del suo libro "Senza tregua" hanno contribuito alla formazione politica e culturale di almeno due generazioni politiche.
In una fase in cui l'aggressività squadristica dei fascisti è in preoccupante ripresa in tutto il paese - potendo contare ancora una volta su coperture e complicità negli apparati dello Stato - la scomparsa di Resistenti come Giovanni Pesce, priva il movimento di classe di protagonisti e di testimoni di una memoria storica decisiva per la formazione di nuove generazioni politiche adeguate allo scontro in atto.
 
Salutiamo il compagno Giovanni Pesce ed inviamo un abbraccio alla sua compagna di sempre "Norina" Brambilla.
 
Ciao "Visone" che la terra ti sia lieve
 
La Rete dei Comunisti


IL NOSTRO COMANDANTE CI HA LASCIATO

Di fronte ad un uomo del suo spessore morale e politico, di fronte ad un così grande rivoluzionario, partigiano e antifascista, non abbiamo paura del rischio della retorica.

Perche’ retorici non siamo: La scomparsa di Giovannei Pesce apre nei nostri cuori un dolore immenso, un vuoto enorme, perché con Pesce c’è il rischio che si spenga una speranza enorme, quella che la resistenza
aveva acceso: La speranza del cambiamento.
Contro questo rischio ciò che dobbiamo fare e vogliamo fare è impegnarsi e lottare perché il messaggio della libertà, della pace, del socialismo torni a segnare di sé le coscienze dei giovani, delle donne, dei lavoratori.

Giovanni: Sarai per sempre con noi
E un abbraccio grande, solidale, alla tua e alla nostra compagna: la partigiana Nori.

Le compagne e i compagni de l’ernesto


Le sezioni ANPI zona 6. Milano.
Ricordano con grande affetto ed immensa riconoscenza il caro Giovanni.

Visone è stato per noi, da sempre esempio di onestà, sacrificio, coerenza, e il suo spirito antifascista, i suoi alti ideali ci accompagneranno in questa Italia, che sta dimenticando la sua storia e la storia di uomini che come Giovanni hanno aiutato a costruirla, la sua vita esempio di dedizione alla democrazia, alla pace ed alla giustizia, continuerà a rimanere come esempio per noi tutti, antifascisti e partigiani.
Non dimenticheremo il tuo sorriso, addio Visone, addio compagno Pesce.
sezioni ANPI Barona, Lorenteggio, Giambellino, Porta Genova.
 
Era consuetudine da qualche anno a questa parte, aspettare te e Nori dopo i discorsi dal palco del 25 aprile in Piazza Duomo, per poi... sottobraccio fare la galleria Vittorio Emanuele e recarci piano piano, chiacchierando su tutti i tuoi passati 25 aprile per arrivare nelle sale del Municipio in piazza della Scala. Era per me un onore e li in quei brevi attimi capivo la tua grande storia, bevevo assetato dalle tue labbra i mille racconti di una vita, e sempre piu comprendevo che l’antifascismo non morirà mai, proprio perché uomini come te l’hanno costruito e difeso in tutti questi travagliati anni...  grazie Giovanni.
Un forte abbraccio a Nori.        Ivano Tajetti.
 
Fonte: http://anpibarona.blogspot.com
 

LINK

### Scheda di Giovanni Pesce su Wikipedia

### Il sito per Giovanni Pesce senatore a vita

### Scheda di Giovanni Pesce sul sito dell'Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d'Italia

### Addio a Giovanni Pesce (Claudio Grassi e i compagni e le compagne di essere comunisti)

### "Giovanni Pesce, un Padre della Repubblica il cui insegnamento non andrà disperso"
Claudio Grassi in Archivio Senato della Repubblica del 2 agosto 2007

###COMANDANTE GIOVANNI PESCE
Pagina dedicata, dal sito de L'Ernesto

### Intervista a Nori e Giovanni Pesce
Roberta Ronconi su Liberazione del 24 aprile 2005

### La medaglia d'oro a Giovanni Pesce ‘ardito e instancabile partigiano’
discorso pronunciato da Alciade De Gasperi il 23 aprile del 1947

### Giovanni Pesce, la sua vita per la libertà, per il comunismo
su esserecomunisti.it del 27 luglio 2007

### Giovanni Pesce si racconta
Giancarlo Bocchi su Il Manifesto del 10 agosto 2007

### "Quando conobbi Eugenio Curiel"
di Giovanni Pesce



I LIBRI DI E SU GIOVANNI PESCE "VISONE":

Giovanni Pesce "Visone", un comunista che ha fatto l'Italia
intervista a cura di Giannantoni e Paolucci (Edizioni Arterigere-EsseZeta, euro 14)
manchette
recensione a cura di C. Grassi
la scheda sul sito Resistenze

Giovanni Pesce: Un garibaldino in Spagna
Prefazione di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci
(Edizioni Arterigere - www.arterigere.it - 2006 - Pagine 192 - 12.00 Euro)
recensione dal sito Resistenze

Giovanni Pesce
SENZA TREGUA - LA GUERRA DEI GAP
(nuova edizione 2004)
INTERAMENTE SCARICABILE ALLA PAGINA:
http://www.bibliotecamarxista.org/autori/pesce%20giovanni.htm
"Senza Tregua é un insegnamento che gli uomini, i giovani che furono impegnati in drammatiche battaglie, hanno consegnato ad altri uomini, ad altri giovani, oggi impegnati nel lavoro o nello studio, perché sappiano lottare per le libere istituzioni, la giustizia, la libertà, la democrazia... tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza"
Giovanni Pesce, dall'introduzione di
"Senza tregua. La guerra dei Gap", Feltrinelli, 1967

G.Pesce - F. Minazzi
Attualità dell'antifascismo
(La Città del Sole, Napoli 2004, 10 euro)
prefazione di Tiziano Tussi e scheda sul sito Resistenze

Giovanni Pesce
Soldati senza uniforme
(1950)

...




www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - antifascismo - 28-08-07

Giovanni Pesce, un comunista da non dimenticare
 
di Sergio Ricaldone
 
Gli abbiamo reso l’estremo saluto in quel caldo pomeriggio di fine luglio nella grande aula di Palazzo Marino.  E’ stato un momento di grande commozione e di infinita tristezza. Ma poi i giorni passano e il dolore per il compagno perduto si stempera e arriva il momento della riflessione sul come mantenere viva e integra la sua memoria. 
 
Abbiamo marciato insieme lungo la stessa strada per molti decenni, abbiamo attraversato momenti difficili.  Ma credo che Giovanni non sia mai stato sfiorato dal dubbio di dover tagliare le sue radici politiche e ideali.  Si è battuto per la libertà e la democrazia ma anche per qualcosa di molto, molto più ambizioso: il comunismo.  Una parola che oggi è persino difficile pronunciare e rivendicare – almeno in questa parte del mondo – ma che nella sua mente si è insinuata fin dai tempi lontani della sua adolescenza, non lo ha mai abbandonato e gli ha dato la speranza e la forza di combattere in condizioni estreme.
 
Cosi si diventava comunisti negli anni ‘30.
 
Sovente, senza che neppure ce ne accorgiamo, le cose accadono da sole.  Sembrano fatalità, coincidenze, ma sono in realtà vibrazioni, impulsi, trasmessi dal mondo reale che ci circonda, che si mettono in moto e che poi si riuniscono e formano un unico, razionale pensiero che ci guida nelle grandi scelte che la vita ci impone di compiere.
 
Ci siamo spesso domandati, insieme a Giovanni Pesce e ad altri compagni e compagne che vengono da quella storia, dove e quando siano nati questi impulsi e, siccome non siamo degli idealisti hegeliani, è stato facile convenire che il lavorare in miniera o al banco di aggiustaggio di un’officina negli anni 30, a fianco di operai comunisti, sia stato il luogo “ideale” che ha fatto nascere in noi il bisogno prepotente di cambiare il mondo.  E Giovanni il mondo un po’ l’ha cambiato, perdio se l’ha cambiato!   Solo che l’ha dovuto fare con le armi in pugno ed una taglia sulla testa in un’epoca tra le più terrificanti della storia del 20° secolo, quando le classi dominanti, minacciate dal dilagare di grandi movimenti rivoluzionari, non hanno esitato a consegnare la gestione del potere politico al nazifascismo. Il che ha significato l’inizio di una lunga stagione di terrore e di violenza sfociata negli orrori della seconda guerra mondiale.   Prima è toccato alla Spagna repubblicana poi all’Europa intera.  Ed è stato lì, in quel preciso contesto storico, quando troppe cose non potevano essere risolte altrimenti che col ferro e col fuoco, che si è formato politicamente e militarmente uno dei più coraggiosi guerriglieri antifascisti dell’Europa partigiana.  E’ sicuramente una storia scomoda da raccontare oggi, considerati i tempi che corrono.  Ma è proprio in quella realtà, in mezzo a quell’orrore, e non altrove, che va ricercata l’origine delle scelte di vita e di lotta che ha voluto e saputo compiere Giovanni Pesce.  Solo così si evita di dimenticare che dietro le spinte che hanno motivato quelle scelte c’erano grandi ideali, partiti, rivoluzioni, uomini in carne ed ossa, nonché giganti politici, con un nome ed un cognome, la cui leadership ha concorso a formare un agguerrito esercito di valorosi combattenti che hanno inflitto un colpo mortale al nazifascismo e cambiata la storia del 20° secolo.
 
Cosa ha significato essere un “soldato senza uniforme”.
 
Pesce appartiene a pieno titolo a quella nutrita schiera di eroi che ha salvato l’Europa battendosi per gli stessi ideali di libertà e di progresso dei popoli aggrediti dal nazifascismo, dalle rive del Volga alla Manica, da Capo Nord al Mediterraneo.  Un grande patriota ma sopratutto un comunista internazionalista.   Un vero “soldato rosso” che, dopo aver dato il meglio di sé sui campi di battaglia della Spagna repubblicana è diventato la punta di lancia della lotta armata in Italia contro l’occupante nazista, riuscendo a colpire con audacia e “senza tregua” il nemico nei suoi centri vitali rendendo insicure anche le sue munite retrovie di Torino e Milano.
 
Dunque, non un “giustiziere solitario” di stampo anarchico-ottocentesco, ma un “soldato senza uniforme” di formazione leninista le cui azioni, per quanto rischiose e temerarie, sono sempre state elaborate e decise da un comando politico-militare alla cui testa c’erano uomini del calibro di Luigi Longo, Pietro Secchia, Arturo Colombi.
 
Nel suo libro “Senza tregua” Giovanni ha raccontato, da comunista e da “soldato senza uniforme” come deve essere una guerra partigiana condotta alle spalle di un nemico spietato e crudele, che ha occupato militarmente il tuo paese e dispone di una potenza di fuoco mille volte più potente della tua che usa senza risparmio contro i tuoi inermi compatrioti.  Nessuna tregua può essere concessa a questo feroce nemico.  Al suo terrorismo di massa devi saper dare una dura risposta, più selettiva ovviamente, ma implacabile. Nessuno dei suoi delitti deve rimanere impunito.  Lo devi colpire ovunque, “senza tregua” e con qualsiasi mezzo.  Non c’è posto in quel contesto per la “friendly persuasion”, stile Luther King. E’ lo stesso generale Clark, comandante della 5° Armata americana in Italia, che in un suo libro di memorie esprime riconoscimento e gratitudine alla Resistenza italiana.  Sa, e lo dice, che la guerra partigiana in Italia è stata l’equivalente di una intera armata alleata operante alle spalle del nemico e sa anche che l’80% di quel potenziale militare è stato espresso dai comunisti italiani.  Sarà poi Gillo Pontecorvo che 20 anni più tardi ci racconterà nel suo splendido film “La battaglia di Algeri” il valore universale e senza tempo della parola “resistenza”, e ci spiegherà, senza l’ipocrisia di tante “anime belle”, i metodi e i mezzi necessari per combatterla. 
 
Quando storia e politica vengono separate.
 
Sfortunatamente le orazioni funebri che abbiamo ascoltato, nel giorno delle sue esequie, nonché i commenti e le varie dichiarazioni del giorno dopo, sebbene ineccepibili nella forma, hanno preferito ignorare il contesto storico entro il quale “Visone” ha formato il baricentro della propria identità diventando un grande eroe popolare.  E così l’estremo saluto è stata una sorta di giubilazione, sicuramente dovuta all’eroe partigiano, ma seguendo un copione rigorosamente bipartisan, condizionato più dalla motivazione della medaglia d’oro al valor militare – non certo banale, ma strettamente connessa ad un coraggioso episodio – piuttosto che dalla sua lunga storia di militante comunista.  Si è avvertito, nei vari discorsi di coloro che lo hanno celebrato, il pesante fardello dello stress politico di una sinistra cosidetta “radicale” e “moderata” che, avendo rotto col passato comunista deve far finta che Pesce arrivi da un altro pianeta.  E così le sue imprese sono state vivisezionate e scomposte e la sua storia raccontata in modo che l’immaginario la possa percepire come un tassello compatibile con il nuovo mosaico postcomunista e postresistenziale che oggi comprende a pieno titolo, in nome della “non violenza”, oltre che i parà della Folgore celebrati in Libano come campioni della pace, anche i martiri fascisti delle foibe.  Insomma, riesce sempre più difficile capire se le imprese del nostro audace gappista siano state ispirate dalla ideologia di Gandhi o da quella di Antonio Gramsci.
 
Giovanni Pesce, in quanto medaglia d’oro al valor militare, sarà perciò deposto con tutti gli onori nel prestigioso Famedio del Cimitero Monumentale, mentre, paradossalmente, i grandi ideali che hanno alimentato le sue imprese militari sono stati rinchiusi sotto chiave nel “museo degli orrori” del comunismo novecentesco.  E ancora una volta la parola Resistenza viene spogliata del suo significato universale, ed associata al “patriottismo” e alla “libertà” di modello rigorosamente “occidentale”, ma nel contempo la si nega come sacrosanto diritto di tutti i popoli, che l’hanno praticata, e la praticano tuttora, “senza tregua”, in ogni angolo del pianeta contro gli aggressori imperialisti e gli squadroni della morte.
 
Il commosso e sincero addio popolare.
 
Sebbene mi sia costata un po’ di sofferenza, ho seguito con paziente rassegnazione le varie orazioni funebri in quel caldo giorno di luglio.  Poi, quando i discorsi sono finiti e la bara di Giovanni Pesce è stata portata verso l’uscita, mi sono fermato a riflettere un attimo nel silenzio di quella grande sala di Palazzo Marino rimasta improvvisamente vuota. E ho pensato: Giovanni se ne è andato e domani del suo massiccio corpo non resterà che un piccolo mucchietto di cenere.  Concedendogli l’onore del Famedio (più che meritato) credono di seppellirlo una volta per tutte nel silenzio eterno ma si sbagliano.  Ho sentito che là fuori, in piazza Scala, migliaia di voci stavano salutando il “comandante Visone” con intenti molto diversi da quelli del nostro eclettico “ceto politico”.  In grande maggioranza erano giovani con la memoria salda.  Hanno letto i suoi libri e si sono appassionati ai suoi racconti di gappista ascoltati nelle aule di molte scuole.    Quando esco in mezzo a loro uno di questi giovani compagni mi saluta e mi abbraccia.  La sua tesi di laurea sulla Resistenza (110 e lode) l’ha preparata con Pesce e sa quali siano le vere radici ideali che stavano dietro le pistole con le quali ha seminato il terrore nelle file del nemico.  Sarà difficile seppellirli quegli ideali. A ricordarli ci saranno sempre i nomi delle migliaia di uomini e donne torturati, massacrati o caduti in battaglia contro il nazifascismo.  Ma questo, la folla che ha accolto la bara del gappista comunista, lo ha capito, eccome se lo ha capito!  Con gli occhi lucidi e i volti tesi, è scoppiato un lungo applauso liberatorio, poi gli inni partigiani accompagnati da quella sorta di impegno morale che abbiamo udito risuonare tante volte nelle piazze d’Italia: “Ora e sempre Resistenza !”.  E infine le note dell’Internazionale, l’inno che più di ogni altro ha simboleggiato e accompagnato per tutta la vita l’impegno ideale e politico di Giovanni Pesce. Ascoltando quelle note la sua figura assume da oggi un valore e una dimensione che lo collocano tra i grandi eroi che, in ogni epoca, hanno liberato il mondo dagli oppressori rendendolo migliore. Puoi riposare in pace Giovanni, Ovunque, in giro per il mondo ci sono ancora moltissimi “soldati senza uniforme” che, incuranti, come tu lo sei stato, dell’accusa di essere dei “terroristi”, reggono con altrettanto coraggio i movimenti di liberazione e la resistenza antimperialista.


Due articoli sulla morte di "Visone"

da l'Unita', un articolo di Wladimiro Settimelli

E' MORTO GIOVANNI PESCE, IL GAPPISTA VISONE

Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il
coraggio, la determinazione, l'impugnare una pistola in
pieno giorno e andare all'attacco, richiedevano sempre
un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio,
senza paura e pronto a scattare al minimo pericolo.
Invece, Giovanni Pesce, medaglia d'oro della
Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici
che attaccavano i nazisti e i repubblichini tra la gente,
per strada, sul tram o in treno - era piccolino,
tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai piu'
del necessario e quando lo faceva erano parole senza
ostentazione, protervia o sciocche vanterie. Quando lo
aveva visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero
quasi rimasto deluso. Poi, con il trascorrere degli anni,
avevo capito e , in piu' di una occasione mi ero fermato
a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di
capirne fino in fondo la mente, il cuore, le scelte, la
paura e la tragedia: quella di dovere sparare a
qualcuno, per strada, senza battere ciglio.

L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia
<<Visone>>, e' morto a casa sua, a Milano, assistito dalla
moglie Onorina, nome di battaglia <<Sandra>>, la cara
staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare
per consegnare gli ultimi ordini del Comitato di
Liberazione nazionale e della direzione del Pci. Gia',
perche' il piu' famoso gappista d'Italia era comunista e
veniva da una famiglia antifascista abituata al lavoro e
alla sofferenza.

La biografia di Giovanni ha dell'incredibile. Quando
lui raccontava di quella sua vita complicata e diversa
dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era nato nel
1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il
padre, presto, molto presto, era stato costretto ad
andarsene da casa e ad emigrare in Francia con tutta la
famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un
paesetto con le miniere e Giovanni, nella piccola
vineria aperta dal padre, trascorreva ore e ore con
<<musi neri>>. A volte, qualcuno finiva lo stipendio
cercando di soffocare nel bere la miseria e la nostalgia.
Ecco Pesce, ascoltava sempre quei minatori e da loro
imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni,
era finito giu' nelle gallerie per quattro soldi.

Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia
ormai messa alle corde dai nazisti, lo avevano trasferito
in un campo di prigionia. Poi il rientro, da solo, a
Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi
al confino di Ventotene , dove aveva conosciuto
Pertini, Terracini e tanti, tanti altri compagni.

Nel 1943, con il crollo del fascismo, <<Visone>> era
tornato di nuovo a casa. Poi, il partito lo aveva
mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro piu'
duro e difficile lo avrebbe, piu' tardi, affrontato a
Milano. Era stato inviato in Lombardia per occuparsi
delle grandi fabbriche perche' fascisti e nazisti
terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano,
tra l'altro, trasferiti nei campi di sterminio. E guai a
protestare o scioperare. C'erano, tra gli addetti alle
macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che
facevano la spia. O personaggi che, per una manciata
di soldi e qualche chilo di sale (che Italia terribile e
piena di odio e di terrore in quel '43, '44 e '45) erano
disposti a vendere chiunque. C'era bisogna, dunque, di
una azione forte che facesse sentire agli operai che la
Resistenza pensava a loro e alla loro protezione.
Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare,
Non solo: portava sempre addosso due pistole, non una
sola. Ed era diventato uno che non sbagliava mai un
colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento
e usciva soltanto per l'attacco improvviso e per
incontrare altri due o tre compagni dei Gap. Ma quando
entrava in azione era sempre solo: non si fidava di
nessuno.

In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: <<Ma non
avevi paura?>>, e lui: <<Eccome>>. Poi aveva ancora
spiegato: <<Una volta ho detto ai compagni che quel
comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle
fabbriche, non era arrivato in ufficio. Invece c'era. Ma
io ero stato colto dal tremito e dal panico e non avevo
fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni,
era partito deciso ad assolvere all'incarico. Ero entrato
nel bar dove il comandante stava facendo colazione.
Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un
attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che
non finiva piu'. Avevo letto in quello sguardo la sua
paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava
mettendo la mano alla pistola. Allora avevo fatto fuoco
tre o quattro volte. Subito dopo ero uscito e saltato
sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel
comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti
innocenti, torturati, impiccati, fucilati>>.

Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E
lui aveva risposto: <<Molte, molte volte. Non le ho mai
contate>>. Poi ancora aveva aggiunto: <<Sai che nel
dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli
occhi con la moglie e figli di un famoso spione che
avevo liquidato. Ci siamo sfioranti e ognuno e andato
per conto proprio. Credimi e' stata dura. Ammazzare,
anche se in guerra e nella battaglia piu' grande per la
liberta', non e' facile. Ogni volta mi si stringeva il
cuore>>.

Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che
<<Visone>> era stato, insieme a un compagno dei Gap
gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui aveva
preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un
pazzo, si era dileguato. Pochi giorni dopo, con altri,
aveva assalto <<Radio Torino>> ed era riuscito a
distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza
di una decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini.
Imprese incredibili e straordinarie.

Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era
stato affrontato da un gruppo di ragazzini con il
fazzoletto rosso al collo che avevano gridato:
<<Comodo aspettare che i partigiani ti liberino.
Comunque, puoi uscire dalla cantina dove ti eri
rintanato come un topo>>. Lui non aveva risposto, ma
aveva sorriso appena, appena per poi girare oltre
l'angolo.

Caro <<Visone>>, la tua parte per tutti e per la nostra
Italia, l'hai fatta. Un abbraccio.
da Liberazione, un articolo di Maria R. Calderoni

Il lavoro in miniera, le ferite franchiste, il confino, i
Gap, la Liberazione e quell'orgoglio mai domo d'essere
un comunista

GIOVANNI PESCE, IL COMPAGNO ANTIFASCISTA
CHE NON HA MAI CHIESTO NULLA PER SE'

A 13 anni e' solo un "muso nero", un piccolo minatore
italiano che scende 150 metri sotto terra per portare a
casa miseri 100 franchi al mese, il sudato, prezioso
denaro indispensabile ai suoi genitori per sopravvivere.
La sua e' infatti una famiglia di poveri emigrati: il padre
Riccardo, scalpellino, di idee socialiste, "pizzicato" piu'
volte dalla polizia fascista, nel '24 aveva deciso di
lasciare il paese natio, Visone, 2mila anime in
provincia di Acqui, per cercare lavoro in Francia, alla
Grand' Combe, la zona delle miniere di carbone nelle
Cevennes.
Arrivato in terra francese piccolissimo, lui parla solo
quella lingua, lo chiamano Jeanu; e da "muso nero"
lavora per quasi cinque anni, ragazzo con la lanterna da
minatore e la tessera della " Jeunesse comuniste " in
tasca. A 18 e' gia' a combattere in Spagna nelle Brigate
Internazionali. E da li' comincia la sua leggenda. La
leggenda di Giovanni Pesce, classe 1918, garibaldino
di Spagna, alla testa dei Gap in Italia, medaglia d'oro al
valor militare nella lotta di Resistenza, eroe nazionale.
Un comunista che ha fatto l'Italia, che e' anche il titolo
dell'ultimo libro-intervista uscito nel gennaio 2005
(Franco Giannantoni-Ibio Paolucci, "Giovanni Pesce,
"Visone". Un comunista che ha fatto l'Italia", edizioni
Arterigere di Varese).
In Spagna il ragazzino diventa soldato; dall'Ufficio
Ricezione Volontari, dove gia' sono al loro posto
Longo, Di Vittorio, Leo Valiani, Andre' Marty, passa
direttamente al centro di addestramento militare di
Albacete, Catalogna rossa, la citta' dove, il 3 novembre
di quell'anno, ricordava sempre lui, <<sorse il
battaglione "Garibaldi">>. Il suo incontro con la Spagna
e' una passione che durera' tutta la vita. Sara' per lui una
grande lezione di coraggio, dedizione, umilta'. Imparo' a
combattere e a riflettere, ad essere audace ma anche
prudente, duro e pietoso. Di tutto questo doveva far
tesoro qualche anno dopo, durante la guerra di
liberazione in Italia.
A Boadilla del Monte, una cittadina nei pressi di
Madrid, ha il suo battesimo del fuoco, <<con il fucile
seguii i compagni in avanti, mentre i fascisti erano
fuggiti. La battaglia si concluse con sette-otto caduti
dalla nostra parte. Erano i primi morti che vedevo.
Quello spettacolo mi fece un'impressione tremenda>>.
La guerra non e' bella, nemmeno se la fai dietro le
bandiere delle Brigate internazionali. Il combattente-
ragazzino si trova nel ferro e nel fuoco della battaglia
di Guadalajara, marzo 1937, dieci giorni e dieci notti di
sanguinosi attacchi, <<nell'acqua e nel freddo, il terreno
era ridotto a un pantano>>; i fascisti sono battuti.
Giovanni ha i piedi congelati, deve essere ricoverato in
ospedale. Ma e' ancora nei ranghi subito dopo, in luglio,
a Brunete, e poi in agosto a Saragozza, dove viene
ferito gravemente; e poi sull'Ebro, quel terribile
combattimento durato un mese, che doveva concludersi
con la sconfitta dei repubblicani. In Spagna ha vinto
Franco, le Brigate internazionali devono andarsene,
<<lungo la "Diagonal" di Barcellona l'ultima sfilata
prima della partenza>>.
E' ferito anche questa volta, ma cio' che piu' fa male e'
quella sconfitta, addio Madrid, il ragazzino torna a
casa; ma lascia subito anche la Grand'Combe, rientra in
Italia, presso parenti che l'aiutano a trovare lavoro. Qui
pero' quasi subito la polizia lo trova: ex combattente in
Spagna, lo processano e lo spediscono in carcere ad
Alessandria e poi a Ventotene. Cinque anni di confino.
Una popolazione confinaria di settecento persone, <<la
meta' era comunista - racconta - Per un gruppo di loro
era stato previsto un pedinamento continuo. Erano
giudicati i piu' pericolosi e, quando camminavano,
erano seguiti come un'ombra dalla milizia. Si trattava
dei comunisti Umberto Terracini, Pietro Secchia,
Mauro Scoccimarro; dei "giellisti" Ernesto Rossi,
Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Vincenzo Calace,
Nello Traquandi, Dino Roberto>>.
Il racconto del suo soggiorno al confino - la sua
"universita'" - e' fitto di aneddoti e popolato di umili
sconosciuti compagni e anche di figure primo piano, li'
Jeanu conosce anche Camilla Ravera, Arturo Colombi,
Di Vittorio, Alberganti, Pertini, <<e c'era persino una
piccola orchestrina comunista, formata da tre
mandolini e due chitarre, accompagnati dal violino di
un eccellente Umberto Terracini>>.
Uscira' libero con il 25 luglio 1943, il regime e' caduto,
il re firma il tragico armistizio. Per il ragazzo della
Spagna inizia un altro cammino.
<<Con le cinquanta lire che ebbi dal partito, una volta
giunto a Gaeta, feci il biglietto per Torino>>. Li', preso
in consegna dal compagno "Giuseppe" <<che teneva i
collegamenti con Pietro Secchia>>, Giovanni Pesce ha il
rischioso incarico di organizzare i Gap (Gruppi di
azione patriottica), nel capoluogo piemontese. Pietro
Secchia lo nomina comandante. <<Ci vollero le stragi, le
torture di via Asti, di Villa Triste ed i partigiani
impiccati al gancio da macellaio, perche' anche noi
imparassimo ad odiare e a non avere scrupoli nel
colpire un nemico crudele>>, scrive Arturo Colombi nel
ricordare la nascita di queste formazioni partigiane
clandestine. E del giovanissimo Pesce, appena giunto
nei ranghi invisibili, dice: <<Quando lo incontrai per la
prima volta dopo ll suo nuovo incarico, mi chiese se si
potevano avere delle mitragliette>>. Nome di battaglia
"Ivaldi". Oscuro e crudele il "lavoro" del gappista. Nel
suo libro - un libro drammatico, intenso, veloce come
un film (e infatti un film ne e' stato tratto) - Giovanni
Pesce racconta il momento terribile della prima azione,
quando l'ordine del Comando arriva. E l'ordine e':
uccidere un fascista. <<"Marco non sta bene", mi dice la
donna porgendomi un pezzo di sapone. E' la parola
d'ordine. Ora so chi e>>. Il fascista da uccidere ha un
nome e un volto. <<Devo giustiziare un maresciallo
della milizia, Aldo Mores>>, responsabile della
deportazione di oltre settanta patrioti. Il garibaldino
coraggioso vacilla. <<Questa e' un battaglia solitaria,
penso. Tu, solo con la tua coscienza e le tue pene>>. Ma
deve accettare questo compito spietato, cui non era
abituato, <<in Spagna e in montagna il nemico si
affrontava in combattimento: faccia a faccia>>.
Racconta: <<L'assassino di tanti miei compagni e' li'.
Faccio un passo, mi appoggio allo stipite della porta,
fingo di raccattare qualcosa. Non ce la faccio - penso -
non ce la faccio. E' proprio paura. Mi trovo all'aperto,
sollevato e furibondo. Adesso dovro' mentire. "Il
maresciallo non c'era", dico ad Antonio, "torneremo
domani">>. E "domani" lo uccidera', il fascista che deve
morire. <<Lo vedo. Sparo con tutte e due le pistole.
Mentre l'uomo si piega, esco rapidamente, intasco le
armi e inforco la bicicletta>>.
Saranno tante le azioni firmate dal comandante "Ivaldi"
e dai suoi gappisti, i fascisti rispondono con arresti e
fucilazioni, sulla testa di Pesce pende l'ottava taglia per
chi lo avesse "catturato vivo o morto"; e li' intorno, per
esempio a Barge, si e' scatenato l'inferno, <<truppe scelte
di Salo' e forze d'assalto tedesche avevano rastrellato
tutta la zona per fare piazza pulita dei "ribelli">>. Ilio
Barontini gli insegna come si fabbricano le bombe; e le
bombe fatte in casa dei ragazzi di Pesce lasceranno
parecchi segni nei sabotaggi, negli assalti alle caserme,
nei colpi inferti alla macchina da guerra del nemico.
Gia', <<non si puo' far saltare una stazione radio restando
seduti davanti a una finestra aperta, a fantasticare>>.
Viene il momento di cambiare aria, la polizia fascista e'
sulle tracce di "Ivaldi"; allora il Comando lo manda
d'autorita' a Milano e gli cambia nome, ora si chiamera'
"Visone", come il suo paese d'origine. Nemmeno a
Milano si puo' far saltare una stazione radio restando
seduti davanti a una finestra. Per esempio di fu la
"battaglia dei binari", in zona Greco-Pirelli, 24 giugno
1944. <<Lungo i binari che transitano da Greco, sotto il
ponte grigio del cavalcavia, sono sfilate a migliaia
lunghe colonne di carri merci, una parte notevole del
dramma dell'8 settembre e' stata recitata davanti alla
palazzina grigia della stazione di Greco. Dai vagoni
bestiame, sprangati e sigillati, si sono levate, di giorno
e di notte, invocazioni d'aiuto e sono stati lanciati
biglietti disperati>>. Sono i convogli maledetti che
portano ai campi di sterminio. "Visone" e i suoi, in una
notte senza luna, strisciando tra le sentinelle tedesche
in armi, fanno scivolare le loro bombe fatte in casa
dentro i "forni" delle locomotive, una due tre cinque
cariche. I binari saltano, i convogli nazisti si fermano,
la rabbiosa rappresaglia tedesca colpisce anche gli
innocenti; ma la 3a Gap di "Visone" non da' tregua, con
le armi in pugno fino all'ultimo, fino al 25 aprile. <<E' il
grande giorno. Confuso in questa folla amica, e' come
se uscissi da un incubo. Mi accorgo che le case sono
belle case, che le strade sono ampie e che sopra di me
c'e' il cielo>>. La guerra e' finita e lui ha 27 anni.
Verranno i suoi giorni normali, tanti giorni e tanti anni
di un impegno diverso, ma sempre generoso,
disinteressato, semplice, leale. Giovanni Pesce, eroe
nazionale, stratega della guerriglia, per tutta la vita e'
stato "uno di noi", uno che non ha mai ostentato, mai
preteso, mai chiesto nulla per se'.
Nel '45, finito tutto, tornato a casa, il comandante della
3a Gap pensa di aver esaurito il suo compito. Pensa
addirittura che forse e' giunto il momento di tornare alla
Grand' Combe, in miniera. Ma e' Nori che lo trattiene.
Nori - <<la piu' bella delle mie staffette>>, come scrive lui
- che ha appena sposato appunto nel '45. L'amore della
sua vita, Jeanu lo racconta con parole schive e tenere.
Nori la incontra appena giunto a Milano sotto il suo
nuovo nome di battaglia, "Visone", lei si chiama
Onorina Brambilla ma tra i Gap e' "Sandra"; e <<a prima
vista rimasi come folgorato>>. Pochi mesi dopo quel
primo incontro, "Sandra", vittima del delatore
"Arconati", uno che fa il doppiogioco, viene arrestata,
imprigionata presso il Comando SS di Monza, dove
sara' a lungo interrogata e anche torturata. Incontrata e
perduta, lui e gli altri compagni la cercheranno per
giorni e giorni; ma "Sandra" la rivedra', fortunatamente
sana e salva, solo dopo il 25 Aprile, ai primi di maggio.
Lei e' un'esile ragazza di 21 anni, si sposano subito, il
14 luglio 1945, <<il giorno della presa della Bastiglia,
con uno dei primi riti civili, in un edificio accanto a
Palazzo Marino che era stato devastato dai
bombardamenti. Eravamo in ginocchio, senza una lira,
senza casa>>. Ma il pranzo fu un successo, <<cucinato
dalla mamma di Sandra, alla Casa del Popolo nella
sezione Venezia del Pci>>. Un tetto pero' lo ebbero, <<in
via Macedonio Melloni, 76, la "base" delle nostre
azioni militari!>>.
Nel 1946 Pesce diventa presidente dell'Anpi di Milano;
nel 1947 - in una piazza Duomo inondata di sole e
traboccante di partigiani - riceve la medaglia d'Oro al
Valor Militare dalle mani di Umberto Terracini; nel '48
e' responsabile della Commissione Vigilanza a
Botteghe Oscure; per oltre dieci anni e' consigliere
comunale a Milano.
E venne la Bolognina, la morte del Pci. <<La mia
reazione - racconta - fu di indignazione, di
preoccupazione, di amarezza, anche se era chiaro da
tempo che si stava andando in quella direzione. Non
riuscivo a comprendere per quale ragione si dovesse
cambiare quel nome carico di storia, di battaglie, di
sacrifici. Votai contro>>. Sceglie subito di stare con noi,
"Visone", con Rifondazione. E con noi e' sempre stato,
fino all'ultimo. Indomito, sicuro, fedele agli ideali della
sua vita, semplice come la sua fede: perche' - amava
dire, citando i versi di Eluard - <<ci sono parole che
fanno vivere. Una di queste e' la parola comunista>>.




http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=9137

Nelle trincee spagnole nasceva il 25 aprile italiano

di Giovanni Pesce

su Liberazione del 23/04/2006

La guerra civile di Spagna e la vittoriosa conclusione della Resistenza italiana sono unite da un legame strettissimo, fatto di sacrifici, caduti, speranze, delusioni. Una “guerra civile europea” tra democrazia e fascismo su cui il nostro Paese così lacerato e diviso dovrebbe riflettere

Ho fra le mani con una certa emozione il mio vecchio libro “Un garibaldino in Spagna”, ristampato, esattamente dopo mezzo secolo, da Arterigere-Essezeta di Varese per il 70° anniversario della guerra di Spagna (che cade nel prossimo luglio) e, con la memoria, torno ai tanti compagni reduci di quella grande esperienza di lotta, ma anche di umana solidarietà: quei tanti compagni reduci che divennero la spina dorsale della Resistenza italiana. I comandanti e i commissari politici, il “cuore” e il “motore” della lotta contro il nazifascismo.
E’ il 25 aprile e la connessione storico-politica fra lotta di Liberazione e la guerra di Spagna è un atto dovuto. Chi combatté contro Franco e il fascismo di Mussolini e di Hitler ebbe l’opportunità di formarsi una precisa identità, per il successivo impegno nella lotta in Italia: in un continente trasformato in una immensa trincea.

«Io mi permetto di affermare - aveva scritto in modo profetico Emilio Lussu - che noi abbiamo bisogno di andare in Spagna più di quanto la Repubblica spagnola non abbia bisogno di noi». Non molto tempo dopo Carlo Rosselli, organizzatore fra gli altri della “Colonna italiana”, lanciò da radio-Barcellona la storica parola d’ordine “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Una consegna, o un auspicio, che non solo esprimevano la speranza di portare nel nostro Paese la lotto contro Mussolini, ma già prefiguravano in senso concreto, e non solo ideale, quella “guerra civile europea” tra democrazia e fascismo che sarebbe esplosa sullo scenario della Seconda guerra mondiale.

Ecco la ragione della mia riflessione alla vigilia di un nuovo 25 aprile, mentre il nostro Paese vive laceranti contraddizioni e divisioni profonde, cupi segni di un domani pieno di incertezze.

L’inizio della guerra civile di Spagna nel 1936, settant’anni fa e la vittoriosa conclusione della Resistenza italiana il 25 aprile 1945 sono uniti da un legame strettissimo, fatto di sacrifici, caduti, vittorie, sconfitte, umiliazioni, riscatti, speranze, delusioni. E il pensiero va a quegli italiani che, chiusa la parentesi spagnola, tradussero in pratica la consegna di Rosselli, trasformando le loro esistenze in baluardi dell’antifascismo sulle montagne e nelle città d’Italia. Troppi sono i nomi e molto alto è il rischio di dimenticarne qualcuno (il che suonerebbe come un torto insopportabile). I comandanti no, questi li ricordo tutti, come ricordo chi in Spagna mi è stato vicino in formazione o in battaglia; quelli sono nomi scolpiti nel mio cuore, tanto alti furono i loro profili, insieme militari e politici. Da Luigi Longo, ispettore generale delle Brigate internazionali e poi vice comandante del Corpo volontari della Libertà; a Ilio Barontini, commissario politico del “Battaglione Garibaldi” e comandante partigiano nella Resistenza, mio mentore nelle prime azioni gappiste di Torino, a Leo Valiani garibaldino e membro del Comitato internazionale di Milano; ad Antonio Roasio, commissario politico del Battaglione Garibaldi e membro; a Francesco Scotti, commissario politico in Spagna e dirigente della Resistenza piemontese; ad Anello Poma nella Brigata Garibaldi e commissario politico nel Biellese. E Alessandro Vaia, comandante della Brigata Garibaldi e poi in Italia, nel Triumvirato delle Marche e della Lombardia; e Domenico Tomai, “eroe” della difesa di Madrid sull’Jarama e poi nella guerriglia in Valtellina; e Riccardo Mordini, che dal fronte spagnolo trasse forza per guidare i giovani garibaldini dell’Oltre Po nella pagina estrema del fascismo repubblicano a Dongo; e Vittorio Bardini nella batteria “Gramsci”, poi nel Gap di Milano e infine deportato a Mauthausen. E ancora: Mario Ricci, garibaldino sui fronti di Huesca, Brunete, Ebro, poi medaglia d’oro della Repubblica partigiana di Montefiorino; Francesco Leone commissario politico della Centuria “Sozzi” poi nel Triumvirato toscano; Aldo Lampredi, commissario delle Brigate Internazionali e membro della “missione” che giustiziò Mussolini; Teresa Noce, Giuseppe Alberganti, Antonio Cetin, Egisto Rubini (fondatore del 3° Gap di Milano suicida in carcere per non parlare); Angelo Spada (massimo esperto in campo di esplosivi); Antonio Ukmar. E tutti gli altri.

Francesco Fausto Nitti nel suo libro autobiografico scriveva: «La guerra di Spagna è una battaglia. Altre battaglie si annunciano in questa Europa senza pace». «Cambiavamo il fronte», aggiunse Luigi Longo che vedeva molto lontano. Ed era vero. Non fummo in Spagna dei vinti, ma giovani e anziani che marciavano come dei combattenti anche nella dolorosa ritirata. Avevamo il rimpianto nel cuore; lasciavamo il popolo spagnolo, ma ci attendevano altre dure prove da combattere con gli stessi sentimenti e gli stessi ardori. Questa volta vittoriose, sino al “radioso 25 aprile”.



I TESTI CHE SEGUONO SONO STATI INSERITI PRIMA DELLA MORTE DEL COMPAGNO VISONE


Giovanni Pesce
Per Giovanni Pesce senatore a vita



INIZIATIVA POPOLARE DI RACCOLTA FIRME
PER LA CANDIDATURA DI GIOVANNI PESCE A SENATORE A VITA DELLA REPUBBLICA

Cari compagni, chi vi scrive è il Comitato Politico Direttivo del Circolo di Milano Zona 4, tra Corvetto e Rogoredo, circolo che ha l'onore di avere tra i suoi iscritti Giovanni Pesce, Medaglia d'Oro ed Eroe Nazionale della Resistenza.

In seguito all'articolo e alle molte lettere pubblicate su Liberazione, ci è sembrato doveroso promuovere tale iniziativa attraverso la creazione del sito: www.visonesenatore.net.

L'obiettivo è la raccolta di migliaia di fime da inviare al Presidente della Repubblica per testimoniare la nostra riconoscenza a Giovanni Pesce - e a chi come lui - ha combattuto e speso tutta la vita per dare giustizia e libertà all'Italia e all'Europa.

Contro ogni revisionismo e contro gli attacchi alla Costituzione, la nomina di Giovanni Pesce a Senatore a Vita è il modo migliore per celebrare il 60° Anniversario della Liberazione.

Su sito internet ufficiale www.visonesenatore.net i compagni possono cominciare a inserire la propria adesione.

ORA E SEMPRE RESISTENZA!

Saluti comunisti,
il Direttivo Circolo Prc "Geymonat", Milano Zona 4



Fonte: http://www.lernesto.it/




Facciamo Giovanni Pesce "Visone" senatore a vita

di Claudio Grassi
su Liberazione  del 25/08/2005


E' un libro di storia questa biografia del comandante partigiano Giovanni Pesce. A lui la Repubblica italiana deve qualcosa di più prezioso della medaglia d'oro al valor militare

Bisogna leggerlo questo libro: "Giovanni Pesce "Visone", un comunista che ha fatto l'Italia", intervistato da Giannantoni e Paolucci (Edizioni Arterigere-EsseZeta, euro 14). La biografia di Pesce è un libro di storia: Pesce non può raccontare sé stesso se non come elemento di una vicenda collettiva, di speranza, di delusione, di partecipazione alla trasformazione dell'Italia.

Nella prima parte del libro, la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, hanno un peso rilevante. Non sono d'altra parte, eventi decisivi nella formazione del protagonista?

Protagonista suo malgrado, perché anche queste pagine sono piene di uomini: combattenti antifascisti, aguzzini, delatori, staffette partigiane, leader dai nomi che si ritrovano nei manuali di storia e tanti, tanti caduti, assassinati, torturati, suicidi per non parlare. Persone con le quali Pesce stabilisce rapporti profondi o fugaci, della durata magari di un'azione di sabotaggio sfortunata.

Pesce non celebra eroi, piuttosto dispensa critiche per una leggerezza o giudica severamente un errore organizzativo, ma dipinge con naturalezza uomini in lotta e sé stesso come un superstite fortunato; dietro il velo della sobrietà però si avvertono l'ammirazione e la pietà sconfinate verso le compagne e i compagni decimati (tra i Gap decimare non significa uno su dieci, ma nove su dieci).

Più che fortunato, poi, il Pesce gappista è dotato di un sangue freddo eccezionale ed è un organizzatore meticoloso, un perfezionista dell'azione. Mai accecato dall'odio, Pesce sa che la sua vita e quella dei suoi compagni, o di un passante sconosciuto, sono più preziose della morte dell'ufficiale nazista o della spia repubblichina.

E' un uomo, Pesce, che ama la vita in tutte le sue forme malgrado gli sia stata così dura, ama persino la vita in miniera, che ha conosciuto poco più che bambino in Francia, perché in miniera si sente a casa tra i suoi compagni («uomo fra gli uomini, i migliori che avessi mai conosciuto») che provengono da tutta Europa. E' la prima brigata internazionale, quella dei minatori de la Grand' Combe, alla quale partecipa, giovanissimo volontario («lo decisi non appena mi iscrissi al Partito Comunista Francese»); molti di quei minatori sono esuli antifascisti, base naturale del Pcf che in quel distretto minerario è presente ed organizzato.

Pesce è un figlio del secolo breve: i suoi non si sarebbero mai conosciuti, lui piemontese lei veneta, se la prima guerra mondiale non li avesse avvicinati. Papà socialista, mamma cattolica, un pezzetto di Italia post-giolittiana che la miseria, la persecuzione politica, l'assenza di prospettive spingono verso l'emigrazione.

E' troppo piccolo, per sapere cos'è il dolore della separazione, dovrà attendere il 1929, quando lascia Medoc, il cane pastore compagno di un estate nel suo primo "vero" lavoro di pastore di mucche.

Tre anni dopo è iscritto all'Associazione dei Pionieri e poi alla Jeunesse Communiste, l'adolescente guarda alla miniera come ad un atto di solidarietà e di iniziazione, non a caso l'ingresso in Officina è simultaneo all'iscrizione al Partito. E nel Pcf, da attivista superimpegnato, vive le elezioni del '35 e del '36, in quel clima di internazionalismo antifascista che caratterizza particolarmente le regioni di immigrazione.

Giorni di festa, gli ultimi di aprile del '36. Successo elettorale del Pcf, vittoria del Fronte popolare, che qualche settimana dopo lo ospita a Parigi, tra i delegati dei giovani comunisti, per l'immensa manifestazione antifascista che vede sul palco Dolores Ibarruri e Maurice Thorez. La decisione è presa, in Spagna si combatte contro il fascismo, il nemico dei minatori, ed è lì che bisogna andare a combattere.

E' in Spagna, paradossalmente, che il giovane comunista "francese" (non parla italiano, vorrebbe combattere assieme ai francesi) conosce l'Italia: nelle pause di guerra studia la grammatica italiana, il Risorgimento, il fascismo. Suoi maestri sono antifascisti italiani, parte di un elenco straordinario di figure leggendarie che la memoria incredibile di questo ottantasettenne fa rivivere agli occhi di un lettore frastornato da una serie sterminata di note biografiche a piè pagina. Quanti di questi nomi sono stati dimenticati! La storia della più breve di quelle esistenze, è un pezzo di storia dell'Italia e della democrazia europea!

Dura poco la pausa francese, la primavera del '40 vede il crollo della Republique, i tedeschi dilagano, gli antifascisti vengono arrestati in massa. Ed è quasi subito galera, poi, dopo un anno, il confino. A Ventotene compie gli studi superiori, il corpo insegnante è superbo: Ravera, Scoccimarro, Terracini, Curiel, tra i tanti confinati comunisti. Tra mille espedienti per sopravvivere e stabilire il più semplice contatto umano, si studia sul serio! Nell'isola conosce Secchia, Longo, Di Vittorio ed una parte enorme dei futuri gruppi dirigenti della Resistenza.

Emerge anche qui un tratto peculiare della personalità di Pesce: il militante disciplinatissimo («il Partito ha sempre ragione») parla con deferenza degli "altri", i non comunisti, ma mantiene i rapporti più affettuosi con gli "eretici" della chiesa comunista.

Dagli scioperi del marzo '43, all'arresto di Mussolini, all'agosto del ritorno a Visone, il paese natale, il tempo vola nel suo ricordo. Inizia qui la parte più nota della sua storia che ha per sfondo Torino e poi Milano.

Pesce chiarisce lucidamente le differenze enormi che corrono tra la guerra per bande che si conduce nelle campagne o in montagna e l'azione militare dei Gap, che ha per teatro la città, fatta di atti di sabotaggio pericolosissimi, di attacchi improvvisi, condotti quasi individualmente, contro bersagli umani che si possono guardare in faccia.

Il pudore del narratore non fa velo all'inaudita violenza che il garibaldino di Spagna esercita su sé stesso. Notti insonni, poi determinazione assoluta, anche perché, prima a Torino poi a Milano, "Visone" è chiamato a riparare organizzazioni semidistrutte dai colpi del nemico.

Può stupire che ad una domanda precise e finale, Pesce risponda che il momento più alto della sua vita è stato la guerra di Spagna anteponendola alla Resistenza, anteponendo cioè una sconfitta tragica (ma le brigate internazionali sono state sconfitte?) ad una vittoria esaltante. Anteponendo anche l'apprendista tra tanti al protagonista della guerra in città, dove talvolta però si sente solo. La milizia di soldato semplice in un esercito di fratelli che parlano tante lingue diverse gli sta più a cuore della medaglia d'oro al valor militare così meritatamente conquistata nelle file della Resistenza.

Di straordinario interesse e illuminante è la memoria dettagliatissima, dei primi, decisivi, duri anni del dopoguerra, del complesso travaglio del mondo partigiano e del suo rapporto col Pci che si va organizzando e radicando. Anche in questo caso emergono l'equilibrio e l'autonomia critica di Pesce, d'altra parte in quelle circostanze così difficili egli utilizzò tutto il suo prestigio per svolgere un'opera di mediazione e di moderazione nei confronti delle frange più insofferenti verso le provocazioni della reazione.

Anche quando non condivide, è il caso dell'amnistia di Togliatti, prevale la disciplina, corroborata dalla comprensione degli scopi e da una fiducia profonda nel gruppo dirigente del Pci.

Pesce ha con la violenza, che ha tanto subito e praticato, un rapporto esemplare, tutto politico. La guerra è finita, si apre un nuovo terreno di confronto, democratico, presto costituzionale. Sul culto virile e l'ostentazione delle armi, sulle tentazioni giustiziere o sul sogno insurrezionale è drastico, che si tratti di Seniga o della Volante rossa o dell'amico Feltrinelli. Prima che i fatti gli diano totalmente ragione su Seniga, sbatte la porta e lascia il suo incarico di massimo responsabile della vigilanza del Partito.

Pesce risponde ai suoi intervistatori senza reticenze; dal suo osservatorio milanese viene fuori una testimonianza fresca e vivace: la rottura del '47, le elezioni del '48 e l'attentato a Togliatti, gli anni '50 e il governo Tambroni, il movimento studentesco, la strategia della tensione e la vicenda Feltrinelli. Le vicissitudini politiche e personali si alternano a schizzi incisivi di personaggi come Togliatti o a ricordi commossi come quello dell'ultimo Amendola.

Colpisce, tra uomini così diversi per estrazione, formazione ed anche, in qualche misura, orientamento politico, il rispetto, direi l'ammirazione, reciproci che li fa pari. Virtù di circostanze straordinarie vissute insieme e di quello straordinario partito che, fino ad un certo periodo, è stato il Pci. Allo scioglimento del quale tanti anziani compagni aderiranno al Pds per un malinteso "senso di fedeltà", quasi che il nuovo Partito fosse la naturale prosecuzione del vecchio.

Pesce dà un giudizio, ancora una volta, puntuale, lucido di quella operazione e delle sue conseguenze. Sceglie di ricominciare da capo, con noi, con Rifondazione Comunista, perché più giovane di tanti giovani e perché è un combattente che non sa obbedire all'ordine di resa.

Pesce non è mai stato parlamentare, errore non irreparabile, visti i nomi che circolano per la nomina di senatore a vita. Penso che la Repubblica italiana gli debba ancora qualcosa di più del prezioso riconoscimento del valor militare. E ancor di più Rifondazione Comunista, il suo e il nostro Partito, potrebbe lavorare per questo obiettivo raccogliendo centinaia di migliaia di firme.
Per la Resistenza, contro ogni revisionismo, il Comandante Pesce Senatore a vita.



"Visone" in Parlamento:
la risposta della memoria agli avversari della democrazia


di Wilfredo Caimmi
su Liberazione  del 27/08/2005


Ho letto su Liberazione l'articolo in cui Claudio Grassi propone di avanzare la candidatura del comandante Giovanni Pesce "Visone" a Senatore a vita.
Desidero tu sappia che questa proposta mi riempie di orgoglio e mi commuove! Pesce è un simbolo per quanti, durante la Resistenza, hanno combattuto contro i tedeschi e i fascisti, e per tutti gli italiani che hanno costruito e amano la Repubblica!
Spero ardentemente che il Presidente Ciampi ascolti questa voce che si leva da molti cuori. Ricorre quest'anno il sessantesimo della Liberazione. Il Paese vive tempi difficili. Vi è chi vorrebbe riscrivere la storia sommergendo meriti e colpe in una notte senza colori. Vi è chi tenta di stravolgere la nostra Carta costituzionale perché vagheggia disegni autoritari. Vi è chi mostra di avere dimenticato gli orrori della guerra. Portare "Visone" in Parlamento sarebbe la risposta più forte a questi avversari della democrazia e della pace; sarebbe il più alto riconoscimento per quanti hanno lottato, anche a prezzo della vita, per la dignità e la libertà dell'Italia; sarebbe una limpida parola di speranza rivolta ai giovani che erediteranno questa nostra amata Patria e il compito di perseverare lungo un cammino di giustizia e di pace.

Ancona, 27 agosto 2005

Wilfredo Caimmi
Medaglia d'Argento al Valor Partigiano



Un seggio per Giovanni Pesce

di Massimo Novelli
su la Repubblica  del 26/08/2005

Rifondazione chiede di nominare l´ex gappista senatore a vita


A tredici lavorava nelle miniere delle Cevennes, in Francia, dov´era emigrato con i genitori. Diciottenne, già iscritto al Partito comunista, nel 1936 si arruola nelle Brigate Internazionali e combatte in Spagna contro i franchisti, a difesa della legittima repubblica democratica. Quattro anni dopo, rientrato in Italia, viene inviato al confino fascista di Ventotene. All´indomani dell´8 settembre del 1943 è tra i primi a organizzare la Resistenza ad Acqui Terme e quindi a Torino, dove entra nei Gap insieme a ragazzi come Dante Di Nanni, che morirà eroicamente in seguito a un´azione condotta con lui. Dal maggio del 1944 si sposta a Milano e assume il comando del terzo Gap. È per quest´uomo duro e puro, coerente, per Giovanni Pesce, insomma, classe 1918, nato a Visone d´Acqui, medaglia d´oro della Resistenza, ferito tre volte sul fronte spagnolo, che Rifondazione Comunista chiede un seggio di senatore a vita. Lo fa con una campagna lanciata dall´area dell´Ernesto, minoranza del Prc, la cui motivazione suona come una sfida a chi, a destra così come a sinistra, oggi cerca di cancellare il valore e la memoria stessa della lotta partigiana: «Per la Resistenza, contro ogni revisionismo, il comandante Pesce senatore a vita». Coraggioso, a volte spietato come lo era la guerra intrapresa in solitudine contro i fascisti repubblichini e i nazisti, Pesce, il cui nome di battaglia era «Visone», non ha mai rinnegato la sua fede politica, i suoi ideali e la sua storia personale. Si potrà anche non essere d´accordo con le sue idee, ma è difficile non togliersi il cappello di fronte alla sua militanza nella lotta per gli umiliati e gli offesi.





Fonte: http://www.resistenze.org/sito/se/li/seli6d09.htm


Giovanni Pesce: Un garibaldino in Spagna

 

Prefazione di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci

L’appuntamento con la Storia

 

Quando nel 1931 in Spagna nacque democraticamente la Repubblica, Giovanni Pesce era un ragazzino di tredici anni. Si trovava in Francia, a la Grand' Combe, un paese minerario delle Cevennes, dove era emigrato da Visone d’Acqui nel 1924 con la famiglia perché il padre Riccardo, operaio e antifascista, non trovava lavoro. Frequentava la “Jeunesse comuniste” e aveva già conosciuto le fatiche del lavoro. Nelle vacanze estive era andato infatti a pascolare le vacche nella Lozère, una regione confinante, con la sola compagnia di Medoc, un cane che dormiva con lui e che gli è rimasto nel cuore, al punto di ricordarlo, ad oltre settant'anni di distanza, con struggente tenerezza.

 

Della Spagna, in quel periodo, ignorava quasi tutto. A meno di quattordici anni scese nella miniera, affrontando un lavoro duro e tuttavia fiero di sentirsi un "muso nero" e di poter contribuire con il suo magro salario al bilancio familiare. Nel febbraio del 1936, quando in Spagna le sinistre vincono le elezioni, grazie al voto degli anarchici che si recano alle urne per la prima volta nella storia, “Jeanu” (questo il soprannome di Giovanni Pesce) ha compiuto i diciotto anni e si sente ormai adulto. Ogni giorno scende nella profondità della terra e gli è anche già capitato di oltrepassare i confini de la Grand' Combe per recarsi a Nimes, la bella cittadina con i resti romani con lo splendido anfiteatro e la Maison Carrè. Nell'estate, sempre del 1936, compie con alcuni compagni un viaggio di gran lunga più interessante, che lo porta nella capitale, nella Parigi sempre sognata, dove, fra le altre cose, visita la sede del giornale che diffonde ogni domenica, il “suo giornale”, l'Humanitè, e dove ascolta l'accorato appello di Dolores Ibarruri, “la Pasionaria”, e raccoglie i manifestini illustrati e firmati da Juan Miro: un operaio che saluta col pugno chiuso e che dice "Aidez l'Espagne". Sì, anche lui vuole aiutarla, convinto che ci sia un solo modo per farlo: partire volontario per arruolarsi nelle Brigate Internazionali, per combattere per la libertà di quel paese che imparerà a conoscere e ad amare, che poi significa lottare anche per il paese natio, l'Italia. "Oggi in Spagna, domani in Italia", è la parola d'ordine dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, che saranno qualche mese dopo assassinati in Francia su mandato di Mussolini.

 

Le parole della Ibarruri continuano a risuonargli dentro, incancellabili: "Lavoratori, antifascisti, popolo! Tutti in piedi! Preparatevi tutti a difendere la Repubblica, la libertà popolare e le conquiste democratiche del popolo!". Di fronte a questo appello - riflette il giovane Pesce - non si può continuare come se niente fosse. L'appuntamento con la storia è in Spagna, non si deve mancare. Per “Jeanu” non ci sono terze vie: o sì o no, e lui è fermamente per il sì. Sono circa quattromila gli italiani che raccolgono l'appello e che accorrono in Spagna, di cui 1819 comunisti, 979 senza partito, 310 tra socialisti, giellisti e repubblicani. Di loro Rafael Alberti, canterà in una lirica dedicata alle Brigate Internazionali: "Venite da lontano. Ma questa lontananza/ cos' è per il vostro sangue che canta senza frontiere?".

 

Giovanni Pesce allora sa appena leggere e scrivere, non ha la cultura di un Hemingway o di un Malraux, non ha il talento di un Picasso o di un Casals, non conosce i versi infiammanti di Neruda o di Machado, ma avverte come impellente il richiamo della solidarietà internazionale. Poi di Antonio Machado leggerà l'ode di omaggio a Garcia Lorca, assassinato dai franchisti: "Cadde morto Federico / sangue alla fronte e piombo alle viscere/ Sappiate che fu a Granada il delitto/ Povera Granada! / Nella sua Granada". Per il giovanissimo Pesce il richiamo si fa sempre più martellante. I compagni spagnoli chiamano, la risposta può essere una sola. “Jeanu” lesse e rilesse l'appello della Ibarruri pubblicato dall'Humanitè e, in seguito, altri suoi scritti. Lo colpì soprattutto un discorso in cui quella donna straordinaria affermava che "la lotta incominciata sul nostro territorio, sta già acquistando un carattere internazionale, perché i lavoratori di tutto il mondo sanno che se in Spagna trionferà il fascismo, tutti i paesi democratici del mondo saranno soggetti alla minaccia fascista".

 

Insomma non si poteva restare inermi. Così, ingannando la madre Maria con la prima storiella che gli viene in mente, un incontro con un'amica alla frontiera belga, sale su un treno e dà inizio al suo percorso di militante della libertà. Un cammino che durerà tutta la vita e che, per nostra fortuna, prosegue ancora.

La Spagna gli è rimasta nel cuore, è al primo posto delle tante storie vissute. Viene persino prima della Resistenza, il periodo eroico a Torino e a Milano, a capo dei Gap, i gruppi d’azione patriottica, durante il quale si è guadagnata la medaglia d'oro al valor militare e il riconoscimento di "eroe nazionale". Se gli si chiede il perché di questo amore così travolgente per la Spagna, risponde che fu quel fiume di gente che arrivava da ogni parte del mondo, abbandonando casa, lavoro, famiglia, affrontando ogni giorno a viso aperto la morte, a rompere in lui ogni indugio. Doveva essere con quei volontari, al loro fianco, nella lotta che avrebbe dato concretezza quotidiana ai suoi ideali di giustizia e di libertà.

 

E oggi? Giovanni Pesce è ancora sulla breccia. I tre anni dal 1936 al 1939 li ha descritti oltre mezzo secolo fa (era il 1955) nel libro "Un garibaldino in Spagna", pubblicato dagli Editori Riuniti, i cui titolari ci hanno concesso gratuitamente i diritti per ristamparlo, nel 70° anniversario della guerra civile, l’Alzamiento che iniziò in Marocco il 17 luglio 1936 e si estese il giorno successivo nella penisola iberica. Non abbiamo tolto o cambiato neppure una riga per non appannare la freschezza della narrazione, che, a volte, può apparire di una toccante ingenuità. Ma quelli erano i tempi e quelli i modi espressivi, "les neiges d'antan", le stagioni epiche all'insegna di alti ideali e della voglia di cambiare il mondo, raccogliendo le eredità migliori degli Illuministi, dei Sanculotti, dei Comunardi e dei più vicini nel tempo, gli artefici dell' Ottobre rosso.

 

Combattente sull’Jarama e sul ponte di Arganda nella difesa di Madrid, nella piana di Guadalajara, ferito in ben tre occasioni e una volta, nell'estate del 1937, gravemente, sul fronte di Saragozza, tanto che le schegge di un ordigno fascista che lo colpirono sono ancora conficcate nella sua schiena, inestirpabili perché, a giudizio dei medici, un'operazione chirurgica sarebbe troppo rischiosa. E poi, dopo la disfatta e l'avveramento della profezia della “Pasionaria”, nell'Europa insanguinata dall'aggressione nazista, Giovanni Pesce, ventiduenne, dalla Francia nel 1940 rientra in Italia per combattere il fascismo. Subito arrestato e condannato ad un anno di reclusione, poi spedito al confino, nell'isola di Ventotene dove conosce i grandi leaders del Partito comunista italiano, da Luigi Longo a Pietro Secchia a Eugenio Curiel a Umberto Terracini a Giuseppe Di Vittorio a Camilla Ravera che gli insegna la grammatica e la sintassi della lingua italiana, assieme alla storia e all'amore per il suo Paese, non quello retoricamente magniloquente del fascismo, ma quello autentico degli operai, dei contadini e degli uomini di cultura che non hanno piegato mai la schiena.

 

Dopo il 25 luglio e l'8 settembre del ‘43, comincia la stagione della Resistenza di cui Giovanni Pesce, “Ivaldi” e “Visone”, i due nomi di battaglia, sarà uno dei maggiori protagonisti. Ma è la Spagna la sua passione, dove torna nel 1976 dopo la morte di Franco e tante volte ancora, una indimenticabile con un centinaio di studenti, per ripercorrere gli itinerari degli anni ‘30 e dove, da giovane combattente, con una scarsa istruzione ma con un'alta statura morale, è entrato a pieno titolo, assieme ai grandi nomi della politica, della cultura, dell'arte, nell’incancellabile libro della storia.

copertina


Edizioni Arterigere

www.arterigere.it

2006

Pagine 192

Prezzo di copertina: 12.00 Euro







http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=10791

Memoria storica


L’insegnamento di Giovanni Pesce: la sconfitta come elemento formativo per la lotta ideale


di Armando Petrini


su Liberazione del 27/07/2006


Leggendo, o rileggendo, le pagine di memorie di Giovanni Pesce, il mitico comandante “Visone” della guerra partigiana dei GAP, non si può fare a meno di rimanere profondamente colpiti dalla sua eccezionale tempra umana e politica. Quest’uomo così lucido, dal piglio fermo ma allo stesso tempo dalla incredibile serenità di carattere, ha ancora oggi molto da insegnare a chiunque voglia interrogarsi sulle vicende del passato così come su quelle scivolose del presente. E ciò può avvenire proprio perché -e non “nonostante il fatto che”- Pesce sia un uomo integralmente novecentesco. Tutto in lui grida la sua appartenenza al Novecento: la fiducia tenace nel ruolo del Partito, la concezione ‘forte’ della politica impensabile al di fuori di una salda prospettiva etica, la consapevolezza di aver agito per un’istanza collettiva in grado di esaltare, e non di mortificare, il singolo. Pesce impara presto il senso profondo del sentimento della fraternità. Bambino, emigrato in Francia con la famiglia, osserva e poi prova direttamente la dura vita del minatore. Scrive Pesce: «I minatori emigrati vivevano alloggiati in baracche di legno -sette ed otto per locale- esposti a mille pericoli, costretti ai lavori più insani e più duri: sfruttati, umiliati, trattati come bestie». E prosegue: «Mia madre gestiva una ‘cantina’, una specie di trattoria, frequentata dai minatori. La sera molti vi si davano convegno, discutevano, parlavano fino a notte inoltrata. Ancora non riuscivo a comprendere perché così stanchi, con una giornata di lavoro duro sulle spalle, anziché andarsene a riposare, rimanessero lì fino a notte fonda». Ma poi capisce le motivazioni di quel comportamento: «Più tardi, quando conobbi anch’io la vita del minatore, compresi questi uomini e seppi che erano comunisti, che si organizzavano e che bisognava essere organizzati per abbattere la società capitalistica. Avevo per loro una grande ammirazione: erano per me degli esseri straordinari. La loro fede, il loro spirito di sacrificio, la loro tenacia mi commuovevano fino al fondo dell’animo quanto più riuscivo a comprendere come tutto fosse messo da loro a servizio della causa operaia». Il brano che abbiamo citato è tratto da uno dei più importanti libri di Pesce, Un garibaldino in Spagna, uscito nel 1955 e oggi riedito da un piccolo editore, Essezeta, in occasione del Settantesimo anniversario della Guerra di Spagna (Un garibaldino in Spagna, con una prefazione di F. Giannantoni e I. Paolucci, Edizioni Essezeta - Arterigere, 2006, 12 euro). Sebbene la fama di Pesce sia giustamente legata all’attività di comandante partigiano, gappista con il nome di “Ivaldi” e poi di “Visone”, la sua storia umana e politica comincia qualche anno prima della lotta partigiana in Italia. Diciottenne, nel 1936, si arruola volontario nelle Brigate Internazionali e combatte nella Guerra di Spagna. Quell’esperienza drammatica e terribile costituisce la vera formazione di Giovanni Pesce e, con lui, di una intera generazione di antifascisti. Lo ribadisce egli stesso nel suo libro forse più celebre, Senza tregua: «Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea». Ancora pochi mesi fa, in occasione dei festeggiamenti per il 25 aprile, Pesce è tornato a insistere, proprio dalle colonne di Liberazione, sullo stretto nesso fra guerra di Spagna e guerra partigiana: «Non fummo in Spagna dei vinti, ma giovani e anziani che marciavano come dei combattenti anche nella dolorosa ritirata. Avevamo il rimpianto nel cuore; lasciavamo il popolo spagnolo, ma ci attendevano altre dure prove da combattere con gli stessi sentimenti e gli stessi ardori. Questa volta vittoriose, sino al ‘radioso 25 aprile’». Si capisce perciò il motivo per cui Pesce abbia spesso ripetuto come il momento più alto della sua vita fosse stato la guerra di Spagna, mettendo dunque in primo piano una sconfitta tragica, quella delle Brigate Internazionali contro le truppe di Franco, rispetto a una straordinaria vittoria come quella partigiana contro il nazifascismo. Qui si trova un ulteriore elemento di interesse, e di forte attualità, della sua biografia. La sconfitta può diventare un elemento formativo e, di più, propulsivo per la lotta ideale. Si può venire battuti oggi, e domani ottenere una grande vittoria: essere in un certo momento in minoranza è ben altra cosa dall’essere minoritari. In tempi come i nostri in cui le scelte politiche, di grande come di piccolo momento, sembrano venire rinchiuse entro l’angusto ragionamento di una realpolitik di corto respiro, l’insegnamento di Pesce appare assai prezioso. Ciò che muove le idealità e la concreta azione politica del comunista Giovanni Pesce non si misura con il successo immediato, con il risultato più vicino e più a portata, ma pretende di essere valutato all’interno di una prospettiva più lunga e più profonda, che sappia connettere il risultato contingente, certo importante, o in alcuni casi addirittura fondamentale, con un orizzonte di ampio respiro. E’ qui uno degli insegnamenti più pregnanti della sua storia umana e politica, che è in questo senso storia di un autentico comunista. Lo stesso Pesce non perde occasione per sottolinearlo: in un bellissimo documentario-intervista realizzato qualche anno fa da Marco Pozzi, Pesce conclude il suo dire -con quella sua voce sicura ma piena di calore, addolcita com’è dalla “r” francese conservata dall’infanzia- citando un verso di Paul Eluard: «Ci sono parole che fanno vivere. Una di queste parole è la parola compagni».




P A R T I G I A N I !
Una iniziativa internazionale ed internazionalista
nel 60.esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo

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