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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA onlus

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



 
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  Sui "Quaranta giorni"
di amministrazione jugoslava a Trieste
1 maggio - 12 giugno 1945


L’assemblea costitutiva del CEAIS a Trieste, 17 maggio 1945

Ennesima mistificazione storica approvata dal Consiglio comunale di Trieste (C. Cernigoi, 25/7/2014)
Trieste e la targa della “falsa” liberazione del 12 giugno 1945, alcune menzogne dei 42 giorni di Trieste /
Trst i natpis „lažnog“ oslobođenja 12 juna 1945, neke od laži o 42 dana Trsta
(M. Barone, 13/6/2014)

MAGGIO 1945: TRST JE NAŠ! Una controlettura dei 42 giorni (V. Cerceo, 2007)

Vedi anche:
A TRIESTE E’ SCANDALO DIRE CHE LA CITTA’ E’ STATA LIBERATA DAI PARTIGIANI (ottobre 2014 – anche su JUGOINFO)
Altre considerazioni sulla mozione 1954/2014 del Consiglio Comunale / Lingua slovena in Consiglio Comunale a Trieste: scatta il “no” bipartisan / Linciaggio politico bipartisan contro il consigliere Furlanič indisponibile a infangare la vera Liberazione di Trieste
LA RESISTENZA A TRIESTE E NEL LITORALE SLOVENO
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Trieste liberata dai partigiani jugoslavi, maggio 1945 



TRIESTE LIBERATA. LE RIPRESE VIDEO DELL’EPOCA (Taking Of Trieste - British Pathé 1945)




L’assemblea costitutiva del CEAIS a Trieste, 17 maggio 1945

PREMESSA
Il 17 maggio 1945 si costituì a Trieste il Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno (CEAIS), organo di amministrazione civile della città.
Di seguito la relazione dell’assemblea, pubblicata sul quotidiano triestino Il Nostro Avvenire.
Vogliamo evidenziare, al di là dei contenuti politici degli interventi, che il palcoscenico era “addobbato con i colori triestini e italiani, aventi in mezzo il tricolore jugoslavo ed ai lati le bandiere delle nazioni alleate”; che il primo inno ad essere eseguito fu l’Inno di Garibaldi, e dopo di esso l’Inno jugoslavo e che in seguito furono eseguiti anche gli inni sloveno, americano, russo ed inglese, nell’ordine.
E ricordiamo che quando il 12 giugno gli Jugoslavi lasciarono Trieste, ad un’amministrazione civile eletta dal popolo subentrò un governo militare.
Claudia Cernigoi, 17 marzo 2015


L’ASSEMBLEA COSTITUZIONALE DI TRIESTE

È sorto un nuovo organismo democratico, che rappresenterà, a fianco del Consiglio di Liberazione, il nostro popolo, padrone del proprio destino.

La manifestazione di ieri dopopranzo al Politeama Rossetti – La Consulta della città – Il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, discute dei fondamentali problemi della vita cittadina – Fronte unico della forze sane e ricostruttive tese verso un migliore avvenire.

Chiare parole degli esponenti politici.

Ha avuto luogo al Politeama Rossetti, con inizio alle ore 18, la storica assemblea generale della città di Trieste. Nei giorni precedenti si sono tenute le riunioni nei singoli settori e aziende per l’elezione veramente democratica dei rispettivi rappresentanti.

L’enorme sala presenta un aspetto insolito per la presenza di un pubblico d’eccezione: questa volta è qui convenuto tutto il popolo lavoratore della città, con tutti i ceti e tutte le categorie. Il servizio di guardia è disimpegnato dai garibaldini della brigata “Trieste”, quei provati combattenti che sono la più pura espressione del nostro popolo. Sul palcoscenico, addobbato con i colori triestini e italiani, aventi in mezzo il tricolore jugoslavo ed ai lati le bandiere delle nazioni alleate, siedono ad un tavolo ricoperto d’azzurro i componenti l’Assemblea.

Parla il compagno Giuseppe Gustincich.

Il compagno Gustincich prende per primo la parola. Egli, prima di aprire la seduta, porge i saluti ai delegati di tutti i ceti sociali, saluta il glorioso esercito jugoslavo, la IV armata in special modo, le gloriose forze garibaldine in seno all’armata jugoslava, la brigata d’assalto “Trieste”, la brigata “Fontanot” e la “Picelli”, i rappresentanti delle forze armate inglesi, delle forze armate americane, la missione militare sovietica, la missione militare americana e la missione militare britannica. Poi egli dice:

“In questo momento in cui Trieste vive in un’atmosfera tale che giammai essa ne conobbe una comparabile, in questo momento in cui un avvenimento di capitale importanza ci ha portato ad una svolta decisiva nella storia della nostra bella città, indubbiamente una nuova era democratica si è aperta, pregna di fecondo sviluppo e di grande avvenire. Noi siamo consapevoli  di vivere quest’epoca, di parteciparvi con tutta la nostra anima, con tutta la nostra fede, sapendo ciò che vogliamo, sapendo che Trieste non potrà essere che ciò che tutti i Triestini desiderano ed aspirano non solo oggi, ma da molti e molti anni. Questo avvenimento si profila ormai in un modo così sincero, così schietto, in un modo così palpitante che nessuno può mettere in dubbio il suo esito. Vi ho detto che sarò breve, ma sento che, trascinato da questo stato di cose a cui tutti noi partecipiamo ,vorrei parlare molto, e non certo per fare il poeta o il tragico, ma veramente non posso.

“Perciò prima di chiudere, mi sia permesso di esprimere la speranza, che tutta la cittadinanza di Trieste, da voi rappresentata, potrà dire, non solo alla nostra Trieste, non solo alla nostra provincia e all’Europa, ma al mondo intero ciò che i Triestini vogliono”.

Dopo l’inno di Garibaldi eseguito dall’orchestra ed entusiasticamente accolto dai presenti, il compagno Radich interpretando il pensiero di tutti i lavoratori e cittadini presenti, porge un cordialissimo saluto al Consiglio di Liberazione della città di Trieste.

Eseguito ancora l’inno jugoslavo, si passa alla trattazione dell’ordine del giorno. Il compagno Rudi Ursich legge la relazione sulla situazione politica della città.

La relazione del segretario del Consiglio

“Compagni e compagne! Signori e signore!

Un avvenimento non normale, non comune, ci trova oggi riuniti. La democratizzazione degli ordinamenti, della rappresentanza della nostra città, fa un altro gigantesco passo in avanti. Per la prima volta nella storia di Trieste si verifica il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione ha, in una forma veramente democratica, senza costrizioni, senza paure, manifestato la sua volontà con l’elezione dei delegati.

La maggior parte di costoro sono vecchi combattenti antifascisti che hanno, nei giorni decisivi dell’insurrezione armata, impugnato le armi, che hanno dimostrato di sapere, all’occorrenza, esporre la propria esistenza per la causa democratica, per il benessere della propria città. Una cosa risulta evidente da tutto l’andamento della vita cittadina: la volontà di tutte le persone oneste di normalizzare quanto prima la vita della città stessa, di voler quanto prima dare alla città l’assetto che le assicuri l’avvenire. Nessuna tendenza, da parte delle grandi masse, a drammatizzare gli avvenimenti, nessuna tendenza a voler rendere pesanti i rapporti tra la cittadinanza e la direzione politica ed amministrativa della città stessa, ma piena comprensione dei gravi momenti che la città sta attraversando.

Problemi di carattere tecnico e politico, amministrativo e talora militare si accavallano, e la loro soluzione richiede una sempre più grande responsabilità, una sempre maggiore decisione, nonché una larga base su cui dovrà poggiare il Consiglio di Liberazione. I problemi da risolvere destano l’interesse di tutta la cittadinanza; per tale ragione si richiede che tutta la popolazione concorra in modo adeguato, in modo attivo, all’amministrazione della città attraverso i propri delegati, attraverso la propria rappresentanza legale.

Dobbiamo constatare che la soluzione attuale è caratterizzata da un senso di provvisorietà in via di coagulamento, con separazione netta tra elementi sinceramente democratici, i quali vedono nella soluzione di Trieste autonoma in seno alla nuova Jugoslavia, del porto franco di Trieste senza alcuna barriera doganale, senza alcun proibizionismo, senza alcun vieto quanto vano ostruzionismo per il commercio continentale e intercontinentale, che trova la sua via più naturale dal centro e dall’oriente europeo in Trieste, l’unico mezzo per realizzare le aspirazioni popolari e democratiche che devono stare alla base di ogni ordinamento realmente democratico, nonché, dicevamo, separazione netta dagli elementi reazionari o tendenzialmente reazionari, comunque, ancora accecati da quello spirito sciovinistico che trascende, che nega, che calpesta i reali effettivi interessi del popolo. Elementi reazionari i qual spingono a soluzioni di vario genere (prevalentemente  soluzione italiana), ma che hanno tutti un fondo comune: lotta contro la democrazia progressiva jugoslava, avamposto del mondo democratico: lotta contro ciò che rappresenta progresso incondizionato manifestatosi nella forma della guerra di liberazione nazionale, lotta contro il potere popolare negatore di ogni cricca, di ogni marcio compromesso, di ogni lavorio subdolo atto ad assicurare il dominio a singole caste: in breve, lotta contro la democrazia conseguente.

Qualcuno vorrà chiedersi quale è la causa che ha permesso una così sollecita e decisiva vittoria contro i tedeschi ed i loro complici locali, con conseguente liberazione della città, una così sollecita normalizzazione della vita cittadina.

Dobbiamo rilevare che l’avanzata addirittura fulminea della IV Armata dell’esercito jugoslavo, avanzata caratterizzata dalla nuova strategia che ha dell’eccezionale, secondo le dichiarazioni di esperti militari, e l’insurrezione armata delle masse cittadine, sono le cause che hanno portato al rapido disfacimento dell’apparato bellico tedesco collegato a quello dei suoi complici locali.

L’insurrezione armata delle masse popolari cittadine è stata possibile, dal punto di vista militare, in grazia alla lotta che la IV Armata svolse nelle immediate vicinanze della città; dal punto di vista politico, in grazie alla raggiunta unione dell’elemento italiano e sloveno della città. L’insurrezione armata, a sua volta, ha fortificato, ha cementato questa unione, dandole il carattere di solidarietà, togliendo, se ve n’erano dei leggeri veli che, eventualmente, potevano offuscare i rapporti tra i due popoli. La lotta è stata il catalizzatore che ha affrettato questa fusione, dandole una veste ed un contenuto non comune, non occasionale. L’unione, già realizzata sul piano politico dall’elemento sloveno ed italiano, doveva passare sul banco di prova, doveva affrontare una prova tale che collaudasse tutto l’insieme e contemporaneamente tutte le singole parti componenti: doveva, affrontando tale prova, o consolidarsi o perire. Tale prova fu l’insurrezione armata ed essa fu brillantemente superata.

Cause ed effetti trasformantisi le une e gli altri, mostrano chiaramente che la sorte militare e politica della nostra città era ed è strettamente, inscindibilmente collegata al problema generale militare e politico della nuova Jugoslavia che ha per base essenziale la fratellanza dei popoli, la cui armata regolare è un esercito sorto dall’insurrezione popolare. Ricorrendo a immagini, potremmo dire che Trieste  è troppo vicina al focolaio su cui si forgiano i destini della nuova Jugoslavia, in nome della più profonda e conseguente democrazia, per non sentire nell’aria una soluzione qual è quella da noi prospettata, per non sentire nella nostra stessa carne quanto tutti i popoli jugoslavi hanno sentito, per non vedere qual’è la via maestra che conduce ad un futuro pregno di fecondi sviluppi nell’armoniosa collaborazione dei popoli.

La lotta non soltanto ha cementato l’unione degli italiani e degli sloveni della città, ma ha pure ravvicinato, affratellato Trieste al complesso jugoslavo nel suo insieme. I Croati e Dalmati, nonché i Montenegrini della IV Armata si sono presentati alla città quali liberatori, quali democratici, quali elementi che hanno lottato, sofferto, sparso il proprio sangue, e con ciò hanno mostrato l’intimo legame venuto a stabilirsi fra la nostra città ed il complesso jugoslavo. Non è soltanto il patriota triestino che ha lottato e lotta per la propria città, sono pure i figli dei vari popoli jugoslavi, che hanno inteso il dovere di liberare la nostra città, che hanno versato il proprio sangue pur di cacciare l’odiato occupatore. I tremila morti della IV Armata sulle alture circostanti hanno gettato un ponte indistruttibile fra Trieste e la restante Jugoslavia: le decine di morti e i più che 400 feriti sono l’anello di sposa offerto da Trieste alla democratica e federativa Jugoslavia di Tito.

L’insurrezione armata ha impedito la distruzione della città da parte delle orde naziste e dei loro servi, ha sventato le manovre dei reazionari locali camuffati da democratici, i quali non hanno esitato a scendere a trattative col nemico, pur di afferrare la direzione politica della città, pur d’insediarsi nei posti direttivi dell’amministrazione cittadina. Questa insurrezione ha permesso che venga distrutto l’apparato statale dell’occupatore e dei suoi complici locali, con la costruzione conseguente di un altro apparato nelle mani delle masse popolari.

L’insurrezione ha riconfermato in modo inequivocabile il principio partigiano: “Tanta libertà avrai quanto per essa sacrificherai”. La liberazione della città  però ci ha apportato nuovi compiti, più importanti ancora che non quello, sotto certi aspetti negativo, dell’insurrezione armata: bisogna ricostruire, bisogna ricostruire presto, bisogna attivare tutte le nostre forze per dimostrare al mondo che i triestini sono capaci di governarsi altrettanto bene quanto gli altri. Quanto prima riattiveremo le nostre industrie, i nostri trasporti, il nostro porto, il nostro commercio, insomma tutta la nostra vita economica, tanto più presto rafforzeremo il blocco delle forze antifasciste cittadine, tanto più consolideremo la fratellanza fra l’elemento italiano e sloveno della nostra città.

Non deve formarsi una generica occasionale collaborazione che presupponga intendimenti, programmi ed ideologie diversi, bensì un’unica massa che lavora ed agisce con unici intendimenti, con unici programmi ed ideologie. Non esiste in città una parte di popolazione che debba collaborare con un’altra parte che comandi, bensì tutta la popolazione avente come unico fine il benessere della città ed il suo prosperoso avvenire, si mette all’opera e lavora per il conseguimento di tale fine.

Vani però sarebbero i nostri sforzi per la ricostruzione, se non si conducesse a fondo l’opera di epurazione di tutti gli elementi fascisti e profascisti, i quali cercheranno di colpirci proprio nel campo della ricostruzione economica, giacché politicamente essi sono già sconfitti e non hanno la possibilità di affrontarci di fronte. Intensificare bisogna l’epurazione, accelerarle, renderla realtà e non pio desiderio. Colpire bisogna tutti quei fascisti che hanno ora indossato la casacca democratica trasformandosi da fascisti in paladini della democrazia, pur continuando a covare i loro tenebrosi sogni di asservimento della società. Tale opera  di epurazione potrà essere intensificata solo nel caso in cui l’unione degli elementi italiano e sloveno si rafforzi, soltanto nel caso in cui vi sia rispetto nazionale reciproco.

Riconosciamo senz’altro, che qua e la si sono verificati degli spiacevoli incidenti, casi d’incomprensione. Certi elementi, con le loro azioni inconsulte, hanno fatto intravedere tendenze sciovinistiche presso certi elementi sloveni, che sarebbe però errato voler generalizzare.

Bisogna assolutamente chiarificare l’atmosfera, bisogna in modo ragionevole togliere gli ostacoli che consapevolmente o inconsapevolmente sono frapposti fra l’elemento italiano e sloveno, bisogna mostrare al mondo che la lotta in comune ha realmente generato la fratellanza indistruttibile dell’elemento italiano e sloveno. Non sterili risentimenti, non vane rampogne, bensì opere di chiarificazione. Accanto a ciò sta l’imprescindibile necessità di mobilitare quanto prima tutte le forze atte al rafforzamento, sulla base del volontariato, del nostro esercito popolare, il quale condurrà a termine l’opera di epurazione di tutti gli agenti hitleriani e dei vari Quisling. Deve essere parola d’ordine nostra, sentimento di responsabilità di ogni giovane valido, orgoglio di ogni padre, ambizione di ogni madre, il sapere che il proprio fratello, che il proprio figlio, che il proprio padre è un soldato dell’esercito di Tito.

Soltanto una disciplina cosciente, un sentimento di responsabilità collettiva e contemporaneamente individuale, permetterà l’assolvimento di tutti i compiti. Uno spirito di disciplina nel quadro della fratellanza italo – slovena è la base essenziale per ogni futuro sviluppo, per ogni futura miglioria, per ogni prosperoso avvenire della nostra città. Non esiste avvenire per la nostra città all’infuori della fusione delle volontà degli italiani e degli sloveni della città stessa. In vista di ciò dobbiamo lavorare avendo a base delle nostre aspirazioni tale principio e considerando l’impossibilità di altra soluzione all’infuori di quella prospettata.

Poi l’orchestra suona l’inno sloveno, sottolineato da clamorose acclamazioni alla fratellanza italo – slovena, alla autonomia di Trieste in seno alla democratica Jugoslavia, al maresciallo Tito e al maresciallo Stalin.

Parla quindi il compagno Bevk, che porta il saluto del Comitato regionale di liberazione nazionale.

Il discorso del compagno France Bevk.

Egli rileva che la riunione della Assemblea cittadina avrà un’importanza storica per Trieste, come è stato d’importanza storica il momento in cui le truppe del maresciallo Tito hanno liberato la città dall’occupatore tedesco e dai fascisti.

A ognuno che pensi onestamente, è perfettamente chiaro che noi non siamo entrati nella città come occupatori, ma come liberatori e non abbiamo portatola vendetta o l’odio, ma la convivenza pacifica.

Malgrado i dolorosi ricordi degli ultimi 25anni, abbiamo soffocato ogni traccia di sciovinismo nazionale. Vogliamo la collaborazione più stretta colla popolazione democratica italiana, nel reciproco interesse e per la felicità, lo sviluppo e il progresso di Trieste e del suo retroterra naturale. Per più di quattro anni abbiamo sanguinato e combattuto contro l’occupatore tedesco e l’oppressore fascista, non solo per la nostra libertà nazionale e i nostri diritti democratici, ma anche per le libertà nazionali e per i diritti democratici degli altri popoli.

A questi principi di libertà, noi democratici popolari, rimarremo fedeli fino alla fine. Questo viene chiaramente dimostrato dal fatto che il nostro potere militare dopo alcuni giorni ha già consegnato l’amministrazione della città al Consiglio di Liberazione di Trieste, cioè nelle mani del suo popolo.

Speriamo e desideriamo che la situazione politica permetterà che questa amministrazione si trovi presto nelle mani delle masse popolari oneste e democratiche di Trieste. Così Trieste potrà essere finalmente autonoma nella Jugoslavia di Tito, dove si promette alla città col suo largo retroterra uno sviluppo continuo ed un benessere crescente. Quell’autonomia che il fascismo ha tolto a Trieste e che ora le sarà restituita, sta in perfetto accordo coi principi su cui si fonda la nuova Jugoslavia del compagno Tito.

Spettabile assemblea, oggi gli occhi del mondo sono fissi su di noi. Tutte le masse amanti di libertà e veramente democratiche guardano a noi e desiderano il nostro accordo, la costruzione pacifica del nostro avvenire più felice.

Ma anche la reazione mondiale guarda a noi. Quella reazione che ha appoggiato e appoggia ancora l’imperialismo fascista: quella reazione che è stata l’avversaria della democrazia e dei diritti dei popoli e che per i propri calcoli impedì la creazione e il mantenimento della pace delle nazioni in questa parte d’Europa.

Alla campagna contro la nostra libertà, contro la democrazia popolare, il vicepresidente compagno Edoardo Kardelj ha dato la risposta che vi è già nota dai giornali e perciò io non la ripeterò. Non ho neppure nulla da aggiungere alle sue parole chiare e inconfutabili. Sottolineo soltanto che malgrado tutti i diritti all’autodecisione, non intendiamo porre nessuno davanti al fatto compiuto e siamo coscienti che le questioni internazionali non si possono risolvere da una parte soltanto, ma davanti al foro internazionale.

Ma ammaestrati dalle amare esperienze del passato, dobbiamo tuttavia avere oggi garanzie abbastanza solide perché le vecchie ingiustizie non si rinnovino più.

Potrebbe però avvenire che s’incominci nuovamente là dove abbiamo cominciato nel ’18 per finire logicamente là dove abbiamo finito nel ’39, cioè in una nuova guerra. Questo però dobbiamo impedirlo ad ogni costo, nell’interesse della futura pace e per la felicità di tutta l’umanità.

Compagni e compagne! I fascisti sono stati vinti soltanto esteriormente, ma il fascismo non è ancora morto. (Voci: Morirà!).

Allo scardinamento del fascismo, del più grande nemico delle libertà umane e del progresso, dobbiamo consacrare tutte le nostre forze. Lo colpiremo con la nostra democrazia popolare, che è frutto della nostra lotta di liberazione, quella democrazia popolare che dà alle masse di tutti i ceti e di tutte le nazionalità la più larga possibilità di partecipare alle decisioni in tutte le questioni politiche, economiche e culturali: quella democrazia che ci ha dato il nostro potere popolare, i nostri comitati di liberazione nazionale ed i comitati regionali di liberazione nazionale, che oggi rappresentano i più alti poteri nel paese; quella democrazia popolare che ha dato alla città di Trieste la sua autonomia. Essa ha legato nella lotta per la libertà le masse del Litorale, per le quali incomincia una nuova vita, insieme alla certezza  che la vecchia non ritornerà mai più.

Viva Trieste autonoma nella federazione democratica jugoslava!.

I discorsi del comandante e vicecomandante della città.

Annunciato dal compagno Radich parla il maggiore generale Dušan Kveder, comandante della città.

Triestini e Triestine! In nome dello Stato Maggiore della IV Armata e in nome del Comando della città di Trieste, saluto questa prima assemblea della città di Trieste. Alle nostre truppe che secondo un piano magnifico e sotto la direzione del maresciallo Tito hanno liberato l’Istria, il Litorale sloveno, Trieste, Monfalcone e Gorizia, questa vostra manifestazione dà grande soddisfazione. E dà soddisfazione perché questa regione noi l’abbiamo liberata colle nostre forze, dopo duri combattimenti e con numerose vittime. Dà soddisfazione  perché attraverso a questa vostra manifestazione viene messo ancora una volta in luce il fatto che la popolazione di Trieste ci ritiene come benvenuti nella città. Dà soddisfazione perché attraverso questa manifestazione viene confermato che la popolazione di Trieste ritiene il nostro esercito come un esercito liberatore e perché noi sentiamo che attraverso l’onore tributato al nostro esercito voi prendete in considerazione la nuova Jugoslavia democratica.

Dà soddisfazione perché comprendiamo che attraverso questa  manifestazione voi condannate tutto il passato di schiavitù nell’ultimo secolo. Condannate il passato di Trieste nella monarchia austro-ungarica, un regime di oppressione e di odio; condannate la schiavitù fascista che ha portato la città verso la sua rovina economica e che ha distrutto qualsiasi resto di democrazia in Trieste.

Dà soddisfazione perché, nella vostra manifestazione, vediamo la vostra volontà per la pacifica convivenza della popolazione italiana e slovena. Desiderio del nostro esercito è di vedere Trieste come desiderate di vederla voi: Trieste felice, democratica, antifascista nel quadro della forte, democratica, federale e progressista Jugoslavia. Il nostro esercito è lieto di salutare in voi i rappresentanti della maggioranza, della grande maggioranza, del popolo triestino.

Viva Trieste autonoma nella federazione democratica jugoslava.

Il magg. Giorgio Jaksetich, vicecomandante della città, porge il saluto dei garibaldini combattenti nell’esercito del maresciallo Tito.

Diverse – egli dice – furono le difficoltà e i disagi della lotta, superiori a quanto si possa credere; mai però abbiamo mancato al nostro dovere, quello della lotta armata per cacciare il nemico e farla finita col fascismo. Gli anni della dominazione fascista, che hanno provocato la rovina economica della città, ci hanno spinto a lottare fino in fondo per poter por fine a questa situazione.

Dall’altra parte la visione dell’avvenire di Trieste era uno stimolo tanto grande che nessun sacrificio poteva allontanarci dal conseguire l’attuale risultato. Sui monti del retroterra abbiamo fuso le forze italo – slovene per combattere il comune nemico: il nazifascismo. Per i veri democratici, per i veri figli del popolo amanti della pace, questa unione tra italiani e sloveni non è nuova: essi si sono già trovati nelle prigioni del fascismo, nelle isole del confino e, insieme, nella lotta più grande, quella contro la peste del fascismo. Ora ci aspetta di lottare ancora insieme per ricostruire e fare sì che Trieste possa godere della pace, del lavoro, del benessere, della felicità.

Nelle fabbriche, negli uffici, tra le donne e la gioventù si deve formare il più stretto fronte unico delle forze sane e costruttive, perché dobbiamo dare alla nostra città quanto si merita ed avviarla sulle vie del progresso. Noi non ci lasciamo distrarre e distogliere dal nostro compito, dalle chiacchiere, dalle calunnie e dalle offese. Noi abbiamo la certezza del perché combattiamo. Tito sta in testa alla lotta.

La seconda parte

Si chiude la prima parte della Assemblea, e dopo un breve intervallo, durante il quale vengono suonati gli inni americano, russo e inglese, s’inizia la discussione sulla relazione politica tenuta dal compagno Ursich. Intervengono vivamente parecchi compagni.

La discussione certe sull’esigenza immediata della costituzione di un tribunale del popolo per compiere efficacemente l’opera di epurazione nella nostra città. Molti altri problemi sono affrontati e si rileva come la compattezza e l’unità del popolo potranno aver ragione di ogni altra difficoltà. Il compagno Regent traccia la linea da seguire per la ricostruzione e l’avviamento deciso verso la piena attuazione della democrazia popolare e ribadisce ancora la necessità dell’unione stretta tra italiani e sloveni per il successo della lotta. Dà lettura quindi del testo dei telegrammi da inviare all’eroe nazionale maresciallo Tito, al maresciallo Stalin, al presidente degli Stati Uniti d’America Truman, al premier del governo della Gran Bretagna Churchill, al vicepresidente del governo della Jugoslavia e ministro per la costituente Kardelj, al presidente dei ministri della Slovenia, Kidrič al vicepresidente del consiglio dei ministri italiano Palmiro Togliatti, al presidente del comitato popolare provinciale di liberazione Bevk. I presenti approvano con vivissimi applausi.

Poi avviene l’elezione, fatta dai delegati presenti, dei compagni che dovranno costituire la Consulta generale della città di Trieste. Il popolo rappresentato dimostra la sua maturità politica, l’interesse e l’entusiasmo che lo anima. Viene approvata infine la proposta che il Consiglio di liberazione possa aggregarsi altri membri.

La storica riunione popolare è chiusa a sera tarda.

Il discorso del maggiore comandante la Milizia popolare di Trieste Rudi Greif in occasione dell’Assemblea generale della città, tenutasi ieri l’altro al Politeama Rossetti.

Io saluto in nome della Milizia popolare di Trieste la vostra prima assemblea. Io la saluto in nome di coloro che a Trieste per primi impugnarono le armi, di coloro che assieme al nostro esercito regolare liberarono Trieste. Soprattutto mi sento in dovere di rispondere alle calunnie che vanno diffondendo certi elementi fascisti dell’ex CLN che se ne fuggirono a Roma. Essi affermano che noi, cioè l’armata jugoslava, abbiamo soffocato la rivolta organizzata, si crede, da loro. Compagni! Ciò è vero: noi abbiamo impedito che coloro che fino a ieri servirono fedelmente l’occupatore tedesco, come la Guardia civica, la X Mas, ecc., che coloro che fino a ieri perseguitavano e uccidevano i combattenti antifascisti triestini, venissero considerati eguali a noi. tutto ciò abbiamo raggiunto con l’avere già sotto l’occupazione tedesca organizzato e costituito a Trieste, dalle file delle masse democratiche slovene ed italiane, delle unità armate. In queste nostre formazioni accorsero tutti coloro che volevano una Trieste libera, cioè migliaia di operai delle fabbriche triestine, i cittadini , tutta Trieste ad eccezione di coloro che si trovavano al servizio dell’occupatore. Noi li abbiamo chiamati, dicendo loro di abbandonare il servizio di Hitler e di aggregarsi a noi, ma essi rimasero sordi.

Venne l’ora della rivolta: le truppe di Tito si avvicinavano a Trieste, Trieste impugnava le armi per liberarsi assieme alle truppe di Tito. Prima che le nostre unità giungessero dal di fuori, noi abbiamo disarmato parte dei servi di Hitler e attaccato reparti dell’esercito tedesco della città; dopo l’arrivo delle nostre unità operanti, che hanno espugnato in una lotta accanita i numerosi centri di resistenza degli arrabbiati nazifascisti, il nostro esercito triestino si trasformò in Difesa Popolare Triestina, che oggi ha la cura dell’ordine e della tranquillità di Trieste. Molti che fino a ieri furono sordi ai nostri richiami, molti che fino a ieri servivano fedelmente Hitler nelle varie Brigate Nere, nella Guardia civica ecc., cercano oggi di attaccare sul berretto la stella rossa, ma per costoro non c’è posto in mezzo a noi: il posto di costoro è nei campi di concentramento. Noi sappiamo che in mezzo a loro si trovano uomini che furono ingannati, che senza dubbio potranno collaborare con noi, ma prima devono dimostrare che non sono responsabili dei delitti che le formazioni dell’occupatore, e con loro la Guardia civica, perpetrarono ai danni delle masse democratiche in generale e delle masse democratiche di Trieste in particolare. Coloro che fuggirono da Trieste, con ciò solo dimostrarono di non avere le mani pulite nei loro rapporti con queste formazioni armate dall’occupatore.

Proprio coloro che cercano oggi a Roma di parlare in nome del C.L.N. triestino volevano, nei momenti decisivi, giocare a Trieste a mosca cieca. Trattarono con la Guardia civica, cioè con una formazione armata dell’occupatore, ed ostacolarono con ciò i nostri sforzi per conseguire lo sfasciamento della medesima al fine di attrarre i suoi componenti nelle forze armate del movimento antifascista della città.

Che chiacchierino e minaccino pure i vari fascisti da Roma o da qualsiasi altro luogo: le masse democratiche triestine hanno oggi nelle loro mani le armi, hanno la loro Difesa Popolare, la difesa che si trova al loro servizio, e non più al servizio dei neri criminali fascisti. Chi cerca, chiunque esso sia, di asservire di nuovo Trieste, troverà una resistenza incrollabile nelle masse democratiche italiane e slovene, le quali, come aiutarono a liberarla col proprio sangue, così sapranno anche con le proprie armi, e con la propria Difesa Popolare, difendere tutto ciò che hanno conquistato in questa lotta.

 
(dal Nostro Avvenire, 18 e 19 maggio 1945)



ENNESIMA MISTIFICAZIONE STORICA APPROVATA DAL CONSIGLIO COMUNALE DI TRIESTE

Claudia Cernigoi
25 luglio 2014 - da Diecifebbraio.info
COLPIRE LA MEMORIA, RISCRIVERE LA STORIA” (da “Ruggine” degli Africa Unite)

Il 21 luglio scorso il Consiglio comunale di Trieste, con un unico voto contrario (Federazione della Sinistra) e tre astenuti (due PD e uno SEL) ha approvato la seguente

MOZIONE URGENTE

Oggetto: 26 ottobre 1954-2014

I sottoscritti consiglieri comunali

Preso atto che il 26 ottobre 2014 ricorre il sessantesimo anniversario del ritorno definitivo di Trieste all’Italia;

Ricordato che il 2014 è l’anno delle celebrazioni dell’inizio della Prima Guerra Mondiale e del lungo Novecento che ha visto Trieste contesa fino al Memorandum di Londra che la riunificò alla Madre Patria;

Evidenziato che in un anno ricco di celebrazioni non si può dimenticare questa data simbolo di tutto il Novecento per l’Italia, per Trieste e per tutto il confine orientale, compiendo atti di “giustizia storica” anche nei confronti di quanti si sacrificarono e morirono per l’italianità della Città;

IMPEGNANO

il Sindaco e la Giunta a commemorare degnamente l’anniversario ed i suoi protagonisti attraverso:

• la convocazione di un Consiglio comunale straordinario che commemori l’evento;

• il conferimento della Cittadinanza Onoraria all’VIII Reggimento Bersaglieri di cui facevano parte i reparti italiani che per primi giunsero in Città il 26 ottobre 1954;

• l’intitolazione di una via cittadina o l’apposizione di una targa che commemori la fine dell’occupazione jugoslava il 12 giugno 1945 e la fine della seconda guerra mondiale per Trieste.


Mozione firmata da Franco Bandelli e Alessia Rosolen (Un’altra Trieste, formazione politica che si situa a destra di AN e forse anche di Fratelli d’Italia, tanto per inquadrare l’area politica).

Che dire? innanzitutto che la data del 26 ottobre 1954 (ritorno della sovranità italiana su Trieste, peraltro in barba agli accordi che sancivano l’esistenza del Territorio Libero) non c’entra assolutamente con quella del 12 giugno 1945 (quando gli Jugoslavi lasciarono l’amministrazione della città agli angloamericani), e che attaccare le due cose assieme è solo l’ennesimo modo per fare mistificazione storica.

Ma anche “commemorare” la fine “dell’occupazione jugoslava” è un modo per mistificare e riscrivere la storia. Perché si parla di “occupazione” jugoslava a Trieste e non di “occupazione” angloamericana per le altri parti d’Italia liberate dagli eserciti alleati? (Era un esercito alleato anche la Jugoslavia, nonostante molti continuino pervicacemente ad ignorarlo).

Inoltre, la “fine della seconda guerra mondiale” a Trieste come in Italia e negli altri paesi si è avuta il 10 febbraio 1947, con la firma del Trattato di pace, data che invece è stata oggetto di ulteriore mistificazione essendo stata dichiarata Giorno del ricordo dell’esodo e delle foibe.

Che la destra più retriva, anticomunista e nazionalista, si faccia carico di presentare simili proposte non stupisce. Scandalizza invece il fatto che tali contenuti vengono oggi, a distanza di settant’anni, fatti propri anche dalle forze che non osiamo definire “di sinistra”, ma che pensavamo almeno sinceramente democratiche.

Così ci domandiamo come mai il sindaco Cosolini, PD con un ventennale passato nel PCI, possa avere già fatto proprio un ordine del giorno in cui si impegnava a porre una targa per “celebrare la fine dei quaranta giorni di occupazione”.

Non si può cancellare la realtà storica, e cioè che l’arrivo dell’Esercito jugoslavo a Trieste ha significato la sconfitta del nazifascismo, e che i tanto conclamati “crimini delle foibe” sono nulla più che l’esagerazione esasperata di fatti avvenuti a Trieste come in tutte le altre città alla fine del secondo conflitto mondiale, e che vengono stigmatizzati nel modo che sappiamo solo perché a Trieste i partigiani ed i liberatori erano “slavi” e “comunisti”. Che invece di considerare che alla fine della guerra si ebbero in tutta Europa episodi di giustizia sommaria, qui si parla di “martiri delle foibe” comprendendo anche persone che avevano collaborato con il nazifascismo, che avevano fatto parte di organismi di repressione che rastrellavano, torturavano, assassinavano e mandavano a morire nei lager gli antifascisti e gli ebrei e gli “slavi” considerati “razze inferiori”; e che, atteggiamento schizofrenico tipicamente italiano, il 27 gennaio si commemorano alla Risiera le vittime di alcune persone che vengono commemorate il 10 febbraio.

Ho scritto che non si può cancellare la realtà storica, ma ho sbagliato: avrei dovuto scrivere che non si dovrebbe cancellarla, dato che per potere possono e lo stanno facendo.

Ed intanto il nazifascismo sta riprendendo piede in tutta Europa: ma ad essere criminalizzati, in Italia, sono solo gli antifascisti di sinistra.

Claudia Cernigoi, 25 luglio 2014
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Jugoslavi a Trieste, 2 maggio 1945



Trieste e la targa della “falsa” liberazione del 12 giugno 1945. Alcune menzogne dei 42 giorni di Trieste

Il primo maggio del 1945 alle sei di mattina con cinque carri armati leggeri e duecento mitragliatrici, i partigiani jugoslavi, entrando a Trieste, libereranno la città dall’occupazione nazifascista. Ma da quel momento sino al 12 giugno 1945 e soprattutto dopo il 12 giugno 1945, quando le truppe dell’esercito jugoslavo abbandoneranno la città in relazione agli accordi come maturati con gli anglo-americani nel 9 giugno del 1945, vi sarà una campagna di falsificazione storica, di revisionismo storico, talmente folle che è diventata verità, verità fatta propria anche dalla sinistra istituzionale. La liberazione di Trieste verrà trasformata in occupazione di Trieste. L’occupazione di Trieste da parte dei partigiani jugoslavi, nella memoria storica sia locale che nazionale, come condizionata da diverse falsità, diventerà più violenta ed irruenta di quella nazifascista. Si parlerà poco per esempio del 27 marzo 1944, quando in città vennero impiccati pubblicamente quattro partigiani del “Battaglione Triestino”: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio Visini e Livio Stocchi, si parlerà poco del  3 aprile quando vennero impiccati settantadue ostaggi in rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza a Opicina  del 29 aprile, quando per rappresaglia rispetto all’uccisione di cinque tedeschi avvenuta a via Ghega a Trieste, i nazisti impiccarono altri cinquantasei partigiani, si parlerà molto, invece, della caccia all’italiano, falsa, esercitata dai partigiani jugoslavi. Si ricorderà poco, a livello nazionale, l’esistenza della Risiera, si ricorderà molto, invece tutta la mistificazione delle vicende delle foibe o dell’esodo e dei “tremendi” 42 giorni di Tito. Andando a rileggere i giornali di quel tempo, che in sostanza dedicheranno sempre spazio alla questione di Trieste, ben emerge la denuncia della menzogna come esercitata da diverse agenzie di stampa. Non si parlerà per esempio del fatto che dieci mila triestini erano riuniti in piazza a gridare viva Tito viva gli alleati antifascisti, la sera antecedente l’approvazione dell’accordo che avrebbe sancito il passaggio di poteri. Addirittura lo stesso Vescovo di Trieste dichiarerà che “l’atteggiamento delle autorità jugoslave e locali nei riguardi del clero sono invariabilmente corrette e rispettose” sull’Unità del 10 giugno del 1945 e la fonte sarà l’agenzia Reuters smentendo anche le voci che dicevano che il Vescovo fosse stato sottoposto a domicilio coatto da parte dei partigiani jugoslavi.  Unità, che come è noto, non è mai stata benevola nei confronti di Tito, e non aveva alcun interesse a tutelare la sua figura ed il suo ruolo. Il 17 maggio del 1945 si leggerà che a Trieste non vi sono state “Né stragi, né deportazioni di massa, né caccia all’italiano” ed a dire ciò sarà la signora Sprigge del Manchester Guardian .
Velio Spano, che sarà successivamente membro dell’Assemblea costituente e senatore per le prime quattro legislature nell’Unità del 18 maggio del 1945 scriverà, in prima pagina, che andavano denunciate le falsità delle agenzie di stampa, sulla questione di Trieste, che avevano l’unico scopo di risvegliare “sentimenti nazionalistici e residui di fascismo” .
Come falsa sarà, per esempio, la notizia dell’ultimatum all’esercito di Tito. Il 19 maggio del 1945, dopo una riunione avvenuta al Rossetti, nascerà il comitato congiunto italo sloveno per l’amministrazione civile di Trieste, il corrispondente dell’Associated Press di Trieste renderà noto che vi erano trattative tra l’esercito jugoslavo e quello anglo americano e che i  rapporti erano cordiali, come diranno diverse agenzie di stampa anche del 31 maggio del 1945.
Dunque certamente i partigiani jugoslavi non potevano avere alcun minimo tipo di interesse, vista la situazione, di realizzare persecuzioni o violenze nefaste, sarebbe stato un controsenso illogico, sarebbe stato come buttarsi la zappa mortale sui piedi.
Non si deve poi dimenticare che in quel periodo, in Italia, operavano i Tribunali straordinari per i collaborazionisti del nord, come da decreto del 22 aprile 1945, vi era la pena di morte per coloro che venivano accusati di aver avuto le maggiori responsabilità, ciò per far capire il clima di quel tempo, stesso discorso, in un certo senso, accadeva sotto la vigenza dell’esercito di liberazione jugoslavo, la guerra non finisce con la data stabilita a tavolino, gli effetti della guerra continuano nel tempo con le inevitabili  condanne anche a morte di chi fino a qualche giorno prima si era reso complice, direttamente od indirettamente, del regime fascista e nazifascista. Ed allora il fatto che la così detta sinistra voglia fare propria l’iniziativa di forze reazionarie e di destra, quale quella di dover considerare il 12 giugno come la vera liberazione di Trieste, come quella di dover considerare i 42 giorni di amministrazione italo-slovena e jugoslava a Trieste come tremendi, come momenti bui, equiparati all’occupazione nazifascista è una falsità storica sconvolgente.
Degli errori ci saranno stati, ma deve seriamente indurre alla riflessione ma anche alla reazione, quando accade che le istanze di forze nazionalistiche, che poi erano quelle che facevano circolare le false notizie e falsi allarmismi in quel tempo, vengono fatte proprie da forze politiche che deriverebbero proprio dalla resistenza, quella resistenza che si è battuta contro la menzogna e contro i fascismi. Il 12 giugno 1945 non vi è stata nessuna liberazione di Trieste, la forza che ha liberato Trieste, ha ceduto i poteri agli anglo-americani. Ed allora, per rigor di logica, se occupanti erano gli jugoslavi, occupanti saranno anche gli anglo-americani, occupazione che è continuata in Italia in modo poi non tanto sottile fino ai giorni nostri. D’altronde in Italia non vi è mai stata una Repubblica indipendente e la nota strategia del terrore, quale quella della tensione, deve essere letta anche in questo cupo ambito.
Ora, si dirà, perché questo intervento? Perché è stata rinnovata la promessa, da parte di alcuni esponenti politici locali, di voler realizzare una targa, a Trieste, finalizzata a ricordare il 12 giugno del 1945 come giorno della liberazione della città.

Marco Barone
13/06/2014
fonte: Blog di Marco Barone
Trst i natpis „lažnog“ oslobođenja 12 juna 1945. Neke od laži o 42 dana Trsta

Prvog maja 1945 u šest sati ujutro sa pet lakih tenkova i sa dvije stotine mitraljeza jugoslavenski partizani su ušli u Trst, oslobodivši grad od nacifašističke okupacije. No od tog trenutka do 12 juna 1945, a naročito nakon 12 juna 1945, kada su jugoslavenske trupe napustile grad prema dogovoru do kojeg je došlo sa Anglo-Amerkinacima, 9 juna 1945, počela je kampanja povijesne falsifikacije i historijskog revizionizma i tobožnjih istina, koju je prisvojila i službena tobožnja ljevica. Oslobođenje Trsta pretvorilo se u okupaciju Trsta. A okupiranje Trsta od strane jugoslavenskih partizana, u historijskom pamćenju, bilo lokalnom, bilo nacionalnom, uvjetovano raznim neistinama, bit će opisano kao još gore i još nasilnije od nacifašističke okupacije.Tako će se, na primjer, jako malo govoriti o 27 martu 1944, kad su u gradu javno obješena 4 partizana iz „Trešćanskog bataljona“: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio Visini i Livio Stocchi, i jednako tako još manje će se govoriti o 3 aprilu, kad će biti obješena 72 taoca u ime odmazde zbog atentata, koji je izvršio Pokret Otpora u Opicini i još manje će se spominjati 29 april, kad su iz odmazde za ubojstvo petorice Nijemaca objesili pedesetišest partizana, ali će se zato govoriti mnogo o izmišljenom lovu na Talijana, koji su tobože izvršili jugoslavenski partizani. Na nacionalnoj razini malo će se tko sjećati postojanja logora za eksterminaciju Risiere, ali će se naveliko govoriti o cijeloj toj mistificiranoj priči oko foibi ili o masovnom ekzodusu talijanskog življa, kao i o „užasnih“42 dana Tita. Ako ponovo pročitamo novine iz tog doba, koje gotovo uvijek daju dosta prostora tršćanskom pitanju, dobro se vidi da neke novinske agencije iznose neistine. Ne govori se na primjer o činjenici da se 10 tisuća Tršćana okupilo na trgu uz povike Živio Tito, živjeli antifašistički saveznici, uvečer, prije potpisivanja dogovora, koji će ratificirati primopredaju vlasti. Čak je i sam tršćanski biskup izjavio „odnos jugoslavenskih vlasti i njihovih lokalnih uprava prema kleru bilo je bez izuzetka korektan i ispunjen dužnim poštovanjem“, kako piše list Unità 10 juna 1945, a izvor je Reuters, koji na taj način demantira, da se nadbiskup nalazi u kućnom pritvoru, koji su mu odredili jugoslavenski partizani. Unità nikada nije, kako je opće poznato, bila naklona Titu i nije imala baš nikakvog interesa da štiti utisak, koji je on ostavljao, a još manje njegovu ulogu. Dana 17 maja može se pročitati da u Trstu „Nije bilo ni pokolja, ni masovnog deportiranja i još manje lova na Talijane“, a to izjavljuje gospođa Sprigge iz Manchester Guardiana.
Velio Spano, koji će potom biti član Ustavotvorne skupštine i senator u prva tri saziva parlamenta, u listu Unità od 8 maja 1945 napisat će, na prvoj strani, da treba optužiti laži novinskih agencija po pitanju Trsta, čiji je cilj da probude „nacionalističke osjećaje i ostatke fašizma“.
Isto će tako biti lažna vijest, na primjer, o ultimatumu, kojeg je dao Tito. Dana 19 maja 1945, nakon sjednice, koja je održana u kafani Rossetti, nastat će sjedinjeni talijansko-slovenski komitet za civilnu administraciju Trsta, a dopisnik Associated Pressa će objaviti, da su u toku pregovori između jugoslavenske vojske i angloameričkih snaga i da su njihovi odnosi srdačni, kako će to potvrditi različite novinske agencije dana 31 maja 1945.
Dakle jugoslavenski partizani nisu mogli imati ni najmanje interesa, s obzirom na postojeće stanje, da vrše progone ili pogubna djela nasilja, jer to bi predstavljalo nelogičnu besmislicu i značilo bi zadati sebi smrtni udarac pijukom po vlastitim nogama.
Ne treba zaboraviti da su u to vrijeme u Italiji djelovali Izvanredni Narodni Sudovi, koji su sudili kolaboracioniste na sjeveru zemlje, te prema dekretu od 22 aprila 1945, mogli su izricati i smrtne kazne za one, koji su bili optuženi da su najjodgovorniji za prošlost, a to sve kako bi se shvatila klima tog vremena te isto vrijedi, u izvjesnom smislu, i za upravljanje gradom pod jugoslavenskom oslobodilačkom vojskom. Rat naime ne završava onog datuma kad je to potpisano za nekim stolom, a posljedice rata protežu se kroz vrijeme, sa neizbježnim osudama, čak i na smrt, onih, koji su do prije par dana bili direktni ili indirektni suučesnici fašističkog ili nacifašističkog režima. Otuda potječe činjenica što tobožnja ljevica želi prisvojiti inicijativu reakcionarnih snaga i onih desnih, a one žele 12 juna proglasiti danom istinskog oslobođenja Trsta, kao i to da se 42 dana talijansko-slovenske administracije, zajedno sa jugoslavenskom, grada Trsta, moraju smatrati za užasne, mračne trenutke, izjednačene sa nacifašističkom okupacijom, što predstavlja zapanjujući i ogavan historijski falsifikat.
Nesumnjivo je da su počinjene greške, ali treba se zamisliti, i to ozbiljno - a bilo bi potrebno na to i odgovoriti - nad slučajem, kad se dogodi, da tvrdnje nacionalističkih snaga, i to upravo one koje su kružile u prošlosti kao lažne vijesti za lažno uzbunjivanje, postanu stanovište onih političkih snaga, koje su proizlazile baš iz Pokreta otpora, onog istog Pokreta otpora, koji se borio protiv laži i protiv svih lica fašizma. Dana 12 juna nije bilo nikakvog oslobođenja Trsta, već je vojna snaga, koja je oslobodila Trst, predala grad Anglo-Amerikancima. A osim toga, kad bi smo bili strogo logični, ukoliko su okupatori bili Jugoslaveni, isto tako morali bi biti okupatori i Anglo-Amerikanci, a ta se okupacija nastavila u Italiji i to ne uvijek na suptilan način, sve do današnjih dana. Uostalom, u Italiji nikad nije postaja Nezavisna Republika i strategija strave, koju je ustvari predstavlala strategija napetosti, kroz koju smo prošli, treba također biti čitana u kontekstu tih zbivanja.
Sad će se netko zapitati, zašto sam sve ovo kazao? Stoga jer je obnovljeno obećanje, od strane nekih lokalnih političara, da se u Trstu postavi ploča s natpisom, koji bi podsjećao da je 12 jun dan oslobođenja grada.


Marco Barone
13/06/14


(Prevod: J. Tkalec)



MAGGIO 1945: TRST JE NAŠ!
Una controlettura dei 42 giorni

di Vincenzo Cerceo - Dossier de La Nuova Alabarda, 2007

All’epoca dell’occupazione jugoslava
il maggior numero di arresti, deportazioni ed uccisioni
era stato provocato ed eseguito da elementi locali,
il più delle volte per vendette personali”.
Dai “Diari” di Diego de Henriquez, n. 45, pag. 10.506.

coi budei del più bon s’ciavo impicar el più cativo
(modo di dire triestino di fine ‘800,
tratto dalle carte di polizia dell’Impero
conservate presso l’archivio di stato di Trieste).

se i s’ciavi vol la scola che vadi a star a Lubiana,
Trieste xe italiana e tale resterà
(canzone cantata negli anni ‘50 dagli estremisti di destra triestini).

PREMESSA.
V’è un argomento su cui la storiografia di regime, di destra e di sinistra, va, oggi, assolutamente all’unisono: nella condanna, cioè, assoluta ed acritica dei 42 giorni di amministrazione jugoslava di Trieste, dopo che le truppe di Tito alleate con gli occidentali e con i sovietici in funzione antinazista ed antifascista, ma anche alleate, è bene non dimenticarlo, del legittimo (seppure indegno) governo badogliano dell’Italia dell’epoca, avevano liberato la città dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti locali.
Il IX Korpus, che fu incaricato di marciare sulla città, giunse il 1° maggio 1945, in Trieste con gli organici dimezzati per la durezza dei combattimenti, visto che i tedeschi avevano adottato una strategia ben precisa: arrendersi agli alleati occidentali e combattere fino all’ultimo contro gli “slavi comunisti” allo scopo di tentare a fare sì che fossero per primi gli angloamericani ad entrare in città.
Era, questo, parte degli accordi che il comandante della SS in Italia, generale Wolf, aveva stipulato con Allen Dulles, capo dell’intelligence americana in Europa all’atto di arrendersi agli stessi alleati, ottenendo così salva la vita per ignobili delinquenti quali il generale SS Odilo Lotario Globocnik (un triestino, è bene non dimenticarlo).
A leggere la storiografia odierna su questi argomenti, sembra ormai che tutto sia stato già scritto e che nulla debba essere ancora acclarato, che non occorra più fare ricerca in proposito, visto che, ormai, l’ultima parola è stata già detta.
È cosi che interi archivi, come quello del Comune di Trieste sulla giunta Pagnini, rimangono inesplorati dagli storici professionisti di regime, e, nei confronti di chi azzarda ipotesi ed opinioni diverse, se pure documentate, si esprime il giudizio rapido e sbrigativo di “negazionisti”.
Ancora più impressionante è lo schieramento dei mass-media su questi argomenti: semplicemente, le opinioni di coloro che non sono in sintonia con la verità ufficiale e la verità di regime, vengono taciute. Questa informazione stile Goebbels dei mass-media locali rappresenta, dal punto di vista psicologico, l’equivalente del rogo dei libri proibiti che il Führer ordinò all’inizio del suo potere assoluto; oggi, nell’unidimensionalismo marcusiano che stiamo vivendo, non c’è più bisogno di bruciare alcunché, basta mettersi d’accordo con gli editori e i direttori degli organi di informazione per ottenere gli stessi risultati in modo assolutamente soft, senza clamori, con stile post-moderno.
A volte, questa strumentalizzazione della storia per fini politici da parte di tanti storici ufficiali (qualche eccezione v’è, ma sono, appunto, eccezioni) assume aspetti particolarmente inaccettabili, come nel caso dei “diari” (inediti ma consultabili) che Diego de Henriquez, personaggio triestino strano ed inquietante ma assolutamente scrupoloso ed obiettivo, ha lasciato. Questa fonte, preziosissima, per la storia recente della città di Trieste, è stata trascurata dagli storici, almeno fino ad ora, perché assolutamente scomoda. Approfondiamo ora brevemente questo argomento.

UNA DOCUMENTAZIONE DIMENTICATA.
Presso i Civici musei di Trieste, sono conservati 287 grossi diari, oltre a quaderni di bozze, per oltre 50.000 pagine scritte con scrittura minuta e chiarissima dal professor Diego de Henriquez, un personaggio che i più ricordano come collezionista e raccoglitore di armi ed oggetti di argomento guerrologico o polemologico. In effetti, in questa veste egli compì un’opera davvero eccezionale, lasciando alla città di Trieste una raccolta di centinaia di migliaia di pezzi ancora in fase di sistemazione, che negli anni ‘70 fu valutata oltre 30 miliardi di lire dell’epoca. De Henriquez però fece anche qualcosa di più: a partire dal 1941 e fino alla sua tragica e misteriosa morte avvenuta nel 1974, annotò tutto quello che vedeva e sentiva su delle agende che conservava e catalogava con assoluta pignoleria.
De Henriquez parlava e comprendeva praticamente tutte le lingue d’Europa, aveva fatto studi tecnici ed era preparatissimo in materia di armi, fortificazioni e naviglio di ogni tipo. In tutti questi settori, ad una indiscutibile ed indiscussa competenza tecnica egli aggiungeva soprattutto una grandissima passione. Riuscì ad essere in rapporti di amicizia con tutti gli organi di intelligence dell’epoca: quella tedesca, quella fascista prima e dopo il 25 luglio 1943, quella partigiana bianca, quella jugoslava, quelle alleate. De Henriquez parlava con tutti, riscuoteva la fiducia di tutti ed annotava tutto quello che gli veniva detto.
Negli anni ‘90 i suoi diari furono acquisiti ed in parte fotocopiati da un magistrato veneziano, il dottor Carlo Mastelloni, che ha compiuto e portato a termine l’unica inchiesta giudiziaria complessiva nel nostro paese sull’intera strategia della tensione; un’enorme lavoro, che se pur non ha condotto a sbocchi giudiziari, ha tuttavia contribuito in modo fondamentale a scrivere una pagina di storia italiana decisiva per i tempi recenti e soprattutto ha reso con quella documentazione un servizio impagabile per la democrazia. È bene rilevare che quei diari non sono ancora stati consultati in maniera sistematica da nessuno storico professionista, eppure contengono notizie molto importanti, tali da rendere possibile, se presi in esame, la rimessa in discussione di quasi tutte le certezze che oggi vengono così arrogantemente sbandierate, incluse quelle relative ai 42 giorni di occupazione jugoslava di Trieste. Ma forse è proprio per questo che nessuno li va a vedere?
Noi, che storici non siamo ma giornalisti dediti alla controinformazione, abbiamo potuto consultare alcuni di questi diari ed abbiamo visto come il “professore” parli ad esempio con precisione della sostanziale adesione dell’opinione pubblica cittadina all’amministrazione germanica: quasi la metà della popolazione, secondo lui, collaborò in un modo o nell’altro con i nazisti in quei due anni. Nell’immediato dopoguerra, quando a Trieste erano detenuti molti prigionieri tedeschi, gli stessi militari alleati erano meravigliati per le grandi manifestazioni di solidarietà e di concreto sostegno che uomini e donne triestini dimostravano verso i tedeschi prigionieri, anche SS. Grazie ai triestini molti tedeschi poterono fuggire e de Henriquez indica anche i percorsi e le basi usate per queste fughe: questo però non sembra interessare gli storici, così come nessuno è interessato a casi addirittura vergognosi di collaborazionismo, come quello dell’interprete triestino delle SS che eliminava negli interrogatori, nel tradurre le risposte, tutti quegli elementi che avrebbero potuto giocare a favore dell’arrestato. O quello dell’avvocato di grido, poi riciclato nel dopoguerra nelle partecipazioni statali, che dopo l’8 settembre 1943 compilò un elenco di 40 ebrei e lo portò al comandante SS di propria iniziativa.
De Henriquez mette poi in evidenza la totale inadeguatezza ed improvvisazione dell’insurrezione di fine aprile ‘45 organizzata dal CVL di Fonda Savio e don Marzari, dimostrando in maniera fin troppo chiara come quell’operazione fosse stata posta in essere solo dopo che i dirigenti del CVL avevano avuto la certezza assoluta della partenza dei tedeschi, allo scopo di giocare dal punto di vista politico una carta in più contro i partigiani filotitini comandati da Franc Štoka, un triestino di Santa Croce, il quale aveva loro comunicato l’intenzione di insorgere il giorno dopo e li aveva invitati ad un’azione comune. Un atto di vera e propria furberia politica, insomma. Leggiamo ancora, che il primo carro armato jugoslavo che giunse a Trieste era guidato da un altro triestino di Santa Croce, Sirk, ed è molto interessante leggere quello che dice il capitano Ercole Miani a proposito di scomparsi ed infoibati: “in effetti gli scomparsi furono poco più di 500 in tutto, ma si continua a parlare di migliaia perché la cosa è utile in funzione anticomunista ed antislava”. Questo esattamente riporta de Henriquez (pag. 12.512, diario 52).
Abbiamo provato a ricostruire le vicende di quei 42 giorni in base ai dati documentali (quei pochissimi e scarsissimamente reperibili ad esempio presso l’archivio storico del Comune di Trieste ed altre fonti). L’impresa è stata ardua ed ha richiesto un grande sforzo di riflessione, perché si è dovuto lavorare sul pochissimo, sulle briciole di documentazione, sulle deduzioni; ma riteniamo che, comunque ne sia valsa la pena.

I “42 GIORNI” IN COMUNE.
Presso l’archivio comunale di Trieste la documentazione dell’attività svolta in quei 42 giorni in cui l’amministrazione comunale continuò a funzionare regolarmente e con lo stesso personale (tranne qualche eccezione) che aveva servito sotto l’amministrazione nazista (nessuna epurazione sommaria e nessun infoibamento di quel personale!) è semplicemente scomparsa. Quando l’esercito jugoslavo abbandonò la città, il 12 giugno 1945 per fare posto agli angloamericani, forse asportò tutto il carteggio prodotto. La cosa ci dispiace, anche perché indica uno stato di inizio di guerra fredda che si manifestava con evidenza. Quelle carte, però, ne siamo convinti, se fossero state lasciate, oggi giocherebbero, e molto, a favore dell’amministrazione jugoslava, che tanto, in tutti i modi, tentò di assicurare una normalità alla popolazione di questa città.
La loro mancanza consente di parlare di terrore, disordine, arbitrio e così via, ma abbiamo motivo di ritenere che non fu esattamente così.
Se facciamo riferimento ai “diari” di de Henriquez, quanto si legge nel diario n. 45 è estremamente chiaro: l’esercito jugoslavo, secondo il “professore”, aveva l’ordine preciso di usare moderazione e suo compito fu anche quello di impedire che a livello locale le inevitabili vendette diventassero eccessive. Di quella documentazione però sono rimaste davvero solo briciole; per ricostruire a livello documentale qualcosa bisogna usare il metodo deduttivo, partendo, ad esempio dall’amplissima documentazione che il governo militare alleato ha invece lasciato.

I “DANNI”.
Il 17/6/45 il governatore militare angloamericano di Trieste che gestiva la città in assenza di un’amministrazione civile che gli alleati (contrariamente a quanto avevano fatto sia i germanici che gli jugoslavi), tardarono molto ad installare ed autorizzarono solo a settembre inoltrato del 1945 emetteva una delibera, la n. 16 UAC, che è integralmente riportata nel registro delle delibere che in quel tormentato 1945 documenta gli atti amministrativi in città di ben quattro gestioni: la filotedesca, la jugoslava, la militare alleata ed infine la nuova amministrazione civile cittadina. Argomento di questa specifica delibera è la regolazione degli ammanchi accertati dopo lo sgombero delle truppe jugoslave dal palazzo municipale. Nei primissimi giorni di maggio, infatti, sia i partigiani sia l’Armata jugoslava occuparono gli uffici comunali paralizzando inevitabilmente l’attività degli stessi, come del resto è ovvio che accada in una situazione di occupazione militare. La cosa però durò solo qualche giorno, dopo di che gli uffici ripresero a funzionare regolarmente con gli stessi dirigenti e lo stesso personale che aveva operato sotto l’amministrazione germanica. Fatti i conti di quanto mancava perché asportato dalle truppe jugoslave che si erano ritirate in seguito agli accordi raggiunti, la somma complessiva è calcolata in Lire 1.102,50. Se si tiene conto che all’epoca lo stipendio di un dirigente comunale superava, e di parecchio, le duemila lire mensili, se ne trae, dunque, la conclusione che i “danni” arrecati all’amministrazione comunale da coloro che avevano liberato la città dai nazisti e dai loro alleati triestini, con eccezionale contributo di sangue versato, ammontava alla metà dello stipendio mensile di un singolo funzionario. L’affitto che Pagnini pagava per l’ufficio del Deutsche Berater (cioè il consulente tedesco, insediato a fianco di ciascun vertice dell’amministrazione, strumento diretto el Supremo commissario del Reich) al Tergesteo era di lunga superiore alle tremila lire. Dunque, se ne trae l’inevitabile conclusione che le truppe jugoslave non effettuarono alcun saccheggio della proprietà pubblica della città. De Henriquez aveva pertanto ragione ad esprimersi in tal modo nei propri diari. Se vogliamo soltanto fare un paragone tratto dai diari di de Henriquez, vediamo che altrove ad opera di altri “liberatori” non fu sempre così: ad esempio, dopo la liberazione di Macerata, dove si erano acquartierate truppe polacche, la popolazione dovette presto chiedere l’allontanamento di quei soldati perché rissosi, violenti, ubriaconi, attaccabrighe e soprattutto ladri e saccheggiatori. Sono questi paragoni che a nostro parere andrebbero fatti.

AMMINISTRAZIONE.
Il 13 giugno 1945 l’amministrazione alleata acquisiva a protocollo una lunga e dettagliata relazione sulla situazione dell’Acegat (Azienda Comunale Elettricità, Gas, Acqua e Trasporti), la quale ovviamente era stata preparata e stesa dall’amministrazione jugoslava per se stessa, non potendo certo conoscere in anticipo i funzionari dell’Acegat la data di partenza delle truppe jugoslave e la data del cambio di amministrazione. È un documento molto analitico e corposo che fa il punto organico, operativo e gestionale di quell’importante settore della vita cittadina: 5.537 impiegati, 1.768 operai e 20 milioni di deficit annuo che si conclude con una richiesta: un contributo straordinario di almeno 10 milioni per consentire alla società di continuare ad operare al minimo di efficienza. E ci sembra una richiesta che si fa non certo nei confronti di nemici o di occupanti che terrorizzano ma verso dirigenti cui ci si rivolge con la fiducia che essi possano risolvere un problema serio. Anche questi elementi riteniamo, vanno presi in considerazione così come vanno prese in considerazione le due lettere interne (le due uniche rimaste presso gli atti della segreteria generale del comune) con cui gli uffici comunali si danno comunicazione che venga informato il pubblico di cambio di locali aperti al pubblico disposti dall’autorità militare. Il tutto nella più normale prassi burocratica, allora come sempre.

LA CRONACA DELLA CITTÀ.
Anche se le carte ufficiali dei 42 giorni sono state portate via dall’esercito jugoslavo il 12 giugno 1945, rimane però la cronaca, abbastanza dettagliata, di quel periodo, così come è riportata dal quotidiano dell’epoca della città: “Il nostro avvenire” (costo: 1 lira). Iniziò le pubblicazioni il 4 maggio 1945, appena liberata la città e le cessò l’8 giugno, alla vigilia del ritiro, concordato con gli alleati, delle truppe jugoslave da Trieste. Sul primo numero, accanto ad una foto in prima pagina del Maresciallo Tito in divisa, sono indicati, anche i primi quattro ordini emessi dalla nuova autorità che viene installata in città, a firma congiunta del Commissario politico Štoka e del Comandante militare, maggior generale Cerni. Si danno direttive sul coprifuoco, sulla consegna delle armi, la divisione della città in quattro settori, l’obbligo per i soldati tedeschi di arrendersi e così via. Al numero quattro va data precisa disposizione a tutti gli impiegati ed addetti civili di presentarsi al lavoro e di far continuare la vita della città nella più possibile normalità.
Il giornale riporta molte notizie di cronaca internazionale e molte notizie di cronaca italiana, politica e non, nonché, ovviamente, la puntuale comunicazione di quanto avveniva in città. Il primo organo della società civile di cui si riporta un comunicato, è il Comitato per la gioventù antifascista, ma ben presto molte altre categorie di cittadini costituiscono le loro associazioni. I fatti luttuosi del 5 maggio, in cui erano avvenute manifestazioni antijugoslave, inducono l’autorità militare a vietare le manifestazioni di odio etnico, mentre viene pubblicato il documento in italiano e tedesco, trovato in tasca ad uno dei feriti, Mascia Augusto, da cui risulta che lo stesso, con il grado di sottotenente, aveva combattuto a fianco della truppe naziste. In seguito a ciò, in un editoriale del 6 maggio, il giornale si sente il dovere di puntualizzare: sacri sono l’amore per la propria lingua materna, il culto per la memoria degli avi, lo studio del pensiero antico e recente dei propri connazionali.
L’8 maggio viene data notizia della costituzione della Commissione mista italo-slovena per l’annona ed il giorno 9 la municipalità triestina riceve la visita del presidente del consiglio del governo della Slovenia inserita nell’Unione jugoslava. Vengono anche costituiti ufficialmente i Sindacati unici per le varie categorie di lavoratori.
Il 12 maggio entra il funzione il CEAIS (Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno), con otto membri italiani e cinque sloveni, a cui l’autorità militare cede i poteri della municipalità, con una rapidità di tempi obiettivamente ammirevole. Sono bastati solo 12 giorni dalla fine degli eventi bellici per ripristinare l’amministrazione civile. Gli angloamericani impiegheranno alcuni mesi.
Del CEAIS fanno parte otto fra partiti ed associazioni, mentre il PSI preferisce rimanere, nello stesso, come osservatore. Intanto molti sono i segnali del ritorno alla normalità in tutti i settori della vita: si dà conto delle modalità di distribuzione del latte a Muggia, e sul giornale ricompare, accanto ai necrologi a pagamento, anche la pubblicità.
Si crea una commissione tecnica per l’attività industriale e si aboliscono con regolare ordinanza, le leggi fasciste sulla razza; si pubblicano i nuovi orari dei programmi radio e si svolge una partita di calcio tra giovani triestini e soldati scozzesi.
Il comitato regionale di liberazione tiene a Trieste la sua prima seduta plenaria, mentre, progressivamente, il coprifuoco che il 1° maggio era stato fissato alle ore 18, viene spostato, in poche settimane, alla mezzanotte. Il 18 maggio a tutta pagina viene data notizia della tenuta assemblea della Consulta cittadina e si regola il commercio di vari prodotti: patate, olii, latte, combustibile, sigarette, vini. Il 21 maggio riapre il teatro lirico con la “Carmen”, seguita subito dal “Rigoletto” e poi dalla “Lucia di Lammermoor”, mentre il 24 maggio gli industriali triestini vanno in delegazione a Lubiana. Si ha tempo, in Comune, anche di festeggiare il genetliaco di Tito.
Il 25 maggio, in un edificio di fronte alla Villa Segrè (dove aveva sede il Comando del II settore cittadino), sede di una caserma di garibaldini, scoppia una bomba con morti e feriti. È il nuovo clima, creato dall’atteggiamento antislavo assunto dal generale Alexander, a cui il governo jugoslavo replica puntualmente. Ma ormai appare sempre più chiaro che la volontà degli alleati, nel silenzio di Stalin è perché Tito si ritiri in là di qualche chilometro e lasci la città.
L’8 giugno il giornale, con una nota di congedo piena di lirismo e di dignità, cessa le pubblicazioni.

1) IL COLONNELLO PESCATORE
Tra le “vittime” del tutto sconosciute della pregiudiziale anticomunista ed antislava di Trieste, vi è, nel 1946, anche il colonnello Pescatore. Chi era? Di lui parla più volte de Henriquez nei suoi diari e lo fa sempre con molta simpatia e solidarietà, dato che cercò anche di aiutarlo nelle sue assurde e paradossali vicende. Il suddetto colonnello era un ufficiale di amministrazione che, durante l’occupazione tedesca della città, aveva prestato servizio presso il Distretto militare, alle dipendenze del generale collaborazionista Esposito. Uno di quelli di Salò, dunque. Il 1° maggio, all’arrivo degli Jugoslavi, mentre tutti o quasi fuggivano e si sbandavano, egli si pose un problema, innanzitutto di coscienza. Il suo ufficio aveva, tra l’altro, il compito di provvedere a preparare le pratiche mensili per il pagamento delle pensioni di anzianità dei militari in congedo, alle indennità di sussidio per le vedove e gli orfani di guerra. Quale sarebbe stato il destino di tutti costoro se anche i suoi dipendenti se ne fossero andati? Convocò gli uomini e tenne loro questo discorso: non abbiamo commesso, noi dell’amministrazione, reati e crimini durante il periodo nazista, noi rimaniamo qui per svolgere il nostro compito di sempre presso il Distretto militare, per non lasciare morire di fame i vecchi, gli orfani e le vedove che vivevano dei sussidi loro erogati. Tra l’altro, allora, nessuno poteva assolutamente prevedere che il periodo di gestione jugoslava del potere a Trieste sarebbe stato così breve.
Rimasero 18 militari alle sue dipendenze. Il loro colleghi jugoslavi capirono il problema e li lasciarono al loro posto con un ufficiale di collegamento del IX Korpus presso il loro ufficio, come è normale che accada in simili casi. Nessuno chiese loro conto dei precedenti collaborazionisti, nessuno li “infoibò” o “deportò”. Quando giunsero gli angloamericani, essi continuarono ancora a lavorare presso il Distretto, così come avevano fatto con i germanici, e poi con gli jugoslavi, in base alle leggi internazionali di guerra; ma le associazioni nazionalistiche che proliferavano in città foraggiate dal governo di Roma, e che nulla avevano avuto da ridire a proposito di italianità allorché questi soldati avevano operato alle dipendenze del Gauleiter nazista Rainer, ora si dichiararono scandalizzati e protestarono presso gli alleati: come si poteva lasciare il Distretto in mano a chi aveva “lordato la divisa” collaborando con i “titini”? La cosa durò fino al marzo 1946, con attacchi subdoli e velenosi, fino a che la polizia militare alleata non arrestò il colonnello ed i 18 dipendenti. Perché? Per avere collaborato con i “titini”? Nossignore, naturalmente, e del resto la cosa sarebbe stata giuridicamente, oltre che politicamente, molto problematica da proporsi, ma per la loro attività prestata sotto l’autorità tedesca! Fu, ovviamente, una scusa volgare posta in essere per tacitare i neo-fascisti e per alimentare a livello subliminale, la nascente guerra fredda. Fu così che il colonnello ed i suoi uomini furono internati in un campo di rieducazione per fascisti fanatici in Toscana, con grave rischio per la loro stessa incolumità fisica; i fascisti autentici ivi detenuti, infatti, presero subito le distanze da questi “filo-comunisti” e li emarginarono. I militari furono comunque ben presto liberati e chiamati a Roma presso il Ministero, dove fu loro fatto questo discorso: nei loro confronti non veniva rivolta alcuna accusa, ma, dati i trascorsi “titini”, per motivi di opportunità politica essi sarebbero rimasti in servizio fino al limite di età a stipendio pieno, ma con il divieto di indossare la divisa e di frequentare le caserme.
Ognuno poté scegliersi un distretto militare di gradimento e qui furono trasferiti. Quasi tutti i sottoposti di Pescatore furono ben lieti di questa insperata fortuna che era loro capitata, ma il colonnello, che aveva altre aspirazioni ed altri principi etici, rimase molto male per questa ingiustizia che pose anticipatamente fine di fatto, se non di diritto, alla sua carriera. Nei suoi confronti gli angloamericani si comportarono in modo molto peggiore degli jugoslavi, che avevano invece rispettato la lealtà della sua scelta.

2) I SOLDI DEI NAZISTI.
Quando il 1° maggio 1945 le truppe jugoslave liberarono la città di Trieste dai nazisti, delle stesse facevano parte numerosi triestini, sia di lingua slovena, sia di lingua italiana. Uno di questi “reduci”, vissuto in città fino a non molti anni fa raccontava questo aneddoto: dopo la resa dei tedeschi egli fu tra coloro che entrarono nel palazzo del governatorato nazista, l’attuale palazzo di giustizia. Trovarono tra l’altro grossi rotoli di banconote italiane, che i tedeschi avevano abbandonato. Erano fatti in carta filigranata, quindi, da questo punto di vista, perfettamente “legali”, ma non provenivano dall’istituto di emissione: i tedeschi le stampavano “in proprio” con materiale autentico, e le distribuivano con larghezza ai loro reparti in Italia, i quali non avevano, così facendo, alcun problema a pagare quello che acquistavano. La cosa trova conferma anche da altre testimonianze triestine. Le autorità militari jugoslave fecero immediatamente bruciare quelle banconote, e la cosa dispiacque molto ai soldati che le avevano trovate; il nostro, in particolare, ancora negli anni recenti, si innervosiva contro i suoi superiori nel ricordare quello “scempio”: ma come, erano soldi “buoni”, gli stessi che usavano i triestini, e loro li bruciavano? È una cosa che al vecchio triestino che aveva combattuto con Tito, non è mai andata giù, che non è mai riuscito a capire, fino alla fine. Omettiamo il nome di questo testimone per rispettare la sua volontà di non essere collegato a questa vicenda col proprio nome.

3) IL COMITATO ED IL CONSIGLIO.
Dal 1° maggio 1945, con la città controllata dalle truppe jugoslave, si costituì presso l’Amministrazione comunale di Trieste prima un Comitato esecutivo e poi un Consiglio di Liberazione, che svolsero l’attività amministrativa. Dunque nessuna soluzione di continuità, neanche giuridica, con l’amministrazione precedente da questo punto di vista. Poiché non esiste nessun alto ufficiale accessibile che ne chiarisca gli effetti giuridici, l’esatta composizione, le finalità e le funzioni, tali organi, che pure operarono al posto della vecchia giunta collaborazionista di Pagnini, rimangono indefiniti, quasi fossero semplici situazioni di fatto. Si trattava invece della legittima autorità civica dell’epoca. Durante i 42 giorni, tali organismi si riunirono sette volte ed emanarono 21 delibere, che venivano predisposte dai funzionari responsabili dei singoli settori dell’amministrazione comunale, tutti confermati nei loro incarichi (neanche questi, dunque, “infoibati” o deportati) e firmate dal presidente del Comitato esecutivo o del Consiglio di Liberazione. Le delibere stesse diventavano immediatamente esecutive in mancanza di organi superiori o di controllo, che normalmente avallano le stesse in situazioni di non eccezionalità.
La stessa cosa accadrà anche dopo il 12 giugno con l’amministrazione militare alleata angloamericana.
La prima delibera porta la data del 17 maggio ed ha per oggetto: “Revoca della licenza comunale del servizio di autovettura di piazza a Loy Mauro, ed assegnazione della stessa alla vedova Loy Maria”.
L’ultima delle delibere “titine”, invece, la n. 21, tratta della pensione vedovile assegnata a Zorzini Antonia. Tutte le altre avevano per oggetto argomenti della più assoluta normalità: pensioni, loculi cimiteriali, sgravi d’imposta, compensi a dipendenti e così via. Firmatari delle suddette delibere furono prima Štoka e poi Rudi Ursič, facenti funzioni di sindaco in quella Amministrazione provvisoria. Ma non solo: poiché il podestà Pagnini aveva ritenuto di dover deliberare con ritmo frenetico fino al 29 aprile, mentre tutto attorno crollava, il presidente Štoka ritenne di dovere controfirmare e rendere così esecutive decine di delibere che ancora erano in sospeso, e così fu assicurata per i cittadini la continuità della gestione amministrativa dal periodo nazista a quello democratico. Una continuità che un fanatismo cieco si ostina inutilmente a negare. Di tutto questo aspetto di normalità dei 42 giorni “titini” infatti, a Trieste nessuno parla, come se vi fosse stato, in città, un regime di terrore totale. Ciò non risulta affatto dalla documentazione ufficiale rimasta, purché la si voglia esaminare con obiettività.

ARRIVANO I NOSTRI.
Non avevano certo gli stivali a speroni ed i cappellacci da cow boys, ma l’essenziale c’era, e cioè il senso di arroganza, il disprezzo verso gli altri, tutto ciò insomma che ha fatto odiare da tutti gli altri popoli prima gli inglesi e poi i loro eredi statunitensi.
Proviamo a vedere infatti cosa accadde esattamente il 12 giugno, quando gli uomini di Alexander, cioè del colonnello Bowman, sostituirono con un regolare passaggio di consegne fra alleati (anche qui tutto nella norma dunque), le truppe jugoslave.
Il primo documento della nuova amministrazione esclusivamente militare alleata (ribadiamo qui che, contrariamente a quanto avevano fatto a Trieste i germanici prima e gli jugoslavi poi, i quali subito avevano creato un potere civile, la municipalità civile cittadina fu, dagli angloamericani, autorizzata solo a settembre inoltrato) il primo documento alleato dunque fu il proclama n. 1 a firma Alexander, il generale cioè che sollevava in Africa le risate e l’ironia di Churchill per la sua boria e per il suo esagerato esibizionismo. È uno di quei documenti tronfi ed arroganti con i quali i militari inglesi (ma non hanno davvero l’esclusiva in questo campo!) sanno rendersi da sempre altamente antipatici. Dopo aver dichiarato di assumere tutto il potere nella città liberata dai nazisti (viene quindi del tutto omessa la parte riguardante l’entrata in città delle truppe jugoslave!) Alexander si esprime con estrema chiarezza nei confronti dei cittadini di Trieste. In sostanza ultima ecco qual è il messaggio che lancia agli stessi: qui comandiamo noi, ed intendiamo esercitare tutto il potere nella maniera più totale come si conviene ad un esercito vincitore ed occupante. Voi dovete fare quello che vi ordiniamo e senza discutere, altrimenti ne pagherete le conseguenze davanti ai Tribunali militari alleati: infatti con questo proclama venivano istituiti anche i Tribunali militari alleati. A capo del Comune fu posto un ufficiale inglese, a cui i capi ufficio dovevano rendere conto e che doveva avallare tutti gli atti affinché divenissero esecutivi.
Veniva poi elencata una lunga serie di comportamenti illegali di competenza delle Corti militari alleate di cui sopra: proviamo ora a vederne qualcuno in sintesi, e tra i più significativi tra la numerosissima casistica che veniva ipotizzata. Il comma 21 prevedeva la Corte marziale con possibilità anche di condanna a morte per “chiunque inciti all’insurrezione contro l’autorità militare occupante”. Ci chiediamo qui cosa dunque avrebbero fatto gli angloamericani se i triestini avessero inscenato contro di loro manifestazioni ostili del tipo di quella che fu posta in essere contro l’autorità jugoslava il 5 maggio, non appena la città era stata liberata. Conviene ricordare a questo proposito, che il 5 maggio la vicinissima Slovenia era ancora in gran parte occupata da truppe tedesche in armi e in guerra contro gli jugoslavi: si poteva in alcun modo escludersi che costoro, nel ripiegare verso il confine austriaco, decidessero di dirigersi ancora su Trieste? La guerra era ancora in corso e combattimenti si svolgevano ancora in città. A voler guardare le cose in maniera assolutamente obiettiva, la repressione jugoslava, inevitabile in quella circostanza, non fu affatto eccessiva.
Ricordiamo inoltre che durante i 42 giorni operò in città il IV CVL, costituito da elementi della ex Brigata Venezia Giulia riorganizzatasi proprio in funzione antijugoslava: esso operò con volantini, scritte murali, trasmissioni radio e varie missioni, anche fuori Trieste, incitanti i triestini alla ribellione; ma furono anche compiuti atti ostili concreti, come attentati dinamitardi e atti di intimidazione, contro i cittadini che operavano con la nuova e legittima autorità civile, insediata da chi aveva liberato la città dai tedeschi (atti questi rivendicati dagli stessi “diari” del CVL clandestino dei 42 giorni, sull’attività del quale vi rimandiamo al dossier “Luci ed ombre del CLN triestino in questo sito).
Il contenuto del comma 21 della legge penale di Alexander, comunque avrebbe autorizzato pienamente ogni repressione militare fino alle condanne a morte (che non vi furono) per ogni comportamento simile a quello dei manifestanti del 5 maggio.
Ciò che fecero le truppe jugoslave nella circostanza avrebbe quindi dovuto avere il totale avallo di Alexander. Il comma 30 prevedeva la corte marziale, per “chiunque produca o diffonda materiali irriguardosi verso le truppe alleate”. Cosa dunque dire della scritte antijugoslave e dei volantini che furono diffusi in tutti i 42 giorni?
Il comma 31 poi colpisce davanti agli stessi tribunali chiunque “pronunci discorsi e parole ostili contro gli occupanti” mentre il 33 vieta, sotto gravissime pene, “ogni manifestazione non autorizzata di qualsiasi genere”.
Ma non basta: il comma 38 vieta che si spargano “faziosità per allarmare la popolazione”. Quante voci, risultanti poi artificiosamente false, furono spese ad arte contro gli jugoslavi durante i 42 giorni, e poi anche sotto l’amministrazione angloamericana? La notizia falsa dell’uccisione ed infoibamento di militari neozelandesi continua ancora oggi, pervicacemente, benché lo stesso governo neozelandese l’abbia ufficialmente e con documento scritto e reso pubblico, dichiarata priva di ogni fondamento, come testimonia una lettera pubblicata sul periodico di Cividale “Novi Matajur” del 25/4/96).
Su questi argomenti i diari di Diego de Henriquez riportano un accurato florilegio al di là di ogni dubbio, e con ampio dettaglio, anche se nessuno storico ufficiale né alcun opinionista di regime ne tiene conto.
Il comma 42 poi vieta che si disobbedisca in qualsiasi modo a qualsiasi soldato alleato ed il comma 43 vieta ogni forma anche indiretta di fascismo (ma senza ottenere, a Trieste, grande risultato, dato che le organizzazioni neofasciste armate qui erano pagate direttamente dal governo di Roma).
Infine, per concludere, il comma 45 parla di qualsiasi altro atto, non previsto dai precedenti commi, che comunque possa danneggiare il buon ordine della vita nel territorio occupato; una particolare norma giuridica “aperta” dunque, che con un po’ di buona volontà avrebbe potuto mandare nelle galere militari triestine qualsiasi cittadino: ubriachi che schiamazzano, prostitute, ragazzi che schiamazzano, e così via.
Il 14 giugno furono sciolti tutti i corpi militari e di polizia, anche la Difesa popolare.

CONCLUSIONE.
Vogliamo ora, al termine di questo discorso, provare a trarre delle conclusioni circa il comportamento realmente tenuto dalle autorità jugoslave durante il periodo dei 42 giorni a Trieste, partendo da dati di fatto e non da pregiudizi e preconcetti propagandistici utili al clima di “guerra fredda”, provando a ragionare, documenti alla mano, e non ad inveire o recriminare in base ad animosità irrazionali.
Appare quindi chiaro come, in precedenza, sia stata posta in essere verso le popolazioni slave del confine italiano un’opera addirittura feroce di persecuzione e di snazionalizzazione forzata, che risale all’epoca pre-fascista. Non mancano in proposito documenti e pubblicazioni significative, un breve elenco delle quali pubblichiamo in Appendice a questo scritto.
Se si guarda in progressione temporale la carta geografica di questa regione, si nota come dal 1866 al 1945 sia stato il confine italiano a spingersi verso est in maniera abnorme, fino ad includere l’assurda e paradossale “provincia di Lubiana”, occupata senza dichiarazione di guerra, e non il confine jugoslavo a spingersi ad ovest. È difficile, dunque, in base a questi elementi parlare di tendenza all’espansionismo slavo; è inevitabile invece, se si vuole essere obiettivi, parlare di espansionismo italiano in funzione anti-slava verso est, il che ha provocato una reazione concretizzatasi, nel 1945, nella pretesa jugoslava di includere, nello stato socialista che si stava formando, tutte le zone etnicamente miste ad est dell’Isonzo.
Si tratta, naturalmente, di drammi storici, di azioni e reazioni in cui è possibile che i ruoli si invertano; e così è stato, appunto, in questa nostra vicenda, ma, a voler tirare ora le somme dei torti e delle ragioni, è difficile negare che i torti storici, da parte italiana, siano stati di entità davvero notevole. Il tutto però, ribadiamo, va necessariamente contestualizzato in una realtà storica, se si vuole davvero comprenderne le cause. Se poi ci limitiamo all’ultima fase 1940-1945, al periodo cioè della guerra, vediamo come all’invasione italo-germanica della Jugoslavia (invasione che avvenne prima di qualunque “occupazione” jugoslava di Trieste, e non viceversa!) abbia seguito, da parte italiana, un’attività repressiva contro le popolazioni civili slovene fatta di massacri e deportazioni, che va obiettivamente inquadrata nella categoria dei crimini di guerra che oggi il diritto internazionale ha codificato.
L’Italia però ha protetto i suoi criminali di guerra: anche di questo parla, e molto, de Henriquez, nei suoi diari che nessuno storico vuole ancora prendere in esame. Se azioni di vendetta e di ritorsione sono state poste in essere nel 1945, ad opera di singoli appartenenti alle forze armate jugoslave (cosa certo molto triste e spiacevole), oltre alle condanne comminate nei tribunali jugoslavi, non si può però ignorare che esse sono avvenute solo dopo le azioni criminali dell’esercito italiano ordinate dal governo fascista, forse anche come ritorsione alle stesse, benché non solo come tali. Per questo riteniamo che l’analisi di quegli eventi richiederebbe il massimo di obiettività storica; al contrario essi vengono invece analizzati con il massimo di animosità acritica possibile, e finché a far ciò sono uomini politici che fanno il loro mestiere che prescinde dalle categorie morali (secondo il noto giudizio di Benedetto Croce), la cosa è opinabile ma accettabile. Il problema è quando a fare questo sono anche storici di professione, i quali sarebbero invece deontologicamente tenuti al dubbio critico: in tal caso essi semplicemente abdicano alla loro funzione scientifica per tornare alle categorie crociane, e vanno di conseguenza inseriti nella categoria del politico e non della scientificità.
Dopo che gli italiani avevano asservito Lubiana e l’avevano posta sotto occupazione militare, gli jugoslavi tentarono in modo analogo, imitandoli (avendo vinto la guerra) di incorporare e rendere Trieste jugoslava, ma abbandonarono tale progetto in seguito a trattative internazionali con pieno rispetto delle regole della politica estera e della diplomazia, e ciò nonostante che, per cacciare via i tedeschi da questa città (dove, secondo de Henriquez, una buona metà dei triestini aveva in un modo o nell’altro collaborato con i nazisti) il “IX Korpus” fosse giunto ad Opicina con gli organici addirittura dimezzati per la durezza dei combattimenti. Riteniamo che un minimo di riconoscenza per quelle perdite andrebbe concessa da parte di questa città.
Se scendiamo nel concreto, data l’ostilità con cui parte della popolazione triestina (un’altra parte numericamente meno consistente era favorevole agli jugoslavi) accolse gli jugoslavi, c’è da dire, sicuramente, che atti di particolare durezza non furono compiuti dagli stessi, benché comportamenti che gli angloamericani, come abbiamo visto, definirono poi “criminali” se rivolti contro di loro, fossero molto frequenti in città. Non si può dimenticare, del resto, che si usciva da una guerra orribile, iniziata dal fascismo (alleato con i nazisti) nella quale le colpe obiettive italiane erano molte e molto gravi.
Molto è stato detto e verrà ancora detto contro quella amministrazione dei 42 giorni, ma, al di là delle necessità propagandistiche nell’ambito della “guerra fredda”, se uno storico obiettivo vorrà scrivere di quel periodo dovrà, secondo me, concludere che fu una occupazione militare caratterizzata quindi in tal senso, in cui però gli elementi di tattica politica prevalsero (si potrà anche opinare che prevalsero strumentalmente, ma indubbiamente prevalsero) sullo spirito di violenza da parte degli occupanti. Le vendette che vi furono erano, purtroppo, ampiamente prevedibili, ma bisogna rilevare che la loro entità non corrisponde certamente a quanto dichiarato dai propagandisti antijugoslavi, come la ricerca seria va, alla fine, scoprendo, e rendendo pubblici i dati relativi.


La pubblicazione del presente breve studio ha richiesto la consultazione dei seguenti documenti:
- atti di segreteria generale ed atti di gabinetto presso l’Archivio Storico del Comune di Trieste – 1945 ;
- diari di Diego de Henriquez presso i Musei civici di Trieste, dal diario 1 al diario 50, dal diario 64 al diario 66 ed inoltre i diari 73, 172, 174, 195.

L’autore di questo testo è Vincenzo Cerceo

BIBLIOGRAFIA.

SUI CRIMINI DI GUERRA ITALIANI:
Pietro Brignoli, “Santa Messa per i miei fucilati”, Longanesi 1973 (riedizione in “Pagine di storia rimosse”, a cura di Enrico Vigna, Edizioni Arterigere 2005)
Tone Ferenc, “La provincia italiana di Lubiana”, IFSML 1994.
Alessandra Kersevan, “Gonars. Un campo di concentramento fascista”, KappaVu, 2003.
Giuseppe Piemontese, “Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana”, Lubiana 1946 (riedizione nel CD-Rom “La storia non riconosciuta” a cura della redazione de “La Nuova Alabarda” 2002).
SUL CLN TRIESTINO:
AA.VV., “I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco, 1960.
Roberto Spazzali, “… l’Italia chiamò”, Libreria Editrice Goriziana 2003.
SUL DOPOGUERRA A TRIESTE E LE “FOIBE”:
AA.VV., “Nazionalismo e neofascismo al confine orientale”, IRSMLT 1976.
Claudia Cernigoi, “Operazione foibe tra storia e mito”, Kappavu 2005.
Ennio Maserati, “L’occupazione jugoslava di Trieste”, Del Bianco 1966.
Roberto Spazzali, “Foibe. Un dibattito ancora aperto”, ed. Lega Nazionale 1990.
UAIS, “Trieste nella lotta per la democrazia”, Trieste, 1945 (ristampa a cura della redazione de “La Nuova Alabarda” 2006).
Vi rimandiamo infine anche all’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (IRSMLT) e quello della Sezione storica (Odsek za zgodovino) della Biblioteca nazionale degli studi (Narodna in Študijska Knjižnica) di Trieste.

Maggio 2007



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