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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



 
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KOSOVO

testi ed approfondimenti di Andrea Catone


vedi anche:
SECESSIONE UNILATERALE DEL KOSOVO:
l’asservimento della Serbia obiettivo delle potenze imperialiste
di Andrea Catone - Direttore del “Centro studi sui problemi della transizione al socialismo”
su Gramsci Oggi - marzo 2008
http://www.gramscioggi.org/Gramsci%20oggi-numero%202-2008.pdf



http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16983

Dopo l’indipendenza del Kosovo.
Imperialismo e questione serba


di Andrea Catone

su L'ERNESTO del 12/03/2008



La dichiarazione di “dipendenza”

Il 17 febbraio 2008, con la dichiarazione unilaterale di indipendenza approvata dall’assemblea del Kosovo – organismo sorto sulla base dei provvedimenti adottati dall’amministrazione ONU del Kosovo(UNMIK nell’acronimo in inglese) - si chiude formalmente la fase iniziata con i bombardamenti della NATO nella primavera 1999 e la successiva imposizione di un protettorato ONU-NATO sulla provincia serba, avallato – ma non nella misura estesa e totale che poi si è verificata – dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle NU 1244/99, successiva all’armistizio di Kumanovo (3 giugno 1999), in base al quale l’allora piccola Jugoslavia, la RFJ composta dalle due repubbliche di Serbia e Montenegro, doveva accettare, dopo 78 giorni di violenti e micidiali bombardamenti terroristici sulla popolazione civile e le infrastrutture essenziali, che le sue forze armate abbandonassero il Kosovo alle truppe NATO e di contingenti di altri paesi delle NU.

Questo atto, palesemente contrario alle norme di diritto internazionale che si basano sul riconoscimento dei confini degli stati esistenti e che condannano secessioni unilaterali, è stato platealmente sostenuto dal presidente USA, George Bush, che il 10 giugno 2007 a Tirana,durante la conferenza stampa, espose la sua posizione in modo molto chiaro e determinato: “Il Kosovo deve essere indipendente. Il momento è adesso”. Agli USA si accodano, senza particolari distinguo, i principali paesi della UE, salvo la Spagna, che si affrettano a riconoscere diplomaticamente il nuovo stato, connotato, in diversi rapporti di organismi internazionali come il principale centro di traffico europeo di esseri umani, donne ridotte in schiavitù, armi, droga.

Il governo Prodi, nonostante sia dimissionario e debba quindi occuparsi costituzionalmente solo degli affari correnti, nonostante una mozione a fine novembre 2007, approvata “trasversalmente” dal parlamento (dalla Lega nord alla sinistra), impegnasse il governo a spingere per il proseguimento delle trattative sullo status “al fine di arrivare a una soluzione condivisa” tra Serbia e leadership albanese-kosovara, e mentre le commissioni parlamentari stanno ancora discutendo, proponendo di rinviare la decisione al nuovo governo dopo le elezioni di aprile, è tra i primi, insieme con Francia, Regno Unito e Germania, a riconoscere ufficialmente il Kosovo. Così Massimo D’Alema, che nel 1999 da presidente del consiglio, violando la costituzione della repubblica (articolo 11), aveva fatto partecipare il nostro paese all’aggressione terroristica della NATO contro la Serbia col pretesto di una “guerra umanitaria” per difendere la popolazione albanese del Kosovo, nel 2008, da ministro degli esteri, legittima l’amputazione del 15% del territorio della Serbia (che ad essa apparteneva prima ancora della formazione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni nel 1918), riconoscendo implicitamente che l’aggressione della NATO del 1999, che ha distrutto la Serbia per portarla “indietro di mezzo secolo”, come dichiarava il capobanda delle operazioni NATO, il generale Wesley Clark, non aveva alcuno scopo “umanitario”, ma era una volgare guerra di aggressione per strappare un territorio a un paese e imporvi il proprio controllo con un governo quisling, non diversamente da quello che nella storia del XX secolo faceva Adolph Hitler o l’imperialismo colonialista.

Che la “dichiarazione di indipendenza” del Kosovo sia in realtà una dichiarazione di dipendenza dagli USA e dalla NATO, e dalla UE solo in quanto indissolubilmente legata ad USA e NATO (che rimane lo strumento principe dell’egemonia militare e politica degli USA, nel momento in cui il dollaro perde vistosamente posizioni nei confronti dell’euro), appare evidente anche ad una superficiale lettura del testo e del contesto in cui l’evento si colloca: nelle piazze di Pristina migliaia di bandiere USA oscurano anche quelle del neo inventato stato del Kosovo. Essa sembra scritta (e lo è con ogni evidenza) dai giuristi della NATO. Sin dal preambolo la dichiarazione1 si preoccupa di rispondere alle obiezioni - sollevate da tutti i più seri esperti di diritto internazionale ed espresse con grande forza dalla Russia - che la secessione unilaterale del Kosovo possa aprire il vaso di Pandora dei secessionismi (nelle repubbliche ex sovietiche di Georgia e Moldavia, ma anche in diversi paesi della UE, in primis di baschi e catalani in Spagna). Essa ripete la litania, reiterata senza fantasia dalla coscienza sporca delle cancellerie occidentali, che “il Kosovo è un caso speciale che sorge dal disfacimento non consensuale della Jugoslavia e non costituisce un precedente per qualunque altra situazione”. Perché scrivere esplicitamente questo? Una “normale” dichiarazione di indipendenza, quali quelle prodotte dalle lotte di indipendenza nazionale e anticoloniale nel XX secolo rivendicherebbe invece il proprio diritto come diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione e non si preoccuperebbe comunque di rimarcare il proprio caso speciale. Si esprime poi riconoscenza al “mondo” che “nel 1999 è intervenuto togliendo a Belgrado il governo del Kosovo e ponendo il Kosovo sotto la gestione ad interim delle Nazioni Unite”. Ma che il mondo degli ascari albanesi di Pristina si riduca alla NATO è detto chiaramente al punto 5 in cui si invita quest’ultima a “mantenere il ruolo di guida della presenza militare internazionale in Kosovo” e si dichiara l’impegno ad una piena collaborazione degli albanesi con essa. Al punto 6 si manifesta l’impegno “all’integrazione europea ed euro-atlantica”. L’unica Europa che gli uomini di Thaci riconoscono è l’Europa legata a doppio filo con gli USA, è l’euro-atlantismo, è l’Europa americana.


Il primo successo internazionale degli USA dopo il 2003

Non può sfuggire che con la dichiarazione unilaterale del 17 febbraio e col riconoscimento del nuovo narcostato da parte dei principali paesi della UE, che, pur non potendo adottare, per l’opposizione di alcuni stati membri, una risoluzione comune, fornisce il principale supporto all’operazione con la missione Eulex - la più grande e costosa missione europea -, la politica estera degli USA colga il primo significativo successo dopo cinque anni di difficoltà e fallimenti: divisione del fronte imperialista per la guerra all’Iraq nel 2003, mancato controllo del territorio iracheno e afghano per la forte resistenza di gruppi armati legati alla popolazione; notevole capacità politica e militare dimostrata da hezbollah in Libano contro l’aggressione israeliana nell’estate 2006; significativi processi di emancipazione dal dominio economico e politico nordamericano in America Latina guidati dal Venezuela e da Cuba; nuovo peso internazionale assunto dalla Russia di Putin, che rovescia la politica di cedimenti e svendita del paese dell’ubriacone Eltsin; intenso sviluppo della Cina e possibili processi di alleanza tra i più grandi e popolosi paesi del mondo, India, Cina, Russia.

In nessuna parte del mondo – e forse neppure nel suo stesso paese – la bandiera a stelle e strisce è osannata come in Albania e Kosovo, in nessuna parte del mondo vi sono tanti segnali di servile sottomissione agli USA, cui si dedicano strade, ristoranti, botteghe e supermercati, come in Kosovo. Dove trovare dei quisling più solerti? Quale zona più sicura per istallare la più grande base militare d’Europa (Camp Bondsteel) rivolta a un tempo verso Russia e Medioriente?

Ma col colpo gobbo dell’indipendenza del Kosovo gli USA non si assicurano soltanto il controllo di un territorio di importanza strategica – sia militare che economica, per il passaggio delle pipeline -, essi piegano la UE alla propria strategia, dimostrano al mondo di essere ancora leader del campo imperialista, gli unici a poter dettare l’agenda e ad imporre le loro soluzioni. La UE invece mostra ancora una volta di non poter avere una politica estera comune, ma, soprattutto, di essere, con i suoi principali paesi, subordinata agli USA. E, per giunta, di dover pagare a caro prezzo questa subordinazione. Agli USA il controllo militare e la leadership politica, alla UE le spese esorbitanti del mantenimento delle missioni internazionali in Kosovo, cui si aggiungeranno quelle della nuova missione Eulex.


Le potenze imperialiste e la Serbia

In realtà, nei Balcani, a partire dagli anni ’90, vi è un interesse principale dell’intero campo imperialista, che ha operato potentemente per “balcanizzare” l’area, favorendo la frantumazione della Jugoslavia e la formazione di ministati che, per la loro dimensione economica e militare, fossero totalmente dipendenti dai paesi imperialisti, dei quali sarebbero divenuti i maggiordomi. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole. Così si mosse anche la politica hitleriana.

L’unico popolo che, per la sua consistenza, la sua tradizione storica di resistenza e lotta per l’indipendenza, è considerato ostacolo alla marcia verso est nei Balcani è quello serbo (i serbi sono i primi a cominciare nell’800 il risorgimento nazionale contro il dominio ottomano nei Balcani e a costituirsi come stato indipendente; respingono nel 1914 l’ultimatum dell’Austria, nel 1941 quello di Hitler e nel 1999 quello della NATO, pagando sempre un prezzo altissimo). Per questo peccato di “orgoglio” nazionale e di resistenza, i serbi, le potenze imperialiste oggi, al pari degli imperi centrali agli inizi del ‘900, mirano a distruggere la Serbia: Serbien muss sterbien.

Si comprende così che la questione del Kosovo, ben prima di essere una questione di “diritti umani” violati, o della convivenza tra etnie, è la questione dell’imperialismo che mira ad indebolire e sottomettere, bombardandolo e amputandolo, un paese che, nonostante vistosi cedimenti e tradimenti di buona parte del suo ceto politico, non è ancora considerato affidabile per fare il maggiordomo delle grandi potenze. La lunga storia del Kosovo e le sue vicende interne che hanno visto il confrontarsi dei popoli serbo e albanese ben prima dell’ascesa di Milosevic al governo della Serbia – e che furono utilizzate dall’imperialismo nazifascista nella conquista dei Balcani con l’annessione del Kosovo all’Albania occupata da Mussolini, per ingraziarsi i fautori della Grande Albania disegnata dalla Lega di Prizren – sono solo il pretesto di cui le potenze imperialiste si sono servite per la conquista dei Balcani.

Imperialismo UE a base tedesca e imperialismo USA hanno marciato insieme alla distruzione della Serbia. Le divergenze sono state secondarie, molto sostanziali le convergenze. Certo, la UE, che maschera il suo imperialismo dietro la facciata del diritto e delle regole, avrebbe preferito, anche nella sua componente tedesca più serbofobica, non uscire ulteriormente dalla legalità internazionale (dopo che i principali paesi che la costituiscono avevano scatenato la “guerra umanitaria” del 1999), e si è mossa per convincere il governo serbo a dare il suo assenso alla secessione del Kosovo in cambio della promessa di un non molto lontano ingresso di Belgrado nell’Unione. In tal modo la secessione sarebbe stata consensuale e non sarebbe sorto alcun problema di legalità internazionale, come invece è apertamente esploso oggi, con conseguenze in prospettiva devastanti, soprattutto per il progetto di statualità europea. La secessione del Kosovo col consenso di Belgrado sarebbe stata la prova della piena malleabilità della Serbia, della sua disponibilità a sottomettersi finalmente ai peggiori diktat, e avrebbe avuto come contropartita il suo ingresso subalterno, da maggiordomi di seconda classe, nell’Unione europea.

La questione dello status del Kosovo e della sua soluzione finale, infatti, non può essere compresa se non come una carta - forse la principale per l’altissimo valore simbolico e storico che ha questa terra nella costituzione dell’identità nazionale serba – della partita intrapresa dalle potenze imperialiste per sottomettere definitivamente la Serbia e inglobarla da serva e minore nel loro sistema economico, politico, militare. Un esame sinottico di quanto accade in Kosovo e in Serbia dopo il 1999 e ai rapporti tra Serbia, UE, NATO, USA in questi ultimi anni può forse chiarire nodi e implicazioni di questa partita. Proveremo a disegnare schematicamente le sue fasi:


1. Giugno 1999 – ottobre 2000. Bastonare in tutti i modi la Serbia fino a che non si istalli al potere un governo affidabile per l’Occidente

Demolita dalle bombe NATO, tradita da El’cyn e Cernomyrdin, la Serbia deve piegarsi all’ingresso delle truppe NATO in Kosovo, ottenendo però, con la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza (10.6.1999), il chiaro riconoscimento che la provincia è parte integrante della RFJ (di cui la Serbia, quando si scioglierà l’unione col Montenegro, rappresenta la continuità statale2). Con un’interpretazione molto estensiva della 1244 l’UNMIK (acronimo di United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), l’organismo creato dalle N.U. per l’amministrazione provvisoria della provincia, ne assume tutti i poteri, sostenuta militarmente da un altro organismo, la KFOR (Kosovo Force), forza militare internazionale a guida NATO, responsabile di ristabilire “l'ordine e la pace”. Sotto lo sguardo complice di quasi 50.000 militari NATO l’UCK albanese scatena il terrore contro serbi e rom: uccisioni, sequestri di persona, distruzione di abitazioni e saccheggi spingono oltre 200.000 persone ad abbandonare la provincia e cercare rifugio in una Serbia demolita dalle bombe e assediata dall’embargo. Il francese Kouchner (oggi ministro degli esteri) quale “governatore” del “protettorato ONU” opera sin dall’inizio per creare istituzioni amministrative totalmente separate da Belgrado, in conformità con il disegno USA di staccare dalla Serbia il Kosovo, dove hanno costruito la più grande base militare, Camp Bondsteel.

In Serbia c’è ancora il “dittatore” (democraticamente eletto in un sistema pluripartitico, dove la maggior parte dei media sono dell’opposizione) Milosevic, demonizzato dai media occidentali per aver avuto il torto di voler difendere il suo paese dall’aggressione NATO. Nessun mezzo viene risparmiato per rovesciare lui e il suo partito, SPS, che gode di un ampio consenso tra i lavoratori e nei sindacati: dalla pressione economica, politica, militare ai delitti mirati contro importanti esponenti dell’establishment serbo, dalla creazione di organizzazioni pseudo democratiche di mercenari pagati dagli USA (prima fra tutte Otpor) e di numerose e ambigue ONG, al sostegno ai partiti di opposizione. Con un’azione ben programmata e orchestrata (un modello che vedremo all’opera anche in successive “rivoluzioni arancione” a Tbilisi e Kiev) che combina propaganda, manifestazioni di piazza e azione di commando ben addestrati, il 5 ottobre 2000 – prima che si andasse al ballottaggio per il secondo turno – il parlamento è assalito e devastato e Milosevic si dimette, lasciando il posto al candidato della DOS (opposizione democratica serba) Vojslav Kostunica. Le sedi dei partiti socialisti e della sinistra vengono saccheggiate, picchiati e feriti i militanti socialisti e i rappresentanti sindacali, bloccati e sequestrati i beni del SPS, che deve affrontare una violenta ondata repressiva.


2. Ottobre 2000-dicembre 2003. La Serbia potrebbe diventare un buon maggiordomo dell’Occidente

Tutta la regia del colpo di mano di ottobre è delle centrali USA e NATO, che hanno in Djindjic più che in Kostunica, che si presenta come difensore dell’interesse nazionale, il loro uomo di riferimento. Comincia la fase in cui l’Occidente agita dinnanzi alla “nuova” Serbia la carota degli aiuti economici e di una possibile integrazione nella UE, ma a condizione che la Serbia dia prova di essere “democratica”, cioè totalmente prona ai voleri di Washington e dei comandi NATO. Il primo, più plateale prezzo da pagare, è la consegna all’Aja (28 giugno 2001) del presidente Milosevic, cui Kostunica aveva invece dato ampie garanzie di rimanere in patria. Nel 2002 la RFJ costituisce una commissione per coordinare la cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia (ICTY) e inizia a emettere ordini di arresto per persone accusate di crimini di guerra rifugiate entro i suoi confini, mentre comincia all’Aja (12 febbraio 2002) il processo contro Milosevic.

La UE impone inoltre a Belgrado (marzo 2002) di trasformare la Jugoslavia in una unione col Montenegro, guidato dal mafioso filoamericano Djukanovic, cui la Germania ha già fornito i marchi (e poi gli euro) per rompere l’unità monetaria (e poi l’unità statale) con Belgrado. Un altro colpo al ruolo della Serbia, paese che va distrutto. Nel febbraio 2003 muore ufficialmente la RFJ e nasce uno strano stato che rimarrà in vita, come era prevedibile, solo tre anni.

Ma intanto il nuovo governo serbo guidato da Djindjic, che continua a dare prova di buona volontà e sottomissione all’Occidente e non solleva la questione del Kosovo, né si preoccupa delle condizioni miserrime in cui vivono nel suo territorio 200.000 profughi dal Kosovo (oltre alle altre centinaia di migliaia dalla Bosnia e dalla Croazia), ottiene la carota dell’ammissione al Consiglio d'Europa e chiede di aderire al programma Partnership for Peace, anticamera per l’ingresso nella NATO.

Tra il 2002 e il 2003 si verifica una seria incrinatura tra le potenze imperialiste. Non in merito ai Balcani, ma all’opzione USA di una nuova guerra contro l’Iraq. La Serbia vive di riflesso questa contraddizione, quando la UE, vestiti i panni della legalità internazionale, si oppone all’impunità pretesa dagli USA per crimini commessi dalle loro truppe o personale civile fuori del territorio statunitense. Il governo USA chiede anche alla Serbia di firmare l'accordo sulla non consegna dei cittadini americani al Tribunale penale internazionale, mentre Bruxelles invita a non farlo, rammentando, per bocca di Peter Schieder, presidente dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, che la Serbia e Montenegro è "un paese che un giorno diventerà membro della UE e che per questo dovrebbe avvicinarsi agli standard europei"3.

L’influenza USA sul governo serbo si fa molto forte, al punto da coinvolgere indirettamente il paese nella guerra contro l’Iraq. Un articolo del settimanale belgradese Vreme4 (sull’attendibilità della fonte non si può però mettere la mano sul fuoco) rivela che nell'imminenza della guerra all’Iraq sono stati consegnati agli americani moltissimi dati su strutture irachene di importanza strategica, come basi militari e marittime, aeroporti e bunker sotterranei, alla cui progettazione e realizzazione la Jugoslavia (allora repubblica federativa socialista) aveva collaborato negli anni ‘80. Zoran Djindjic è legato piuttosto all’imperialismo tedesco, che per la prima volta, insieme con la più politicamente determinata Francia, manifesta un aperto dissenso con gli USA. Il 12 marzo 2003, una settimana prima dell’aggressione anglo-americana all’Iraq, viene assassinato in pieno giorno davanti al palazzo del governo serbo.

Dopo questo delitto eccellente e mai veramente chiarito (almeno per il ruolo avuto in esso dai servizi segreti inglese e statunitense), il governo è retto da Zivkovic, che proclama lo stato d’emergenza, mette agli arresti diecimila persone e mostra ottime relazioni con gli USA. L'influenza di Londra e Washington in questo momento si ingrandisce a tal punto rispetto a quella della UE che gli ambasciatori britannico e americano controllano pienamente persino l'azione dell'arresto degli assassini di Djindjic. Nella tarda primavera del 2003 a Belgrado si accelerano fortemente le riforme dell'esercito e dei servizi serbi di informazione, sotto supervisione britannica e americana. È la pressoché totale infiltrazione e distruzione dall’interno di un esercito che aveva conservato, anche nella piccola Jugoslavia, capacità e professionalità acquisite nel periodo della Jugoslavia di Tito. Zivkovic dichiara che la Serbia gode delle migliori relazioni con gli USA degli ultimi 50 anni e a fine luglio si reca in visita in USA per una settimana, dove si impegna ad epurare il partito democratico (DS) degli elementi non filoamericani e, insieme col ministro degli esteri Goran Svilanovic, offre a Condoleezza Rice e Colin Powell un contingente di circa mille militari serbi e montenegrini alle forze americane di Enduring Freedom per combattere in Afghanistan5: Può essere considerato quindi un buon maggiordomo degli USA. I media filogovernativi di Belgrado annunciano la nuova "partnership strategica" fra gli USA e la Serbia.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, lasciano intendere che non sosterranno l'indipendenza del Kosovo, richiesta dai loro figliocci dell’UCK, e garantiranno la sicurezza dei serbi prima di decidere dello status politico finale della provincia. Si rinnovano i rapporti commerciali interrotti con la introduzione (maggio 1992) delle sanzioni contro la RFJ e gli USA divengono i maggiori investitori in Serbia, favoriti dalla svendita delle imprese di stato che i governi antisocialisti e antipopolari della DOS (Djindjic e Zivkovic) hanno intrapreso: nel 2003 la Phillip Morris acquista la fabbrica di tabacco di Nis per 605 milioni di euro, mentre la US Steel mette le sue zampe sull’unica acciaieria serba, a Smederevo, per soli 205 milioni di euro e licenzia immediatamente circa 1.000 lavoratori, imponendo una paga oraria di 0,40 dollari all’ora, che passerà a 1 dollaro solo dopo un epico sciopero generale durato settimane, che coinvolge l’intera città. Alcuni analisti politici credono a questa svolta strategica dei rapporti serbo-americani, ritenendo che Washington, messa di fronte alla difficoltà di posizionare le proprie truppe in tutto il mondo, necessita della stabilità balcanica per ritirare le forze dal Kosovo e dalla Bosnia ed Erzegovina, e distribuirle in punti più importanti come l’Iraq. D’altra parte, al vertice di Salonicco del 21 giugno 2003, la Serbia è inclusa tra i potenziali candidati per l’accesso alla UE.

La questione del Kosovo non è in questi anni 2001-2003 tra le priorità dell’agenda politica dei nuovi leader serbi.

L’UNMIK procede nella sua opera di costruzione di istituzioni affatto nuove che nulla abbiano a che fare con Belgrado, gettando le premesse per una futura definitiva secessione statale. Tuttavia la questione del futuro status della provincia non è chiusa. Il 15 maggio 2001 il nuovo rappresentante speciale del segretario generale, il danese Hans Haekkerup, subentrato al precedente “governatore” Kouchner, promulga il “Quadro costituzionale per un governo autonomo provvisorio in Kosovo”. Nel novembre 2001 si svolgono le elezioni per la prima Assemblea legislativa, alle quali partecipa in massa, su sollecitazione di Koštunica e del governo di Belgrado, anche la comunità serba: la “Coalizione per il ritorno” (Povratak) ottiene l’11,34% con 89.400 voti.

Agli inizi del 2002 il nuovo rappresentante delle NU, il tedesco Steiner comincia ad articolare le linee della politica "standards before status”, sostenendo che senza il raggiungimento delle condizioni minime di rispetto della legge, del funzionamento di istituzioni democratiche, dei diritti delle minoranze non albanesi e di sviluppo economico, non si potrà aprire il negoziato sullo status del Kosovo. A fine maggio 2002 il governo del Kosovo entra in funzione con tutti i suoi ministeri, quando i serbi ottengono, oltre al ministero dell’agricoltura, il posto, che loro preme molto di più, di Coordinatore interministeriale dei ritorni presso il primo ministro. Agli inizi del 2003 l’UNMIK comincia a trasferire un buon numero di competenze di governo a questi ministri, mantenendo per sé alcuni poteri legati alla sovranità di uno stato, quali il ministero degli esteri e alcune funzioni della sicurezza.

Intanto l’ONU fissa alla metà del 2005 la data in cui si esaminerà il raggiungimento degli standard. Tuttavia, il “governatore” dell’UNMIK, il tedesco Michael Steiner, dichiara che "il Kosovo non farà mai più parte della Serbia"6. Se da un lato la politica ufficiale del rappresentante delle Nazioni Unite in Kosovo è ancora, alla fine del 2003, quella sintetizzata dalla formula “norme prima dello status”7, dall’altro vi sono forze internazionali che, all’interno dei loro disegni strategici sull’assetto dei Balcani, spingono per la piena indipendenza del Kosovo, con la cesura netta di qualsiasi legame con lo stato serbo, facendo così consapevolmente da sponda al nazionalismo esclusivistico albanese, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la vita della popolazione serba e delle altre minoranze non albanesi, nonché del patrimonio storico-culturale. Sono personaggi potentissimi, che controllano alcuni tra i principali media dei Balcani, come il magnate George Soros, strettamente legato al National Endowdment for Democracy, o think tank influenti come l’International Crisis Group (ICG) che richiedono l’indipendenza del Kosovo. Il 10 dicembre 2003 viene pubblicato a Pristina “Standards for Kosovo”, e approvato dal consiglio di sicurezza dell’ONU con dichiarazione del 12 dicembre 2003, completato dal “Kosovo Standards Implementation plan” che sarà varato il 31 marzo 2004, dopo i violenti pogrom antiserbi di due settimane prima.

Nel complesso, in questa fase, il destino dello status del Kosovo, se è senza dubbio già orientato ad una amplissima autonomia da Belgrado, non è però già stato deciso.


3. 2004. La Serbia è di nuovo inaffidabile. Si scatenano in Kosovo i pogrom antiserbi di marzo

Il quadro politico in Serbia muta radicalmente, in senso letterale… Infatti, le elezioni politiche anticipate del 28 dicembre 2003, provocate dalla caduta del governo Zivkovic - inviso alle masse serbe che popolano sempre di più le piazze con scioperi e manifestazioni, travolto dalle accuse della Del Ponte, che incrimina all’Aja 4 generali serbi, diviso al suo interno, con la DOS oramai in frantumi (il partito democratico serbo, DSS, di Kostunica è in rotta di collisione con il partito democratico, DS, di Djindjic e Zivkovic) – fanno del partito radicale serbo, nazionalista e antiamericano, il maggior partito del paese (col 28% di suffragi). Il partito socialista serbo, SPS, duramente attaccato dopo l’ottobre 2000, non scompare di scena, ma si attesta su uno “zoccolo duro” del 7%, mentre il partito liberaldemocratico e filo-occidentale (DS) è ridotto al 13%, superato dal DSS di Kostunica (18%). È a quest’ultimo, dopo una lunga e critica fase di gestazione, che spetta la guida del nuovo governo serbo (2 marzo 2004), che, senza i filo-occidentali DS, è sostenuto da G17 Plus, una formazione politica liberale costituita soprattutto da economisti, il Movimento per il Rinnovamento Serbo (SPO) di Vuk Draškovic e il partito Nuova Serbia (NS), con l’appoggio esterno dei socialisti.

Kostunica pone apertamente la questione del Kosovo, chiedendo una sostanziale e ampia autonomia per i distretti popolati dai serbi (la cosiddetta “cantonalizzazione”). Il forte condizionamento dall’opposizione dei radicali serbi, il ritorno nel gioco politico con un peso determinante del partito di Milosevic, che all’Aja difende con fierezza la politica di indipendenza nazionale serba e infiamma gli animi della popolazione, incollata per ore al televisore a seguire l’autodifesa del suo presidente che è tutta un preciso e circostanziato atto d’accusa all’imperialismo della NATO, fanno di nuovo della Serbia un paese non affidabile per l’Occidente.

A solo due settimane dalla nascita del nuovo governo serbo si scatena (17-20 marzo 2004) in tutti i distretti del Kosovo un violentissimo pogrom contro serbi e rom e altre minoranze non albanesi, lasciate in moltissime occasioni senza alcuna protezione da parte dei corpi militari e di polizia di KFOR, UNMIK, KPS. “Sono stati distrutti impianti, sono stati saccheggiati edifici pubblici, tra cui scuole e dispensari, alcuni gruppi etnici sono stati accerchiati e minacciati e le famiglie cacciate dalle loro case. Villaggi interi sono stati evacuati e numerose case sono state ridotte in cenere dopo la partenza dei loro abitanti. In alcuni casi, gli assalitori hanno tentato di occupare illegalmente le case abbandonate, addirittura di rivendicarne la proprietà. Gli scontri hanno provocato 19 morti – 11 albanesi e 8 serbi del Kosovo - e 954 feriti. Inoltre sono stati feriti 65 poliziotti delle forze internazionali, 58 membri del KPS e 61 membri della KFOR. 730 case appartenenti alle minoranze, principalmente serbi del Kosovo, sono state danneggiate o distrutte. È stato preso di mira il patrimonio culturale e religioso del Kosovo: 36 chiese, monasteri e altri siti religiosi e culturali ortodossi sono stati saccheggiati o distrutti. Alcuni luoghi di culto erano del XIV secolo, due erano classificati dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità e un terzo tra i siti di interesse regionale. Sono stati pure danneggiati o distrutti beni dell’UNMIK e della KFOR”8.

Non abbiamo allo stato attuale documenti che provino una correlazione specifica, un rapporto diretto tra il mutato quadro politico in Serbia e i pogrom organizzati dall’UCK in Kosovo, ma dai rapporti dell’UNMIK e delle numerose ONG, emerge il carattere deliberato e organizzato, non casuale o accidentale, del pogrom. È come se qualche burattinaio esterno, un’accorta regia occulta, avesse deciso di “dare una lezione” ai serbi e di agitare ora minacciosamente la carta della violenza etnica di massa per ottenere la secessione immediata. A rivelarlo è la conclusione politica - apparentemente incomprensibile e paradossale – tratta alcuni mesi dopo dalle cancellerie occidentali: infatti, il pogrom, preceduto e seguito da un ininterrotto stillicidio di omicidi, sequestri e violenze quotidiane contro i serbi del Kosovo, viene interpretato come il segnale che occorre definire al più presto lo status del Kosovo, indipendentemente dal raggiungimento di quegli standard da cui gli albanesi, come gli eventi di marzo mostrano, sono mille miglia lontani. Paradossalmente – ma non tanto, se si legge la questione del Kosovo come parte della politica imperialista verso la Serbia – il pogrom di marzo, invece che spingere alla difesa dei serbi vittime delle violenze albanesi, rovescia la politica standard beforee status. Ora il raggiungimento degli standard minimi di rispetto dei diritti delle minoranze non è più una priorità.


4. Giugno 2004-febbraio 2008. La carota dell’Europa e il bastone del Kosovo

Dopo tre inutili tentativi, che inducono ad abolire il quorum del 50% per convalidare il voto, a fine giugno 2004 viene eletto alla presidenza di Serbia-Montenegro Boris Tadic, del DS, che, con l’appoggio del partito di Kostunica, supera il radicale Nikolic. La Serbia così si presenta con due teste, quella filo-occidentale di Tadic e quella di difesa nazionale di Kostunica. La prospettiva di adesione alla UE li unisce, la strategia da seguire sul Kosovo li divide. Alle elezioni di ottobre 2004 per il rinnovo dell’assemblea del Kosovo, Tadic, seguendo le pressioni dell’Occidente che intende mostrare la foglia di fico della democratica multietnicità della provincia, chiede ai serbi di partecipare al voto, Kostunica li invita invece, dopo il pogrom di marzo e la fallimentare esperienza della loro partecipazione nelle istituzioni disegnate dall’UNMIK, dove non contano assolutamente nulla, a boicottarle. A dicembre 2004 la nuova assemblea del Kosovo elegge a primo ministro il capoclan dell’UCK e criminale di guerra Ramush Haradinaj.

Il 2005 si apre con l’offensiva a tutto campo sulla secessione del Kosovo. In prima fila è l’ICG9, con il suo rapporto “Kosovo: toward Final Status”10, che propugna come unico sbocco la secessione anche unilaterale e con l’opposizione della Russia (esattamente come avverrà tre anni dopo). Segue ad aprile, preceduta da un grande battage sui principali quotidiani occidentali, il rapporto conclusivo della International Commission on the Balkans11, presieduta da Giuliano Amato. Anch’esso sostiene apertamente la tesi che occorre accelerare il processo di definizione formale di indipendenza del Kosovo, che entro un decennio potrebbe entrare, insieme con la Serbia e gli altri ministati della disciolta federazione socialista jugoslava, nella UE. L’argomentazione di fondo è che la situazione non può più attendere, il tempo sta scadendo, potrebbe presto verificarsi un’esplosione violenta di dimensioni ben maggiori e più cruente di quella del marzo 2004. Assistiamo in quest’argomentazione a un rovesciamento delle posizioni politiche precedenti sostenute, nel silenzio-assenso degli USA, dall’UNMIK e dalla UE, che vedevano nella violenza antiserba scatenata nel marzo 2004 la ragione per rinviare qualsiasi discorso sullo status del Kosovo, poiché mancavano i requisiti minimi di sicurezza e vivibilità per le minoranze serbe, rom, e delle altre etnie non albanesi.

La politica degli USA e della UE è ora molto chiara: si promette alla Serbia la futura adesione alla UE e le si chiede al contempo un atto, anzi più atti, di sottomissione: non solo la collaborazione col tribunale dell’Aja, costruito ad hoc per mantenere la Serbia sotto una perenne spada di Damocle, ma molto, molto di più: la rinuncia al Kosovo, in spregio della stessa risoluzione 1244/99.

Quasi contemporaneamente alla pubblicazione ufficiale del rapporto della Commissione sui Balcani, la Commissione europea valuta (12 aprile 2005) che la Serbia sia sufficientemente preparata per negoziare un accordo di associazione e stabilizzazione con la UE; il 25 aprile il Consiglio europeo approva la fattibilità del rapporto e invita la commissione ad emanare le direttive di negoziazione per l’accordo. A fine ottobre il norvegese Kai Eide, nominato dall’ONU per valutare il raggiungimento degli standard, li giudica insufficienti, ma ritiene comunque di dover continuare il processo di definizione dello status… Contemporaneamente iniziano i colloqui ufficiali tra UE e Serbia, alla quale si richiede, al solito, stretta cooperazione col Tribunale dell’Aja.

A novembre 2005, il segretario generale delle N.U. Kofi Annan, dopo 15 mesi di trattative senza esito a Vienna tra serbi e albanesi, nomina il finlandese Ahtisaari per avviare il processo sulla definizione dello status. Il “Gruppo di contatto” (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, USA, Russia) elabora i “Principi guida per la risoluzione del futuro status del Kosovo”. Esclude che il Kosovo possa ritornare alla situazione pre-1999, che possa essere diviso, o annesso ad altro stato confinante, e rigetta come inaccettabile qualsiasi soluzione unilaterale o che faccia ricorso all’uso della forza12.

A febbraio 2006 cominciano i negoziati sullo status. Qualche settimana dopo Milosevic viene lasciato (o, per meglio dire, fatto) morire nel carcere dell’Aja (11 marzo 2006). La popolazione serba accorre in massa ai funerali, concedendo l’ultimo tributo al capo che non si è piegato ai diktat degli USA, che si è battuto con onore e dignità davanti ai giudici del tribunale. Ma – sempre coincidenze? – qualche mese dopo (maggio 2006) la Serbia viene punita: i negoziati con la UE sono bloccati perché il paese viene giudicato inadempiente verso l’Aja.

Ed è già scattata (21 maggio 2006) la trappola del referendum secessionista del Montenegro - sostenuto apertamente dagli USA e più sommessamente dalla UE - che sancisce, col 55,5% dei votanti, la fine dello stato di Serbia-Montenegro: il 3 giugno il parlamento montenegrino dichiara l’indipendenza, il parlamento serbo ne prende atto, confermando la continuità della Serbia come stato successore dell’unione.

Belgrado deve ora confrontarsi con la stesura di un nuovo testo costituzionale, nel cui preambolo si ribadisce che “la Provincia del Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Serbia, che gode dello stato di autonomia sostanziale nel quadro dello stato sovrano della Serbia e che da tale condizione della Provincia del Kosovo e Metohija seguono gli obblighi costituzionali di tutti gli organi statali di rispettare e difendere gli interessi statali della Serbia in Kosovo e Metohija e tutte le relazioni politiche interne ed esterne”. Adottato dal parlamento, viene approvato da un referendum popolare il 28-29 ottobre 2006. Intanto, i negoziati sul Kosovo sono in pieno stallo. In realtà non si tratta di negoziati, poiché i kosovaro-albanesi, spalleggiati dagli USA, non vogliono nulla di meno dell’indipendenza.

Non era ancora ufficialmente approvata la nuova costituzione della repubblica di Serbia, che i media legati all’Occidente diffondono le decisioni della “Comunità internazionale” sul Kosovo (e sono ben informati, poiché così accadrà un anno dopo): la provincia serba sarò indipendente, con una supervisione internazionale a guida Ue. Sono gettate le premesse per la futura “missione Eulex”. La UE, ad onta delle illusioni dei filoeuropeisti serbi, è parte determinante e soggetto attivo nella secessione del Kosovo. Al di là di alcune divergenze tattiche o di facciata (la UE, promettendo “l’ingresso in Europa”, si adopera a che la Serbia acconsenta alla secessione), vi è una sostanziale, strategica unità di vedute tra USA ed UE rispetto alla Serbia. Tra i due soggetti imperialisti vi è cooperazione e divisione dei compiti e dei ruoli. La UE in questo caso si sobbarca le maggiori spese della nuova missione internazionale e la copertura “legale” della secessione: un imperialismo ipocrita e leguleio, che cerca di nascondere dietro la vuota retorica dei diritti umani il volto aggressivo e sfruttatore, a fronte dell’imperialismo muscolare, rozzo e diretto degli USA di G. W. Bush.

Le elezioni per il nuovo parlamento del gennaio 2007 confermano i radicali quale maggiore forza politica del paese, ma vedono il partito di Tadic superare Kostunica, che perde consensi.

Intanto riprende in parallelo il consueto giochetto della carota Europa e del bastone Kosovo. Agli inizi di febbraio 2007 l'inviato speciale delle Nazioni Unite Maarti Athisaari presenta il piano sul futuro del Kosovo, già anticipato nei media qualche mese prima. È di fatto la legalizzazione della secessione della provincia serba sotto controllo militare della NATO e giuridico-politico della UE. Contemporaneamente il consiglio europeo invita a riprendere i negoziati col nuovo governo di Belgrado per l’accordo di associazione alla UE, sempre a condizione che la Serbia stia pienamente cooperando col tribunale dell’Aja.

Il 3 aprile si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per discutere il piano Ahtisaari, che consiglia l'indipendenza del Kosovo sotto la supervisione internazionale. Non si perviene a nessuna risoluzione, poiché l’unica proposta che gli USA sostengono è la secessione della provincia, cui la Russia si oppone decisamente. Lo stesso scenario si ripeterà in altre riunioni. Sul Kosovo non vi è quindi, fino ad oggi, dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 17 febbraio 2008, nessuna risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU.

A giugno medesimo scenario: quasi contemporaneamente Bush dichiara a Tirana che riconoscerà la proclamazione unilaterale di indipendenza (10 giugno) e la UE riprende i negoziati con la Serbia per l’accordo di stabilizzazione e associazione (13 giugno), che sfociano il 10 settembre nella redazione di un testo che dovrebbe essere firmato formalmente entro il 2008. Ma… come sempre, restano in sospeso la questione del Kosovo e la piena collaborazione con il tribunale internazionale dell'Aia, che potrebbero rallentare il percorso europeo del paese… Il 7 novembre a Bruxelles si fa un ulteriore passo per l’accordo tra Serbia e UE, mentre dopo qualche settimana terminano i negoziati sul Kosovo senza alcun accordo tra le parti.

Le elezioni di novembre in Kosovo assegnano la vittoria ad Hashim Thaci, il filoamericano capo dell’UCK, che preannuncia quale primo punto del suo programma l’immediata dichiarazione di indipendenza, che, con l’appoggio di USA e dei principali paesi UE, viene puntualmente proclamata il 17 febbraio 2008.


Dopo l’indipendenza del Kosovo, si apre una fase di instabilità nei Balcani

La Serbia, che continua a vivere un “dualismo di poteri” tra Kostunica, capo del governo, e Tadic (riconfermato presidente al ballottaggio del 3 febbraio contro Nikolic del partito radicale), reagisce con grande passione e dignità, protestando nelle piazze, richiamando gli ambasciatori dai paesi che riconoscono il Kosovo come stato, attuando una resistenza civile in Kosovo basata sul rifiuto di riconoscere e partecipare a qualsiasi istituzione del nuovo stato. Ma questa è la linea politica dei radicali, del SPS, che ora Kostunica sostiene coerentemente portandola fino alle estreme logiche conseguenze.

Il 5 marzo una mozione proposta dai radicali chiede di riprendere i negoziati con la UE a condizione che ad essi la Serbia partecipi integra, senza l’amputazione del 15% del suo territorio rappresentato dal Kosovo. È chiaramente una mossa politica che chiede alla UE di recedere da tutta la politica sinora seguita, è di fatto la proposta di interrompere il percorso di associazione subalterna nella Unione Europea, che ha pesantemente ferito e umiliato la Serbia, è, indirettamente, l’indicazione di un’altra via nelle relazioni mondiali, costruendo un asse privilegiato, economico e politico, con la Russia. I ministri del DSS sostengono la proposta dei radicali, Tadic si oppone. L’8 marzo Kostunica si dimette, il paese è chiamato a breve a nuove elezioni.

Questa crisi politica serba non è endogena, è stata prodotta dalla politica delle potenze imperialiste che, appoggiando la secessione del Kosovo, hanno scientemente operato per aprire una fase di instabilità politica in Serbia, contro la quale l’attacco e le ingerenze occidentali termineranno solo quando saranno riuscite – se riusciranno - a ridurla pienamente in servitù.






Kosovo: le potenze imperialiste
preparano la soluzione finale

di Andrea Catone


articolo apparso sul numero 2/2005 de
LA MONTAGNE - periodico comunista per la "sinistra d'alternativa" (già "L'Ernesto Toscano")




"Time is running out in Kosovo", il tempo sta scadendo in Kosovo: la stessa identica frase viene impiegata per l'incipit del rapporto dell'International Crisis Group (ICG) del 24 gennaio 2005 (1) e per la parte del rapporto della Commissione internazionale sui Balcani (2) presieduta da Giuliano Amato e presentato il 29 aprile a Roma alla Farnesina alla presenza del ministro degli esteri Gianfranco Fini.
Per farsi un'idea di cosa siano questi due grandi centri transnazionali che si occupano di analisi delle situazioni di crisi e confitto per meglio "consigliare" i governi della "comunità internazionale" dei principali paesi imperialistici, basta dare una scorsa alle pagine finali in cui si elencano membri e sostenitori economici di essi.
Nell'ICG – che non si occupa solo di Balcani, ma anche di tutta l'area ex sovietica, Asia centrale, Medio Oriente, Africa, America Latina...  - troviamo tra i membri del comitato esecutivo personaggi quali Morton Abramowitz, Emma Bonino, George Soros; e poi Zbigniew Brzezinski, Wesley Clark, comandante in capo delle forze NATO nell'aggressione del 1999 contro la Repubblica Federale Jugoslava, fino all'ex presidente messicano Ernesto Zedillo. Questo potente e influente gruppo internazionale per le aree di crisi è finanziato, oltre che da "donatori" individuali, società e fondazioni "caritatevoli" (sic!), in gran parte statunitensi (la più nota da noi è l'Open Society Institute di George Soros, ritornato di recente agli onori della cronaca per aver sostenuto il gruppo di Otpor in Ucraina), anche da agenzie governative, dall'Australia al Giappone, da Taiwan alla Nuova Zelanda, dalla Francia alla Germania al Giappone, passando naturalmente per il Regno Unito e la U.S Agency for International Development (3). L'Italia invece non è presente tra i sostenitori dell'ICG.
L'International Commission on the Balkans nasce dopo i pogrom antiserbi del marzo dello scorso anno su iniziativa di fondazioni statunitensi e tedesche (Robert Bosch Stiftung, German Marshall Fund of the United States, Charles Stewart Mott Foundation), oltre la belga King Baudouin Foundation. È composta da 19 membri, già presidenti o ministri dei paesi dell'area balcanica (Turchia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Grecia, Albania, Macedonia, Serbia-Montenegro, Croazia, Bosnia, Slovenia) e dell'Europa occidentale (Svezia, Regno Unito, Belgio, Germania, Francia, Italia) e due statunitensi, Avis Bohlen e Bruce Jackson, presidente del Project on Transitional Democracies. Dei paesi che facevano parte del "gruppo di contatto", costituito nel 1994 tra gli Stati cui si riconosceva un interesse e un ruolo nella Jugoslavia - USA, Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Russia -, è visibilmente esclusa quest'ultima. Dato non casuale, che indica la volontà delle grandi potenze imperialistiche occidentali di regolare e ridisegnare la mappa dei Balcani senza o contro le decisioni di Mosca (4).

E probabilmente non è casuale la coincidenza di frase con cui iniziano i due rapporti, dato che entrambi propugnano una rapida indipendenza del Kosovo, che pure la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per "sanare" l'illegalità della "guerra umanitaria" della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava, assegnava ancora a quest'ultima.
Diversamente dal rapporto dell'ICG, che è circolato essenzialmente tra gli specialisti, il rapporto della "Commissione Internazionale" di Amato, pur essendo de jure e de facto nient'altro che la conclusione di un'inchiesta promossa da fondazioni private, senza nessun incarico specifico di organismi internazionali quali l'ONU o l'Unione Europea, ha avuto una sorprendente esposizione mediatica - sorprendente se si considera il silenzio profondo di cui è stata circondata tutta la vicenda del Kosovo che, dopo l'ingresso delle truppe della NATO nel giugno 1999 fino ai pogrom antiserbi di marzo 2004, ha subito una delle più violente pulizie etniche ad opera di bande albanesi contro serbi, rom, gorani e altre etnie, con oltre 250.000 persone costrette ad abbandonare le loro case, migliaia di rapiti e uccisi: omicidi etnici rimasti in larghissima parte impuniti. Non è solo l'ANSA che annuncia il senso della "commissione Amato" in diversi dispacci: "Balcani: Commissione internazionale, superare status quo; Kosovo: Commissione internazionale, situazione può esplodere; Balcani: Amato, UE non può reggere situazione paracoloniale", ma uno dei maggiori quotidiani italiani, il Corriere della sera che gli dedica ben tre articoli con grande rilievo e con una titolazione che spiega inequivocabilmente la scelta dell'indipendenza (5). L'Unità, dal canto suo, ospita il 26 aprile un articolo, tradotto dall'International Herald Tribune del 14 aprile, del "presidente del Kosovo" Ibrahim Rugova: Kosovo, la strada che porta in Europa (6).

Quasi improvvisamente la questione dei Balcani e del Kosovo in particolare – la situazione più difficile di tutta l'area – torna d'attualità. Una poderosa corrente mediatica spira ora sul Kosovo, e non solo in Italia. Il prestigioso quotidiano francese Le Monde ospitava il 5 febbraio un articolo del teorico della "guerra celeste" contro la Jugoslavia, l'invasato generale Wesley Clark, responsabile di una delle più crudeli guerre terroristiche contro la popolazione civile, che ha inquinato per millenni l'ambiente della Serbia e del Kosovo con i proiettili all'uranio impoverito. Il titolo, inequivocabile, è tutto un programma: Pour un Kosovo libre. Vi si sostengono in maniera più secca e rozza, in tono di ultimatum alla Serbia, le medesime argomentazioni sull'improcrastinabile indipendenza del Kosovo proposte dall'ICG, di cui del resto egli è autorevole esponente.
   
Nei Balcani, "dove nulla accade senza la leadership degli Stati Uniti" (7), questi ultimi ritornano prepotentemente sulla scena con tutto il peso della loro superpotenza "indispensabile" a governare il mondo. Lo spiega quasi trionfalisticamente una vecchia conoscenza dei Balcani, lo statunitense Richard Holbrooke, che si faceva passare nelle guerre jugoslave degli anni '90 come "mediatore" realistico. E non a caso, ancora una volta, sul Corriere della sera, che si qualifica così, come il portavoce più autorevole e interessato a sostenere la causa dell'indipendenza del Kosovo e della sua integrazione in quanto nuovo stato nella Unione Europea (8). "Un importante cambiamento nella politica – scrive Holbrooke - è passato praticamente inosservato — quello riguardante il Kosovo, dove, dopo quattro anni di negligenza ed errori, l'amministrazione ha compiuto una notevole inversione di rotta", abbandonando la "tattica dilatoria chiamata `standard prima, status poi', espressione che consentiva di usare il `diplomatichese' per mascherare la paralisi burocratica". Ora, "in seguito agli avvertimenti sull'infiammabilità della situazione lanciati dal diplomatico americano Philip Goldberg, Condoleezza Rice ha spedito il sottosegretario di Stato Nicholas Burns in Europa affinché incontrasse il quasi moribondo Contact Group (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia e Germania). Burns ha detto ai membri del gruppo che la situazione in Kosovo era intrinsecamente instabile e che, senza un'accelerazione negli sforzi per determinarne lo status finale, le violenze si sarebbero probabilmente intensificate, con conseguente paralisi protratta delle forze della Nato, truppe Usa comprese" (9). Così, "sotto pressione americana — ingrediente sempre necessario negli affari che riguardano una UE stagnante e in divenire — inizia ad emergere una nuova politica del Contact Group". Ora, afferma l'amerikano col tono di chi non ammette repliche, "Belgrado dovrà accettare un passo politicamente difficile: rinunciare alle pretese serbe sul Kosovo (10), che i serbi considerano il loro cuore storico. I serbi dovranno scegliere tra il tentativo di aderire all'Unione Europea e quello di riconquistare il Kosovo. Se si concentreranno sulla loro provincia perduta, non otterranno nulla".
   
I rapporti dell'ICG e della commissione internazionale sui Balcani, gli articoli di Bonino, W. Clark, Rugova, Amato, Venturini, Holbrooke, pur tra differenze di tono, ora "diplomatico", ora dichiaratamente minaccioso, si muovono tutti sostanzialmente nella stessa direzione: accelerare il processo di definizione formale di indipendenza del Kosovo, che entro un decennio potrebbe entrare, insieme con la Serbia e gli altri ministati della disciolta federazione socialista jugoslava, nella UE. L'argomentazione di fondo è che la situazione non può più attendere, il tempo sta scadendo, potrebbe presto verificarsi un'esplosione violenta di dimensioni ben maggiori e più cruente di quella del marzo 2004. Assistiamo in quest'argomentazione a un rovesciamento delle posizioni politiche precedenti sostenute, nel silenzio-assenso degli USA, dall'UNMIK e dalla UE, che vedevano nella violenza antiserba scatenata nel marzo 2004 la ragione per rinviare qualsiasi discorso sullo status del Kosovo, poiché mancavano i requisiti minimi di sicurezza e vivibilità per le minoranze serbe, rom, e delle altre etnie non albanesi. Perché si potesse avviare solo il discorso dello status finale del Kosovo occorreva che la provincia serba sotto amministrazione internazionale avesse raggiunto gli standard minimi indicati dettagliatamente nel documento "Standards for Kosovo", pubblicato a Pristina il 10 dicembre 2003 e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU con dichiarazione del 12 dicembre 2003, completato dal "Kosovo Standards Implementation plan" varato il 31 marzo 2004, proprio a ridosso dell'esplosione di violenza del 17-20 marzo: standard di sicurezza, pari trattamento sul mercato del lavoro, libera circolazione nel territorio che, anche nell'ultimo rapporto del Segretario generale dell'ONU Kofi Annan, risultano ben lungi dall'essere raggiunti (11).

Nessuno dei rapporti o degli articoli – salvo quelli di W. Clark e Rugova – nega la gravità della situazione in cui sono costretti in una prigione a cielo aperto i serbi, i rom e la popolazione non albanese del Kosovo. Il rapporto Amato, anzi, pur senza scoprire nulla di nuovo rispetto a quanto denunciato da altri osservatori internazionali (12), dichiara senza mezzi termini che "un Kosovo multietnico non esiste salvo che nelle dichiarazioni burocratiche della comunità internazionale […] I Serbi in Kosovo vivono imprigionati nelle loro enclave senza libertà di movimento, né lavoro, senza neppure la speranza né l'opportunità di una significativa integrazione nella società del Kosovo. La posizione della minoranza serba in Kosovo è il più grande atto di accusa alla volontà e capacità dell'Europa di difendere i suoi conclamati valori. […] Sotto la direzione dell'Unmik il numero di serbi impiegato nella Kosovo Electric Company è sceso da oltre 4.000 nel 1999 a 29 oggi, su un totale di oltre 8.000 addetti […] la disoccupazione è tra il 60 e il 70 % (quasi il 90% tra le minoranze) […] La commissione condivide il giudizio del segretario generale delle N.U. Kofi Annan, secondo cui il Kosovo ha fatto progressi insufficienti per il raggiungimento degli standard accettati internazionalmente nel campo dei diritti umani, del rispetto delle minoranze e per il mantenimento dell'ordine pubblico" (13).
Tuttavia, in contrasto con il segretario generale dell'ONU e con le esplicite dichiarazioni di alcune cancellerie europee, tra cui quella italiana, che si attestano sulla posizione "standard prima dello status" (14), il nuovo pensiero di questi think tank è rovesciato: solo l'indipendenza potrà risolvere le questioni della sicurezza dei serbi e non albanesi del Kosovo. Il ragionamento è fattualmente e logicamente insostenibile: se oggi, nonostante la presenza di oltre 18.000 militari della KFOR quali truppe di interposizione, la vita dei serbi è costantemente in pericolo, se, come osserva lo stesso rapporto Amato, gli albanesi del Kosovo sono propensi – unici tra tutti i popoli della Jugoslavia – ad avere un territorio "etnicamente omogeneo" (15), se esiste una discriminazione sostanziale in tutti i campi della vita sociale, dal lavoro agli ospedali alle scuole, come sarà possibile salvaguardare domani i serbi del Kosovo e garantire loro condizioni di vita meno oppressive e precarie di quelle attuali? La sola promessa di indipendenza da parte della comunità internazionale renderà più insicura la vita delle minoranze, vanificherà qualsiasi anche remota chance di ritorno dei 250.000 profughi. Il rapporto Amato, del resto, ammette che "sono minime le possibilità di un ritorno su larga scala dei Serbi in Kosovo" e mentre propone piuttosto ipocritamente – è lo specchietto delle allodole della multietnicità! – che "la comunità internazionale provveda a incentivare per i serbi del Kosovo il ritorno anche nel caso in cui essi preferiscano vivere in zone della provincia maggiormente popolate da serbi piuttosto che in aree in cui vivevano prima della guerra", aggiunge – rivelando implicitamente il progetto di soluzione finale per i serbi del Kosovo – che bisognerà "prendersi cura anche di quelli che preferiranno non tornare", istituendo un "Fondo di inclusione", finanziato dalla UE, "per assistere l'integrazione nella società serba dei serbi del Kosovo che hanno scelto di rimanere in Serbia". Ciò che va assolutamente evitato infatti è "una `palestinizzazione' dei rifugiati che decidono di non tornare in Kosovo", che renderebbe molto vulnerabile la democrazia serba (16). Le parole sono pietre. I serbi del Kosovo, come ha già scritto Michel Collon, sono i palestinesi d'Europa!

Al di là di qualche parola d'occasione sulla multietnicità, la prospettiva che il rapporto cinicamente delinea non è quella del ritorno dei profughi serbi in Kosovo, ma del definitivo trasferimento in Serbia – con il bastone della pulizia etnica e la carota di un incentivo monetario della UE – dei serbi rimasti abbarbicati alle loro case e alla loro storia in Kosovo. È la "soluzione finale" per i serbi del Kosovo. La micidiale guerra del 1999 voluta da Clinton e D'Alema, Jospin e Schroeder, Blair e il generale Clark in nome dei diritti umani per fermare una indimostrata e indimostrabile "pulizia etnica" contro gli albanesi, si conclude sei anni dopo con l'eliminazione dei serbi dal Kosovo propugnata e sostenuta dalla "comunità internazionale" e dalla UE.
Val la pena osservare anche il rovesciamento delle priorità nella struttura del discorso della commissione Amato e degli altri think tank: dai "diritti umani" alla "stabilizzazione dell'area". La preoccupazione per i diritti umani e la condizione delle minoranze, che, almeno formalmente, campeggiava nei programmi dell'ONU e della UE, espressa nella formula "standards before status" cede ora il passo a più prosaiche considerazioni pratiche ed economiche. Pagare il trasferimento dei serbi dal Kosovo appare operazione meno costosa del mantenimento a tempo indeterminato dei militari della KFOR e del probabile aumento del loro numero in un Kosovo assolutamente instabile. La retorica dei diritti umani si toglie la maschera e parla oggi il linguaggio della stabilità e stabilizzazione dell'area, della sua inclusione nell'Unione Europea. I diritti umani furono un pretesto buono per fare la guerra contro la Serbia, ma oggi passano in secondo piano, non sono più la priorità delle priorità, sono un accessorio, un optional, di cui si può continuare a scrivere e parlare per riempire qualche spazio bianco sulla carta.


NOTE:
1)  Cfr. Kosovo: toward Final Status, Europe Report n. 161,
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3226&l=1.
2)  Cfr. The Balkans in Europe's Future, § 1.3.1, Kosovo's Final Status, http://www.balkan-commission.org/activities/pr-2.htm.
3)  Cfr. Kosovo: toward Final Status, op. cit., pp. 33; 36-37.
4)  A questo proposito, il rapporto dell'ICG è esplicito: "I paesi del gruppo di contatto (includendo com'è molto auspicabile la Russia, ma se necessario senza di essa)" dovrebbero definire con tempestività i tempi per la risoluzione della questione dello status (Kosovo: toward final status, op. cit., p. ii). Del resto, il rapporto della
Commissione di Amato prefigura l'indipendenza del Kosovo pur prevedendo l'opposizione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell'ONU (cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 20).
5)  Cfr. Corriere della sera, 27.4.2005: Franco Venturini, Verso l'indipendenza del Kosovo - La Superpotenza Europa e i Balcani; R. Holbrooke, Il pragmatismo della Rice aiuterà il Kosovo; 29.4.2005: Giuliano Amato Europa e Balcani - Il coraggio di un Kosovo indipendente.
6)  Il titolo dell'articolo dell'International Herald Tribune è in realtà molto netto e univoco: The path to independence, la strada per l'indipendenza. L'Unità, il quotidiano del partito di D'Alema, presidente del consiglio non pentito della guerra "umanitaria" e "democratica" contro la popolazione jugoslava del 1999, preferisce un titolo edulcorato e ingannevole, ospitando un articolo chiaramente negazionista di una pulizia etnica in atto e di una situazione invivibile per i serbi e le minoranze non albanesi, che lo stesso rapporto della Commissione Amato ammette apertamente.
7)  È quanto scrive R. Holbrooke nell'articolo Il pragmatismo della Rice aiuterà il Kosovo, Corriere della sera  del 27/04/2005.
8)  Il quotidiano negli ultimi tempi ha ospitato in bell'evidenza diversi articoli a sostegno dell'indipendenza del Kosovo. Si veda in particolare l'articolo della radicale Emma Bonino, assatanata sostenitrice con Marco Pannella dell'UCK nel 1999, Belgrado si rassegni e accetti la sconfitta, del 28/01/2005. Una posizione nettamente antiserba che non coincide neppure con quella del governo italiano, attestata sulla politica di prudente attendismo degli "standards prima dello status".
9)  Il rischio che le truppe USA e NATO si trovino invischiate a lungo in un Kosovo in ebollizione, - i moti del marzo 2004 hanno avuto a bersaglio principalmente la popolazione e i monasteri serbi, ma anche le truppe della KFOR e la polizia dell'UNMIK - viene sbandierato, a sostegno della richiesta di indipendenza immediata del Kosovo, anche nel rapporto dell'ICG, che ricorda gli impegni militari in altri scacchieri, quali Afghanistan e Iraq. (Cfr. Kosovo: toward Final Status, op. cit., p. 3).
10)  Si noti come il diritto alla sovranità territoriale della Serbia sul Kosovo, riconosciuto anche dalla risoluzione 1244, diventi per Holbrooke una "pretesa".
11)  Cfr. Report of the Secretary-General on the United Nations, Interim Administration Mission in Kosovo, 14.2.2005 (S/2005/88). Il rapporto, come i documenti sugli standard sono reperibili sul sito dell'UNMIK: http://www.unmikonline.org.
12)  Cfr. il rapporto del luglio 2004, vol. 16, No. 8 (D) della ONG, certo non filoserba, Human Rights Watch, "Failure to Protect: Anti-Minority Violence in Kosovo, March 2004" (http://www.hrw.org).
13)  Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., pp. 19-20.
14)  Cfr. il comunicato dell'agenzia France Press del 15/02/2005 sotto il titolo "L'indépendance du Kosovo serait `hautement déstabilisante', selon Rome": "Roma. Il governo italiano ritiene che l'indipendenza del Kosovo sarebbe `altamente destabilizzante' per la regione, ma rigetta ugualmente un ritorno indietro quando la provincia non aveva alcuna autonomia. `La posizione dell'Italia è che bisogna regolare la questione della qualità delle norme applicate in questa provincia prima di affrontare il problema del suo statuto', ha spiegato all'AFP un portavoce del ministero, utilizzando una formula sintetica inglese: `standards before status' per spiegare la posizione ufficiale. `Rimangono in Kosovo molti problemi irrisolti e in questo contesto la scelta di uno status definitivo sarebbe una fuga in avanti. Un'indipendenza sarebbe altamente destabilizzante', ha dichiarato Pasquale Terracciano, portavoce del ministero a una settimana dal viaggio che il capo della diplomazia Gianfranco Fini effettuerà nella regione" (http://195.62.53.42/pressreview/print_right.php?func=detail&par=12398).
Anche nella conferenza del 29 aprile Fini si mostra cauto. Mentre ribadisce l'importanza del ruolo degli USA, "senza i quali una stabilizzazione dell'area balcanica sarebbe difficilmente concepibile", richiama – diversamente dall'ICG e dalla commissione Amato – il ruolo della Russia, la centralità dell'ONU e la 1244, e rimane molto vago sul futuro, rigettando di fatto la proposta Amato: "Non possiamo indicare fin d'ora le intese, che evidentemente saranno in grado di definire il futuro del Kosovo solo se sapranno incontrare il consenso delle parti coinvolte" (cfr. http://www.esteri.it).
15)  Cfr. la tabella 22 dell'allegato al rapporto della commissione internazionale sui Balcani. Alla domanda: "Sarebbe meglio se, sotto gli auspici della comunità internazionale, fossero tracciati nuovi confini nell'ex Jugoslavia e ogni nazionalità consistente (large) vivesse in un territorio/stato separato", solo il 18% disapprova, contro uno schiacciante 72% (il rimanente 10% non risponde). Anche in Albania la stragrande maggioranza (68% contro un 20%) è favorevole a Stati etnicamente omogenei, mentre in tutti gli altri Stati della ex Jugoslavia gli intervistati dalla commissione sono nettamente contrari (Bosnia e Erzegovina: 55% contrari a stati etnicamente omogenei contro un 29%; Serbia: 53% contro un 19%; Macedonia: 68% contro 16%; Montenegro 56% contro 14%).
16)  Cfr. The Balkans in Europe's Future, op. cit., p. 22.



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