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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA

ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU



 
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Vaticano, Albania, Italia

La guerra per un protettorato religioso
romano-cattolico sui serbi

A cura di I. Pavičevac.
Fonti:

"Vatikan i Albanci" (Il Vaticano e gli albanesi) di Nikola Žutić, Ed. Nikola Pašić, Beograd 2000
"Kosovo e Metohija, i fatti”, Edizione Segretariato Federale dell’Informazione, Belgrado 1992
"Usta
še i pravoslavlje" (Gli ustascia e l'ortodossia) di Veljko Dj. Ɖurić, Ed. Be Etra, Beograd 1989
The Uprooting. A dossier of the Croatian genocide policy against the serbs", Ed. Velauto International, London – Belgrade – New York, 1992
"PREPISKA o arbanaskim nasiljima u staroj Srbiji 1898-1899", Ministarstvo Inostranih Dela, Drzavna Stamparija, Beograd 1899 / "Documents Diplomatiques - CORRESPONDANCE concernant les actes de violence et de brigandage des Albanais dans la Vieille-Serbie (Vilayet de Kosovo) 1898-1899", Ministère des Affaires Etrangères, Imprimerie de l'Etat, Belgrade 1899 (bilingue, disponibile in fotocopia presso CNJ ONLUS)
"Rugova Discusses Kosovo Issues With Italian Leaders And Pope", 13 March 1993, anche in JUGOINFO
"Rugova, il Kosovo e la conversione. «Simpatia per il cristianesimo»", di F. Battistini; Corriere della Sera, 27 novembre 2003
ANSA 22/1/2006: KOSOVO: E' MISTERO SU CONVERSIONE CATTOLICA DI RUGOVA
ANSA 23/1/2006: KOSOVO: RUGOVA; PATRIARCA VENEZIA, STIMAVA MONDO CATTOLICO
Vedi anche:
LE RESPONSABILITA' VATICANE NEL CONFLITTO BALCANICO: ALCUNI ELEMENTI
GALLERIA FOTOGRAFICA: LA GRANDE ALBANIA NAZIFASCISTA
Pagina sull'irredentismo pan-albanese
Pagina sul movimento ustascia




La difficile liberazione dal giogo ottomano
 
L’attuale obiettivo di creare una “Grande Albania”, con la proclamazione unilaterale del "Kosovo  indipendente" sostenuta dalla maggior parte dei paesi dell’UE, già in passato trovava sostegno e  ispirazione negli interessi geostrategici italiani e nelle mire del Vaticano e degli albanesi romano-cattolici.

L’idea di una Albania "allargata" come protettorato italiano, realizzata dal Fascismo nel 1941, permise la penetrazione dell’Italia in Albania, nel Kosovo e Metohija (abbreviato: Kosmet), in Montenegro e nella Macedonia occidentale. Una simile strategia imperialistica era in atto già  prima della I Guerra Mondiale, quando ancora non esisteva uno Stato albanese ma solo un vilayet ottomano.

Il controllo del Kosmet era uno degli obiettivi del movimento di liberazione serbo e del programma di unificazione nazionale serbo; questo fu evidente sia nella prima insurrezione (1804 – 1813) sia nella serie di ribellioni che ebbero luogo nella "Vecchia Serbia" (Raska o Zeta). Lo strumento più efficace delle rappresaglie turche furono gli albanesi musulmani - all’epoca denominati arnauti o con altre denominazioni - sicché ogni moto di liberazione dei serbi del Kosmet diventava uno scontro inevitabile con gli albanesi. Durante l’insurrezione nel cosiddetto pascialuk (territorio amministrativo) di Belgrado, enormi soprusi furono perpetrati contro il popolo serbo del Kosmet. Se ne trova testimonianza nella documentazione dei crimini commessi dagli albanesi, negli appelli all’amministrazione turca, nei rapporti compilati dai consoli degli stessi paesi europei stazionati nella regione (a Bitola, Skoplje, Prizren, Priština... Si veda: Prepiska / Documents diplomatiques ...). Di fatto, la prima (1876-1877) e la seconda (1877-1878) Guerra di Liberazione della Serbia e del Montenegro (all'epoca Zeta) contro la Turchia segnarono anche il primo scontro frontale tra i serbi e gli albanesi. Gli albanesi musulmani combattevano contro le truppe serbe in difesa dell’Impero Ottomano e per mantenere il controllo delle terre via via occupate in Serbia, in cui cioè si andavano stanziando. La popolazione cristiana nella Vecchia Serbia subì rappresaglie sanguinose.

La reazione albanese si diede per la prima volta una forma organizzata ed autonoma nella Lega di Prizren (1878) che formulò il concetto di “Grande Albania”. Il programma della Lega era diretto contro i popoli balcanici che andavano emancipandosi dall'Impero Ottomano, e indirettamente era diretto contro le potenze europee che avevano offerto un pur blando sostegno alle aspirazioni di Serbia, Montenegro e Grecia. Fondata su principi espansionistici, revanscisti e antislavi, la Lega ha pesato per decenni sui rapporti tra il popolo serbo e quello albanese.

Dopo il 1910 nei Balcani si inasprì sempre più la ribellione contro l’Impero Ottomano.
Contro di esso si rivoltavano adesso anche i feudi albanesi, particolarmente vicino alla frontiera col Montenegro. Dopo le due vittoriose Guerre Balcaniche di Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria contro la Turchia, e dopo la Conferenza di Pace di Londra, lo Stato albanese (già vilayet di feudatari albanesi) venne creato nel 1912 -1913 nelle frontiere dell’odierna Repubblica di Albania. Ma anche dopo la decisione della Conferenza degli Ambasciatori di riconoscere l’Albania indipendente (9 novembre 1921) le rivendicazioni territoriali nei confronti della Serbia, e non solo della Serbia, continuarono.

Nell’impostare le nuove frontiere degli ex feudi albanesi, l’Austria-Ungheria - non esente da appetiti verso i Balcani, e forte della concessione di un protettorato religioso sui romanocattolici presenti nel territorio serbo - cercava di spostarle quanto più possibile a nord, dove si trovava in prevalenza la popolazione romanocattolica. L'Austria si adoperava per formare lo Stato indipendente albanese, ritenendo che esso sarebbe stato parte della sua sfera di interesse ed avrebbe contribuito ad allontanare la Serbia dal mare Adriatico.  Dai giornali austriaci venivano sferrati attacchi contro la Serbia: così ad esempio il viennese “Die Information” la accusava di non essere tollerante verso la missione cattolica.
 
Anche il Montenegro cercava di opporsi al protettorato religioso austriaco. Per il Montenegro era importante, in caso di azioni militari verso Skadar (Scutari), assicurarsi l’aiuto degli albanesi romanocattolici. Perciò il Montenegro tra i primi si interessò agli albanesi arbanassi (cattolici nei territori turchi).  Il Montenegro li aiutava con armi, permetteva ai propri cittadini di aiutarli, di accogliere i fuggiaschi. Il Montenegro innanzitutto cercava di recuperare la città di Scutari – capitale del Regno Serbo di Zeta, le cui tradizioni amava citare il re Nikola (primo ed ultimo Re montenegrino) nel proclamare il Regno di Montenegro. 
La Bosnia fu un protettorato austriaco fino alla Prima Guerra Mondiale. Il clero romanocattolico austriaco già nel 1912 aveva avviato i suoi sforzi di convertire le popolazioni locali, con l’aiuto dei governi stranieri austriaco e italiano (allora alleati).


Un effimero Concordato

Di fronte alla ferma posizione austriaca di mantenere il suo protettorato religioso sui cattolici nei territori ex turchi, il Regno serbo si accinse ad un accordo bilaterale col Vaticano. Il governo serbo riteneva male minore un accordo bilaterale col Vaticano piuttosto che l’Austria-Ungheria continuasse ad esercitare il suo diritto di protettorato sui romanocattolici nel territorio serbo. Nella primavera del 1913, il rappresentante del governo serbo, dottor Lujo Bakotić, iniziò un dialogo informale con i prelati per un possibile concordato bilaterale. Ufficialmente fu ricevuto in udienza dal Segretario di Stato cardinale Merry Del Val il 12 gennaio 1914. Il Segretario seguiva "con simpatia" l’impegno del governo serbo per la stipula di un tale concordato, ma nello stesso tempo avvertiva che bisognava operare nel segreto assoluto, perchè nella questione jugoslavo – vaticana si poteva immischiare l’Austria-Ungheria. D’altronde Del Val non poteva lasciare disparte i suoi benefattori austroungarici perchè - diceva il Segretario - "ci hanno costruito chiese, pagano i preti e se non fossero loro, la nostra chiesa in alcuni luoghi se la passerebbe male". Percio’ Merry Del Val si impegnava a sottoporre soltanto un “Concordato locale”, relativo cioè ad alcune chiese, conventi e lasciti. Inoltre insisteva sulla libera conversione dei non-cattolici alla religione cattolica.
Bakotić “tirava per le lunghe” su questa decisione, giustificandosi che di questo non aveva parlato col governo serbo, e sostenendo che ciò non era avvenuto nemmeno con il Montenegro.
Già dai primi colloqui i rappresentanti vaticanensi insistevano, oltre che sulla conversione (perchè cioè diventassero uniati), anche sulla libera e diretta corrispondenza epistolare tra la Santa Sede e il clero romanocattolico in Serbia. Inoltre insistevano su di un impegno serbo per sovvenzioni statali alla Chiesa romano-cattolica, richiedendo somme concrete per la costruzione della chiesa cattolica e dell’edificio episcopale a Belgrado. Lo stesso Bakotić raccomandò “caldamente” al ministro Jovanović di accettare questa proposta. Il presidente del governo serbo Nikola Pašić protestò decisamente di fronte alle pretese del cardinale di inserire questa richiesta tardivamente.

Dopo 15 giorni di ricatti e trattative, il concordato si concluse così come il Papa voleva. La proposta suscitò le proteste dell’opposizione nel Parlamento di Belgrado, della chiesa ortodossa e della stampa nazionale. Così il giornale “Pijemont” n.14 (aprile 1914) criticava aspramente il Governo sulle conclusioni del Concordato, sostenendo che la Serbia aveva ceduto al Vaticano su tutto. “Il Governo doveva interrompere il dialogo per la dignità del Paese e della nostra Chiesa!”.
Il Concordato veniva firmato l’11 giugno 1914 (il 24 giugno secondo il calendario Gregoriano) dal cardinale Merry Del Val, per la parte vaticana, e dall’ex presidente del governo serbo, l’ambasciatore a Parigi Milenko Vesnić, per quella serba, malgrado le proteste e le pressioni austroungariche. In verità, con la stipula del Concordato il Regno serbo carcava di sbarazzarsi dell’insopportabile protettorato austroungarico sui romanocattolici sul proprio territorio. Alcuni giorni dopo, il 28 giugno, avvenne l’attentato a Sarajevo. Si ritiene che le manovre militari austriache a Sarajevo nel giorno di San Vito, data significativa per i serbi, e l'attentato al pretendente al trono Ferdinando siano, state usate come pretesto per attaccare la Serbia.

In base al Concordato, i sacerdoti romanocattolici - che prendevano ora uno stipendio dal governo di Belgrado - prima giurare la fedeltà ad un rappresentante del governo serbo pronunziavano le seguenti parole: “Giuro e prometto davanti a Dio e ai Santi Apostoli la fedeltà alla maestà del Re di Serbia”. Dovevano inoltre promettere che non avrebbero permesso al loro clero di partecipare a riunioni sedizione contro il sistema giuridico statale.
La tolleranza religiosa del governo serbo si manifestava anche nella validità dei matrimoni misti contratti davanti al prete cattolico, secondo i codici della chiesa romanocattolica - mentre il viceversa non era riconosciuto dalla controparte.
Il Concordato tra il Regno serbo e il Vaticano prevedeva la fondazione di diocesi, quale quella belgradese e quella di Skoplje (odierna Macedonia), dove vivevano gli schipetari romanocattolici (arbanassi). L’arcivescovo di Belgrado ed il vescovo di Skoplje, che spiritualmente governavano su tutti i romanocattolici del Regno serbo, erano sudditi direttamente ed esclusivamente del Vaticano, anche se erano stipendiati dal governo di Belgrado.

Malgrado la sconfitta dell’Austria-Ungheria nella I Guerra Mondiale, che mise fine anche al ruolo di questa sulla scena internazionale, Vienna in accordo col Vaticano continuò a lavorare alla destabilizzazione del sud dei Balcani, mentre gli italiani lavoravano ad instaurare forti relazioni politiche tra i musulmani e i romanocattolici di quello che si chiamava Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SCS, di lì a poco: Jugoslavia).
La propaganda viennese era particolarmente indirizzata verso la Bosnia, l'Erzegovina, e verso gli albanesi del Kosmet. L’albanese Hasan Beg di Priština era in costante contatto con Funker, caporedattore del viennese “Reichposte”, il quale indicava al Beg Hasan di lavorare costantemente all’avvicinamento dei musulmani e dei romanocattolici nel Kosmet e nella "Serbia del Sud" (odierna Macedonia), perchè questa era considerata l’unica salvezza per ambedue le parti.
Mehmed Spaho, capo dell’organizzazione jugo-musulmana (JHO), dava importanza al lavoro congiunto tra i musulmani e romanocattolici "contro il predominio serbo", mentre il legato jugoslavo a Vienna indicava nella parte romanocattolica - e precisamente nelle persone di Korosec e Stjepan Radić (quest’ultimo noto deputato croato nel Parlamento del Regno SCS) - la principale iniziatrice di questo lavoro.


Le ambizioni italiane verso l’Albania

Con il Regno SCS iniziano nuovi contatti sul versante adriatico per l'Albania.
Le ambizioni italiane erano direttamente in contrasto con quelle serbe, e jugoslave, il cui motto era “I Balcani ai balcanici”. Il Regno SCS di fatto si adoperava per una indipendenza effettiva dell’Albania; ma dopo la conferenza di Versailles l’Italia concentrò i suoi interessi contro qualunque influenza jugoslava in Albania.
Col Patto di Londra l’Italia si assicurò i diritti su Sazeno, Valona e il retroterra. Bisogna ricordare che già il 27 giugno 1917, in un suo discorso, il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino affermava che l’Italia non aveva interessi particolari verso quei territori,  ma voleva soltanto difendere gli interessi dell’Albania da terze potenze...
Il generale Ferrero per ordine di Vittorio Emanuele III rilasciò poi la nota dichiarazione con la quale si proclamava l’unità e l’indipendenza dell’Albania sotto l’egida e la tutela del Regno italiano.

Nel 1922 le relazioni diplomatiche jugoslave con l’Albania si stabilirono su basi normali. Con l’installazione della rappresentanza diplomatica albanese a Belgrado, le relazioni tra i due Stati erano amichevoli.
Però, con l’arrivo dei fascisti al potere in Italia nel 1922 iniziava un periodo di penetrazione più aggressiva dell'Italia in Albania. Il cambio di regime non scontentò il Vaticano, giacchè alla fine del suo discorso in Parlamento Mussolini riconosceva l’intervento di Dio nel lavoro del governo ed annunciava il ritorno del crocifisso nelle scuole. Nei verbali si legge che il Partito Popolare cattolico italiano nonchè l’ideologia ecclesiastica erano “impregnate di imperialismo italiano”: per essi il papato era una gloria italiana, la Chiesa cattolica era unica e soltanto “per un mesto italiano, la Chiesa cattolica non è soltanto italiana ma universale”.

Il Vaticano sostenne Mussolini nel suo stabilire più stretti rapporti con gli Stati reazionari. La politica mussoliniana dell’isolamento della Jugoslavia portò l’Europa sud-orientale in una situazione critica: Mussolini rafforzava l’alleanza con gli ungheresi e col movimento terroristico bulgaro-macedone, mentre l’Albania diventava un protettorato italiano.
Sottomettere l’Albania era la tappa iniziale per una ulteriore e più profonda penetrazione nei Balcani. Per realizzare questo obiettivo, l’Italia non badava a spese. Nella prima fase della penetrazione, che terminò con un fiasco, l’Italia investì circa 7 miliardi di lire, mentre la malaria provocava 25.000 morti tra i soldati e circa 180.000 malati. Tuttavia il governo fascista cercava di occupare Valona quanto prima e così assicurarsi, insieme all’isola di Sazeno, la base marittima e le direttrici Valona-Korcia e Drac-Elbasan-frontiere jugoslave. Gli italiani si assicurarono la navigazione libera sul fiume Bojana, offrendosi di prosciugare il lago di Scutari. Fu espresso il desiderio di impossessarsi delle miniere di carbone, dei boschi... Il governo italiano si appoggiava ad un grande numero di agenti e ad un grande numero di persone del clero, tanto da aprire i cosiddetti “Caffè dell’agente” (Agentske).

Nel luglio 1924 Ahmed Beg Zogu fu cacciato dall’Albania e trovò asilo a Belgrado. Del suo soggiorno scrisse il giornale “Balkanac”: 

Tutti ricordano quando arrivò, nella primavera del 1924. Accolto con grande ospitalità come tutti gli emigrati, gli fu assicurata totale libertà. Si vantava di lottare per i diritti dei popoli balcanici. Affermava che soltanto per questo aveva scelto l’esilio. Dava “besse” (besa = parola d’onore albanese) dappertutto e ad ogni passo, battendosi il petto, assicurando che avrebbe lottato fino alla morte per l’ideale dei “Balcani ai balcanici”. Gli si credeva pensando che non avrebbe violato la “besa”. Ma questo “besnik” (gioco di parole: in serbocroato “pazzerello”) era altrettanto generoso di “bese” a Roma...

Dopo alcuni mesi, nel dicembre del 1924, Ahmed Beg ritorna a Tirana. Un mese dopo proclama la Repubblica e se stesso come presidente. Dopo quattro anni proclamerà se stesso re di una nuova "monarchia elettorale". L’Italia gli da credito. Dal canto suo egli consegna all’Italia la Banca Nazionale, l’Isola di Sazeno, la concessione sui boschi, sulla sistemazione della costa e dei porti di Durazzo, Valona, San Giovanni di Medna, la libera navigazione sul fiume Bojana. Con l’arrivo delle navi militari italiane a Durazzo inizia il trasporto degli armamenti per l’Albania.

I romanocattolici popolavano allora soprattutto il nord dell’Albania, ed in piccole oasi arrivavano fino a Durazzo. A Scutari e dintorni il clero cattolico formato da francescani aveva grande influenza sulla popolazione analfabeta. I gesuiti e i francescani aprivano le loro scuole, i collegi, finanziati dal Vaticano e dall’Italia. La chiesa romanocattolica del sud dell’Albania, rappresentata dall’arcivescovo di Scutari, insieme a quella bulgara e a quella dell’Irak e di una parte della Palestina, fino al 1938 fu sotto la giurisdizione della Congregazione Propaganda Fide. Papa Pio XI con il suo “Moto proprio” mise il sud dell’Albania direttamente sotto la sua stessa giurisdizione. Con questa decisione il Papa dimostrava “il suo speciale interessamento e particolare amore verso l’ordine orientale, che è bellissimo e che il Papa vuole quanto più sviluppare”. Questo amore aveva, naturalmente, i suoi retroscena  - la propaganda e diffusione delle chiese “uniati”.

L’avvento del regime fascista in Italia non cambiò questo “amore”. Il governo italiano fascista era in stretti contatti con la gerarchia romanocattolica in Albania, la aiutava materialmente, versando contributi finanziari agli esperti di costruzione e ricostruzione delle chiese. Gli italiani richiedevano che sulle chiese ricostruite si mettessero targhe con la scritta “Fondazione italiana”, e agli ingressi il busto di Mussolini. In questa richiesta gli italiani copiavano gli austriaci, che prima della I Guerra mondiale avevano fatto allo stesso modo.
I romanocattolici di Scutari erano costernati, amareggiati del sostegno che gli italiani davano al regime di Ahmed Beg Zogu col pretesto che era l'unico che potesse governare e salvare l’Albania dalla cosiddetta minaccia bolscevica.

All’inizio degli anni Trenta le relazioni tra il governo albanese e la Chiesa romanocattolica si inasprirono. Il clero romanocattolico si pose in atteggiamento “battagliero” contro il governo albanese, avvalendosi del sostegno dei filo-italiani in Albania. In ballo era anche l’istruzione. Il governo albanese voleva una pubblica istruzione integrale, che seguisse il programma nazionale nello stretto spirito nazionale e non voleva cedere all’Italia sulla chiusura delle scuole confessionali.
Con questa politica gli albanesi "offesero" Mussolini in persona, urtandolo nel punto più sensibile: il suo imperialismo culturale, con cui, da discendente della Vecchia Roma, cercava di sottomettere i “popoli arretrati”.

Nel febbraio 1938 il principale avvenimento in Albania fu il fidanzamento di re Zogu con la principessa Apony, approvato in un primo tempo dal Parlamento. Geraldina Apony era figlia di Julius Apony e dell’americana Gladis Stuart; il suo bisnonno era un maresciallo del regno ungherese. Nella regione di Scutari questo fidanzamento non fu accolto bene, ma dai romano-cattolici naturalmente si, perchè ritenevano che la loro posizione sarebbe migliorata con una regina cattolica.
I musulmani, che costituivano la maggioranza nel Parlamento, mostrarono un forte dissenso. Questo fidanzamento sorprese gli stessi italiani perchè era stato preparato in gran segreto. Gli italiani erano scontenti perchè volevano sposare Zogu con una nobile italiana, per rafforzare la loro influenza in Albania.

L’Italia comunque continuò la sua azione improntata alla vecchia politica propagandistica per tramite del clero romanocattolico. Tra i sacerdoti si distinse Brunetti di Corcia, il quale conduceva la sua propaganda per le chiese uniati. Egli invitò a Corcia le suore romanocattoliche, e con loro  aprì una specie di circolo ricreativo gratuito che impartiva un corso di economia domestica, attirando così anche gli appartenenti di altre religioni.

Si arrivò quindi all’occupazione militare italiana, nell’aprile del 1939. Zogu con la famiglia lasciò il paese. Subito dopo l’occupazione fu proclamata l’Unione  tra l’Italia e l’Albania, e con l'unificazione della diplomazia fu chiusa anche l’Ambasciata Albanese a Belgrado. Poi furono chiusi i consolati albanesi a Skoplje e Bitola (Macedonia); in agosto fu chiusa l’Ambasciata jugoslava a Tirana, ridotta a Consolato Generale.
Così fu riconosciuta l'unificazione tra l’Italia e l’Albania e fu sancita la penetrazione dell’Italia nei Balcani.
 

Il proselitismo della chiesa romanocattolica nel Kosovo-Metohija

Nella nuova situazione gli albanesi di religione romanocattolica potevano professare più liberamente nella vita religiosa e pubblica dell’Albania. Negli anni Venti il Vaticano aveva dato piena facoltà al Nunzio apostolico in Jugoslavia nella scelta e nomina del nuovo vescovo di Skoplje. Questa nomina doveva avvenire in accordo col governo jugoslavo. Il rappresentante in Vaticano, dottor Josip Smodlaka, durante una conversazione con il sottosegretario vaticano, duca Borgandini, si mostrò scettico verso i sacerdoti albanesi. Smodlaka sapeva che il Vaticano era favorevole ad un candidato albanese, perciò disse che “in Jugoslavia non ci sono sacerdoti tra gli arbanassi, adatti e devoti al nostro Stato”, e per questa ragione propose un vescovo serbo o croato. Pensava così di evitare la nomina di un albanese ("arbanasso").
Smodlaka però non si aspettava che sarebbe stato scelto lo sloveno Ivan Franjo Guidovec che, con i suoi atti pubblici, suscitò diffidenza e sospetto.
Il comandante della Divisione regionale Vardar riferì nel giugno del 1925 che il vescovo Guidovec, durante la visita ai soldati di religione romanocattolica a Prilep, aveva officiato la messa in lingua tedesca ed ungherese. Il vescovo, non officiando la messa nella lingua ufficiale nazionale, aveva violato la Costituzione: perciò il comandante gli proibì di continuare la missione.

Il vescovo di Skoplje J.F. Guidovec aveva anche la giurisdizione del Kosmet, dove organizzava ogni anno in autunno le cosidette missioni “popolari”. Il vescovo si rivolgeva anche allo Stato jugoslavo per avere aiuto materiale. Egli svolgeva abilmente la sua missione: chiedeva un duplice  aiuto, sia quello previsto per i sacerdoti stranieri che quello ordinario per i sacerdoti e catechisti.
Manteneva contatti diretti con il parroco di Skoplje, l’albanese Gaspar Zadrim, il quale anche se molto anziano eseguiva la sua missione con visite ai fedeli delle parrocchie del Sangiaccato e di Mojstir, in Serbia. Da Lubiana aveva chiamato Andrija Tumpej, che visitava i romanocattolici nella regione di Bitola in Macedonia. Queste missioni a volte venivano effettuate anche senza l’approvazione del Ministero degli Affari Interni, il che suscitò sospetti presso la gendarmerie del luogo, finchè Zadrim fu allontanato.
Tutto questo non intaccò il proselitismo cattolico del vescovo e la diretta cooperazione con le consorterie straniere per l’affermazione della serbofobia e dell’antijugoslavismo. Nella diocesi di Skoplje l’educazione poteva essere impartita soltanto ai bambini romanocattolici. Gli insegnanti venivano nominati a Skoplje, Prizren, Janjevo, e dunque proprio in questi luoghi si diffusero in gran numero i nuovi cattolici. Inoltre, i sacerdoti e vescovi cattolici (di varie nazionalità) effettuavano una intensa attività di conversione dei serbi e degli arnauti (schipetari) del Kosmet.

Dai Registri della Chiesa di Stubli risulta che già dal 1842 (a Letnica dall’aprile 1906) molti musulmani (arnauti) si erano iscritti come romanocattolici. Nei registri erano scritte in latino le generalità sia del battezzato che del padrino o madrina, col nuovo nome romanocattolico (come succede ancora oggi -2008- in certe missioni cattoliche dell'Africa). Ecco alcuni esempi di nomi di musulmani (arnauti) convertiti in cattolici:
Mehmed, figlio di Demo Mehić di Donja Stubla e di madre Duna Serafović, nato il 24.5.1912, battezzato nella chiesa di Stubla col nome di Nicola, testimone al battesimo Joze Ismović;
Eset, figlio di Demo Mehić di Donja Stubla e di madre Neda, battezzato col nome Djon il 4.4.1914, nella chiesa di Stubalj. Il padrino è stato Jozo Ɖorđević;
Alid, figlio di Ajvaz Jašarović di Kuredža e di madre Hana, battezzato il 21.6.1916 nella chiesa di Letnica con il nome di Giorgio dal padrino Gega Latifić;
Riza, figlio di Baslimović Ramo di Donja Stubla, e di madre Ajerija, è stato battezzato il 24.5.1916 con il nome di Giorgio. Padrini erano Miko Ivin ecc...
I padrini oltrechè arnauti potevano dunque essere anche serbi convertiti alla religione romanocattolica. I vertici della comunità religiosa islamica segnalarono alle autorità statali questa “azione di proselitismo aprioristico” del clero cattolico che, in modo illegale, lavorava alla conversione dei musulmani, citando il caso concreto di come questi sacerdoti invitassero i musulmani alla conversione al cattolicesimo perchè, in caso contrario, l’Italia “avrebbe fatto ammazzare tutti quando verrano occupati da essa”!
Contemporaneamente si costruivano chiese cattoliche - malgrado il decreto del Ministero della Giustizia secondo cui non si poteva costruire una chiesa cattolica vicino ad un cimitero ortodosso. Alle accuse degli organi statali il vescovo Guidovec, nello stile dei “furbi latini”, rispose che non si aveva l’intenzione di costruire alcuna chiesa. Malgrado ciò la chiesa fu effettivamente costruita, e molto presto, per sole 30 famiglie albanesi, ed inaugurata il 1. dicembre 1931 in presenza del vescovo stesso. Per la costruzione si spese “una grossa somma di denaro”, mentre il tetto fu trasportato da Ɖakovica.

Con tale proselitismo così bene organizzato, alla vigilia della II Guerra mondiale, il numero dei romanocattolici raddoppiò rispetto al periodo della I Guerra mondiale...
 

(seconda parte: dopo il 1941)
 
 
Dopo l’occupazione dell’Albania da parte dell’Italia fascista nell’aprile del 1939, la propaganda congiunta albanese e italiana sull’imminente creazione di una “nuova” e “grande” Albania stimolò la nascita di un movimento panalbanese ben organizzato. La maggior parte degli albanesi cominciò a credere che il fascismo, finalmente, avrebbe provveduto a cambiare i confini dell’Albania. Con un tale spirito e con aperto entusiasmo, la maggioranza degli albanesi accolsero la caduta politica e militare del Regno di Jugoslavia (aprile 1941) e della Grecia in quanto realizzazione degli obiettivi nazionali, visto che subito seguì l'annessione
del Kosmet, della Macedonia occidentale e di parte del Montenegro e della Grecia da parte dell’Albania fascista.

Contestualmente, soprusi e violenze contro la popolazione non albanese assunsero le dimensioni del genocidio. Questo era in effetti uno degli obiettivi dell'ideologia fascista panalbanese. Nel periodo 1941–1945, 100.000 albanesi provenienti dall’Albania si insediarono nei villaggi e nelle case serbe abbandonate.
“Durante l’ occupazione tedesca (1943) i soprusi continuarono con il famigerato Regiment Kosova che seminò distruzione in quasi tutte le parti del Kosovo-Metohija. Per realizzare l’obiettivo fondamentale della Seconda Lega di Prizren – la difesa di tutti i territori popolati dagli albanesi - fu creata una divisione SS di volontari, chiamata Skenderbeg, che contava più di 11.000 effettivi” (
Kosovo e Metohija, i fatti).

Sui crimini commessi dalla divisione Skenderbeg e dagli altri corpi militari e paramilitari collaborazionisti - ad esempio Balli Kombetër, da cui l'appellativo di balisti per intendere i nazionalisti pan-albanesi filofascisti - rimandiamo agli articoli seguenti:

Le Radici Del Fascismo in Kosovo (George Thompson, 5-3-2000)

PASSATO PRESENTE. Sulla continuita` della politica grande-albanese della Germania (di Matthias Kuentzel, 2001)

Eyewitness to Genocide in Kosovo: Kosovo-Metohija and the Skenderbeg Division (by Carl K. Savich)

Genocide in Kosovo: the Albanian Skenderbeg Division (by Carl K. Savich)

Tetovo and Greater Albania During World War II, 1941-1944 (by Carl K. Savich)

MILLENOVECENTO... (Coordinamento Romano per la Jugoslavia, marzo '99)




Il proselitismo della chiesa romanocattolica in Croazia

È bene contestualizzare la moderna problematica cattolica-albanese nell'ambito della più generale guerra di religione combattuta nel Novecento dalla Chiesa di Roma nei Balcani. Pur non essendo questa la sede per un approfondimento delle vicende croate e degli altri territori jugoslavi, vanno ricordati alcuni eventi salienti.

Negli anni Trenta il Regno di Jugoslavia era strutturato in
banovine (contee) che prendevano in prevalenza il nome dai principali fiumi. Nel 1939, rompendo con il criterio puramente geografico, fu concesso di creare una banovina Croazia, che prendeva il territorio di diverse banovine estendendosi fino al fiume Drina. Nel 1941, con la aggressione nazifascista, la Jugoslavia fu smembrata e nei confini della banovina Croazia fu proclamato il cosiddetto Stato Indipendente Croato (Nezavisna Država Hrvatska, NDH) retto da Ante Pavelic e sostenuto da Mussolini e Hitler. Inizia così il "pogrom legalizzato" dei serbi ortodossi che popolavano da centinaia di anni regioni della Croazia. L’ordine esplicito fu quello di “cacciare un terzo dei serbi, un terzo convertire, un terzo ammazzare”. Lo Stato degli ustascia di Pavelic era intimamente legato alla Chiesa cattolica croata, a capo della quale era l’arcivescovo Alojzije Stepinac, descritto come “L’arcivescovo del genocidio” nel libro di Marco Aurelio Rivelli (per i riferimenti del libro, per altra bibliografia in materia e per numerosa documentazione si veda anche la nostra pagina dedicata).

I simboli degli ustascia: armi e crocefisso

Ante Pavelic proveniva dall’Erzegovina, inserita nella banovina Hrvatska, come d'altronde i più grandi nazionalisti ustascia e come tanti frati francescani che appoggiavano e salutavano con il “saluto romano” i gerarchi ustascia e ne condividevano i metodi feroci. Un esempio soltanto è quello di Max Luburic che quando convertiva un serbo ortodosso metteva il saio, quando poi lo ammazzava indossava l’uniforme ustascia, dicendo: “L’anima ti ho salvato ma il corpo no!” Noti episodi della ferocia ustascia furono descritti anche dall'italiano Curzio Malaparte.

La Chiesa ortodossa fu oggetto di spietata persecuzione, in linea con la peggiore tradizione "militante" della Chiesa romanocattolica che sin dallo scisma del 1054 aveva cercato di annientare strategicamente lo scisma degli ortodossi, agendo in particolare verso i Balcani.
La politica genocida ustascia amava definire come Serbi ortodossi "tutti quelli che si fanno la croce con tre dita".
Dapprima (1942) nella Costituzione dello NDH venne imposta la creazione di una Chiesa ortodossa croata, con nomine di preti ortodossi obbedienti.

Il decreto del "Poglavnik" (Duce) Ante Pavelic
che costituiva la “Chiesa ortodossa croata” (Ustase i pravoslavlje.
Cliccare sulla immagine per ingrandire)


Poi, nel 1943, su istruzioni del Segretariato di Stato di Papa Pio XII, al clero nello NDH fu proibito di usare il vero nome “ortodosso”, dovendosi piuttosto usare l'appellativo di Chiesa “apostata” o “scismatica”.

Un Decreto ustascia proibì l’uso della grafìa cirillica. Il prete cattolico Bozidar Bralo, portavoce degli ustascia di stanza a Sarajevo, notificò telefonicamente il Decreto al metropolita Petar Zimonjic. In quanto disobbediente, Petar Zimonjic venne poi arrestato, torturato, rinchiuso nella prigione di Petrinja, fotografato e registrato con il numero 29781. Poi fu trasferito nel Campo concentramento di Kerestinac vicino Zagabria. Tanti altri preti ortodossi venivano arrestati, torturati e barbaramente ammazzati, come ad esempio Platon Jovanovic, vescovo di Banja Luka, Sava Trlajic, di Gornji Karlovci, Bogoljub Gakovic, Stanislav Nasadil, e tanti altri (The Uprooting).


Dopo la Liberazione (maggio 1945) la Jugoslavia processò gli altri prelati ecclesiastici che erano stati più o meno direttamente implicati nelle politiche e nei crimini commessi dai regimi nazionalisti nei quali era stata squartata la Jugoslavia sotto il nazifascismo. Tra questi prelati c'era anche Alojzije Stepinac, che però nel frattempo era stato "promosso" cardinale dal Vaticano. Stepinac fu condannato alla detenzione, commutata poi con gli arresti domiciliari nella sua cittadina natale; durante la pena Stepinac riceveva in casa anche personaggi di spicco.


La Jugoslavia socialista e la sua brutale distruzione

Nella Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, le religioni, le Chiese, furono nettamente separate dallo Stato. Esse potevano professare i rispettivi culti, stampare i loro giornali, autofinanziandosi. Non potevano intromettersi nelle faccende statali e, soprattutto, non era loro concesso di seminare odio tra i popoli.
Mai più uno jugoslavo avrebbe alzato il coltello contro un altro jugoslavo! Questo era il giuramento. Ma i gravi crimini della II Guerra Mondiale non furono dimenticati.
Ne' dimenticò la Chiesa cattolica di proseguire con il suo proselitismo. Il proselitismo cattolico, basato sulla serbofobia e sull’odio per lo stato unitario, cioè sull'antijugoslavismo, si riaccese con la morte di Tito, avvenuta nel maggio del 1980.

Particolarmente forte fu il risveglio del fanatismo nazionalista e religioso nelle aree dove i croati convivevano con i serbi. Proprio in una di queste aree inizia ad “apparire” la Madonna - a Medjugorje, un anno dopo la morte di Tito. Medjugorje è tra i monti nell’Erzegovina; fu scenario di grandi orrori nella guerra di Liberazione 1941–1945. Solo nel 1990 i serbi esumarono le fosse comuni esistenti nell'area, e con lo scoppio del nuovo conflitto fratricida portarono via i resti dei loro cari.
Di nuovo per i serbi che abitano tanti territori jugoslavi è all'ordine del giorno la tragica fine che avevano fatto i loro padri. Perciò in tanti abbandonano le case, le terre dove le famiglie hanno vissuto per centinaia di anni. Molti perdono il posto di lavoro e sono costretti ad emigrare anche se non vorrebbero; altri si organizzano e provano a costituire strutture, istituzioni, milizie separate. Dopo gli anni della guerra, oggi i pochi serbi che rimangono in Croazia sono essenzialmente anziani. Assieme ad esponenti di altre nazionalità, essi sono “tutelati” come specie rare, per dare l'illusione che la Croazia sia uno Stato democratico e di diritto. Piano piano, però, intere cittadine serbe vengono assimilate. Un esempio è quello di Tenje presso Osijek; o quello della vicina Dalj, dove i bambini serbi sono stati allontanati dalla scuola, e costretti a frequentarla in un’altra cittadina più vicina alla frontiera con la Serbia...
Viaggiando oggi per le Krajine (le regioni che fino al 1994 erano a maggioranza serba, nelle ex frontiere amministrative della Croazia) si possono notare tante case serbe vuote, diroccate. Spuntano nuovissime, invece, le chiese cattoliche - una, mastodontica, dovrebbe sorgere nelle vicinanze del Parco nazionale dei laghi di Plitvice, patrimonio culturale mondiale - e i luoghi di pellegrinaggio. Coniugando il turismo profano con quello religioso si estirpano le radici dei serbi ortodossi.


Il Vaticano per lo squartamento della Jugoslavia

Alla fine del 1991, il Vaticano non aveva perso tempo a riconoscere l’indipendenza delle "cattoliche" Slovenia e Croazia.
Il papa aveva parlato all'Angelus delle "legittime aspirazioni del popolo croato"; il riconoscimento ufficiale da parte del Vaticano avviene il 13 gennaio del 1992, contro il parere di grandissima parte della comunità internazionale, almeno apparentemente: gli altri paesi europei si adegueranno dopo due giorni.
La guerra è scoppiata, e con i riconoscimenti internazionali si cronicizza e si aggrava.

Nel 1994 è la prima visita del papa a Zagabria. Il viaggio di Karol Wojtyla in Croazia avviene nel pieno del conflitto bosniaco, mentre è ancora aperta la ferita delle Krajne, ed è una evidente boccata d'aria per il regime di Tudjman, con il quale il papa si incontra e presenzia a cerimonie pubbliche. Il papa prega sulla tomba del nazista Stepinac, nell'entusiasmo dei seminaristi di San Girolamo (la chiesa croata di Roma, all'inizio di Via Tomacelli, nota tra l'altro per avere ospitato Pavelic in fuga dopo la guerra; cfr. il libro "Ratlines" di M. Aaron e J. Loftus) presenti a Zagabria per l'occasione.

Il 26 novembre successivo Vinko Puljić, arcivescovo cattolico di Sarajevo, è nominato cardinale dal papa insieme ad altri 30 che rispecchiano le tendenze della geopolitica vaticana. Citiamo ad es. Mikel Loliqi, 92enne cardinale di Scutari (Albania). In onore di Puljić due giorni dopo si tiene un concerto sinfonico nella stessa chiesa di San Girolamo.

Nel 1995, dopo le notizie di stampa su Srebrenica e mentre si parla insistentemente di una visita del papa a Sarajevo, in luglio Giovanni Paolo II in una dichiarazione ai giornalisti si schiera per l'intervento militare (contro i "tentennamenti" della comunità internazionale, perchè si faccia finalmente "il necessario" per punire gli aggressori, e così via). Pochi giorni dopo Tudjman ordina il definitivo "repulisti" della Krajna, mentre in settembre, dopo l'ennesimo grande attentato sarajevese stile "strategia della tensione" (v. Cronologia), la tanto invocata "comunità internazionale" interviene a forza di bombe contro i serbobosniaci.
In dicembre, con gli accordi di Dayton, la guerra si interrompe.

Durante la primavera 1997 (12 e 13 aprile) si realizza la "tanto attesa" visita del papa a Sarajevo.
Ma il gesto più offensivo nei confronti dei serbi è senz'altro la beatificazione di Alojzije Stepinac,  da parte di Papa Wojtyla, di nuovo in visita "pastorale" nella Croazia di Tudjman, il 3 ottobre 1997. In quei giorni, oltre a beatificare Stepinac Wojtyla pronunzia alcune frasi rispetto alla situazione in Kosovo, oggetto di una violentissima campagna-stampa, che alludono al diritto di "ingerenza umanitaria" da parte della "Comunita' Internazionale", cioe' alla liceita' di un intervento armato per "aiutare chi soffre". Desiderio puntualmente realizzato con i criminali bombardamenti della NATO della primavera 1999. Quando il 24 marzo 1999 la NATO effettivamente attacca la Repubblica Federale di Jugoslavia con il pretesto del Kosovo, il papa cita una frase di Pio XII - vale a dire di quel suo predecessore che non solo non aveva fatto nulla per denunziare e fermare il nazifascismo, ma che viceversa benedisse Pavelic e lo sostenne tramite il clero croato: "Con la guerra tutto e' perduto, con la pace niente e' perduto". All'Angelus pasquale, una settimana dopo, il papa afferma retoricamente: "Ma come si puo' parlare di pace quando si costringono le popolazioni [albanesi] a fuggire... e se ne incendiano le abitazioni?... E come rimanere insensibili di fronte alla fiumana dolente dei profughi dal Kosovo?". Percio', a parte la discutibile richiesta di una "pausa" nei bombardamenti in occasione della Pasqua (cattolica, non ortodossa), il Papa non fa appello per la loro cessazione incondizionata.

Nei giorni successivi la stampa riporta anche le dichiarazioni del Cardinale croato di Sarajevo Vinko Puljić che rivendica la giustezza dell'intervento militare argomentandola con la necessita' "di estirpare la malattia" e di sconfiggere una volta per tutte "il creatore della guerra" Slobodan Milosevic.

E con il Kosovo e Metohija, che ci ha dato l'occasione per questo scritto, vogliamo terminarlo.

Alla fine della II Guerra Mondiale e per tutto il periodo della Jugoslavia socialista, la missione romano-cattolica nel Kosmet e dintorni ha avuto minore incisività, anche a causa del governo ateista di Enver Hodža.
La ripresa è alla fine degli anni Ottanta. Il 1990 era stato l'anno dedicato all’albanofona Madre Teresa di Calcutta, che ebbe i natali a Skoplje in Macedonia. Lo stesso anno avevano raggiunto il culmine le tensioni tra albanesi e serbi nella regione del Kosmet, annunciando lo scoppio della guerra. Dinanzi a personalità albanesi Giovanni Paolo II, in uno dei paesini albanesi del meridione d'Italia, aveva celebrato la Madonna di Scutari, patrona e protettrice dell'Albania. Durante la celebrazione il papa aveva affermato: "Madre della speranza regalaci il giorno nel quale questo popolo generoso possa essere unito", dichiarando così esplicitamente il sostegno del Vaticano alla causa degli albanesi del Kosovo.
E' degli anni successivi la visita di Wojtyla in Albania (paese - per inciso - tuttora a stragrande maggioranza atea o, al limite, musulmana) dove, tra l'altro, egli prega per gli albanesi che sono “dall’altra parte”, cioè in Jugoslavia - specialmente in Kosmet. Da registrare la contemporanea frequentazione di Madre Teresa con pezzi grossi dello Stato, non esclusa la vedova di Hoxha, con la quale presenzia ad una cerimonia dinanzi ad un monumento alla "Grande Albania".

Nel marzo 1993 Wojtyla riceve Ibrahim Rugova a Roma, gli conferisce una medaglia e gli promette appoggio per la causa albanese (fonte: Rugova Discusses...).
Il leader politico della "Lega Democratica del Kosovo" (LDK), formazione irredentista legata al patto NATO, è già presentato dai giornalisti come "Presidente" di una fantomatica "Repubblica del Kosovo". Di fatto, la LDK ha iniziato a praticare il boicottaggio assoluto della vita politica e sociale jugoslava costruendo nella provincia serba del Kosmet un sistema "parallelo" in tutte le attività - dalla sanità all'istruzione - fondata su di un vero e proprio "separatismo etnico". Questo sistema parallelo è salutato in Occidente, soprattutto dai settori "pacifisti" cattolici entusiasti del suo carattere "non-violento", ed è sostenuto con finanziamenti di vario tipo provenienti dall'estero, soprattutto da Germania, Svizzera ed USA. Ricordiamo in particolare il "governo in esilio" di Bukoshi, filiazione della LDK, con sede in Germania.
Rugova è musulmano, appartiene ad una antica famiglia di notabili legati all'impero ottomano, i suoi genitori erano stati giustiziati dai partigiani in quanto collaborazionisti del nazifascismo. Curiosamente, la sua LDK partecipa ai congressi della Internazionale Democristiana. E' curioso che da noi di Rugova si sia detto solamente che è un "pacifista", mentre nessuno ha mai citato le sue dichiarazioni, più volte ribadite agli organi di stampa stranieri, come lo zagrebino "Danas" (1992), secondo le quali l'ideale per il Kosovo è uno status transitorio di protettorato internazionale, per poi unirsi all'Albania.

Nel corso di tutti gli anni Novanta e fino ad oggi, ampi settori del volontariato cattolico appoggiano il movimento di Rugova in particolare, e la causa kosovaro-albanese in generale. Personaggio di spicco di queste iniziative di solidarietà è senza dubbio Alberto L'Abate, docente universitario teorico della nonviolenza, animatore dei "Caschi Bianchi", della "Operazione Colomba", e di altre iniziative di segno "pacifista" e religioso insieme. L'Abate si vanta in numerose sedi di essere amico personale di Rugova. Militanti cattolici italiani legati a L'Abate, o alla Caritas, o ad altre filiazioni vaticane, sono presenti stabilmente in Kosovo prima, durante e dopo i bombardamenti della NATO.
Peraltro, tra le varie presenze ed iniziative cattoliche, almeno una va ricordata in senso positivo:
la mediazione della romana Comunità di S.Egidio, che nel settembre 1996 ottiene da Rugova e Milosevic la sottoscrizione di un accordo per le scuole, per consentire ai bambini di lingua albanese di ritornare a frequentare le classi miste. Ma l'atteggiamento razzista ("boicottaggio") dei leader kosovaro-albanesi impedisce l'applicazione dell'accordo: i bambini sono costretti a crescere nella ghettizzazione, nell'apartheid, nell'odio contro lo Stato e contro i valori multinazionali della Jugoslavia.

L'8 maggio 1999, ad appena 3 giorni dal suo arrivo in Italia durante i bombardamenti della Nato, Rugova ebbe un incontro con monsignor Jean-Louis Tauran, segretario per i rapporti con gli Stati preso la Santa sede, chiedendo esplicitamente di potere vedere il Papa. Incontro che venne concesso in appena 72 ore. Anche in seguito i contatti con il Vaticano furono frequenti (un altro incontro tra Rugova e Giovanni Paolo II avvenne il 20 dicembre del 2003). La posizione di Rugova sui bombardamenti fu chiara ed esplicita: "Noi kosovari dobbiamo ringraziare Dio per l'intervento della NATO che è servito a salvare un popolo e una civiltà'' (Rugova, testuale, dall‘ANSA del 13/02/2003).
Raramente dei leader politici erano caduti così in basso come quelli albanese del Kosmet, che salutarono con gioia chi li aveva bombardati. Rugova parlò a più riprese della NATO come del "nostro esercito". Eppure le “bombe intelligenti” non avevano distinto i serbi dagli albanesi.

Nel 2003, colpo di scena: Rugova si converte alla chiesa romano-cattolica. Riportiamo testualmente dal Corriere della Sera (fonte: Rugova, il Kosovo e la conversione):

Presidente Rugova, è vero che si è convertito al cristianesimo? Un sorriso, un lungo silenzio. ... «Diciamo così: oggi nutro una certa simpatia nei confronti dell' educazione cristiana e occidentale ... La nostra educazione di provenienza è occidentale. E anche storicamente, la prima fede praticata dal popolo albanese è stata il cristianesimo. Le moschee e il resto sono arrivati dopo. Già con gli Illiri, coi Romani ci furono in questa terra fermenti di cristianesimo. E invece, con gli Ottomani, una parte di questa popolazione è stata portata all' Islam con la violenza. Questo è accaduto anche dopo Skanderbeg e la sua resistenza all' invasione dei Turchi ... Il mio è un interesse culturale e spirituale del tutto personale. Vede quel quadro? (indica l' olio d' un ritratto su sfondo verde, opera d' un pittore kosovaro) E' un ritratto di Pjeter Bogdani. Fu un grande vescovo del Kosovo, nel ' 600 combatté la penetrazione islamica in questa terra. Una figura straordinaria, molto attuale per chi vuole capire queste epoche di confronto tra civiltà».
Quando si farà battezzare? Altro sorriso: «Si vedrà... Ora il mio obbiettivo è soprattutto politico: voglio mirare a una vera tolleranza fra cristiani e musulmani». Rugova folgorato sulla via di Pristina. E' da almeno un anno che circolano voci sulla conversione del «Gandhi dei Balcani», capo storico contestato dalla leadership kosovara, ma ancora forte d' una maggioranza politica. Un sacerdote italiano segue questo cammino di fede fin dal ' 99, dai tempi dell' esilio romano di Rugova, quando questa terra veniva «serbizzata» dalle truppe di Milosevic e bombardata dalla Nato: «Se si è convertito? - si schermì il prete, mesi fa, alla nostra domanda -. Non so se sia opportuno rivelarlo. In ogni caso, chiedetelo a lui». Fatto: una mattina di novembre il presidente del Kosovo, anziché sottrarsi, s' alza dalla sua poltrona rosso impero, primo piano del palazzo sui colli di Pristina, e ci accompagna in una sala vicina, davanti al plastico color alabastro d' una cattedrale. «E' il mio sogno: un mausoleo per Madre Teresa di Calcutta, grande cristiana e grande albanese. L' hanno disegnato due architetti italiani, Bruno Valente e Giuseppe Durastanti. Sono stato in Vaticano. Ho mostrato il progetto anche al vostro ministro Buttiglione». Ma quei soldi non si potrebbero usare per cose più urgenti? «Il progetto sarà finanziato con le donazioni individuali. In ogni caso, a noi servono questi simboli. ... Il futuro del Kosovo indipendente è legato al suo ingresso nella Nato ... La bandiera è già pronta (Rugova ne mostra una nella sala, vicina a quella albanese). L' aquila schipetara in un cerchio rosso su sfondo blu, che è il colore del nostro cielo, della tolleranza e dell' Europa. Ci sono anche la scritta "Dardania", antico nome del Kosovo, e una stella a sei punte, quella di Skanderbeg... ». La bandiera sventolerà sulla cattedrale di Madre Teresa? «E' presto per dirlo. Il terreno c'è, la prima pietra della chiesa è già stata posata. Nel 2004 cominceranno i lavori. Abbiamo fretta di finirla». Perché? «Ho chiesto al Papa di venire a inaugurarla».

Secondo il quotidiano di Pristina ''Lajme'', Rugova era già stato battezzato addirittura il 24 aprile 1994: « Ad officiare il rito sarebbe stato Giovanni Paolo II: Rugova avrebbe deciso come nome cattolico quello di Pietro (Pjeter in albanese), una scelta volutamente ispirata al fondatore della Chiesa, dal quale Rugova sentiva di aver ereditato la stessa determinazione, rivolta nel suo caso alla costruzione di un Kosovo sovrano e indipendente. Una persona molto vicina a Rugova tuttavia smentisce: ''Io ho parlato con lui più volte della questione - confida all'Ansa - non c'è dubbio che desiderasse essere battezzato, e che avesse abbracciato la fede cattolica se non altro dal punto di vista spirituale, ma con altrettanta certezza escludeva l'ipotesi di una conversione formale. La mia gente, ripeteva, non lo capirebbe" » (fonte: ANSA 22/1/2006). Al di là delle indiscrezioni, in occasione della morte, avvenuta nel gennaio 2006, in molti ricordano i profondissimi legami mantenuti da Rugova con gli ambienti romano-cattolici: « "Rugova con grande sforzo ha voluto baciarmi l'anello - ricorda il cardinale Scola nel corso di un'intervista concessa oggi all'emittente radiofonica diocesana Gvradio in Blu - mi ha colpito molto come segno di rispetto, non verso la mia persona, ma verso il Papato e la Chiesa. E' un gesto sempre piu' raro anche tra i cattolici''. ''Ho sempre avuto grande stima per lui, fin da quando ho cominciato a leggere i suoi scritti nella meta' degli anni '80 - aggiunge il patriarca di Venezia - e' stato uno dei politici e pensatori piu' illuminati che l'Europa ha avuto''. La morte di Rugova, osserva ancora il cardinale Scola, ''e' grave non solo per il Kosovo, che ha appena perso anche il vescovo monsignore Mark Sopi, altra grande figura carismatica, ma per tutta l'Europa'' » (fonte: ANSA 23/1/2006).

Nonostante l'obiettivo di fare del Kosmet un protettorato NATO sia stato già conseguito, nonostante i rapporti etnici siano stati ora realmente (e non solo verbalmente o fittiziamente) stravolti a favore della componente albanese - attraverso l'immigrazione di centinaia di migliaia di albanesi dall'Albania, attraverso la cacciata di mezzo milione tra serbi ed altri estranei all'irredentismo "balista", attraverso violenze di ogni tipo -, nonostante tutto questo il movimento irredentista, ora guidato dalla linea tutt'altro che pacifista dei terroristi UCK, non si accontenta, fino all'ottenimento dell'obiettivo principale: la proclamazione dell'indipendenza.
Questa avviene, sotto l'egida della NATO, nel febbraio 2008.

Adesso sì che gli albanesi "etnici" hanno raggiunto anche più del 90% della popolazione sul territorio!... I pochi serbi, e gli appartenenti alle tante altre etnie autoctone, vivono ora in scandalose “prigioni a cielo aperto”, spesso attorno ai monasteri ortodossi ancora non distrutti dalla furia vandalica degli estremisti.
Quanti monasteri e chiese bizantine, risalenti anche al XIII secolo, patrimonio culturale mondiale, sono state distrutte, bruciate, gli affreschi deturpati, i cimiteri ortodossi profanati... (vedi la nostra pagina dedicata)

Quello che hanno fatto a Djakovica

Sarà ancora lì la lapide che, al Campo dei Merli (Kosovo Polje), ricordava la storica battaglia del piccolo esercito serbo del re Lazar contro quello del potente ottomano Murat, avvenuta nel giorno di S.Vito (28 giugno) del 1389? Episodio centrale non solo dell'epica serba, ma fondativo della cultura e dei valori di tutti i popoli jugoslavi, poichè richiamava i primordi della lotta per la liberazione nazionale, di
tutte le nazionalità dei Balcani, dall'occupazione e dal giogo straniero.
La scritta sulla lapide invitava a meditare. Queste le parole:

Uomo, chiunque tu sia, straniero o di queste parti,
quando arrivi in questo Campo dei Merli,
vedrai dappertutto un'immensita di ossa di morti,
e tra di esse mi avvisterai,
un essere di pietra, eccelso (krstolikog) e vendicato,
eretto in mezzo al Campo (kako uspravno stojim)

 
(fine)


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