Stroncature di fine anno
 
1) C. Cernigoi: Recensione de “La stanza di Piera”, di Stefania Conte
2) C. Greppi: Recensione di "Perché l’Italia amò Mussolini", di Bruno Vespa
 
 
=== 1 ===
 
 
NON ENTRATE IN QUELLA STANZA!
 
24 Dicembre 2020

(recensione de “La stanza di Piera”, di Stefania Conte, Morganti 2020)
 

Il romanzo La stanza di Piera di Stefania Conte, autrice che finora si è cimentata in racconti di magia, gatti e osterie, rappresenta la smentita concreta di quel noto aforisma (nonché regola di scrittura) che recita (più o meno) che la realtà, al contrario della narrativa, non necessita di essere credibile.Ma ci ha fatto venire in mente anche una massima di Daniel Cohn-Bendit: la cultura è come la marmellata, meno se ne ha più se ne spalma.

Vediamo quindi di fare un’analisi di questo romanzo, nel quale l’autrice non scrive nulla che possa essere credibile, gli eventi sembrano stare insieme per miracolo,i dialoghi dei protagonisti sono sproloqui belli e buoni che nessun essere umano dotato di raziocinio oserebbe recitare, lo stile è sgrammaticato e la sintassi penosa; ed infine l’editing sembra essere stato un optional in cui si è giocato al ribasso. Oltre a ciò segnaliamo l’uso spropositato ed improprio di termini desueti: citiamo quali esempi il «cadavere imbolsito», la «stolida che le sta appiccicata alle gonne», il «vetusto Isaia Depase»; e soprattutto il fiume Quieto che «si liberava dall’onfalo utero della generosa sorgente zampillante”. Ci è poi rimasta particolarmente impressa l’espressione:«civettuoli fazzoletti al collo del medesimo colore del sangue», perché l’uso dell’attributo “civettuolo”in tale contesto ci fa pensare ai termini impiegati da certa psichiatria, ormai fortunatamente sorpassata, per poter internare in manicomio donne e uomini non allineati.

Ma prendiamo anche atto degli incisi (decisamente di cattivo gusto) che fanno riferimento alla sfera sessuale, come la spiegazione che la madre di Piera «a Trieste aveva raccolto (…) anche il seme di quell’uomo che si accingeva a sposare: aspettava un bambino», oppure la “ostentazione” (termine particolarmente amato dalla scrittrice, dato che i partigiani non fanno che “ostentare” fazzoletti rossi, mostrine, ed altro) fatta da una partigiana croata «di una Luger sull’inguine, (…) segno inequivocabile della propensione all’odio e all’invidia del pene».

L’autrice inoltre non fa mistero delle sue simpatie pagane nell’attribuire ruoli da protagonista a fenomeni atmosferici (il Vento, la Bora…), umanizzando la Storia (maiuscolo nel testo) che «consona al principale ruolo di sobillatrice (…) avrebbe suggerito alle forze titine di prendere il controllo sulle altre forze partigiane slovene, croate e italiane che si opponevano a un più vasto progetto di instaurazione del Regime totalitario comunista jugoslavo» (inconsueta lezione di mitologia applicata alla storia diplomatica, per ottenere comunque un’interpretazione del tutto errata, storicamente innanzitutto, ma anche per l’assoluzione degli essere umani da qualunque responsabilità, come se non esistesse il libero arbitrio ed i fatti storici non dipendessero da chi li compie, inventando una divinità mai esistita prima, la Storia) o evocando il dio Perùn, il cui culto peraltro non era praticato in Istria ma nei territori dell’antica Russia.

Tutto ciò comunque non sarebbe importante, perché finché si tratta di “letteratura” ciascuno è padrone di scrivere male quanto gli pare, poi saranno i lettori a giudicare (ed eventualmente agire come Nero Wolfe, cioè gettando nel caminetto o nel cestino della carta le pagine insulse): il problema è un altro. È che questo è presentato come un romanzo storico in cui l’autrice pretende di trattare (per citare la legge sul Giorno del ricordo) le “più complesse vicende del confine orientale”, ed è stato avallato, definendolo «scritto bene e avvincente», ma soprattutto «onesto» nella narrazione, da un intellettuale che ricopre un ruolo importante nella cultura regionale, lo scrittore friulano Angelo Floramo, che ne ha scritto la postfazione e conclude affermando che Stefania Conte «ha capito» (il corsivo è nel testo).

Ci si chiede se Floramo, che ha un curriculum di tutto rispetto, abbia letto lo stesso libro che abbiamo letto noi, perché si possono ritenere “oneste” le descrizioni di Stefania Conte solo riconoscendole semplicemente un’ignoranza abissale in più di una materia: ma a questo punto non si comprende perché un lavoro pieno di scemenze e falsità, ancorché dette in buona fede (sulla quale non abbiamo motivo di dubitare), debba essere ritenuto degno di una presentazione positiva.

Si diceva che Conte dimostra di non conoscere affatto gli argomenti che si sforza di trattare, perciò di seguito andiamo ad analizzare quantomeno le fandonie più colossali che abbiamo trovato nel romanzo, iniziando dalle scarsissime conoscenze storiche dell’autrice, così scarse da non permetterle di fare una ricostruzione coerente degli eventi. Dato che gli svarioni sono colossali, ne citiamo solo i più clamorosi.

Così apprendiamo che «La Grande Guerra ebbe termine con la disfatta di Germania, Austria e (sottolineatura nostra, n.d.r.) Ungheria, le nazioni della Triplice Alleanza»: dato che l’Italia se n’era uscita dalla Triplice Alleanza nel 1915 tradendo gli alleati e passando a combattere contro di loro, probabilmente alla scrittrice di romanzi storici mancava uno dei tre alleati ed ha quindi pensato bene di scindere in due l’impero austroungarico per reperire l’alleato mancante.

Ma proseguiamo: Zara fu annessa nel 1920, non dopo l’occupazione della Jugoslavia del 1941; le scuole croate furono chiuse definitivamente (a seguito della riforma Gentile) alla fine dell’anno scolastico 1928/29, quindi nel 1935 la maestra Andreina non poteva essere stata «licenziata» dall’insegnamento in lingua croata (che poi non si capisce perché mai insegnasse in croato se aveva fatto le scuole magistrali a Trieste, dove la lingua di insegnamento era italiana; mentre se era croata non si comprende perché non abbia invece studiato in Istria in qualche istituto con lingua d’insegnamento croata, che all’epoca dei suoi studi esistevano) per lasciare la scuola «ad un’insegnante venuta da Roma, incapace a gestire una classe di bambini metà dei quali parlava solo il dialetto istroveneto». In diversi punti della narrazione abbiamo notato che Conte non deve avere bene chiaro quali lingue o dialetti si parlassero al tempo (e si parlano tuttora) nelle zone in cui ha ambientato la sua fiction, dato che il dialetto “istroveneto” è, come si dovrebbe evincere dallo stesso nome, un dialetto di ceppo veneto, quindi neolatino: di conseguenza, pur venendo da Roma (e ammettendo per assurdo che fosse abituata ad esprimersi solo in romanesco), la maestra avrebbe dovuto essere in grado di gestire bambini che parlavano in un dialetto derivato dal latino. Il problema avrebbe potuto porsi con i bambini che parlavano in croato, ma di questo la scrittrice non sembra tenere conto. O forse si confonde con l’“istroromeno”, la lingua parlata nella Ciceria, zona nel nord dell’Istria (piuttosto distante da Fianona)? Non ci stupirebbe, dato che tutto il libro è impregnato di confusione ed ignoranza di quelli che possiamo definire i fondamentali; del resto anche più avanti leggiamo che in un sogno Piera vede «uomini e donne in divisa» entrare ed uscire dalla caserma del suo «paese natale» che «borbottavano in una lingua incomprensibile» (incomprensibile per lei che parlava «italiano, croato, istriano, greco, latino e tedesco dialetto»?) e che altri «proclamavano in slavo (quale “slavo”, russo? polacco?), in italiano e in dialetto istroveneto Morte al fascismo libertà ai popoli» (la differenza dello slogan tra le due versioni sarebbe Morte al fascismo libertà ai popoli in italiano e Morte al fassismo libertà ai popoli in istroveneto, lo diciamo per rendere l’idea a chi non ha confidenza con il “dialetto istroveneto”).

Ma che l’autrice avrebbe bisogno di un ripasso generale è definitivamente chiaro nel punto in cui un “partigiano” «fazzoletto al collo e stella rossa sul berretto» (l’autrice sembra ritenere necessario ribadire, ad ogni “partigiano” che compare in scena, la presenza di fazzoletto e stella rossa, tanto per mantenere viva l’immagine macchiettistica dei partigiani che si vuole perpetuare) si mette ad inveire contro Andreina (la maestra che era stata “licenziata” dall’insegnamento nelle scuole croate): «lei non capiva la sua lingua e gli si rivolse prima in dialetto poi in croato. Lui si mise a urlare, frustrato dal parlare alieno»; quale lingua parlava questo partigiano “titino”, forse sanscrito o addirittura papuasio?

Del resto Conte (come moltissimi altri pretesi intellettuali, peraltro) non sembra avere chiaro il concetto di “slavi”, dato che scrive che l’Impero Bizantino «riconobbe agli slavi la loro indispensabile presenza-cuscinetto sui Balcani contro i Bulgari e i Daci» (come se i Bulgari non fossero slavi), né della componente etnica dell’Istria, dato che vi segnala serbi che non l’hanno mai popolata storicamente e situa sloveni anche nelle zone esclusivamente croate.

Altro punto critico è che l’autrice usa a sproposito in tutto il testo il termine “regnicoli” per gli istriani di lingua italiana, mentre tale termine era usato, in senso spregiativo tra l’altro, a Trieste per definire gli immigrati dal Regno d’Italia venuti a cercare lavoro nelle città dell’Impero austro ungarico (un po’ come oggi si usa il termine “extracomunitari” quando si parla di stranieri).

Ciò che stupisce molto è però che Floramo spieghi nella sua postfazione che «l’Autrice butta subito un asso capace di conquistarmi e di farmi capire che il tenore del narrare sarà tutt’altro che banale», e tale “asso” sarebbe la descrizione dell’incendio del Narodni Dom di Trieste (13/7/20), dato che proprio in questo “asso” sta una delle peggiori mistificazioni del testo. Il Narodni Dom, che fu assaltato da squadristi nazionalisti e fascisti (evento che aprì di fatto la stagione del “fascismo di confine”) viene definito da Conte come «copia carbone» dell’incendio alla redazione del Piccolo del 25/5/15, che era stato invece operato da triestini fedeli al proprio governo dopo l’entrata in guerra dell’Italia a tradimento degli ex alleati (e notiamo anche l’inaccettabile rovescismo insito nell’asserzione «L’Impero di Francesco Giuseppe I entrava in guerra contro l’Italia», mentre fu esattamente il contrario), in segno di protesta contro la politica interventista ed irredentista tenuta dal quotidiano triestino. Cosa ci sia di simile tra i due tragici eventi (a parte l’elemento del fuoco, forse richiamante “squadre d’azione piroacastasi” ante litteram), è cosa che a noi sfugge, ma può rientrare in quell’operazione di appiattimento dei fatti storici in corso da diversi anni che porta a ritenere “colpevoli” tutti coloro che hanno fatto una scelta di campo, gli aggressori (cioè i fascisti) come gli aggrediti (cioè i partigiani), con l’assoluzione della sola “zona grigia” (quelli che Dante avrebbe definito “ignavi”, per intenderci). Pensiamo che questo romanzo sia del tutto inseribile in questa operazione e pertanto ci stupisce, ripetiamo, che proprio in base all’interpretazione data da Conte dei fatti del Narodni Dom, una persona di cultura come Floramo decida di avallare tutto il romanzo.

Il racconto è poi pieno di anacronismi e di situazioni assurde per epoca e luoghi in cui viene ambientata la vicenda (in Istria tra Fianona e Pisino nel periodo agosto/settembre 1943, con alcuni tuffi nel passato). Come prima cosa ci sembra difficile che sotto il fascismo qualcuno potesse (come viene attribuito al dottor Leoni) «leggere tutti i quotidiani, di qualunque schieramento politico», così come ci sembra impossibile che nello stesso periodo «innumerevoli liberi pensatori istriani, ostili o meno al pensiero egèmone (l’accento è nel testo: non se ne comprende il motivo ma l’autrice abbonda in accenti, a volte anche assurdamente, dato che porre l’accento sulla “o” di “infòibati” trasforma la parola da un participio passato ad una esortazione a gettare se stesso in una foiba, n.d.r.)» offrissero «con foga» al dottore, che non li rifiutava mai, «volantini reazionari (sic)». Stefania Conte lo sa che sotto il fascismo (ma anche nei pochi mesi tra la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre) era molto difficile che chicchessia si dedicasse (con o senza foga) a diffondere volantini, anche se reazionari (o forse lei intendeva “reazionari” nel senso che “reagivano” al fascismo? forse sarebbe stato meglio quindi scrivere “antifascisti”)? e sa che se qualcuno veniva trovato con tali volantini in mano difficilmente l’avrebbe passata liscia? Forse un ripassino sulle sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che comminava pene molto pesanti anche per il solo possesso di volantini antifascisti, non farebbe male alla Nostra, fantasiosa ancorché “onesta”, scrittrice. La quale inoltre, nonostante in altra pagina scriva che dopo la caduta del fascismo «Pola e il resto dell’Istria sono ora sotto il ferreo controllo dell’esercito» non si rende conto dell’assurdità di porre una «brigata partigiana» «di stanza» a Pisino ben prima dell’armistizio dell’8 settembre, armistizio che secondo Conte «aveva gettato nel caos l’Europa» (veramente l’Europa era nel caos già da quattro anni…).

Ma già nel ’22, secondo l’autrice, il medico non solo leggeva i giornali ma anche informava la moglie «su ciò che raccontavano la radio di regime e le molte radio illegali». Consideriamo che le prime trasmissioni della radio “di regime” iniziarono nel 1924, e che ai tempi non esisteva, come oggi, la possibilità di trasmettere per conto proprio, neppure “illegalmente” (Radio Londra era ancora lontana nel tempo) ma è simpatica anche la definizione dell’apparecchio radiofonico che esce da questi squinternati dialoghi: «una scatola di legno con manopola», alla quale noi aggiungeremmo anche qualche valvola e magari un altoparlante, altrimenti potrebbe sembrare qualunque altra cosa.

Prendiamo atto anche di ulteriori pesanti gaffes storiografiche: «iniziò così l’Operazione Litorale Adriatico», leggiamo ad un certo punto: veramente l’operazione era la Wolkenbruch (Nubifragio), che causò (secondo le cronache naziste dell’epoca) migliaia di morti tra la popolazione civile, mentre “Litorale Adriatico” era il nome della Zona d’operazione (Operations Zone Adriatisches Küstenland, OZAK che comprendeva le allora province italiane di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Carnaro e la provincia “italiana” di Lubiana), in base alla quale il confine orientale italiano fu fatto arretrare al Veneto; ed infine, quando leggiamo dell’«esodo biblico» (avvenuto nel 1945) «degli italiani dall’Istria, da Pola e da Trieste», non possiamo che pensare che la signora si confonda con la massiccia emigrazione in Australia avvenuta da Trieste dopo il 1954, al momento del ritorno dell’amministrazione italiana. E sorvoliamo sulla «millenaria presenza italica e latina», che non è altro che uno slogan usato dai nazionalisti per negare l’identità slovena e croata di buona parte di certi territori.

Inoltre non è mai esistita alcuna «Brigata Triestina dell’Istria», né si capisce cosa fosse il «Movimento popolare di liberazione jugoslavo che subordinava a sé partigiani croati, sloveni e italiani», dato che i partigiani sloveni, croati ed italiani facevano tutti parte, a pari diritti del movimento di liberazione jugoslavo; né poteva trovarsi in Istria all’epoca dei fatti narrati un «partigiano con la mostrina tricolore (qui nel senso di bianco rosso e verde, anche se è tricolore pure la bandiera jugoslava, n.d.r.) con la stella rossa ».

Ma per continuare nel gioco enigmistico di trova gli evidenti anacronismi possiamo ancora evidenziare la presenza dell’OZNA (che fu costituita nel 1944) e del CLN italiano (in Istria furono costituiti CLN solo alla fine del 1944, e non nella zona dell’albonese); «caserme repubblichine» e «militi della RSI» presenti in zona già mesi prima che fosse costituita la Repubblica Sociale (che peraltro non aveva giurisdizione sull’Istria, incorporata nell’OZAK); e la Guardia del Popolo, che fu costituita a Trieste nel maggio 1945; grottesco l’accenno ai «carabinieri di etnia slava» che sarebbero stati «sostituiti» nei primi anni del regime fascista: fino al 1918 non vi erano carabinieri in zona, dato che l’Impero austroungarico aveva altre forze di polizia.

Infine aggiungiamo che l’uso del termine «Resistenza» sicuramente non era ancora entrato nel vocabolario comune all’epoca dei fatti narrati e che «l’Edinost nazionalista» nel periodo non solo non esisteva più ma non poteva fare «proseliti tra sloveni e croati», dato che era stata un’associazione esclusivamente slovena della zona di Trieste.

Ma a questa carenza di conoscenze storiche si contrappone la notevole capacità di Stefania Conte di essere riuscita a riunire in questo libro tutto il mainstream di bufale sulla questione delle foibe, innanzitutto con l’attribuire ai partigiani la responsabilità di crimini nazifascisti, come fa ad esempio con questa frase che pretende di descrivere la situazione all’epoca del controllo partigiano: «per strada vide penzolare dagli alberi civili, minatori e militari italiani, ma non se ne curò».

In realtà il 19/9/43 era avvenuto a Medolino, presso Pola, che fascisti e nazisti avessero dato la caccia ai prigionieri politici che erano stati fatti uscire dal carcere dopo l’armistizio, e ne impiccarono una ventina lungo un viale alberato: esecuzioni pubbliche ed esposizione dei cadaveri sulla pubblica via come monito per chi intendesse ribellarsi era uso dei nazifascisti, non certo dei partigiani o dell’Esercito jugoslavo. Ricordiamo le rappresaglie del 1944 a Trieste: gli ostaggi impiccati in via Ghega, lasciati esposti sulle facciate del palazzo per diversi giorni, e le staffette partigiane impiccate nella strada principale di Opicina.

Poi Conte prosegue con le varie “leggende metropolitane”, dal cane nero all’«inesauribile filo di ferro» (in effetti ci siamo chiesti spesso anche noi di quanti rotoli di filo di ferro disponessero i perfidi “titini” per poter legare così tanti prigionieri in così tante occasioni: ma ricordiamo che anche legare le vittime col filo di ferro era uso dei nazifascisti); dalla “corriera della morte” alla “corona di spine ed i genitali in bocca” con cui sarebbe stato vilipeso il cadavere di don Angelo Tarticchio (citato nella vicenda perché aveva fatto acquistare le rose di stoffa confezionate da Piera): circostanza questa che non compare nella descrizione del recupero della salma del sacerdote fatta dal maresciallo dei Vigili del Fuoco di Pola Arnaldo (non “Antonio”, come si presenta lui stesso nel libro, nonostante poche righe prima l’autrice lo abbia indicato col nome giusto) Harzarich, buon amico dei genitori di Piera. Nell’autunno del 1943 Harzarich curò, sotto il controllo germanico, il recupero delle salme da una decina di foibe istriane (furono estratti 204 cadaveri) e nell’estate del 1945 fu interrogato in merito dagli angloamericani: queste dichiarazioni (cui faremo riferimento in seguito) sono raccolte in un documento noto come “Rapporto Harzarich”, copia del quale si trova anche presso l’Istituto di Storia Regionale Contemporanea di Trieste (n. 346). D’altra parte, abbiamo trovato in alcuni testi di criminologia che l’uso di tagliare i genitali alla vittima e metterglieli in bocca sarebbe una “tradizione” sarda, non balcanica.

Conte inserisce anche la «testa mozzata e presa a calci» dagli «aguzzini partigiani», probabilmente ispirandosi alla storia tramandata (ma mai confermata) di Giuseppe Cernecca, del quale la figlia Nidia (alla cui memorialistica la scrittrice deve avere attinto a piene mani, come vedremo), afferma, pur in assenza di testimonianze credibili, che sarebbe stato lapidato, decapitato e con la sua testa i partigiani avrebbero giocato a calcio sui binari della ferrovia.

Anche per descrivere Ivan Motika (definito avvocato, cosa che non era) la scrittrice si rifà alle memorie di Nidia Cernecca e della sorella Daria: «uomo piccolo e baldanzoso disse con parole forbite che avevano ucciso il mio papà. Poi senza farsi troppi scrupoli, minacciò la mamma che avremmo fatto tutte e tre la stessa fine se fossimo andate a recuperare il suo corpo (…) formò il suo “esercito” (…) con unico segno di riconoscimento la stella rossa sul berretto», secondo la prima; «venne a casa nostra il Matica (sic) con pantaloni alla zuava e scudiscio ed intimò a mia madre di non cercare il cadavere di mio padre, perché altrimenti lei avrebbe fatto la stessa fine», come ha detto la seconda.

E nel libro vediamo Motika descritto come «piccolo di statura (…) anonimo (…) la stella rossa sul cappello e un frustino», aggiungendo che «chiunque lo avrebbe scambiato per un innocuo impiegato comunale», frase quest’ultima che sembra invece ispirata da un articolo di Silvio Maranzana che, parlando di un altro comandante dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, il triestino Nerino Gobbo, scrisse che «all’apparenza potrebbe sembrare un bonario barbiere siciliano oppure un semplice ragioniere calabrese» (sul Piccolo del 26/3/96).

Del tutto originale invece sembra la descrizione dell’istinto ancestrale di infoibatore attribuito da Conte a Motika, in quanto nel corso della sua «fanciullezza tra i prati e i boschi era diventato un abile conoscitore di tutte le fenditure del Carso dove lui stesso andava a gettare i sassi attendendo di sentire il tonfo per capire quanto fossero profonde le foibe».

Ma troviamo anche altre falsità (peraltro più e più volte smentite negli anni), come il fatto che Norma Cossetto fosse stata «ulteriormente violata con un palo di legno e gettata nella foiba ancora viva»; che nella foiba di Basovizza sarebbero stati recuperati «bambini, ancora tra le braccia delle loro madri (…) mogli di carabinieri»; parla di «migliaia» di prigionieri portati via dai partigiani in fuga dall’avanzata nazifascista. Ma come pensa l’autrice che i partigiani potessero gestire “migliaia di prigionieri”, mentre dovevano pensare alla propria sopravvivenza, dato l’impeto delle truppe nazifasciste che avanzavano facendo terra bruciata dietro di sé? Avrebbero avuto tempo, i partigiani in fuga, di attardarsi a fucilare ed infoibare (e magari anche torturare per giorni e giorni) i prigionieri, avrebbero rischiato la cattura che significava fucilazione certa, solo per appagare un proprio desiderio di vendetta? Non è forse più logico ipotizzare che i partigiani fossero fuggiti abbandonando i prigionieri, e che questi siano poi stati uccisi dai nazifascisti, che prima di verificare chi fossero le persone che incontravano lungo il cammino le uccidevano sbrigativamente, come risulta dalle cronache dell’epoca e dalle relazioni militari?

Grottesco anche che la scrittrice parli di «strategia di infoibamento delle foibe: negandole e dimenticandole», dopo decenni di propaganda sul tema, trasmissioni televisive, libri, fiction, spettacoli teatrali e via di seguito, e considerando che è lei stessa ad avere dato sfogo più a falsità e mistificazioni che non a fatti storicamente accertati.

Forse a causa della sua passione per l’esoterismo (passione che analizzeremo più avanti) Conte riprende inoltre, ampliandola, la leggenda del “cane nero”: «un civile impaurito e dimesso dormiva all’interno del camioncino colmo di calce viva. Accanto a lui un cane dal pelo nero uggiolava presagendo chissà quale pericolo».

Prima di parlare del cane nero, osserviamo brevemente che se (come afferma l’autrice), gli infoibatori avessero gettato in tutte le foibe dopo i (presunti) massacri, prima bombe a mano e poi anche calce viva (ma di quanti fondi di materiale edilizio disponevano i partigiani per avere tutto questo fil di ferro e calce viva?), molto difficilmente le salme recuperate avrebbero potuto essere identificate, come risulta essere stato fatto (si vedano le cronache dell’epoca, i citati articoli sul Piccolo firmati da Mario Granbassi e l’interrogatorio di Harzarich anch’esso già citato).

Del cane nero gettato nelle foibe, Conte fa dire a Motika che il «fidato Mesić che coltiva un antico culto dei morti slavo (…) ogni volta che ingrassiamo (sic) le fòibe di Gimino e di Pisino con gli italiani e gli altri traditori del popolo, lui non è contento se non viene gettato un cane nero. Dice sia necessario per perseguitare le spie, i delatori, gli agitatori e tutti gli altri che sono stati al servizio del nemico occupante. I latrati dello spirito dell’animale non daranno rèquie a chi ha agito contro il potere popolare! Mi ha detto che nelle fòibe finiscono anche i soldati di Hitler con i loro cavalli… Immagino sia per farli arrivare più velocemente all’Inferno!». A parte l’ennesimo anacronismo dei “soldati di Hitler” che nel settembre 1943 non finivano certamente in foiba con i loro cavalli (furono invece rinvenuti nella foiba di Basovizza, nell’estate-autunno del 1945, i corpi di alcuni soldati tedeschi ed i resti di alcuni cavalli, probabilmente rimasti uccisi nel corso della battaglia combattuta la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1945), la questione del “cane nero” è una “leggenda” riportata dal cronista del Piccolo Manlio Granbassi (che descrisse i recuperi dalle foibe istriane nel 1943). «Abbiamo detto in occasione del ricupero delle vittime della foiba di Terli che sul fondo di questa, come in quella di Vines, era stato trovato un cane nero: apprendiamo ora che insieme alle vittime nella voragine di Paglion (voragine ignota, peraltro, n.d.r.) si trova pure la carogna di un cane nero. Questa circostanza a tutta prima inspiegabile, trova forse origine nelle barbare superstizioni degli assassini».

In effetti nel citato interrogatorio di Harzarich leggiamo che «l’interrogato (Harzarich, n.d.r.) fa notare uno strano fatto che denota la meschinità superstiziosa, primitiva e vile degli slavi. In ogni foiba è stato trovato assieme ai cadaveri umani, la carogna di uno o più cani assecondo se le uccisioni sono avvenute in una o più volte. Sembra che con tale gesto gli assassini si credano liberati, davanti a Dio, della grave colpa commessa»; però va detto che questa è un’osservazione fatta “a posteriori”, nel 1945, e che la circostanza di tali ritrovamenti non risulta se non in due resoconti (se pure ricostruiti ) dei recuperi.

Noi abbiamo parlato con più di uno “slavo” (non solo Sloveni, ma anche Serbi e Croati) chiedendo loro lumi su questa presunta “superstizione slava”, ma nessuno fra loro ne ha confermata l’esistenza; è invece noto che il cane nero fautore di morte e disgrazie fa parte della tradizione nordica scandinava e soprattutto britannica (è stato ripreso anche dall’esoterista Conan Doyle, nella famosa avventura di Sherlock Holmes “ Il Mastino dei Baskerville”), ma anche mediterranea: «dei siciliani si dice che (…) sono terrorizzati da (i cani) neri che secondo le superstizioni locali porterebbero sfortuna», ha scritto Klaus Davi su l’Espresso del 24/4/00. E quanti siciliani si trovavano in Istria nel 1943, tra militari, funzionari di polizia, funzionari del Fascio trasferiti dal regime per italianizzare la regione? Tanto per rendere l’idea, erano siciliani sia l’Ispettore Generale Giuseppe Gueli, a capo del famigerato Ispettorato Speciale di PS, sia il suo più stretto collaboratore, il torturatore fanatico commissario Gaetano Collotti: e tale corpo di repressione operò anche in parte dell’Istria e a Fiume.

Un’altra “leggenda” ripresa da Conte è quella relativa alla “corriera della morte”, che nella sua narrazione oltre ad avere i finestrini verniciati di bianco (come si legge nelle varie “fonti”) sarebbe anche stata verniciata di rosso: quindi questi “titini” dovevano avere, oltre ad inesauribili scorte di filo di ferro e spinato per legare i prigionieri da infoibare e camioncini di calce viva da gettare nelle foibe per distruggere le prove dei loro eccidi, anche una buona scorta di vernice rossa adatta a colorare la carrozzeria di una corriera.

All’epoca Granbassi scrisse che «la “corriera della morte” (…) servì a portar via da Pisino, poco prima della fuga dei banditi, gli italiani di Parenzo dei quali ancora non si conosce la sorte (…) la stessa corriera aveva trasportato un giorno 21 prigionieri i quali, come testimoniò una guardia, furono allontanati da Pisino, fatti scendere in un bosco, completamente spogliati dei loro abiti, spinti a forza in una fossa e tutti ammazzati con fucili mitragliatori».

In altro documento (inserito nel dossier “Trattamento degli italiani da parte jugoslava dopo l’8 settembre 1943” curato dai Servizi segreti della Marina Militare nel 1946 per essere presentato al Trattato di pace di Versailles), peraltro anonimo, si legge:

«Pisino: 28/8/45: sono stati fatti numerosi arresti d’italiani i quali venivano portati in castello di Pisino e poi nottetempo a mezzo di una corriera, detta la “corriera della morte” venivano trasferiti a destinazione ignota. Successivamente è risultato che questa povera gente veniva gettata nelle varie foibe».

E spostiamoci dall’Istria all’Italia centrosettentrionale, perché anche la giornalista (legata ad ambienti comunitaristi, cioè i cosiddetti rossobruni) Marilina Veca parla di una «corriera fantasma: il viaggio della morte da Brescia a San Possidonio (Modena) nella primavera di sangue del 1945 (…) meta finale, una delle tante fosse comuni disseminate nella Bassa Modenese, in quella zona che ha meritato l’appellativo di triangolo della morte».

Insomma, una corriera della morte buona per tutte le occasioni. Ma, una volta letta la testimonianza (pubblicata sul Piccolo del 22/10/01) del triestino Raffaello Camerini (inviato, in quanto ebreo, al lavoro coatto in Istria): «E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea – che da Trieste era diretta a Pisino e Pola – in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti?», non possiamo fare a meno di domandarci da dove abbia avuto veramente origine questa “leggenda”.

Passiamo ad una importantissima affermazione attribuita al partigiano pentito Libero Martini (omonimo di “nonno Libero”, il padre del Medico in famigliaformat televisivo di successo in anni non molto lontani?), che avrebbe condotto i nazifascisti a scoprire le foibe dove sarebbero avvenuti i (presunti) massacri: «io ero sul ciglio della foiba di Pisino e non feci nulla».

In effetti, nella “foiba di Pisino”, cioè la voragine in cui scorre il torrente Fojba dal quale ha preso il nome tutta la costruzione di questo fenomeno (che foiba derivi dal latino fovea, fossa, è un’invenzione degli anni più recenti: furono i nazionalisti italiani che all’inizio del ‘900 teorizzavano l’infoibamento, cioè gettare nella voragine sotto Pisino, nell’alveo del torrente Fojba, i croati che non volevano assimilarsi e parlare italiano) non fu in realtà gettato nessuno. Neppure le cronache nazifasciste lo affermano, del resto i partigiani saranno stati anche stupidi e feroci, ma non tanto autolesionisti da voler inquinare le proprie falde acquifere. Ma rimanendo su questo punto, quando l’autrice descrive il «vorticoso torrente Pazinčica» aggiungendo che questo sarebbe un «altro modo per dire in lingua slava foiba», è necessario farle presente che “Fojba” è il nome del torrente che passa sotto Pisino, detto anche Pazinčica, e quindi si tratta di due toponimi per lo stesso corso d’acqua, non di due omonimi.

Qui però tocchiamo un’altra materia (oltre la storia) in cui l’onesta ma purtroppo impreparata Conte andrebbe rimandata a settembre: la geografia.

Ad esempio, quando scrive di campi di prigionia «sul Montenegro» le vorremmo ricordare che sta parlando di uno stato e non di un monte; quando lamenta che «il vento di Bora ci getta contro il freddo di Dalmazia» dobbiamo rammentarle che la bora soffia da nordest, e la Dalmazia è a sud rispetto all’Istria; ma poi arriva al punto da inventare un inesistente «golfo di Parenzo» nel quale sfocerebbe il Timavo. Foce che peraltro lei situa giustamente a San Giovanni di Timavo (che però è un po’ distante da Parenzo) quando (in un azzardo scientifico di non poco conto) afferma che le acque del Timavo medesimo, che lì si uniscono dopo essere giunte da zone italiane e slovene (???) siano «chimicamente» diverse: come se la formula chimica dell’acqua slovena fosse H2O.Slo e quella dell’acqua italiana fosse H2O.It.

Dalla chimica quindi passiamo alla geologia, aggiungiamo la descrizione delle “foibe”, nelle quali, secondo Conte, «uccelli, mammiferi, rettili e pesci trovano una casa e un rifugio», il che fa pensare che la scrittrice non abbia la più pallida idea di cosa sia una “foiba”, che non è una tana né una grotta, dove eventualmente possono ripararsi animali selvatici, ma un inghiottitoio profondo a volte diverse decine di metri (ad esempio la foiba di Vines è profonda 146 metri e quella di Cregli 194), e solo in una, quella che si trova presso Fianona, il fondo è riempito d’acqua, probabilmente per effetto di un gioco di vasi comunicanti dovuto alla sua vicinanza al mare.

Inoltre, nonostante abbia raggiunto notorietà scrivendo di gatti, Conte non sembra preparata neppure in zoologia, dato che definisce il ghiro «piccolo mammifero istriano», dimenticando che il ghiro è diffuso in tutta Europa ed anche in parte dell’Asia; e neppure la botanica sembra essere il suo forte, visto che parla della fioritura a maggio dei ciclamini (noi li abbiamo sempre visti fiorire a fine estate, i ciclamini, ma forse lei ha presente i ciclamini mediterranei e non quelli nostrani).

Concludiamo con alcune perle di vario genere: la presenza di un «cane sciancato del macellaio zoppo» (forse per accentuare la somiglianza cane-padrone?); di un minatore, «un sardo di Cefalonia» (la famosa minoranza sarda di Grecia?); di un «albonese con la falce e il martello ricamati sul cappello» (bella la rima, ma non si usava all’epoca ricamare falci e martelli, solo stelle rosse); Piera che cercava un «tagliacarte per tagliare la stoffa» (forse si trattava di un kriss malese?); troviamo poi che si fece « spazio ad alcuni istriani croati sanguinanti» (forse intendeva “sanguinari”?); il vescovo di Trieste Antonio Santin era andato addirittura a Fianona (piuttosto fuori mano) per ordinare 13 rose di stoffa per la chiesa di Santa Maria Maggiore (chissà perche proprio 13); l’affermazione che «l’uomo è un divoratore compulsivo di confini territoriali» sembra una libera variazione sul tema del mito di Crono che mangiava pietre credendole il proprio figlio; la descrizione in senso negativo del narratore, il partigiano pentito Libero Martini, cui «non andava giù che gli istriani, avendo lavorato nelle miniere di Carpano, Vines e Stermazio, non avessero ottenuto altro che malattie polmonari, incidenti invalidanti, scarso salario e nessun diritto», come se questa presa di coscienza di condanna di ingiustizie fosse un fatto riprovevole; ed infine quando leggiamo che «al caos generato dalla bramosia di potere del Terzo Reich, degli Alleati, di Iosif (sic) Stalin, dei governi del confine orientale (quali governi? c’era solo quello italiano, all’epoca dell’armistizio, nd.r.) e della Resistenza l’Istria reagì generando altro caos» pensiamo che tra i bramosi di potere nella penisola mancano solo gli alieni ed i thugs e poi ci sono tutti, tranne i fascisti italiani.

Richiederebbero invece un’approfondita analisi specifica (ma non siamo abbastanza preparati per farlo), i frequenti e continui richiami esoterici che l’autrice sparge nel libro, a cominciare proprio dalla presenza costante della rosa (simbolo rosacrociano poi ripreso in tempi più recenti da altre associazioni, come la Golden Dawn di Alastair Crowley, che ebbe anche contatti con la parte esoterica del nazismo): l’unico scopo nella vita di Piera è il confezionare rose di stoffa, rose nelle quali la ragazza identifica il proprio sentire, probabilmente a causa del fatto che sua madre l’aveva paragonata, al momento della pubertà, a Rosaspina, la Bella Addormentata delle fiabe.

E morbosamente permeata di riferimenti sessuali ed esoterici la descrizione del panificare, fatta a Piera dal mugnaio suo amico: «credimi, ammansire la farina, convincerla a lasciarsi andare alle carezze dell’acqua, vederla generare una nuova sé stessa copulando con il vitalizzante lievito è forse meglio che fare all’amore!». I due si mettono ad impastare e «alla fine della copula gastronomica, nacque una morbida, elastica e chiara creatura». Se fin qui si può pensare ad una mera esibizione di cattivo gusto, l’epilogo di tale particolare copula è invece piuttosto inquietante, perché i due panificatori si mettono a mangiare le rose di pane uscite dal loro lavoro comune, e così continua la descrizione: «afferrò un bocciolo e lo intinse nel vino. Poi fu il turno di una rosa addolcita dallo zucchero e resa più sapida dalle lacrime. “Pane e vino, corpo e sangue”, osservò commosso. “La Natura sarà di certo felice di saper che due poveri cristiani l’hanno onorata!”».

Preferiremmo sbagliarci, ma questa ci è sembrata la parodia di una messa nera accompagnata da richiami alla magia rossa (la rosa indica simbolicamente anche la vagina); ed anche più avanti troviamo dei riferimenti sessuali, quando leggiamo che i partigiani, prima di dedicarsi all’infoibamento, si ubriacano di una «rakja di miele e propoli», che in realtà sarebbe l’idromele (in croato medica; la vera rakija è distillato di frutta, di solito prugne), bevanda tradizionalmente considerata come afrodisiaca.

Aggiungiamo che la giovane salvata da Piera, Mirna, sognava di diventare una ballerina come l’istriana Carlotta Grisi (che era nata nel 1819 e non nel 1821, come invece scrive Conte), che fu l’ispiratrice del balletto Giselle, oscura vicenda di morte e magia creata per lei da Théophile Gautier affascinato dalla leggenda delle Vile, che (per citare Wikipedia) «nella mitologia dei popoli slavi meridionali (…) sono spiriti di giovani fanciulle morte prima del matrimonio perché tradite o abbandonate o giovani madri straziate dalla morte dei loro giovani bambini morti prematuramente per motivi ingiusti. Sono esseri vendicativi e spettrali, incapaci di trovare riposo eterno nella morte, che ogni notte tra il crepuscolo e l’alba cercano i traditori d’amore che costringono, con l’aiuto di rametti di vischio apparentemente magici, a ballare convulsamente fino a provocarne la morte per sfinimento o fino a che totalmente indeboliti non vengono gettati in un lago nelle loro vicinanze».

E non è sicuramente un caso che la voce narrante, il partigiano pentito Libero Martini fattosi prete dopo la morte della moglie Mirna, decida di scrivere tutta questa storia stando a San Giovanni in Tuba, presso le foci del Timavo, noto luogo di culti esoterici.

Per concludere, dopo averci propinato quasi trecento pagine di scemenze, falsità, bufale storiche elevate a verità rivelata; dopo avere esternato il suo paganesimo ed averci propinato allusioni richiamanti in modo inquietante alla magia sessuale; dopo averci ammannito alcuni passaggi di impressionante cattivo gusto, come le descrizioni quasi compiaciute, grandguignolesche e truculente di sevizie e massacri, dall’alto di tutto questo, insomma, Stefania Conte pretende di trarre una conclusione finale di tipo etico. L’autrice fa dire al padre di Piera: «Figlia mia, non c’è nulla da comprendere. L’uomo reagisce all’odio con altro odio. In ogni luogo e tempo il crimine è giustificato come conseguenza di nuovi equilibri e disequilibri fra le nazioni, e soprattutto diventa la risposta alle precedenti sopraffazioni. Tutto sarà giustificato con la retorica e la legge del contrappasso: coloro che si sono macchiati del crimine di aver cancellato l’identità altrui, saranno obliati dal consesso umano. Saranno sottratti alla vista altrui, facendoli sparire nelle viscere della terra».

In sintesi, oltre al richiamo dantesco del contrappasso (e Dante è un punto di riferimento per i Rosacroce ed i loro eredi spirituali), troviamo qui la morale assoluta, il mantra (ribadito ad ogni piè sospinto) «cambiano gli uomini ma non i metodi», finalizzato all’assioma che non si deve mai rispondere ai soprusi con la violenza, perché cosa più grave di essere dei carnefici è alla fine essere le vittime che ai carnefici si ribellano.

Questo libro è quindi una risposta abnorme a chi sostiene che i fatti storici vanno contestualizzati: dopo avere descritto (malamente) la politica snazionalizzatrice e le violenze operate dal Regno d’Italia nei confronti di sloveni e croati annessi dopo il 1918, l’autrice si dedica alla criminalizzazione tout court dei partigiani (siano essi sloveni, croati ed italiani comunisti o sloveni e croati nazionalisti), rappresentati come ormai ci hanno abituato i seguaci degli sceneggiatori di Redland e Il cuore nel pozzo: perennemente ubriachi, stupidi, violenti, assatanati di sesso, rancorosi e meschini al punto da infoibare qualcuno solo per prendergli la motocicletta, del tutto privi di coscienza umana e politica. E nonostante le pagine siano piene di avvertimenti morali di condanna della violenza sui civili e di rispetto per le varie etnie, comprese quelle “slave”, alla fine della narrazione i personaggi più negativi rimangono i partigiani, peggiori dei fascisti che hanno oppresso le popolazioni e poi, assieme ai nazisti, scatenato genocidi e guerre mondiali, sui quali, dopo avere citato alcuni fatti, l’autrice alla fine sorvola.

Perché alla fine ciò che deve rimanere nella coscienza dei lettori è l’esecrazione degli oppressi che hanno preteso di applicare la legge del contrappasso, mentre avrebbero dovuto invece continuare a subire e tacere, continuare a far parte di quella “zona grigia” (esaltata in tempi meno recenti da propagandisti antipartigiani come Marco Pirina e Giampaolo Pansa), in modo da rimanere “puri”: magari cucendo rose di stoffa, come fa la protagonista, Piera detta la Sarta delle Rose, una ragazza odiosa ed antipatica, la cui maleducazione viene fatta passare per devianza mentale (in senso positivo in quanto viene considerata una sensitiva), e che varia il colore dei fiori a seconda delle suggestioni del momento.

Tra tante certezze assolute, però, questo romanzo contiene un mistero insoluto: mentre cerca il luogo di sepoltura del padre, Piera ha un colloquio con Motika, il quale, dopo essersi espresso con frasi di tale perfidia che sembrano tratte da un cartone animato disneyano, dopo avere chiesto a Piera: «dimmi chi sono e di cosa avrei paura» ed avere avuto come risposta una «verità» bisbigliatagli all’orecchio in croato, decide di lasciare libera la giovanissima Mirna. Di questa verità però l’autrice, pur prodiga di colpi di scena e boutades di vario tipo, non ci fa partecipi, come se si trattasse di un segreto inviolabile, come il Nome della Rosa, se vogliamo restare nel leit-motiv del romanzo.

 

Claudia Cernigoi, dicembre 2020

 
 
=== 2 ===
 
 
Il fascismo immaginario di Bruno Vespa
Carlo Greppi
18 Dicembre 2020 

L'ennesimo libro-panettone del conduttore di Porta a Porta è pieno di inesattezze: si inserisce in un filone revisionista che ha l'obiettivo di sostenere che il ventennio non fu poi così male. Ecco perché è impresentabile, nel metodo e nel merito
 

L’Italia amò Mussolini? Bruno Vespa, pubblicato dalla joint venture Mondadori/Rai Libri, prova a rispondere in un volume di 420 pagine che racconta «gli anni del consenso» del fascismo. Nel farlo si candida a essere il saggio storico dell’anno. Stampare (e distribuire) 160.000 copie di un saggio significa inondare il mercato editoriale della non fiction. Non vuole affatto dire averle vendute, beninteso: sappiamo da fonti certe che nei giorni in cui questa cifra veniva sventolata su quotidiani a diffusione nazionale (13 dicembre) il venduto effettivo rilevato si aggirava sotto le 30.000 copie (ora siamo a circa 42.000), cifre comunque importanti – il volume precedente, Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare) è arrivato a circa 100.000. Sono numeri astronomici (da diverse settimane è in vetta alle classifiche), e il wishful thinking pubblicitario potrebbe generare la classica profezia che si autoavvera. Questo libro, tuttavia, è impresentabile nel merito e nel metodo, e rivela una seria emergenza a livello di discorso pubblico.

L’Italia che amò

Fin dalla copertina e dal sottotitolo – (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus) – Perché l’Italia amò Mussolini accosta in maniera evidentemente ardita due ambiti incommensurabili, giustapponendo due temi che nulla hanno in comune se non il fatto di essere appetibili per il mercato editoriale. «Il racconto di due dittature», il fascismo e il Covid-19: una reale e una presunta, dunque; e il secolo di distanza che separa la nascita del primo dalla diffusione del secondo se ne va in fumo in uno scaltro ma maldestro tentativo di tenere insieme l’attualità e la divulgazione storica. 

Ma se tutto è dittatura nulla lo è, e il gridare alla «dittatura del politically correct», alla «dittatura sanitaria» e via dicendo ha come esito la banalizzazione, tra le altre cose, proprio del ventennio. E in effetti, sotto questo aspetto, il saggio di Vespa è certamente coerente. Perché il fascismo che riverbera da queste pagine, sulla scena desolante del distanziamento fisico, è cucinato a puntino per suggerire a decine di migliaia di lettori che sì, tutto sommato, «ha fatto anche cose buone».

Già diversi storici (Mirco Dondi e Francesco Filippi) hanno fatto notare una trafila di strafalcioni presenti persino nel risvolto di copertina. Tra le bufale più macroscopiche, quella relativa alla presunta invenzione dell’Inps e al «successo» delle bonifiche, non a caso raccontate principalmente dal punto di vista dell’autorappresentazione del regime, dal momento che furono solo fumo negli occhi propagandistico. 

L’Italia amò Mussolini, dunque? Sarebbe più corretto chiedersi: perché una porzione rilevante della società italiana ha amato, sostenuto, accettato, tollerato o temuto e subìto il fascismo? Non è questa la sede per ripercorrere l’articolato dibattito sul «consenso»: sul suo aspetto coercitivo bisognerebbe leggere Emilio Gentile o Paul Corner, mentre qui possiamo rapidamente rimandare a Filippi («ma se aveva tutto questo consenso perché non faceva votare la gente?») e Dondi: 

Già il termine «consenso» riferito a un regime dittatoriale è improprio. Il consenso implica un’adesione spontanea e presuppone che sia misurato con una libera espressione di voto, circostanze al tempo non presenti. 

In un importante saggio recente su «immagine e realtà dello Stato fascista», Guido Melis usa l’immagine efficace della «ragnatela fittissima, estesa su tutto il Paese […] che garantiva flussi di risorse, scambi di domande politiche assistenziali, costruzione del consenso». Un regime dittatoriale, a essere sintetici, è una faccenda seria. E come tale andrebbe trattata.

Appunti sul dissenso

Al di là delle molte falsità vere e proprie, non è semplice valutare l’attendibilità di molte parti del volume, considerato l’impianto aneddotico, strutturato su letteratura secondaria mai citata sistematicamente dalla quale si desume (dal momento che solo saltuariamente è dichiarato) siano tratti gli episodi, le cifre, le continue citazioni di presunti dialoghi riportati ex post da protagonisti o testimoni. A fondo testo campeggia una bibliografia estremamente datata e poco scientifica: talvolta sono citati autori di riconosciuto prestigio, ma per lavori minori o comunque non particolarmente rappresentativi della loro opera; ad esempio della produzione ciclopica del massimo storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, è citato fondamentalmente solo un volume del 1965 (!). Fa eccezione Giovanni De Luna, del quale viene pure menzionato il fondamentale Donne in oggetto (1995) per un accenno biografico della comunista Tina Pizzardo, ma proprio questo volume si apre (è la prima pagina dell’introduzione!) con una stima quantitativa fondamentale che Vespa dimentica di citare, corroborando la sua tesi su un «consenso» senza confini a Mussolini a fronte della manciata – a suo parere poche migliaia – di oppositori attivi al fascismo. 

Vespa scrive che nei suoi 17 anni di attività il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato «esaminò 5.584 casi (o 5.619, secondo altre fonti), una media di 328 all’anno: 988 persone furono assolte, 4.596 condannate, in media a sei anni di carcere», per poi accennare alla storia delle amnistie. Ma De Luna, in apertura del suo libro, a partire dallo stesso ordine di grandezza a proposito di chi fu realmente processato allargava parecchio il raggio dell’indagine: «Tra il 1926 e il 1943 furono deferiti al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato 15.896 antifascisti (748 donne). Quasi altrettanti, 12.330, furono quelli inviati al confino (145 donne), mentre 160.000 furono “ammoniti” o sottoposti a “vigilanza speciale”». In totale, dunque, circa 200.000 persone; al Casellario politico centrale i fascicoli dei «sovversivi» erano 110.000 – una nutritissima minoranza. 

Tra «consenso» e «dissenso», tra fascismo e antifascismo, c’era poi una smisurata gamma di sfumature: oltre all’antifascismo più politico, come ha raccontato tra gli altri Alberto Vacca in Duce truce, c’era anche quello popolare, quotidiano, che pure si potrebbe facilmente intonare al tipo di narrazione scelto da Vespa: dalle conversazioni in trattoria o al telefono alle corrispondenze private, dai volantini alle scritte murali, le ingiurie contro il duce erano una litania inarginabile nel ventennio, e il regime temeva la loro diffusione. Ma anche di questo non c’è praticamente traccia nel libro, fatto salvo un accenno di una dozzina di parole. 

Compito dello storico dovrebbe essere produrre affermazioni verificate e verificabili, una narrazione documentata che rimandi, nel modo che l’autore ritiene più opportuno, alle proprie fonti. Eppure questo testo è disseminato di considerazioni di tutt’altro tenore: riferendosi alla svolta che portò alle «leggi fascistissime», Vespa scrive che «tutto questo avvenne senza un fiato» e che (riferito all’anno 1926) «l’opinione pubblica accettò l’instaurazione della dittatura con rassegnazione e, in buona parte, perfino con favore» e che «sarebbe sciocco ritenere che per la maggioranza degli italiani questo atteggiamento di devozione – piaccia o no – non fosse spontaneo».

Retrodatando il consenso – o per lo meno un cospicuo arretramento del dissenso esplicito – di diversi anni (Renzo De Felice, ampiamente citato, nel suo volume dedicato alla «maggiore popolarità» del fascismo [1974] propone la periodizzazione 1929-1936), nell’introdurre il «plebiscito» del 1929, l’autore scrive che «il regime era stato legittimato dalle elezioni del 1924 in cui il Duce – pur «aiutato» da intimidazioni e violenze – aveva ottenuto un successo che nessuno si sentì di contestare fino in fondo». Il celeberrimo discorso di Giacomo Matteotti in cui il deputato socialista denunciò alla Camera dei Deputati brogli e violenze firmando, di fatto, la sua condanna a morte, è totalmente assente nel libro di Vespa. L’affermazione è dunque densa di falsità ed è volta a dimostrare che, in fondo, il «consenso» del plebiscito era ampiamente prevedibile perché anche quando si votava ancora in una maniera a suo dire fondamentalmente libera – pur «aiutati» – il regime aveva fatto incetta di quasi due terzi delle preferenze (il suffragio non era, peraltro, universale: mancava quello femminile). Poco oltre, in effetti, un accenno alla «bonifica» (!) degli avversari politici c’è, ma come se fosse un tocco di colore – qualche nota stonata in un paese compattamente, e convintamente, fascista. Perché il messaggio che deve passare è che l’Italia tutta, Mussolini, lo amò. 

C’è poi lo «stile» con cui il testo incorpora una simpatia per l’oggetto del suo racconto. I gesti di dissenso sono descritti come sparute eccezioni, spesso confinate in parentesi o in incisi come a voler correggere un po’ il tiro, quando non attribuiti a «squilibrat*» (così è definita la mancata tirannicida Violet Albina Gibson, perché così giudicata dal Tribunale speciale fascista [sic]). Questo vale per i vari attentatori del duce, le cui condanne a morte da parte del Tribunale speciale paiono implicitamente giustificate come peraltro le altre che, in maggioranza, riguardarono «soltanto» slavi. Senza contare altri rinvii politici all’attualità: «A questo pensava Silvio Berlusconi quando nell’estate del 2004 disse a Nicholas Farrell, che lo intervistava per il settimanale britannico Spectator: “Mussolini non ha ammazzato nessuno. Ha mandato soltanto i dissidenti in vacanza al confino”. Venne sommerso da un’ondata di proteste e accusato di apologia del fascismo». Dopo aver riconosciuto che il confino difficilmente potesse essere considerato «una vacanza», arriva l’avversativa: riferendosi al confronto fatto da Berlusconi tra il duce e Saddam Hussein, Vespa scrive che «anche il paragone con i grandi dittatori del passato si risolve a vantaggio del Duce». 

Circondato da gente fedele, come il «guascone» Italo Balbo, o della quale diffidare con moderazione, come il «ragazzaccio» Achille Starace, il «cuore di pietra» Rodolfo Graziani, il duce aveva secondo Vespa un’aura di incommensurabile grandezza che gli riconoscevano sempre tutti gli osservatori (statisti, antifascisti, giornalisti), al punto che negli anni Trenta si innalzò a «superuomo» e poi, addirittura, a divinità: «provate a sostituire la parola DUCE con la parola DIO e vedrete come anche a un uomo prudente e pragmatico come Mussolini fosse facile perdere la testa», scrive Vespa a commento di un articolo del Popolo d’Italia del 1932. 

I suoi gerarchi, invece, erano uomini «come noi», si potrebbe dire, che si concedevano volentieri scappatelle (ci si sofferma spesso su scorci di intimità) e qualche ceffone alle mogli che, «però», avevano i loro vizi (l’avversativa qui arriva a proposito di Edda Mussolini, che Galeazzo Ciano «brutalizzava» e tradiva): «Anche Edda, però, aveva i suoi vizi», commenta il giornalista, come il gioco d’azzardo e «il difettuccio di condurre una vita sessuale sfrenata e certamente inadeguata al ruolo di figlia di suo padre e di moglie di suo marito». Non è il primo libro, sia detto per inciso, in cui Vespa ci rifila un modello di mascolinità tossica all’insegna di padre e marito «padroni a casa loro»; nel caso di Mussolini ci si sofferma inoltre sul suo essere uno «sciupafemmine patentato», indugiando persino sulla sua rivendicazione di episodi di violenza sessuale. È il consolidato (anche in tv) «modello Vespa»: la narrazione di un fascismo smaccatamente intimo, privato, guardato dal buco della serratura, smussato all’inverosimile. 

Le «avventure» coloniali

La pagina del colonialismo dell’Italia liberale – a cui ci si riferisce per «contestualizzare» quanto avvenne in seguito – e dell’imperialismo fascista è dipinta come una legittima ricerca di una grandeur sullo scacchiere internazionale, con un uso spregiudicato della prima persona plurale: lo «schiaffo di Tunisi» del 1881, lo «sfratto senza preavviso» della Francia, «ci fece molto male» (e «nessuno si mosse per darci una mano») e nella sconfitta di Adua (1896), «l’eroismo dei subordinati fu sacrificato dalla miopia o dall’avventatezza dei comandanti». Le popolazioni locali non hanno alcuna soggettività, ma sono semplicemente sudditi in atto o in potenza, grati o ingrati per la «missione civilizzatrice» italiana (e siamo ancora al «fardello dell’uomo bianco»): in Libia il governatore Balbo «ebbe un eccellente rapporto con le popolazioni locali, che desiderava elevare oltre il livello coloniale» (cosa significa? Che erano naturalmente «inferiori»?) e in colonia costruì le immancabili «migliaia di chilometri di strade»; la guerra d’Etiopia invece «accadde» perché, «per giudizio pressoché unanime degli storici, gli abissini cominciarono a infastidirci. Giudicando gli italiani troppo invadenti, bloccarono una concessione ferroviaria concordata nel 1925 tra Italia e Inghilterra, fecero un accordo con il Giappone per privilegiare gli interessi americani rispetto ai nostri e moltiplicarono gli incidenti di frontiera». 

Comprensibile, leggendo così la storia, che si giustifichi la successiva invasione del 1935 e i comportamenti degli alti gerarchi e dei sottoposti, come il futuro giornalista Indro Montanelli, che «è impossibile giudicare con gli occhi di oggi», dal momento che si tratta di «avvenimenti maturati in un contesto storico e sociale tanto diverso». Ricordiamolo: Montanelli in Africa orientale, oltre ad aver ordinato ai suoi sottoposti di «finire» i feriti e aver scritto che quella guerra fu «per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo [Mussolini] in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora» (XX Battaglione eritreo, 1937), comprò una dodicenne e abusò di lei, per poi rivendicarlo per i successivi due terzi di secolo con disgustosi ammiccamenti e dovizia di particolari raccapriccianti (anche se c’è da dire che è una storia con i contorni incerti, forse addirittura zeppa di menzogne). Ma su queste atrocità, e in particolare sulla violenza sessuale, Vespa glissa elegantemente. 

D’altra parte, aggiunge l’autore citando Mussolini, «quando, fin dal 1919, parlava di “imperialismo”, il Duce lo immaginava “non necessariamente aristocratico e militare. Può essere democratico, pacifico, economico, spirituale”». Certo, Vespa non manca di menzionare Mussolini diplomatico dell’antifascista Gaetano Salvemini, parafrasandolo: «la sottomissione della Cirenaica fu ottenuta con mezzi durissimi dal vicegovernatore Rodolfo Graziani, che si fece una gran brutta fama. Costruì una specie di Muro di Berlino [!!] in filo spinato lungo tutto il confine con l’Egitto e deportò i nomadi in accampamenti organizzati e controllati dal governo italiano. Il 24 gennaio 1932 il governatore Pietro Badoglio poteva annunciare che la ribellione in Cirenaica era “completamente e definitivamente stroncata”». 

È un’abilissima circumnavigazione che racconta senza dire cosa accadde, e allora proviamo a farlo noi: Graziani, uno degli uomini più compromessi del fascismo, era soprannominato «il macellaio degli arabi»; fu un incallito e mai pentito criminale di guerra che in Africa orientale tra le altre cose chiese e ottenne da Mussolini «libertà d’azione per impiego gas asfissianti» (vietati dal Protocollo di Ginevra del 1925). Questa pagina di storia Vespa la narra, ma ricordando che il duce scrisse (a Badoglio) che avrebbe potuto fare uso di gas per «supreme ragioni di difesa», mentre erano i metodi di guerra degli etiopi ad aver «fatto inorridire il mondo» (parole di Mussolini) e se gli italiani si sono macchiati di infamie è stato perché erano «esasperati» (questo è di nuovo Vespa, che introduce così una «durissima rappresaglia»). I gas furono niente di più che un «inutile errore», ed è virgolettato nel titolo del paragrafo dedicato (è un commento del duca Luigi Pignatelli della Leonessa), sovrastimato e commesso nella totale inconsapevolezza della maggior parte dei combattenti, Montanelli compreso. Un errore come l’alleanza con Hitler, come le leggi razziali, come la guerra – è il solito copione del fascismo «buono» fino alla fine degli anni Trenta, quando sbagliò un po’ più visibilmente. «I gas venefici furono usati, e non erano certo carezze», si premura di specificare Vespa, per poi dettagliarne alcuni effetti in una parentesi, e poi arriva l’immancabile «ma»: «ma chiedersi se si sia trattato di un “genocidio razziale” come fa addirittura [Pierre] Milza, o ritenere che i gas siano stati determinanti per la vittoria italiana, sembra storicamente scorretto». In ogni caso mancano i picchi di atrocità raggiunti in Africa orientale, bene esemplificati dai massacri di Addis Abeba e di Debre Libanos, tra febbraio e maggio del 1937, che produssero oltre 20.000 morti in una caccia all’uomo opera di migliaia di italiani, militari e civili. 

Graziani nella sua autobiografia scrisse che le «gravi misure» della repressione e della «eliminazione di elementi ostili» gli si erano imposte «per ristabilire la scossa autorità ed il prestigio che è alla base di ogni azione di conquista». La sua strategia fu da «guerra totale»: nella seconda metà del 1930 mise in atto una deportazione di massa della popolazione della Cirenaica che non trovò di fatto opposizioni dei vertici italiani. Nonostante fosse inizialmente critico nei confronti di questa linea, il suo superiore Badoglio – citato da Vespa – gli scrisse che avrebbero dovuto perseguire la via tracciata fino alla fine, «anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Metà venne in effetti deportata, e questo provocò decine di migliaia di vittime, in una repressione che per alcuni storici assunse – in questo caso sì – «i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente? [2005] – si è espresso nei medesimi termini Marcello Flores sulla Letturadel Corriere della Sera). I libici lasciarono circa centomila morti sul terreno in ragione dell’«impresa» coloniale italiana: «sessantamila in guerra, quarantamila fra i reticolati dei lager», scrive Del Boca. Per dirla con lui, «Il conto è presto fatto: un libico su otto». 

Ma l’imperialismo fascista, in questo libro, non è altro che un pretesto per mostrare il braccio di ferro tra l’Italia e le altre potenze europee, tra Mussolini e i suoi gerarchi, tra i vari caporioni in lotta, oltre che per evidenziare – e su questo c’è, in effetti, un dibattito tra gli storici – come l’«impresa» abissina contribuì a costruire consenso (in un paese comunque da un decennio piegato e imbavagliato). L’annuncio dell’entrata in guerra dell’ottobre 1935 fu, nelle parole di Vespa che si fa garante del popolo italiano, «accolto in un tripudio di sincero entusiasmo», e in seguito alla proclamazione dell’impero Balbo «suggerì al Duce di indire libere elezioni: “Sarà un plebiscito e metteremo così tutte le cose a posto”.Sarebbe stato un colpo “democratico” e definitivo contro le opposizioni», chiosa Vespa prima di citare Rachele Mussolini e la sua speranza di un buen retiro: «Abbiamo avuto tanta fortuna. Non può durare. Ritiriamoci in tempo», pare abbia sostenuto. «Non fu ascoltata», commenta il giornalista Rai prima di affrontare la «dittatura» odierna – il che rappresenta un interessante rovesciamento retorico della dittatura in democrazia e della democrazia in dittatura (con tanto di agghiaccianti paralleli tra gli effetti della pandemia e le stragi naziste e i forni crematori), un loro darsi idealmente il cambio.

Il libro «si ferma alla soglia dell’abisso (leggi razziali, alleanza con Hitler, guerra)», teorizzando che prima del 1938 sia stato commesso sì qualche «errore» ma che tutto sommato siano stati tre lustri felici, spensierati, mentre dalla proclamazione dell’impero, a maggio del 1936, «cominciò il declino che porterà all’ignominia delle leggi razziali e alla follia della guerra». 

La storia tra virgolette

Norberto Bobbio, scrivendo a Claudio Pavone alla fine del 2000, notava vividamente e con preoccupazione come allora andasse di moda dire che «il fascismo non era poi così male»: è un mantra che ormai conosciamo bene e che pare aver conquistato ampie fasce di opinione pubblica ben oltre l’ovvio recinto dell’uso pubblico post/neofascista; ripetuto e presumibilmente creduto da molti per decenni, sembra aver innescato un processo difficilmente reversibile, dotando l’antifascismo di una «declinazione debole», secondo la felice definizione di Marco Bernardi in un libro (peraltro edito da Mondadori [Education] e che oltretutto analizza anche il ruolo di Vespa nell’ondata revisionista) che consigliamo. 

Più in generale, in vista della prossima fatica, a Vespa converrebbe aggiornarsi: a titolo esemplificativo suggeriamo Colonia per maschi di Giulietta Stefani e Nel cantiere della memoria di Filippo Focardi, fresco di stampa, che peraltro dedica un capitolo al «vizio del confronto», e cioè a «giudicare il fascismo con il metro del nazismo» e uno alla «rimozione delle pagine oscure della guerra fascista». Dal momento che già qui è anticipato un antisemitismo riluttante del Duce e del fascismo, conviene certamente documentarsi con I carnefici italiani di Simon Levis Sullam e preme preliminarmente ricordare che nel 1938 non ci fu alcuna pressione da parte della Germania nazista perché l’Italia emanasse le sue leggi razziali, e che una manciata di mesi dopo sui vari fronti della seconda guerra mondiale – come già in Spagna – l’Italia fascista si macchiò di efferati crimini, come da decenni insegna una vastissima letteratura scientifica. Una porzione rilevante della società italiana amò, sostenne, accettò, tollerò e subì il fascismo anche perché credette alla versione edulcorata, rabbonita, che il regime – primo diffusore di bufale, a partire dalle «veline», della propria storia – diede di sé stesso. Siamo ancora lì? 

Un ultimo interrogativo, però, rimane sospeso. Al netto di tutte queste distorsioni (inesattezze, omissioni, ingenuità e deliberate mistificazioni) e delle presentazioni con i due leader dell’estrema destra italiana: come può Rai Libri avallare un’operazione editoriale di questo tipo? Non è questione di censurare, ma di chiedere conto, da cittadini, a un ente che è emanazione diretta della tv di stato di una democrazia compiuta sorta sulle ceneri di vent’anni di regime e di milioni di morti generati dal delirio di onnipotenza dei fascismi europei.

Questi prodotti sono ferite alla coscienza pubblica, minano uno spirito civico sinceramente democratico, offendono la memoria italiana e un approccio problematizzante al sapere. Sono danni difficilmente reversibili allo statuto scientifico che la storia deve avere ma anche al giornalismo di qualità, perché nulla vieta a un giornalista di scrivere di storia, ovviamente. La divulgazione di qualità esiste, ma sta altrove. 

 

* Carlo Greppi, storico e scrittore, è membro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia. I suoi ultimi libri sono La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e L’antifascismo non serve più a niente (Laterza 2020), primo volume della serie a cura sua Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti. Nel 2020 ha fondato, insieme a diversi colleghi e colleghe, il sito di storia pubblica lastoriatutta.org