* Urla nel silenzio:
Reportage sulla vita di un popolo invisibile. Da "Contropiano"

* La Zastava riparte. Da "Il manifesto"


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L'articolo che segue appare sull'ultimo numero di
CONTROPIANO
giornale per l'iniziativa politica di classe
http://www.ppl.it/contropiano
cpiano@...

Jugoslavia un anno dopo la guerra

Urla nel silenzio

Nostro reportage sulla vita di un popolo invisibile, sui danni dei
bombardamenti della NATO e sull'embargo che rinnova l'infamia
dell'aggressione "umanitaria" di un anno fa.

I Balcani cominciano nel Nordest dell'Italia. E' questa l'impressione
che si ricava percorrendo l'autostrada e le statali che portano verso la
frontiera con l'Austria o con la Slovenia. I camion diretti in Romania,
Croazia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia
riempiono le strade ed i caselli. Il volume di quello che chiamano
"traffico di perfezionamento passivo" è esploso negli ultimi cinque anni
trasformando l'intera area balcanica in una fabbrica diffusa di
laboratori e stabilimenti che fanno il lavoro sporc
o per le aziende tessili e calzaturiere italiane. I semi-lavorati
tornano poi in Italia per essere rifiniti, marchiati e commercializzati.
Per andare in una città balcanica è ormai più facile trovare un aereo
da Treviso o da Trieste che da Roma o da Mila
no. L'Italia è ormai penetrata in profondità nelle economie balcaniche,
economie il cui PIL è prodotto almeno al 50% da quella che viene
definita "economia informale". Dentro c'è di tutto : dal lavoro al nero
al contrabbando, dal nuovo mercato degli schia
vi al traffico di quei beni che riempiono le vetrine di Bucarest,
Bratislava, Zagabria ma inaccessibili alla maggioranza della
popolazione.
Siamo partiti nella prima metà di maggio insieme al Convoglio di
Solidarietà Internazionalista "Giorgiana Masi" (Giorgiana Masi era una
giovanissima compagna di Roma uccisa in una manifestazione nel maggio
del '77 dalla polizia). Il convoglio è la quinta
volta che torna in Jugoslavia. La prima volta c'era andato nel maggio
dello scorso anno mentre erano ancora in corso i bombardamenti della
NATO. Da allora, periodicamente i compagni raccolgono medicinali,
materiale scolastico, abiti, generi alimentari e l
i portano al "popolo invisibile" ovvero il milione e passa di profughi
serbi di cui pochi sanno l'esistenza ed a cui molti hanno girato la
faccia o ai lavoratori della Zastava rimasti senza lavoro a causa delle
bombe della NATO e strangolati dall'embargo
a cui Unione Europea ed Italia partecipano attivamente.

Abbiamo guardato in faccia il "popolo invisibile"

La prima tappa del viaggio è in Vojvodina nei campi profughi sorti
intorno a Baska Topòla. Qui i profughi sono arrivati a migliaia cinque
anni fa. Sono i serbi cacciati dalla Bosnia e poi dalla Croazia. Il
mondo manipolato da opinion maker senza scrupoli
associa i serbi alla pulizia etnica ma la realtà ci dice che i serbi la
pulizia etnica sembrano averla più subìta che fatta. Ci sono ormai pochi
serbi in Bosnia (se non nell'enclave della Repubblica Srpska di Pale);
ci sono pochissimi serbi in Croazia ed
ora ce ne sono rimasti pochi anche in Kosovo. Ma l'Europa e le
organizzazioni umanitarie, la sinistra perbene e gli inviati speciali
hanno sistematicamente occultato questo processo di espulsione violenta
che ha gettato a più ondate più di un milione di p
rofughi in una Serbia che ha dieci milioni di abitanti. E' come se in
Italia arrivassero sei milioni di profughi che hanno bisogno di casa,
lavoro, assistenza, scuole. Alle difficoltà prevedibili si aggiungano
quelle derivate da un embargo che dura ormai
da sette anni e la totale latitanza delle organizzazioni umanitarie. Nei
campi profughi c'è solo la Croce Rossa e qualche intervento dell'ACNUR
(l'organizzazione dell'ONU per i rifugiati) ma è poca cosa. I profughi
serbi sono un popolo invisibile a molti.

In Vojvodina che - come il Kossovo - è una provincia della Repubblica
Federale di Jugoslavia, la situazione non è tranquilla. In questa
provincia la maggioranza è ungherese e i boss della comunità magiara si
oppongono al riconoscimento dei profughi serbi
nelle statistiche perchè temono che questo "alteri la composizione
etnica" della provincia. Il Primo Ministro ungherese in sede di
Conferenza sulla stabilità nei Balcani ha alzato la voce auspicando che
la Vojvodina segua il cammino del Kossovo. Gli ultim
i entrati nella NATO devono mostrarsi zelanti esecutori delle ambizioni
dei loro nuovi padroni.
Nella scuola elementare di Bascka Topòla la direttrice insiste affinchè
visitiamo una classe di bambini della comunità ungherese. Verifichiamo
che i libri, il registro, i programmi sono tutti rigorosamente in
magiaro. "Era così anche in Kossovo" ci dice c
on una vena di amarezza "ma hanno detto che c'era l'oppressione
culturale e il mondo gli ha creduto". Nell'aula i bambini ci salutano
con una canzoncina ma è sufficiente che qualcuno di noi accenni ai
bombardamenti di un anno fa e la commozione incontenib
ile piomba improvvisa sui volti di chi è dovuto scappare per giorni nei
rifugi al suono delle sirene antiaree. Il nostro disagio diventa
palpabile e decidiamo da quel momento in poi di misurare le parole per
non riportare alla memoria un terrore che la ge
nte della Jugoslavia un anno fa ha vissuto tutti i giorni per quasi tre
mesi.
Insieme al responsabile della Croce Rossa cominciamo il giro nei campi
profughi ed è qui che il popolo invisibile ci è piombato addosso con una
dignità che era difficile immaginare tra gente che da cinque anni vive
in condizioni di precarietà e promiscuit
à totali a due passi dal cuore della ricca, civile ed umanitaria Europa.
Vecchi magazzini, fattorie, fabbriche chiuse a causa dell'embargo, mense
in disuso, sono stati riadattate per ospitare migliaia di profughi
provenienti in varie ondate da Bosnia, Croazia ed infine Kossovo. Hanno
cominciato ad arrivare nel 1995, gli ultimi
sono arrivati nell'estate del '99 quando le truppe della NATO sono
entrate in Kossovo collaborando in alcuni casi apertamente con l'UCK
alla cacciata dei serbi.
Dai locali collettivi sono state ricavate delle stanzette di 12/15 metri
quadrati in cui ci sono due letti a castello ed uno singolo, un
fornello, un tavolino e qualche sedia. Famiglie di cinque persone vivono
così più o meno da cinque anni nella precarie
tà e nella promiscuità più assoluta. Ricominciare da capo non è facile.
Incontriamo soprattutto anziani e bambini. I giovani cercano in ogni
modo di andare via, di andare all'estero soprattutto. In gran parte sono
contadini che hanno perso tutto : casa, terra, animali, trattori e che
ora vivono con i sussidi statali per i pro
fughi e con i pochi aiuti internazionali.
Alcuni lavorano come braccianti nei campi dei contadini (la maggior
parte della terra è infatti privata), l'embargo ha ridotto drasticamente
le attività economiche portando alla chiusura di fabbriche e laboratori
e la disoccupazione - che colpisce già i r
esidenti - blocca ogni prospettiva per i profughi.
Dentro i campi profughi troviamo dei manifestini del Forum Democratico
Serbo. E' una organizzazione che si oppone al governo Milosevic eppure
nessuno stacca i cartelli. Sopra c'è un numero di telefono della Croazia
per chi vuole avere notizie sui parenti
rimasti lì o sulla situazione. Molti hanno i figli sposati con croati e
nonostante quello che hanno subìto, da nessuno sentiamo parole di odio
contro i croati o i musulmani di Bosnia. "Mia figlia è sposata con un
croato", "Mia madre era musulmana e mio pa
dre serbo"; "Io sono nato a Sarajevo, mio padre era croata e mia madre
serba" , la multietnicità della Jugoslavia era e resta un fatto reale
che solo le ingerenze occidentali (Germania, Vaticano e Stati Uniti
soprattutto) hanno fatto esplodere in modo vio
lento. "Se nell'Italia del Nord fossero arrivati tanti soldi e tante
armi come qui da noi, anche da voi in Italia sarebbe successo quello che
è accaduto qui" ci dice il dr. Gruja della Croce Rossa. "Se potessi
tornerei indietro di cinquanta anni, come era
prima" risponde Nikolai, un simpaticissimo e tostissimo contadino serbo
della Krajina ridotto a profugo.

Embargo, maledetto embargo

Andiamo a vedere un campo profughi "pilota" per le famiglie più giovani
ma con almeno cinque componenti. Si tratta di una ventina di casette di
45mq ad un piano e con tre ettari di terra da coltivare.Le terre sono
fornite in parte dai privati e in parte d
a quelle ancora statali. Accedendo a questo progetto però si perdono lo
status di profughi e i sussidi ma si può lavorare la terra o lavorare
per gli altri contadini. Dopo tre anni la casa resta assegnata alle
famiglie (anche se la proprietà e del Commiss
ariato per i Rifugiati) e bisogna restituire la terra. "Tra tre anni
vedremo" ci dicono i profughi. Con 5.000 dollari (circa 10 milioni di
lire) si può costruire una di queste casette che rappresentano una
situazione certamente più dignitosa dei "colletti
vi" che abbiamo visitato. Ma il progetto è costoso e i soldi non ci
sono. L'embargo rende difficile e costosissima la fornitura dei
materiali (cemento, ferro etc.).
L'embargo rende difficile l'attività anche nel Centro Clinico che oltre
alla popolazione locale offre assistenza anche ai profughi. La farmacia
dell'ospedale è semivuota ed i medici sono tornati a preparare le
medicine da soli utilizzando i soggetti attiv
i. I laboratori sono pieni di attrezzature e macchinari fermi perchè non
possono arrivare i pezzi di ricambio. La macchinetta per gli aereosol è
una donazione di un precedente convoglio della "Giorgiana Masi". Ma
medici e infermieri fanno miracoli e ci mo
strano con orgoglio anche quello che funziona, tra questi una macchina
per le ecografie. Più in là il reparto maternità è aperto ma ci sono
ricoverate solo due donne....non è facile nè viene voglia di nascere
nella Jugoslavia strozzata dall'embargo e bomb
ardata dalla NATO.

Un clima di tensione

Per andare a Kragujevac, la città-fabbrica della Zastava, la Torino
della Jugoslavia, passiamo per Novj Sad. Andiamo a vedere i ponti
distrutti crollati nel Danubio. Il traffico fluviale sulla grande
arteria d'acqua che attarverso l'Europa si ferma qui, a
lla nostra destra e alla nostra sinistra. Attraversiamo il Danubio sul
ponte di barche che è stato costruito per rimettere in comunicazione le
due sponde. Veniamo più volte fermati dalla polizia. Poco prima è stato
assassinato proprio a Novj Sad il dirige
nte del Partito Socialista della Vojvodina. Lo stillicidio di uomini
politici e dirigenti vicini a Milosevic continua ed è ormai difficile
escludere che la mano che sta armando i killer sia diversa da quella che
un anno scatenò i bombardamenti. Un funzion
ario del Tribunale dell'Aja ha detto ad uno dei serbi arrestati per
"crimini di guerra" che è meglio consegnarsi al Tribunale "altrimenti si
può fare la fine di Arkan". Una rivendicazione esplicita da parte dei
servizi segreti della NATO.
Nonostante il clima teso, la polizia quando vede che si tratta di un
convoglio di solidarietà e la lettera della Croce Rossa ci lascia andare
subito. In Ungheria ci succederà esattamente il contrario : tangenti,
multe fantasiose, ore di attesa alla fronti
era, aggressione di un poliziotto contro un compagno che guida il
furgone con gli aiuti.


L'orgoglio dei lavoratori della Zastava

A Kragujevac l'impatto è evidente. Si vede anche ad occhio che questa è
una città industriale imperniata sulla Zastava. La distruzione della
fabbrica e l'embargo rendono la gente, le facciate delle case, i luoghi
pubblici meno vivaci che a Novj Sad o Belg
rado. Sembra di essere a Torino nei primi anni '80 dopo i licenziamenti
di massa alla Fiat. Anche lì, la povertà, il degrado e la disperazione
erano evidenti. Ma a Kragujevac, Torino dei Balcani, oggi la situazione
è anche peggiore.
Ci incontriamo la sera con i compagni della Zastava. Li avevamo
conosciuti a febbraio qui in Italia durante un loro giro. Li avevamo
lasciati ottimisti sul futuro ma troviamo invece Sreten teso e
preoccupato. Pesa la notizia dell'omicidio di Novj Sad ma a
nche le prospettive per la fabbrica e le migliaia di lavoratori sono
pesanti. Incontriamo anche una delegazione della Fiom-Lombardia venuta a
portare aiuti concreti alla Zastava. CGIL-CISL-UIl dichiararono un anno
fa che l'aggressione era una "dolorosa co
ntingenza", sostennero attivamente l'operazione Arcobaleno e sabotarono
gli scioperi contro la guerra convocati dai sindacati di base. Ma quella
valutazione non deve aver convinto molto questi delegati che non hanno
obbedito ed hanno sentito - come noi -
che il bombardamento della NATO sulla Zastava e il ferimento di 134
operai-scudi umani era un attacco vergognoso contro i lavoratori di ogni
paese. Sanno benissimo che siamo più vicini al sindacalismo di base che
al loro ma alla Zastava si stà in prima li
nea e non c'è voglia di stare a far polemica sulla situazione italiana.
La mattina ci riuniamo nella saletta del Consiglio di Fabbrica della
Zastava. I compagni ci spiegano i problemi che stanno incontrando. Il
più grave è l'embargo. Quando erano venuti in Italia contavano
moltissimo sulla capacità di far ripartire la produzi
one e su alcune commesse provenienti dall'estero, incluse Croazia e
Macedonia. Ma proprio nei giorni in cui eravamo lì era giunta la notizia
che l'Unione Europea era intervenuta sui governi della Croazia e della
Macedonia per impedire l'acquisto dei veico
li prodotti dalla Zastava : embargo, maledetto embargo.
Facciamo un giro della fabbrica. Sembra di stare a Mirafiori. Chilometri
e chilometri di capannoni, impianti, palazzine, centrali. Un anno fa
gran parte era stato distrutto dalle bombe della NATO. Un anno dopo gran
parte è stato ricostruito dai lavoratori
. E' il momento dell'orgoglio dei nostri compagni jugoslavi.
E' Domenica eppure nei reparti si sta lavorando alla ricostruzione dei
capannoni e delle linee di produzione. I lavoratori si fermano, ci
salutano. La Zastava è piena dei rumori delle gru, dei martelli
pneumatici, odore di vernice. Incontriamo un ingegner
e. E' il dirigente della fonderia. Parla con l'orgoglio di chi sta
lavorando per ricostruire la "sua fabbrica". Si accanisce contro la NATO
che l'ha voluta distruggere. Tace ovviamente sulle aziende straniere con
cui sono stati riallacciate le relazioni c
ommerciali per cercare di esportare le macchine e i furgoni che si è
riusciti nuovamente a produrre : embargo, maledetto embargo.
La situazione alla Zastava non è facile. Su 11.000 lavoratori diretti
(senza contare l'indotto) solo il 30% sono tornati al lavoro : metà
impegnati nella ricostruzione e metà nella produzione. Ciò significa
riuscire a portare a casa un salario di 80 march
i al mese (meno di 80.000 lire). Per gli altri c'è solo un sussidio di
20 marchi e un buono statale per l'acquisto di generi alimentari.
Il 62% della fabbrica è stato ricostruito dagli operai ma servirebbero
1,2 miliardi di dollari per rimettere in piedi tutti gli impianti. I
lavoratori hanno costituito un Fondo di Solidarietà ma le sottoscrizioni
che arrivano dai lavoratori di altri paesi
(anche dall'Italia) non bastano certo a colmare questa voragine.
Il problema principale resta quella di rompere l'embargo e far ripartire
la produzione. Sul secondo aspetto la soggettività operaia si è
dimostrata capace di fare anche l'impossibile. Sul primo è necessario
che ci si muova qui in Italia ed in Europa per c
ostringere i governi a revocare l'embargo contro al Jugoslavia, anche se
sarebbe più logico parlare di risarcimento per i danni di guerra
inflitti ad un paese che non ha aggredito il nostro e che ha subito una
aggressione devastante da parte della NATO.

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Il Manifesto, 01 Giugno 2000


La Zastava riparte

Grazie ai raid della Nato la Fiat-Zastava era un ammasso
di rovine. Ora gli operai, aiutati anche da Ig-Metall e
Comisiones Obreras, l'hanno ricostruita. Farà 20mila
vetture l'anno
LORIS CAMPETTI - INVIATO A KRAGUJEVAC (SERBIA)

" Hai visto che abbiamo combinato?". Ruzica, Sreten,
Rajka, Milan, sono orgogliosi di quel che sono riusciti a
fare in pochi mesi. E hanno ragione di esserlo: il giorno
dopo la fine dei bombardamenti si sono rimboccati le
maniche cominciando a togliere le macerie. Qui alla
Zastava di Kragujevac tutto era rovina, una massa informe
di detriti, resti di bombe, missili e lamiere contorte,
catene di montaggio intrecciate in una scultura
raccapricciante; qua e là pozzanghere di solventi e
vernici sparse ovunque dall'affondamento delle cinque
linee di verniciatura, le fucine rase al suolo come il
centro di calcolo, come la centrale termica che alimentava
la fabbrica e riscaldava i 200mila abitanti di Kragujevac.
Era questo lo spettacolo che meno di un anno fa si
presentava agli occhi di chi andava a vedere quel che
restava del più grande stabilimento automobilistico dei
Balcani, la Mirafiori jugoslava. Oggi un pezzo di Zastava
è risorta grazie al lavoro dei suoi operai senza lavoro e
senza salario per la sensibilità umanitaria occidentale:
"Ventimila vetture entro il 2000, due terzi per il mercato
interno e uno per l'esportazione", ci dice con orgoglio il
direttore dello stabilimento auto.

La solidarietà operaia

Il secondo miracolo i lavoratori e il sindacato l'hanno
compiuto socializzando la loro esperienza con i lavoratori
e i sindacati di mezza Europa. Se la Jugoslavia è oggi un
paese isolato, sotto embargo, emarginato, non è così per
la Zastava: in quest'anno terribile e straordinario
delegazioni tedesche, italiane, spagnole, belghe,
francesi, sono arrivate a portare solidarietà e un po' di
aiuti. Medicine e attrezzature mediche - le bombe
intelligenti hanno colpito con precisione anche il centro
sanitario della Zastava, aperto all'intera popolazione
cittadina e ai profughi di troppe guerre - e adozioni a
distanza dei figli dei lavoratori licenziati dalla Nato,
"la Ig-Metall ci ha regalato anche un tornio", racconta
Rajka. Gli operai hanno sostituito tutti i vetri
frantumati, costruito i tetti che ricoprivano i 159.791
metri quadrati di area industriale abbattuta (1.500
miliardi di danni valutati, quelli ambientali non sono
valutabili). Hanno rimontato qualche linea di montaggio,
una di verniciatura, rimesso in piedi le officine da cui
uscivano le parti essenziali per costruire automobili e
trattori. Raddrizzando a colpi di martello e fiamma
ossidrica ferraglia informe, sostituendo i pezzi non
recuperabili, hanno riattivato buona parte della centrale
elettrica. Ecco cosa hanno fatto gli operai della Zastava
in pochi mesi, neppure il presidente del gruppo, Milosvan
Pusonja, lo nega. Solo una piccola parte dove si
costruivano fucili da caccia è rimasta quasi intatta. E
dire che la Nato ha giustificato l'aggressione sostenendo
che qui si costruivano potenti armi da guerra. Invece no,
volevano colpire i lavoratori, visto che a decine sono
finiti all'ospedale, feriti dalle bombe del 9 e del 12
aprile del 1999. Colpire la popolazione, il suo presente
(e non il suo presidente che continuano ad aiutare con
l'embargo) e il suo futuro. Ci sono riusciti? In parte sì,
i due terzi dei 50mila lavoratori di un anno fa vivono con
un sussidio di disoccupazione di 15 marchi al mese e un
pacchetto di buoni (quando arrivano) del valore di 20
marchi per l'acquisto di alimenti. In parte no, e gli
operai costretti a saldare manualmente le scocche della
versione serba della 128 Fiat, della Jugo e della Florida
(così, per ironia della sorte era stato chiamato l'ultimo
modello Zastava), metalmeccanici per sei mesi muratori ed
oggi di nuovo metalmeccanici, sono qui a dimostrare che la
determinazione e la solidarietà operaie possono essere più
forti delle bombe e dell'odio.
I lettori penseranno: quello è andato in Jugoslavia e
invece di raccontarci di Milosevic e dei suoi oppositori
ci parla di operai nostalgici dell'autogestione titina?
Invece di dirci del Kosovo ci dice delle lamiere contorte
e raddrizzate? Forse sbaglio, ma penso che i lavoratori
della Zastava come di tante altre fabbriche ricostruite, a
Cacak o a Belgrado, in Vojvodina o a Krusevac, dovrebbero
essere il primo interlocutore di chi a ovest si preoccupa
del futuro di un piccolo paese dell'Est. Certo più degli
oppositori doc in ritiro a Mosca e che buttano allo
sbaraglio migliaia di studenti (armati di buona volontà e
buone idee) in tutte le città della Serbia, con il
beneplacito dell'Occidente. Gli operai, la popolazione che
si difende ricostruisce quel che altri distruggono, sono
la parte migliore che si muove da queste parti. Sono tutti
servi di Milosevic? E se no, perché non avviano un
processo di democratizzazione del Paese, perché non si
schierano contro il governo? Perché c'è stata e c'è la
Nato che brucia ogni possibile ritorno alla normalità
della Serbia. Anche riempiendo borraccia e portafoglio dei
suoi "alleati" di turno. Perché c'è l'embargo che
trasforma gli ospedali in inutili e disperate sale
d'attesa, e il nemico principale per chi sta sotto le
bombe e l'embargo è, ragionevolmente, chi quelle bombe
tira. Perché Milosevic non sarà democratico, reprimerà
giornalisti e studenti come fa, ma non è certo cretino: un
welfare residuato dal socialismo reale impedisce
l'esplosione del dissenso, e i ponti ricostruiti e
inaugurati da "Slobo" davanti a centomila persone parlano
da soli; e un'economia parallela e illegale prodotta
dall'embargo e non combattuta da Belgrado, crea consenso
fra nuovi e vecchi ceti arricchiti o azzittisce il
dissenso. Qui, comunque, il nemico è la Nato.

Il costo del Kosovo

C'è anche chi sostiene che l'occupazione militare
straniera del Kosovo libera ingenti risorse che Belgrado
dirotta nella ricostruzione di una Serbia sempre più
piccola. Il Kosovo costa caro anche in termini economici,
come sanno le ex nazioni della Jugoslavia che hanno
iniziato la secessione per liberarsi di quella tassa.
Politicamente Milosevic non può "mollare" il Kosovo, ma
questo non c'entra con l'economia, o c'entra di traverso.
Già, il Kosovo. Ne abbiamo parlato, insieme ad altri
giornalisti stranieri in Serbia per il 35mo meeting
internazionale dei giornalisti, con Zoran Andjelkovic,
presidente del consiglio amministrativo di Kosovo e
Methonija ed ex plenipotenziario di Milosevic a Pristina e
con Nebojsa Vujkovic, viceministro federale degli esteri.
C'è chi pensa che in autunno si debbano tenere elezioni in
Kosovo: "270mila serbi sono stati cacciati da una terra
che come ribadiscono la Risoluzione 1244 dell'Onu e le
carte di Kumanovo è parte integrante della Jugoslavia e
300mila albanesi sono arrivati dall'Albania. Vi pare - è
la risposta di Andjelkovic - che in queste condizioni si
possano tenere elezioni? Lo sapete che a Pristina vivevano
44mila serbi prima dell'aggressione Nato e che oggi ne
rimangono 270?". Civili serbi uccisi, scacciati in massa
dal Kosovo, un Paese ormai monoetnico: ricostruzioni
storiche a parte, che chi è parte in causa (anzi in
guerra), fa come sappiamo, è pensabile, e a che
condizioni, la ricostruzione di relazioni democratiche
della Serbia con l'Occidente? "La Serbia vuole entrare su
un piano di parità nella Comunità internazionale. Una
normalizzazione delle relazioni - risponde Vujkovic - è
possibile se ci vengono pagati i danni di guerra e se
cessano le sanzioni economiche". Ma non tutti sono
d'accordo con il governo, c'è chi, come gli studenti,
continua a scendere in piazza. Tutti servi della Nato? "Ci
sono conflitti interni - risponde ancora il viceministro
degli Esteri Vujkovic - che non vanno oltre le dinamiche
presenti in qualsiasi altro paese democratico. Il nemico
vero è il terrorismo", risponde riferendosi agli albanesi
nel Kosovo. Un punto di vista, il suo, che gli studenti o
i giornalisti ridotti al silenzio certamente non
condividono.
Gli operai della Zastava, intanto, saldano a mano le
scocche delle automobili. Vorrebbero ricostruire anche lo
stabilimento dei camion ma uno dei due padroni (la
Iveco-Fiat, l'altro è lo Stato serbo) non ne vuole sapere
di investire soldi in Jugoslavia. Tanto più che se
riprendesse la collaborazione dovrebbe vedersela con
Rajka, Milan, Ruzica, Sreten e gli altri che l'hanno
ricostruita.


--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
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