IL ROVESCIO INTERNAZIONALE
(Odradek Editore, Roma 1999)
Introduzione (2/2 - fine)


6. Tre vittime illustri

Comunque vada a finire tre vittime illustri
questa guerra le ha fatte fin dal primo giorno.

6.1 La sovranità.

La prima - veneranda per età e sacralità da
cerimonie ufficiali - è la sovranità degli Stati. Il principio
fondamentale
che ha governato il diritto internazionale e gli equilibri geostrategici
della modernità è diventato merce scaduta. La barriera formale - ma di
terribile efficacia pratica - che proibiva a chiunque di intervenire
nelle
vicende interne di uno Stato non ha più legittimità né rispetto nel
ristretto, ma potente, gruppo di paesi che costituiscono l'Alleanza
atlantica. Quel che è peggio, analoga caduta di valore è avvenuta
nell'opinione pubblica "progressista" di questi paesi. In certi
ambienti,
"sovranista" è l'insulto più sanguinoso.
L'infrazione della sovranità - non siamo ingenui - c'è sempre stata di
fatto. Troppi e troppo noti sono gli episodi che possono esemplificare
come
si possa perseguire la destabilizzazione dei governi o della vita
politica
interna (ne sappiamo qualcosa anche noi, paese per definizione a
sovranità
limitata nel dopoguerra) tramite una parte delle forze economiche,
politiche e militari di un altro paese. Ma questa infrazione, ove
dimostrata da documenti e/o testimonianze, o comunque troppo palese
anche
rispetto agli elevati standard di ipocrisia dell'opinione pubblica
internazionale, veniva sanzionata come inammissibile, nutrendo
opposizione,
critica, in certi casi persino rivolte.
Veniva quanto meno sanzionata dalla "comunità mondiale" riunita
nell'Onu,
nonostante la più che nota impossibilità per questo organismo di far
accettare le proprie decisioni agli Stati "forti". Però, persino gli
Stati
uniti hanno dovuto perdere una guerra - quella in Vietnam - sotto la
pressione di questa riprovazione internazionale schierata a difesa
dell'autodeterminazione dei popoli e della sovranità degli Stati.
Persino
gli Stati uniti, vogliamo ricordare, furono continuamente costretti a
ricorrere alla formula diplomatica secondo cui il loro intervento veniva
richiesto dal governo di quel paese per far fronte alla sovversione
interna. Persino l'Unione sovietica, ancor meno attenta alla liturgia
delle
regole, fu obbligata ad attingere al medesimo artificio retorico-formale
per giustificare l'invasione dell'Afghanistan. E, infine, persino la
guerra
del Golfo, nel '91, fu formalmente una guerra per imporre all'Iraq il
rispetto della sovranità di uno Stato - per quanto da operetta - come il
Kuwait.
L'ingerenza negli affari interni di un altro paese era insomma
considerata, in tutti i casi e a prescindere da chi fosse l'autore
dell'ingerenza, come una aggressione fondata su interessi nazionali
diversi. La stessa seconda guerra mondiale vide a un certo punto uniti
l'occidente capitalistico a regime parlamentare e la Terza
internazionale
comunista (ovvero l'Urss e i partiti comunisti di tutti i paesi) contro
il
nazifascismo (ovvero contro un capitalismo nazionalistico, razzista,
aggressivo e senza regole, ovvero senza diritto, e che comunque aveva
invaso lo "stato sovrano" di Polonia). A distanza di oltre 50 anni si
può
tranquillamente dire che la "coesistenza pacifica" - anche all'interno
dei
singoli Stati dell'occidente capitalistico - ha avuto il suo fondamento
nel
riconoscimento (da parte proletaria e comunista) che la lotta di classe
interagiva con l'universo delle regole con cui veniva gestito il
conflitto.
E che agire entro un quadro normativo che ponesse limiti (transitorii e
sempre messi in discussione, ovviamente) allo sfruttamento capitalistico
e
ai poteri dello Stato nei confronti dei cittadini-lavoratori era
preferibile allo "stato di natura" rappresentato dalle dittature. Meglio
insomma un diritto, manchevole e sempre da contrattare punto per punto,
che
nessun diritto.
Il quadro è stato ovviamente meno pacifico. Gli Stati uniti e l'Europa
occidentale hanno tranquillamente promosso, appoggiato e foraggiato
dittature fasciste sanguinarie nel terzo mondo e non solo (Spagna,
Portogallo e Grecia passano al regime parlamentare democratico solo alla
fine degli anni '70). E certamente la "sovranità" degli Stati europei
occidentali è sempre stata più un vezzo retorico - ipocrita e
finalizzato
solo alla delegittimazione dell'opposizione interna - che una realtà
operante. Ma nonostante tutti questi limiti la "sovranità" definiva un
ambito di intangibilità che per essere spezzato imponeva enormi problemi
di
legittimazione, tra contestazioni opposte da un arco di soggetti
praticamente ingovernabile. Tant'è vero che la "guerra di liberazione
nazionale" è rimasta per tutto il secondo dopoguerra l'unica forma di
guerra accettata come giusta. Sia a destra che, con molti entusiasmi e
un
po' meno riflessioni, a sinistra.
In ogni caso, la relativa intangibilità della sovranità statuale aveva
il
suo fondamento pratico nella divisione del mondo in due blocchi
contrapposti di pressoché uguale capacità distruttiva. Il fatto di
trovare
le sue radici nel pensiero giuridico della modernità era problema che
riguardava i filosofi della politica e i rètori da discorso ufficiale,
ma
di nessun interesse pratico per gli Stranamore del Pentagono o del
Kremlino.
Ora, però, è stato compiuto il passo che distrugge in radice la
legittimità della sovranità statuale. O meglio. Il passo che sancisce il
trasferimento della sovranità da molti stati a uno.
In tutto l'argomentare bellicista intorno alla bontà etica di questa
morte, infatti, tutti gli intellettuali con l'elmetto in testa
dimenticano
di notare che, nel dichiarare la morte della sovranità, gli Stati uniti
non
stabiliscono né tantomeno accettano nessuna reciprocità. La sovranità da
abolire è quella degli altri. La propria resta. E più forte che mai.
Assolutamente unica.
È noto che non c'è convenzione internazionale che gli Stati uniti
rispettino. Si tratti della Corte internazionale de L'Aja o della
Convenzione di Strasburgo sui diritti dei detenuti (il caso Baraldini
docet), della regolamentazione delle emissioni di gas, del divieto di
commercializzazone di prodotti alimentari transgenici o del bando alle
mine
anti-uomo, o di mille altri accordi internazionali, gli Usa fanno
orecchie
da mercante oppure (più spesso) la voce grossa. La legge interna viene
per
loro prima e sopra ogni accordo internazionale.
È la prassi tipica dello Stato sovrano del popolo eletto. È appena il
caso
di notare che il Congresso degli Usa ha da pochissimo votato quasi
all'unanimità una legge che autorizza l'uccisione di capi di Stato
stranieri, assolvendo preventivamente il presidente e quant'altri -
cittadini statunitensi, naturalmente - l'avessero ordinata o eseguita.
Si
può obiettare che l'uccisione di capi di Stato stranieri è stata spesso
una
prassi nelle relazioni tra stati nemici. Vero. E in camera caritatis
ognun
sapeva. Ciononostante era prassi "disdicevole", eredità del medioevo
delle
relazioni internazionali; cosa insomma da fare con parsimonia ed
evitando
di lasciare tracce che riconducessero troppo scopertamente allo Stato
autore del delitto. Ma che si senta il bisogno di legiferare sulla
propria
autorizzazione a uccidere capi di Stato, questa è davvero la misura
dello
sguardo che gli Usa gettano sul mondo. È quando l'arbitrio bellico, la
volontà di potenza, viene elevata a legge che si può, finalmente senza
veli, guardare il volto della Medusa. Ed è qui che intervengono gli
intellettuali servili. Nella tessitura del velo che impedisce di
riconoscere i tratti fondamentali della nuova realtà.
Il primo giorno di bombardamenti, di conseguenza, cade anche il fantasma
della comunità internazionale organizzata, ovvero l'Onu e gli altri -
tanti
- organismi sovranazionali a gestione contrattuale. Comunità europea
compresa, naturalmente. Anzi, qualcuno dovrebbe cominciare a spiegare
come
si possa essere contemporaneamente entusiasti sostenitori dell'Europa di
Maastricht (che prefigurava un trasferimento consensuale di sovranità
dai
singoli Stati alla comunità europea) e della morte della sovranità
tout-court per mano della Nato (un'alleanza militare a centralità
extraeuropea che decreta quali Stati continueranno a sussistere senza
problemi e quali dovranno autodistruggersi). I termini del problema
vanno
esposti con la massima lucidità, pena il barcollare intellettuale oggi
in
atto.
Immaginare i rapporti tra gli Stati secondo le regole della democrazia
ha
significato necessariamente istituire la convenzione "uno Stato = un
individuo libero e sovrano", sulla falsariga della convenzione del
diritto
liberale infranazionale. Democrazia fa qui tutt'uno con contrattualismo.
Il
diritto internazionale non poteva darsi altro principio, dovendo fare i
conti con entità statuali diverse per regime politico, universo etico,
convinzioni religiose, relazioni sociali interne. Entrare nel merito di
questi universi singolari (quel che è avvenuto ora, per la prima volta,
con
l'attacco alla Federazione jugoslava) significa porre le premesse della
guerra di tutti contro tutti, per la supremazia di un universo di valori
(di interessi) sugli altri. È stato dunque un passaggio a uno stato
superiore di civiltà quello con cui tutti gli Stati hanno riconosciuto
la
libertà di ogni singolo Stato a governare secondo i propri criterii sul
proprio territorio e sui proprii cittadini. È stata la fine dell'epoca
delle crociate, delle guerre dell'oppio, della politica delle
cannoniere,
del colonialismo anteguerra.
È un sistema ambiguo, viene detto da qualcuno (l'ineffabile Sofri, tra i
primi). Vero. Ma non più di quanto non lo sia la convenzione
contrattualistica all'interno di uno Stato a regime parlamentare, tocca
far
notare. Che tutti i cittadini siano da considerare uguali davanti
all'urna
o davanti a un giudice è per l'appunto una convenzione ambigua, che
omette
per principio la differenza tra i singoli cittadini, il loro differente
consistere quanto a mezzi di proprietà o di produzione, livelli
culturali,
autonomia complessiva, capacità di manipolare sia il voto che i giudici,
ecc. La critica marxiana del diritto borghese proprio da questa
constatazione parte per individuare lo Stato come "violenza organizzata"
in
difesa dei ceti proprietari dei mezzi di produzione; o meglio della loro
"libertà di agire" come estorsori di pluvalore.
Ma di questa natura "ambigua" - l'egualianza è presunta, la differenza è
reale - è fatto il diritto e l'agibilità della politica. Lamentarsene è
mettersene fuori. Che sia un marxista a farlo ha sicuramente un senso e
una
qualche coerenza interna al discorso. Ma che lo facciano dei liberali, e
per di più di sinistra, ecco, questo è davvero un salto di epoca sul
piano
concettuale. Di più. È il dichiarare il liberalismo politico stesso un
impaccio di cui si può e si deve fare a meno. E merita d'esser qui
ricordato come il liberalismo sia (stato?) ideologia capitalistica per
eccellenza proprio in quanto assicurava la massima libertà d'impresa
garantendo, tramite lo Stato, l'egualianza di tutti sotto la legge. Una
libertà di accumulazione sotto la legge del più forte (il sogno di
Berlusconi, par di ricordare) era - e torna a essere - l'epopea del far
west, non il compimento liberale. La camera di incubazione di ogni
possibile guerra, non la condizione di una qualche pace.
Come si possa uccidere il liberalismo e dichiararsi comunque liberali è
una di quelle boutades che speriamo vivamente qualcuno voglia prendere
in
esame per farne testo satirico.

La fondazione del diritto internazionale, esattamente come quello
interno
agli Stati, può essere concepita tanto su base contrattuale-consensuale
quanto sulla base della forza. Il concetto di diritto, infatti, fa
tutt'uno
con quello della forza che deve garantirne il rispetto. O la forza
discende
dal diritto, e quindi dal contratto, oppure la forza fonda il diritto,
ovvero l'ugualianza formale di tutti davanti alla legge e alla sua
fonte.
Nel secondo caso - è elementare - il diritto garantisce il vincitore e
la
sua gamma di interessi, valori, norme. Per come è fatto il mondo
attuale,
soprattutto la sua lingua e la sua moneta. Il suo sistema mediatico, il
suo
governo economico.
Che significa? Che la sovranità uccisa dai liberal statunitensi (tra gli
applausi dell'intellighenzia europea) è la sovranità di tutti gli stati
meno uno. Un garante dell'uso della forza deve necessariamente restare.
Solo che questo garante si autoinveste del compito, come un Napoleone
del
2000. E invece di far rispettare una legge consensuale uguale per tutti,
costruisce l'obbedienza ai decreti emessi da un sovrano libero da
vincoli
contrattuali.
La morte della sovranità coincide perciò con le premesse della
fondazione
di un impero.
L'uguaglianza che rimane è quella di tutti gli Stati sottoposti al
comando
statunitense. Che poi gli Stati uniti siano davvero i sovrani del mondo,
oppure solo la longa manus militare del capitalismo della
globalizzazione,
è questione che al momento non muta di molto la sostanza dell'attualità.
Questo è lo scenario del futuro prossimo, l'incipit del XXI secolo
disegnato dalla guerra contro ciò che restava dell'ex-Jugoslavia dopo
dieci
anni di smembramenti.
Un solo mondo, un solo modo di produzione, un solo mercato, un solo
prezzo
universale per ogni merce, un solo sistema di tassazione, un solo quadro
normativo che regoli commerci e transazioni finanziarie. Una sola
lingua,
una sola moneta, un solo esercito fondato sul monopolio di determinate
tecnologie. Esercitarsi col pluralismo all'interno dei paesi diventa in
questo quadro un gioco rituale da campagna elettorale. Come dimostra
abbondantemente l'insieme dei governi europei, il cui essere di destra o
di
sinistra scompare davanti all'omogeneità nella partecipazione
subordinata
alla guerra e nella gestione di politiche economiche identiche.
Non è la morte della sovranità salutata con tanto entusiasmo da
miserabili
"intellettuali" con pedigree "progressista": è l'imposizione di una sola
sovranità. Il fatto d'esserne stati zelanti complici non garantirà
affatto,
in futuro, di restare sempre al riparo dai fulmini del sovrano mondiale.
I
sovrani assoluti, si sa, sono capricciosi. Sovrani assoluti con l'incubo
della rielezione ogni quattro anni lo sono ancora di più. Noriega,
Pinochet, Saddam Hussein, lo stesso Milosevic degli accordi di Dayton,
restano un monito per tutti i servitorelli del presente e del futuro.
Alla potenza militare ed economica effettivamente mostruosa che i paesi
della Nato sono riusciti a mettere insieme non corrisponde infatti alcun
progetto. Si intende qui per progetto un disegno di governo mondiale che
sia allo stesso tempo riconoscibile e condivisibile da parte
dell'umanità.
La pura esibibizione di potenza, la declamata volontà di imporre il
proprio
dominio, restano semplicemente tali. Costruiscono perciò nel breve
periodo
obbedienza formale, accettazione forzosa, non adesione consensuale.
Basta
pensare a quell'esercizio di ignominia che è la Russia eltsiniana per
comprendere come - anche lì - si faccia di necessità virtù, in attesa
dell'improbabile occasione per una revanche. Che poi debba emergere un
altro gruppo dirigente perché la revanche diventi un obiettivo, è
assolutamente ovvio. Ma proprio questa considerazione mostra come
l'attuale
volontà di potenza statunitense bruci i gruppi dirigenti "alleati"
anziché
consolidarli. Come politica imperiale non ce ne può essere di meno
lungimirante. Senza un progetto la durata dell'impero è a forte rischio.
Che debba farlo notare la diplomazia "classica" di tradizione liberale,
quella attenta agli equilibrii e alle conseguenze spiacevoli delle
proprie
stesse vittorie, è un gustoso paradosso della politica "progressista".

6.2 Diritti di cittadinanza

Con la sovranità muoiono anche i diritti di
cittadinanza, quell'insieme di acquisizioni conquistate con secoli di
lotte
operaie e non. Vengono sostituiti dai diritti umani. Un bel passo
indietro,
non c'è che dire. Capitalisticamente parlando questi ultimi hanno il
vantaggio di essere astorici, astratti, ma soprattutto gratuiti, nel
senso
che il loro rispetto non prevede voci di bilancio nella spesa pubblica.
Al
contrario i diritti di cittadinanza sono concreti, consistono di misure
e
costi (lo Stato sociale, i diritti del lavoro, il diritto
all'assistenza,
all'istruzione, ecc). I primi possono essere enunciati senza che occorra
farsene carico quanto alla loro effettualità pratica (va da sé che qui
si
considera la guerra in corso come motivata da tutt'altro che non dal
rispetto dei diritti umani); i secondi prevedono lunghe contrattazioni,
intervento di una pluralità di soggetti sociali e/o categorie di
lavoratori. I primi si nutrono anche solo con la retorica; i secondi
esigono impegni di spesa e politiche conseguenti. I diritti umani non
sono
oggetto di contrattazione, insomma; e la loro stessa universalità -
affermata a parole - viene fatta valere discrezionalmente (22 milioni di
kurdi non ne hanno diritto, visto che stanno in un paese della Nato).
Non stupisce perciò che il "nuovo impero nascente" si poggi sui diritti
umani per costruire la propria legittimità o superiorità etica. La
caratterizzazione "di sinistra" - chiaramente in stile "terza via"
blairiana e clintoniana - permette di abbozzare la fisionomia di un
centro
imperiale che può dirsi riformista proprio quando distrugge quanto resta
dello Stato sociale; pacifista nel mentre comanda la guerra di più puro
potere che si sia combattuta in questo secolo mettendo in mora al tempo
stesso gli strumenti consolidati della diplomazia internazionale;
ambientalista nel mentre usa scientemente il bombardamento delle
industrie
inquinanti per massimizzare gli effetti distruttivi. Autentica
modernizzazione del corporativismo di origine fascista, il patto sociale
a
senso unico (gli imprenditori dispongono, i sindacati compatibilizzano
la
forza lavoro) è la dimostrazione di come si possa distruggere un secolo
di
faticose conquiste - costate il sangue di milioni di persone -
inneggiando
senza vergogna né, quasi, contestazione, alla salvaguardia dei diritti
umani.

6.3 La sinistra

Il terzo caduto, di gran lunga meno importante, è il
concetto di sinistra. Prima di questa guerra - così come prima della
Grande
guerra e del congresso di Zimmerwald - era possibile comprendere nello
stesso calderone concettuale brandelli spurii di uno pseudo-corpo
sociale
unitario. Dall'ambientalismo edulcorato all'"area antagonista", dal
pacifismo cristiano al vetero-trotzkismo, dai tentativi di rifondazione
agli osceni balletti intorno alle poltrone dei "Comunisti italiani". Il
calderone concettuale ospitava tutto e tutti. Ogni discrimine poteva
essere
accettato, aggirato, capovolto, linguisticamente declinato secondo le
più
varie versioni, occasioni, convenienze e contingenze.
Ora no. La guerra ha fatto da spartiacque. Tra bombardieri e bombardati
non ci può essere trincea comune. E quelli che hanno provato a ricoprire
entrambe le parti in commedia difficilmente potranno sottrarsi
all'azione
della scopa della Storia.
Con questo calderone salta per aria anche la triste storia del pacifismo
italiano e occidentale in genere. Assolutamente egemone negli anni '80,
quando si trattava di «educare le giovani generazioni» a non
ripercorrere i
sentieri della ribellione armata, si è rivelato corpus teorico
inesistente
di fronte al primo impatto ravvicinato. Anzi, i pacifisti di allora sono
nella stragrande maggioranza tra i più accesi «bombardisti» di oggi. Le
stesse manifestazioni per la pace avvenute in Italia, opera di ciò che
resta del vecchio fronte pacifista e di quel tanto di antagonismo
esistente, si sono svolte nella più rassegnata consapevolezza della
propria
impotenza pratica.
Chiaro qual'è l'abisso in cui è precipitata la vulgata pacifista: nata e
benedetta come forma di deconflittualizzazione della lotta di classe
interna non può - costitutivamente - proporsi come cultura di governo di
un
paese della Nato. A questo punto la scisssione del movimento pacifista
era
segnata. Da un lato il pacifismo dei bombardieri (ovvero: la lotta di
classe interna ai singoli paesi va per principio condotta con metodi
rigorosamente aconflittuali, come rivendica Cofferati: l'imposizione del
comando capitalista può e deve passare attraverso la pratica del
bombardamento), dall'altra il pacifismo ideologico, che non può
affrontare
e risolvere né i problemi del nuovo ordine mondiale, né quelli del
conflitto sociale.
Parallela a questa caduta è la perigliosa condizione del volontariato e
del privato sociale, insomma di quell'insieme vago di enti economici a
costo del lavoro depresso che si usa chiamare "terzo settore",
proiezione
empirica di tutti gli alternativismi solidali, uniti in passato dal
pacifismo come referente ideologico comune. Non fosse bastata la chiara
intenzione di mettere in produzione questo insieme affidandogli il
compito
di ammortizzare le ricadute della distruzione dello Stato sociale, la
guerra ha anche mostrato quanto sia utile impiegarlo nelle retrovie,
militarizzarlo affidandogli sia i compiti di gestione pratica dei
profughi
che quelli della raccolta fondi e materiali logistici per l'assistenza.
Altra cosa ancora è il problema posto dal meccanismo decisionale di
questa
guerra a quanti immaginano il superamento dello stato di cose presenti.
Belgrado mostra al mondo cosa attende chi esca dallo schema delle
obbedienze stabilito a Washington (o dal Dow Jones). Indipendentemente
da
che tipo di uscita o "non entrata" si voglia perseguire.

6.3.1 Sinistra e polizia internazionale

Mai morte fu così benedetta, a
sinistra, come quella dello Stato-nazione. L'ingerenza umanitaria è un
killer dal nome gentile che semina cluster bombs e travolge
argomentazioni
secolari, principii, concetti, istituzioni. Meritano la citazione due
maestri di pensiero accomunati dalla lontanissima militanza nella
sinistra
extraparlamentare e dalla presente permanenza nelle carceri della
Repubblica.
Adriano Sofri, con la gravità espositiva che gli è propria, invita a
chiamare la guerra in Jugoslavia operazione di polizia internazionale.
Il
salto mortale semantico trasfigura i protagonisti eliminando la loro
uguaglianza. Nella guerra, eguali diritti confliggono (c'è tragedia
quando
si dà lo scontro tra due ragioni). L'operazione di polizia evoca una
gerarchia indiscutibile: ragione e torto sono già assegnati. Il nemico è
solo un criminale, un bersaglio della giusta collera, un extra legem.
L'operazione non è del tutto innocente, se ha bisogno - come in effetti
fa
- di sottacere chi sia la fonte della legge e di quale legge si stia
parlando.
Toni Negri, con la levità che lo contraddistingue quando deve affrontare
temi e concetti che grondano nervi e sangue da tutti i lati, brinda a
questa dipartita intonando un peana agli Stati uniti «che oggi si
avviano a
esercitare comando imperiale, non imperialista», «paese che nasce
attraverso una rivoluzione anticoloniale e che ritiene questa origine
nella
sua costituzione», giacché «Gli Usa sono diversi, non conoscono
l'imperialismo». Sulla prima affermazione si potrebbe convenire solo
dando
alla categoria di "imperialismo" una definizione impropria, ovvero di
«attività complessa indirizzata alla costruzione di un impero nel
lontano
futuro». In questo caso si potrebbe dire che gli Usa fissano con questa
guerra le fondamenta del loro impero e quindi escono dalla fase
processuale
per gettarsi in quella dell'effettualità piena. Ma la seconda
affermazione
già disconferma questa interpretazione: gli Usa sarebbero per natura e
origine un paese anticolonialista. Ci si sorprende a ricordare come la
"dottrina Monroe" sia del 1822, a neppure quarant'anni
dall'Indipendenza.
Che un paese il quale teorizza (legifera, in realtà) che tutto il
continente americano, dall'Alaska alla Terra del fuoco, sia «di
interesse
vitale» e quindi di propria competenza, possa essere considerato
anticolonialista, è salto mortale logico ma al di sotto di qualsiasi
considerazione critica. Si confuta da sé.
È pur vero che la globalizzazione capitalistica deve necessariamente
distruggere i residui ostacoli alla libera circolazione di merci e
capitali
su tutto l'orbe terracqueo; è persino ancora vero che tale movimento
unificante il mondo - marxianamente - lascia intravedere con maggiore
definizione le possibili vie di superamento del modo di produzione
presente; ed è, infine, assolutamente vero che nutrire nostalgie per la
belle epoque dello Stato-nazione è sentimento in radice conservatore. Ma
identificare - come fanno - il movimento liberatorio per sé del capitale
con il movimento di liberazione universale dell'umanità è gioco già
troppe
volte smascherato per poter essere ancora accettabile. Non è, insomma,
neppure un nuovo gioco.

7. Borghesia e guerra

In questa guerra si spezza anche il rapporto
tra borghesia e interesse generale sul piano militare, su quello dei
prezzi
che come "popolo" bisogna pagare alla guerra. I figli della borghesia
morivano, in misura certo drasticamente minore, ma allo stesso modo dei
proletari. Ora no. Il tenente che gridava "carica!" è stato sostituito
da
un messaggio radio, da un ordine in codice dotato di password.
Il soldato che va a morire (con parsimonia, ma solo perché diventa
ingestibile il "fronte interno" della guerra) è né più né meno che il
mercenario. Dotato comunque di nazionalità, cioè appartenenza, comunità.
La
guerra della globalizzazione è un videogame che si guarda in
televisione.
Ma solo fino al momento in cui i corpi dei "ragazzi" tornano dentro le
bare. E saranno portoricani, chicanos, calabresi... "acquisiti",
insomma.

7.1. La borghesia della globalizzazione non ha nazione.

Gli Stati uniti,
che indubbiamente gestiscono l'"esercito mondiale" della borghesia
globalizzata, lo sono comunque in modo "surrogato". C'è una sfasatura
tra
l'essenza di questa borghesia essenzialmente finanziaria e indifferente
alla localizzazione e la "nazionalità sovrana" di un paese come gli
States.
Ma è una sfasatura funzionale, e comunque obbligata. La concentrazione
di
sapere militare, produzione tecnologicamente avanzata, catene di
comando,
ecc, insomma l'insieme delle condizioni che garantiscono un corpo
compatto
e motivato pronto per la guerra. è un prodotto di secoli di storia. La
sua
sostituzione non è questione di desiderata particolari. O c'è
alternativa o
non c'è. La "sussunzione" della macchina militare statunitense sotto
l'egida della borghesia della mondializzazione è processo che svincola
la
macchina stessa dal controllo politico della presidenza. Tanto più che
un
erotomane alla Casa Bianca non è precisamente il massimo che un
combinato
composto del genere possa considerare come ostacolo irresistibile.

7.2 Il Progetto e i progetti

Il capitale globalizzato ha selezionato il
suo strumento principe. Un "principe" come strumento. Il lungo processo
della sussunzione reale sembra giunto ormai al termine. L'unico progetto
capitalistico è quello di non averne nessuno.
Ma non c'è progetto e non c'è controllo possibile, governo in senso
stretto, se non innervando territori, popolazioni, società. E questo non
si
dà dai comandi degli Stealth né, ancor meno, dai briefing con la stampa.
Il
processo di selezione interna ai singoli paesi di una classe funzionaria
è
avvenuto quasi soltanto nell'occidente industrializzato. È funzionaria
nel
senso che assume come proprii interessi e criterii guida quelli della
borghesia della globalizzazione. Ovvero interessi e criterii
sovranazionali, tanto più indipendenti dagli interessi del paese di
nascita
quanto più quest'ultimo è relativamente debole sul piano economico,
politico, militare. Nei paesi "non Nato" questa classe di
mediatori-dirigenti, disponibile per strategie mondializzate, non c'è. E
non è affatto detto che possa essere costruita.
Questa "classe" è infatti un prodotto interno, un "effetto collaterale"
del modo di produzione capitalistico maturo. Si è formata dentro le
"scuole
quadri" aziendali, nei meandri delle società finanziarie, nei corridoi e
nelle anticamere degli istituti di ricerca, nei viaggi iperfinanziati
dei
dirigenti di numerose Ong; guarda con un qualche sospetto di
"inaffidabilità" persino chi esce dalle più prestigiose scuole di
formazione dei funzionari dello Stato esistenti al mondo (come quella
francese o inglese, insomma). Una "classe" economicamente e quindi
ideologicamente oltre gli Stati nazionali, che vede lo Stato come dato o
problema, non come sacro recinto dell'identità. Questa classe attrae
cervelli da ogni parte del mondo, ma nel sussumerli li scotomizza
rispetto
alle origini. Un broker malese a Londra è un apolide "mondializzato",
non
l'espressione - o la speranza - dello sviluppo della Malesia. Questa
classe
fa scuola, opinione, cervello, nel mondo mediatico, in primo luogo.
Informa
di sé la comunicazione, veicola e banalizza le esigenze fondamentali
della
globalizzazione, costruisce il senso comune, il general intellect che
poi
l'intellettuale servile o quello finto antagonista riprendono,
declinano,
polverizzano per facilitarne la diffusione, lo spaccio.Questa classe è
l'anima militante della Nato e di strumenti consimili.
Ma se è un portato strutturale di questo livello di sviluppo del
capitalismo, e se è indubbiamente vero che per questo livello del
capitale
le "iscrizioni" sono ineluttabilmente chiuse (le "tigri asiatiche"
stanno
ancora lì a leccarsi le ferite di un salto troppo alto per le loro
possibilità), allora non c'è possibilità di diffusione di questa classe
nelle aree "non Nato". I governi locali saranno tali nell'accezione
delle
satrapie di altri tempi. Governi del sottosviluppo programmato, del
controllo dei flussi migratorii, della disponibilità delle materie prime
a
prezzi irrisorii. Sotto la "minaccia" dell'intervento umanitario. Sarà
questa a impedire che si possano determinare nuove fasi, sia pure
geograficamente limitate, di accumulazione originaria
(quell'accumulazione
brutale di ricchezza per mezzo di rapina, guerra, genocidio su cui
l'Occidente ha costruito il proprio modo di produzione).
Il cerchio si chiude. La salvaguardia dei diritti umani nel secondo,
terzo
e quarto mondo servirà a impedire il sorgere di nuovi centri di potenza
economica, tecnologica, militare. La stessa salvaguardia, nelle aree
sviluppate, farà da alibi allo smantellamento dei diritti di
cittadinanza,
della riduzione del salario reale a un livello di poco superiore a
quello
bulgaro o polacco, della riduzione della forza lavoro a creta
plasmabile.
Pardon, flessibile.
È questo il progetto? No, è una banale necessità. Inevitabile - direbbe
D'Alema - come la guerra, appunto. Che non tiene in nessun conto le
controreazioni, gli equilibrii - sociali, strategici, internazionali -
inebriata com'è dalla sensazione di essere una forza che non ha più
rivali.
Nessuna opposizione può infatti venire da territorii geograficamente
limitati a garanzia monoetnica. Piccoli popoli serza risorse, senza
industria e senza capitali - e con una sola cultura -, in perpetuo
conflitto con i vicini, in competizione fra loro per le migliori
condizioni
di protettorato Nato, per i migliori rapporti con le forze di
interposizione permanente. Buoni per ospitare etnosafari (in Land Rover
con
vetri blindati) per turisti nippo-euro-americani. La soluzione yankee
per i
nativi pellerossa sopravvissuti alla più gigantesca pulizia etnica che
la
storia abbia visto viene invocata da Tex Hall, capo nazione pellerossa,
per
i kosovari: una riserva, magari con licenza di aprire qualche casinò.
Paesi
ricchi di sola forza-lavoro, armi leggere, sentieri sicuri per i
traffici
più immondi. Riconoscere e santificare pseudo-stati monoetnici significa
necessariamente riconoscerne la struttura di clan, con annessi e
connessi:
mafie locali, bande dotate di territorio, ecc. L'assenza di struttura
produttiva e i buoni uffici con la Nato ("Cosa nostra" potrebbe
insegnare
molto su come si faccia da "personale politico e polizia territoriale"
sotto il comando statunitense) già ora alimentano il "commercio" delle
uniche risorse a disposizione: donne per il mercato della prostituzione,
droga prodotta in loco o da far passare, armi residuate dall'ultimo
conflitto ma buone per il prossimo o per la malavita in occidente.
I conati di investimento in loco saranno forzatamente di due generi,
visto
il deserto capitalistico esistente. Interventi infrastrutturali, ad alti
costi (coperti dagli stati "protettori") e a basso assorbimento di
manodopera (peraltro temporaneo), e "investimenti magliari", opera di
piccolissimi avventurieri che con una manciata di dollari (o marchi, o
lire) aprono laboratori di tipo schiavistico, in cui occupare donne e
bambini a 200 lire l'ora. Si può star certi che nessun "intervento
umanitario" arriverà per spezzare questo "normale" funzionamento del
mercato.
Del resto una sinistra ex socialdemocratica finalmente giunta nelle
stanze
del governo, per bocca, a esempio, di Fassino, tira fuori come massimo
contributo alle popolazioni dei nuovi e futuri mini-stati etnici il
solito,
agghiacciante, slogan: «e ora arricchitevi». Si può scommettere che
proveranno a farlo, con i loro mezzi e risorse, come si è detto. Ma
forse
le "ricadute" di tali tentativi, come già ora si può evincere dalla
spirale
immigrazione-razzismo-criminalità-"tolleranza zero", non saranno
altrettanto apprezzate.

8. Il territorio metropolitano

Resta da lanciare uno sguardo sulle
rassegnate e amorfe popolazioni delle metropoli occidentali, le stesse
che
erano state capaci di nutrire il più grande ciclo di lotte e di
rinnovamento culturale (in senso lato) che il novecento abbia vissuto.
La
rassegnazione compiaciuta e soddisfatta è sentimento quotidianamente
stimolato dal modo di vita e dal circuito mediatico.
Adagiarvisi non mette però al riparo dalla guerra. Perso lo status di
cittadino, il titolare di diritti umani ridotto ormai a
spettatore-consumatore viene egualmente bombardato dal suo sistema nel
luogo principe di esercizio della sua libertà: il supermercato. Dove non
arrivano bombe all'uranio impoverito piovono alimenti alla diossina. Il
meccanismo del riciclaggio totale degli scarti di qualsiasi provenienza
è
tale da non smaltire mai il non-biodegradabile. I residui tossici sono
praticamente gli unici che non scompaiono, si cumulano con quelli
prodotti
e scartati in nuovi cicli. L'incremento di tossicità è garantito in modo
scalare e geometricamente crescente, fino a depositarsi, aggredendolo,
nel
vertice irresponsabile della catena alimentare: quella larva d'uomo
ridotto
a spettatore-consumatore. I cui diritti, sia detto con definitiva e
liberatoria chiarezza, contano manifestamente assai meno di zero.
Contano
anche in senso algebrico: meno di zero significa che l'uomo moderno -
reduce da due rivoluzioni - perde tutto il sistema dei diritti, il
sistema
dell'identità, cessa d'essere citoyen. Lo spettatore-consumatore è una
figura riconducibile alla "grettezza contadina" del servo della gleba
medievale. Salta con lui il "sistema della rappresentanza" e i
partiti-mediazione che lo strutturavano. Disporre di questa massa è
problema di comunicazione, di gestione dei media. Figure messianiche
sorgono e muoiono ogni giorno, come i calciatori bandiera della squadra.
Ieri un Segni per imporre il maggioritario; poi un Di Pietro per le
"pulizie di facciata"; poi una Bonino per l'"intervento umanitario".
Domani
qualcun altro, che qualcuno sceglierà in base a un calcolo scientifico
dei
propri interessi e ci imporrà con le modalità casuali di un talk show.

9. Divise militari e divise monetarie

Non si era mai visto che alle
fortune di un esercito non corrispondessero quelle della sua moneta. Ed
è
sorprendente che nessuno abbia preso in considerazione che la
divaricazione
tra l'euro da una parte e il dollaro (e la sterlina) dall'altra
potesserisultare l'indicatore di un divario dinamico tra le economie
rispettive. Nessuno, tra tanti liberisti, che abbia voluto riconoscere
nel
mercato, questa volta, una capacità di giudizio insindacabile e
"oggettivo".
La banca centrale inglese, la Banca d'Inghilterra viene fondata nel
1694,
ben dopo che il Parlamento avesse avocato a sé il comando della forza
militare, risultando la banca centrale lo strumento organico per il
finanziamento delle guerre.
L'Europa, affidata a una banda di bancocrati, ignoranti di tutto meno
che
di logiche spartitorie, non solo omette il passaggio decisivo della
costituzione di una forza militare autonoma, ma commette l'errore di
imbarcarsi in una guerra che ha tra gli obiettivi principali quello di
sancirne la dipendenza, impedirne l'autonomizzazione.
Questa esiziale successione di "atti mancati" è decisiva per comprendere
la reale portata della vocazione all'unità europea che la destra
continentale ha manifestato, peraltro univocamente, alle elezioni del 13
giugno. Il mandato sembra essere questo: Banca centrale europea come
sezione distaccata della Federal Reserve. Ciò, se non altro, porterebbe
a
restaurare quell'unicità del comando politico che la guerra ha
manifestamente rivelato inesistente.

10. Questo libro

Questo libro, dunque, non comprende una
spiegazione della guerra. Ma fornisce elementi esplicativi al di sotto
dei
quali è impossibile andare, pena il ritorno a "spiegazioni" vecchie,
consolatorie o propagandistiche, di cui non si avverte affatto il
bisogno.
Coglie l'elemento di novità che è entrato in campo. Ne coglie il
carattere
distruttivo e forzosamente compositivo di un nuovo a partire dal quale
si
disegneranno gli scenari possibili del futuro prossimo.
Vademecum per la prossima guerra sta a significare proprio questo
elemento
di novità ormai acquisito. Per la prima volta all'unicità del comando
militare (e del sistema economico) non corrisponde l'unicità del comando
politico. Questa sfasatura libera forze, distrugge partiti e concrezioni
organizzative. Scatena nuova concorrenza per coprire il ruolo. Il ruolo
è
uno. Solo i concorrenti sono tanti e costretti a distinguersi. La
politica,
in questo quadro, va a morire. Solo la tv può premiare lo spot più
efficace.
«E ora arricchitevi» suona perciò più come un invito ai Fossa che non ai
kosovari. La guerra - come sempre - "rigenera il mondo" eliminando
viscosità, persistenze, potere di nomenclature superate dalla storia
(economica). Apre mondi, mercati, giacimenti di forza lavoro a prezzo
zero.
In sottofondo, tra un boato e l'altro nelle notti di Belgrado, qui da
noi
già si poteva sentire uno sferragliare di macchine utensili piazzate nei
sottoscala. E anche il "popolo delle partite Iva" ha drizzato le
orecchie
sperando in una nuova dose di deregulation, giubilando Bossi e "aprendo"
alla Bonino.

11. Gli autori

Annamaria Rivera, antropologa (università di Bari),
denunciata la dialettica perversa tra l'etnicizzazione dei conflitti e
l'ingerenza umanitaria mostra il nesso tra l'universalismo particolare e
i
particolarismi etnici. Felice Accame e Carlo Oliva, propongono, con il
consueto humour la critica congiunta del linguaggio e dell'ideologia, di
guerra. Franco Gallerano, ingegnere e studioso di cose militari
(università
"La Sapienza", Roma) offre una riflessione puntuale su quel nodo -
politica-guerra - che non ci consente di uscire dalla modernità. Di
Paolo
Persichetti, latitante ufficiale nella Repubblica francese, pubblichiamo
una versione ridotta di un suo saggio di filosofia della politica. Enzo
Modugno riflette sul contributo di P. Sweezy e della Monthly Review.
Angelo
Baracca, fisico (università di Firenze), compila bilanci ambientali
inquietanti e disegna scenari angosciosi. Fulvio Vassallo Paleologo,
giurista (università di Palermo) conta i morti sul fronte del diritto
internazionale. Guido Ambrosino, giornalista (corrispondente dalla
Germania
de il manifesto) traccia un quadro delle reazioni laceranti nella
politica
e nella cultura tedesca di fronte alla loro "prima guerra". Alberto
Tarozzi, sociologo (università di Bologna), racconta la sua esperienza a
Belgrado. Sandro Portelli, americanista (università "La Sapienza, Roma)
riflette su "pulizie etniche" nella storia statunitense e politically
correct nell'ideologia corrente. Sergio Cesaratto, economista
(università
"La Sapienza, Roma) marca le insufficienze della scienza economica
davanti
alla presente crisi.
In Appendice, pubblichiamo le "Quattro ipotesi" dell'Osservatorio
internazionale, e, con riferimento alla stampa quotidiana o periodica,
una
riflessione di Antonio Giudici e Francesca Estè su quegli "incidenti
probatori dell'ideologia" che sono le "stupidità".

Odradek
(Claudio Del Bello)


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