LA SOCIETA' DELLA PROPAGANDA

Concludiamo con questo contributo, apparso sul volume "Imbrogli di
guerra" (Odradek 1999), la carrellata critica sull'atteggiamento servile
e guerrafondaio della gran parte del ceto intellettuale italiano, e non
solo, in occasione della guerra di aggressione della NATO contro la RF
di Jugoslavia nel 1999. I documenti precedenti si trovano alle pagine:
http://www.egroups.com/message/crj-mailinglist/319
http://www.egroups.com/message/crj-mailinglist/322
http://www.egroups.com/message/crj-mailinglist/329
http://www.egroups.com/message/crj-mailinglist/370

"Imbrogli di guerra" contiene gli Atti del primo incontro del Comitato
Scienziate/i contro la guerra, tenutosi nel giugno 1999. Il volume e'
ormai esaurito nelle librerie, ma tutti i contributi posso finalmente
essere letti sul sito internet del Comitato, in formato PostScript
compresso e PDF. Dalla home page del sito (che e' stata spostata ad un
nuovo indirizzo, http://www.iac.rm.cnr.it/~spweb/) basta cliccare sulla
copertina del libro per accedere ai contributi dei vari autori.

Un caloroso ringraziamento al curatore del libro, Franco Marenco,
per il materiale inviatoci.
Il Comitato Scienziate/i contro la guerra ha tenuto recentemente un
nuovo convegno a Torino, del quale saranno pure pubblicati presto gli
Atti, sempre per le edizioni Odradek.


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SCIENZA E GUERRA "FIN DE SIECLE"

di Andrea Martocchia (1)


In questo intervento si vuole analizzare il problema della scienza nella
contemporanea realtà
bellica da tre punti di vista: dal punto di vista culturale e
sociologico, laddove la scienza è intesa
nell'accezione più vasta, cioè come insieme delle attività di formazione
e trasmissione della
conoscenza; dal punto di vista della ``categoria'' o ``corporazione'' di
chi fa scienza, riferendosi
cioè al lavoro intellettuale ed al mondo della ricerca in senso stretto;
e da quello del progresso
tecnologico, cioè essenzialmente degli armamenti.

I problemi affrontati sono vasti e complessi, e perciò possono soltanto
essere sfiorati in questa
sede. Mi limiterò a suggerire degli spunti di riflessione, soprattutto
sui primi due aspetti,
riguardanti il ruolo del sapere e della conoscenza nella nostra società,
fornendo ove possibile
riferimenti per un approfondimento ulteriore.

Scienza come conoscenza

Incominciamo dallo stretto significato etimologico della parola scienza.
Il concetto di scienza
richiama la conoscenza, il sapere, l'analisi e la ricerca. È un concetto
valido in tutti i tempi ed in
tutte le culture, ma nella sua accezione più stretta con esso si indica
un filone di matrice
prettamente occidentale, di derivazione greca, sostanziatosi con il
Rinascimento e giunto ad una
teorizzazione precisa con la definizione del ``metodo galileiano'' o
``sperimentale''. Da alcuni
decenni, questa più stretta accezione del termine ``scienza'' è stata
sottoposta a svariate critiche
ed il paradigma è entrato in crisi nella nostra cultura. Non provo
nemmeno ad abbozzare un
excursus attraverso la nascita della meccanica quantistica, la
termodinamica, la teoria della
complessità, ecc., poiché la crisi della concezione positivistica, ma
anche popperiana, della
scienza è cosa ben nota.

Quello che intendo sostenere è che negli ultimi anni stiamo assistendo
ad una devastante crisi
della ``scienza'', intesa anche nella sua accezione più larga. Nella
società delle comunicazioni di
massa siamo silenziosamente ma inesorabilmente arrivati ad una crisi dei
criteri e dei fondamenti
della conoscenza, intesa come categoria generale, e quindi della
suddivisione del lavoro
intellettuale. A mio avviso, il problema non è solamente epistemologico,
bensì è diventato un
problema sociale e politico di grave rilevanza. Questa crisi si può
analizzare a vari livelli. Partirò
dal livello più ``esterno'', cioè dal piano della comunicazione sociale.

Informazione e propaganda

Negli anni Sessanta i situazionisti definivano la nostra società -- la
società capitalistica
avanzata, dove la mercificazione permea ogni attività umana
destrutturandone contenuti e
significati -- come ``società dello spettacolo''. Da alcuni anni, in
seguito a quello che è stato
chiamato ``crollo del muro di Berlino'' (l'annessione della DDR da parte
della Repubblica Federale
Tedesca e la crisi generalizzata del socialismo di stato), dalla
``società dello spettacolo'' siamo
precipitati rapidamente nella ``società della propaganda''.


Nella fase attuale, la guerra è all'ordine del giorno: sia come fenomeno
che riguarda le relazioni fra
stati, ovvero fra stati e strutture sovranazionali (Nazioni Unite, Banca
Mondiale, Fondo Monetario
Internazionale, NATO, Unione Europea, ecc.), sia all'interno di ogni
stato nel senso della rottura
del ``contratto sociale''. Questa rinnovata conflittualità tra ceti
sociali, tra culture e tra
popolazioni, tra centri e periferie, tra chi detiene i mezzi di
produzione e chi lavora duramente già a
dodici anni, non rappresenta ovviamente qualcosa di completamente nuovo,
ma caratterizza
nettamente la fase post-1989. Dopo il 1989 non c'è più lo
``spettacolo'', nel senso situazionista, a
rappresentare il conflitto sociale, mistificandolo: c'è viceversa un
bombardamento
propagandistico-pubblicitario che accompagna l'attacco diretto, aperto e
senza infingimenti
contro le conquiste di almeno cent'anni di lotte dei lavoratori (sfascio
dello stato sociale e
neoliberismo), contro le stesse forme istituzionali atte alla mediazione
dei conflitti (dalla nostra
Costituzione alle Nazioni Unite, dai partiti ai sindacati), nonché
l'attacco armato contro popoli e
stati che frappongono ostacoli a quella che viene detta eufemisticamente
``globalizzazione'', cioè
la fase suprema dell'espansione del grande capitale: l'Imperialismo.

In questa fase il conflitto all'interno della società opulenta non si
traveste più con lo
``spettacolo'', ma si palesa nella pura ``propaganda''. Quella
propaganda che in Italia, ad esempio,
sanziona attraverso svariate campagne di stampa la svendita del
patrimonio pubblico, compresa la
cessione all'imprenditoria straniera di settori strategici come le
telecomunicazioni
(privatizzazione di Telecom), la privatizzazione del sistema
pensionistico, il presidenzialismo
bipolarista già teorizzato nel Piano di Rinascita Nazionale della P2, e
così via. Tutti fatti decantati
e celebrati come ``inevitabili'' e ``necessari''.

Ricordo che fino agli anni Ottanta la politica in TV si faceva solo
nelle tribune elettorali, o si
leggeva su certi giornali. Da un certo punto in poi gli uomini politici
hanno preso il posto dei
presentatori televisivi (da Giuliano Ferrara a tutti i conduttori e
partecipanti dei vari talk-show),
mentre i presentatori ed imbonitori televisivi sono diventati uomini
politici (per tacere di
Berlusconi, ricordo ad esempio Sgarbi o personaggi dello spettacolo che
sempre più spesso
diventano candidati alle elezioni). Si è stabilita una commistione tra i
due versanti (spettacolare e
politico), per cui i ragionamenti sulla legge maggioritaria non si fanno
più in Parlamento, né
tantomeno nelle sezioni di partito, ma si fanno, anzi si spacciano sugli
schermi televisivi.


In questo contesto, è assolutamente normale che tutte le fasi delle
operazioni militari che ad
esempio il nostro paese conduce, ormai a ripetizione da anni, contro i
dittatori ed i barbari di turno
(Libano, Iraq, Somalia, Albania, Jugoslavia), siano accompagnate da
operazioni massmediatiche
dal carattere profondamente disinformativo. I nostri giornali non solo
non riportano quasi mai
reportage originali e dettagliati da questo o quel paese, come invece è
d'uso sulla grande stampa
francese o tedesca, pure schieratissima, ma in generale danno per
scontate una serie di
informazioni di base, sulle quali si costruisce poi tutto il
ragionamento
giornalistico-propagandistico.

Per limitarci al caso jugoslavo: i nostri giornali non hanno mai
descritto se e che cosa sia stato
abrogato dell'autonomia del Kosovo nel 1989, ma ripetono ossessivamente
che ``Milosevic ha
tolto l'autonomia al Kosovo''. Il che è da una parte falso, perché non
fu Milosevic ma la
Presidenza collegiale di quella che era la Repubblica Federativa e
Socialista di Jugoslavia,
compresi Sloveni, e Croati, e dall'altro è fuorviante perché l'autonomia
della regione non fu
abrogata tout-court, ma furono tolti soltanto il diritto di veto che
questa aveva rispetto alle
decisioni della Repubblica di Serbia e le altre prerogative di
semi-statualità, mentre fu ad esempio
conservato il bilinguismo.(2) Allo stesso modo, si ripete
incessantemente che sarebbe esistito un
piano di ``pulizia etnica'' da parte della leadership serba, piano che
sarebbe stato formulato in un
Memorandum e declamato da Milosevic nel suo discorso a Campo dei Merli
il 28 giugno del 1989.
Ma il Memorandum non lo ha letto quasi nessuno, poiché solo Limes ne ha
pubblicato degli stralci,
e chi lo ha letto sa che c'è scritto esattamente il contrario; quanto al
discorso di Milosevic, non è
stato mai tradotto in italiano, così come Milosevic non è stato mai
intervistato sui nostri giornali.
Dopodiché si accusa Milosevic perché, all'inizio dei bombardamenti fa
chiudere Radio B52
(scusate, volevo dire B92), finanziata dalla Fondazione Soros, che ha
tra i suoi sponsor anche
Hillary Clinton. E, in nome della libertà di informazione, si bombarda
la televisione serba con i
giornalisti dentro.

Carattere militare della trasmissione di informazioni

In queste circostanze, il meccanismo della disinformazione nei
mass-media è un meccanismo di
carattere militare. Non è dovuto soltanto ad incompetenza o eccesso di
zelo di certi giornalisti, e
fa si che la distinzione tra il vero ed il falso diventi ardua per lo
``spettatore''. Notizie false come
quella del bombardamento di Lubiana (1991), quella degli stupri di massa
in Bosnia (1993), quella
delle fosse comuni di Orahovac in Kosovo (1998) o le notizie delle
stragi di Sarajevo, subito
attribuite ai Serbi nonostante i dubbi ed i successivi rapporti ONU
smentissero queste
attribuzioni, dimostrano che è esistita in questi anni, e continua
adesso per il Kosovo, una
campagna di diffamazione antiserba, mirata evidentemente a creare
tensione per giustificare
l'intervento armato in quei territori. Non a caso il bersaglio di questa
campagna sono i Serbi, in
quanto popolazione maggioritaria di quella che era la Repubblica
Federativa e Socialista di
Jugoslavia, i quali vivendo sparpagliati un po' dappertutto tra le varie
Repubbliche meno di tutti
avevano interesse alla frammentazione ed allo sfascio del proprio paese.

Per questa campagna disinformativa le parti in conflitto (secessionisti
sloveni, croati,
bosniaco-musulmani, albanesi) si sono avvalse del lavoro di agenzie
specializzate come la Ruder
& Finn Public Global Affairs,(3) la quale attraverso lauti finanziamenti
da paesi terzi fa passare solo
``verità'' di comodo. A contribuire a questo colossale travisamento dei
fatti sono impegnate però
anche alcune istituzioni internazionali: il caso più clamoroso è stato
forse quello del capo della
missione OSCE William Walker e della ``strage di Racak''. Vi sono
coinvolte anche molte ONG
ed organizzazioni pseudo-umanitarie assai attive in questi anni, come
pure la potentissima lobby
di Soros.


Chi conosce questi terribili retroscena sa dunque che i nostri
quotidiani sono da prendere tutti
indistintamente cum grano salis, tenendo in mano la matita rossa e blu,
conservando
religiosamente gli articoli che sembrano significativi e facendo
raffronti a giorni e mesi di distanza.
La persona comune, che non si è mai interessata di un certo argomento
che all'improvviso assurge
agli onori delle prime pagine, è sola dinanzi al bombardamento
informativo. Su di lei ricade per
intero la responsabilità di scegliersi le fonti, fra libri, siti
internet, riviste che non seguano una linea
``di massa'', e anche materiali d'archivio e rapporti o ricordi
personali. In questa situazione la
vera informazione è un fai-da-te. La responsabilità della formazione
della conoscenza e del
sapere ricade interamente sul singolo, che dovrà impegnarsi da solo a
raccogliere, valutare e
sperimentare, proprio secondo il metodo sperimentale di Galileo. Non
esiste oggi come oggi
nessuna ``garanzia di affidabilità'' per i mezzi di informazione: siamo
in pieno medioevo. Quanto
sopra vale anche e soprattutto per i quotidiani ``di tradizione
democratica'', a causa del fatto che
molto spesso essi usano meccanicamente i dispacci d'agenzia, senza avere
inviati sul posto, e
soprattutto si avvalgono della collaborazione di elementi influenti di
quel ceto intellettuale che, io
credo, è soggetto oggi ad una terribile crisi di ruolo e di identità.

Gli ``esperti''

Penso in particolare a certi pseudo-esperti, veri azzeccagarbugli, che
in questi anni hanno
certosinamente capovolto i fatti sulla guerra jugoslava. Costoro sono
riusciti, ad esempio, a
sostenere e caldeggiare la frammentazione della Repubblica Federativa e
Socialista di Jugoslavia
con la giustificazione paradossale che le popolazioni devono vivere
insieme e senza odii reciproci !
Secondo loro, la Federazione andava spezzettata per liberare questi o
quegli altri dall'oppressione
centralista, benché in Jugoslavia i diritti delle minoranze fossero
ampiamente riconosciuti: si
trattava della realtà più avanzata a livello mondiale da quel punto di
vista. In nome della
``autodeterminazione dei popoli'', questi commentatori hanno combattuto
aspramente contro
l'autodeterminazione dei Serbi in Croazia e Bosnia, indicandoli come
aggressori... però poi
appoggiano l'autodeterminazione dei kosovari di lingua albanese,
glissando sul carattere
revanscista ed ultranazionalista del movimento grandealbanese, e
sottolineando ad ogni pié
sospinto la differenza ``etnica'' tra questi e quegli altri. Da una
parte dicono che bisogna difendere
il carattere multietnico di questo o quel territorio, e dall'altra si
contraddicono clamorosamente
evidenziando la presunta necessità di spezzettare, creando nuovi
confini.

Laddove le differenze etniche non esistono, questi pseudo-esperti se le
inventano: così ha fatto
la sua comparsa la ``differenza etnica'' tra Serbi, Croati e Musulmani
di Bosnia, mentre è noto che
la differenza fra queste popolazioni è solo di carattere
storico-religioso (come tra tedeschi
cattolici e tedeschi evangelici). La differenza linguistica, ad esempio,
è irrilevante. Tutto questo
non lo fa solamente un intellettuale di destra come Bettiza, ma anche un
Predrag Matvejevic su
tutti i giornali e le riviste di sinistra. Matvejevic è professore di
lingue slave, eppure va in giro a
teorizzare una presunta differenza tra la lingua serba e quella croata,
rendendo un ottimo servizio
alla nuova vulgata dei nazionalismi. Un'altra specialità di questi
``esperti'' è il non dire: ad
esempio Stefano Bianchini, storico, riesce a scrivere centinaia di
articoli sulla guerra in Bosnia,
senza mai dire che questa è scoppiata nell'aprile del 1992 perché i
rappresentanti croati e
musulmani alla Conferenza di Lisbona furono spinti dalla diplomazia USA
a ritirare la loro firma dal
Piano Cutileiro, già sottoscritto, il quale prevedeva la
cantonalizzazione della Bosnia. Questo
piano, se applicato avrebbe evitato tre anni di guerra civile (per non
parlare delle operazioni di
appoggio militare e finanziamento alla leadership bosniaco-musulmana).
Bianchini scrive anche
decine di articoli sul Kosovo senza mai parlare delle miniere e del
problema geopolitico dei
``corridoi''. E rapidamente cadranno nell'oblio le critiche a quella che
è stata definita la
``trappola'' (o diktat) di Rambouillet, in seguito alla quale sono
iniziati i bombardamenti su tutto il
territorio serbo-montenegrino.

Ad altri ``esperti'' e ad altri fatti, spesso più rilevanti di quelli
che vengono ossessivamente
ripetuti, è costantemente negato lo spazio: non c'è stato sui giornali
ed in televisione alcun
approfondimento sui principali antefatti storici della guerra civile nei
Balcani. Una severa censura
copre tutto quello che riguarda il colonialismo italiano nell'area ed i
crimini di guerra commessi
dagli italiani durante le Seconda Guerra Mondiale,(4) compresi i campi
di concentramento sull'isola
di Rab/Arbe ed in Slovenia, nonché l'occupazione militare del Kosovo
annesso alla Grande
Albania fascista. Una ricerca storica rigorosa e documentata come quella
di Marco Aurelio Rivelli
sui crimini del clericonazismo ustascia nella Croazia di Pavelic e
Stepinac è stata pubblicata
fortunosamente solo nella primavera di quest'anno.(5) Questi sono solo
alcuni esempi che
dimostrano la difficoltà estrema della trasmissione delle conoscenze e
delle ricerche storiche in
questo clima di guerra.


Da una parte, quindi, il perverso ruolo degli ``esperti'' sui mezzi di
informazione. Dall'altra una
vera censura, più o meno volontaria, e comunque strutturale: sono gli
aspetti più evidenti della
devastante crisi nella trasmissione della conoscenza tra addetti ai
lavori e pubblico, crisi in atto
nella società in cui viviamo proprio per il modo in cui è strutturata.
Solo a colui al quale viene
attribuito, massmediaticamente, il ruolo di ``esperto'' è affidato il
compito di interpretare e
raccontare, e solo la sua voce conta. Quello che dice l' ``esperto''
viene riprodotto e ripetuto in
maniera praticamente totalitaria, mentre voci diverse ed interpretazioni
divergenti hanno
raramente la possibilità di esprimersi -- attraverso la pubblicazione di
un articolo o di un libro --.
A causa della rigida strutturazione per competenze e per feudi del
lavoro intellettuale, se non sei
``nella parrocchia giusta'' non passi. Questo lo sa chiunque abbia
provato a farsi pubblicare
qualcosa (che fosse un articolo od una raccolta di poesie) senza potersi
giovare della conoscenza
o dell'appoggio di qualche personaggio influente.

Notiamo che, non a caso, nella nostra società mediatica il ruolo della
scienza e dello scienziato è
celebrato continuamente, al punto che alcuni scienziati di fama hanno il
loro posto fisso nei
dibattiti: si pensi a Zichichi, a Hack. La voce dello scienziato, e in
generale la voce dell'esperto o
di colui che assume il ruolo di esperto nel carosello massmediatico,
assume valore in sé e per sé.
Se a costui viene attribuita una sufficiente autorevolezza, può anche
debordare in campi del tutto
diversi da quello di competenza. L'esperto può allora diventare
tuttologo, ed andare a proclamare
che i Serbi sono nazionalisti per natura, anzi per codice genetico,
anche se lui non ha mai parlato
personalmente con un serbo in tutta la sua vita. Questo tipo di ruolo,
praticamente sacrale,
dell'esperto è la negazione stessa del concetto di ``scienza'', intesa
in senso stretto, ed è la
negazione di fatto di quella che dovrebbe essere la funzione sociale
dello scienziato, dell'esperto,
del ricercatore, dell'intellettuale: colui che ricerca, colui che
verifica la fonte, l'informazione o il
fenomeno in oggetto.

Imposture intellettuali

Questa ``garanzia di credibilità'' dell'esperto vale dal mondo delle
scienze naturali nel senso delle
scienze umanistiche (ad esempio Zichichi che parla di Dio) ma anche in
senso inverso, quando il
filosofo e il romanziere assumono il linguaggio delle scienze naturali,
lo manipolano a piacimento,
ed il tutto causa situazioni al limite del paradosso e del ridicolo. Ha
suscitato molto scalpore, per
esempio, la beffa di Alan Sokal. Questo fisico statunitense spedì alcuni
anni fa un complicato
articolo ad una rivista di sociologia, che lo accettò per la
pubblicazione. Dopo alcune settimane
Sokal in un altro articolo smentiva completamente il precedente,
svelando la beffa: aveva usato a
casaccio complicate citazioni di vari autori, filosofi e sociologi di
scuola postmoderna, creando un
pezzo incomprensibile, perché privo di senso, ma affascinante. Ed era
stato preso sul serio ! La
beffa di Sokal ha chiarito in modo incontestabile che la figura dell'
``esperto'', nella nostra società
delle comunicazioni di massa, è un puro specchietto per le allodole: non
solo per il mondo
``profano'', ma anche all'interno dell'ambiente specialistico a causa
del livello estremo di
settorializzazione delle varie discipline.

Recentemente, Sokal ha pubblicato un altro libro insieme ad un collega
belga,(6) nel quale contesta in
maniera organica e rigorosa il linguaggio ed il metodo usati da tutta
un'area di pensiero, quella
appunto postmoderna, popolata da tanti intellettuali francesi eredi
dello strutturalismo, e rivendica
la necessità del metodo razionale, sperimentale e dimostrativo. Il
libro, che si intitola ``Imposture
intellettuali'', è secondo me una pietra miliare di questa fase storica,
in quanto mette a nudo lo
sfascio completo del pensiero analitico contemporaneo. E così si
scoprono gli altarini dei ``finti
esperti'', che nascondono la loro vuotezza sotto ad una cortina fumogena
fatta di parole, il cui solo
valore, nel modo in cui questi le usano, è nel suono che hanno.

L'attacco di Sokal colpisce al cuore un'area di intellettualismo del
tutto speculativo ed
antirazionalista, che ha i suoi capisaldi in Francia. Non a caso la
società francese, che
rappresentava negli anni Sessanta l'osservatorio del movimento
situazionista, e che era da questo
interpretata correttamente come ``società dello spettacolo'', è anche la
società dove più sfrenata
è la mercificazione culturale (si pensi a Parigi, al continuo
supermercato di idee ed avvenimenti
culturali...). Quella francese è la società dove dall'onda lunga del
Sessantotto antiautoritario si è
sviluppata la corrente di pensiero dei ``nuovi filosofi'', nucleo di
elaborazione del ``pensiero
debole'' antirazionalista che ha furoreggiato durante tutto il riflusso
degli anni '80. Non è un
caso che questi ex-nuovi filosofi sessantottini francesi siano oggi in
prima fila nella polemica
antijugoslava: Daniel Cohen-Bendit, Bernard Henry-Levy, André
Glucksmann, e pure quel
Finkielkraut che un giorno appoggia l'ultranazionalismo croato
sentenziando quali siano i popoli
civili e quali i barbari, ed il giorno dopo rivaluta certi personaggi
della Repubblica di Vichy. Una
corrente di pensiero ``differenzialista'', impegnata in tutti questi
anni a cercare ciò che divide
anziché a valorizzare ciò che unisce, non a caso violentemente
partigiana delle secessioni
jugoslave.


Non è un caso che il libro ``Imposture intellettuali'' venga
violentemente attaccato sul Manifesto,
giornale che ha attinto dal ``pensiero debole'', dalla ``complessità'' e
da un certo antirazionalismo
per almeno 15 anni, nell'ambito di un processo di decostruzione ed
abbandono del marxismo (non
solo del leninismo). Questo quotidiano è l'espressione di un'area
intellettuale affascinata dal
pensiero ``differenzialista'' e postmoderno, ma con enormi difficoltà di
comprensione della fase
politica post-1989, e dello squartamento della Jugoslavia in
particolare. Sul Manifesto lo
squartamento della Repubblica Federativa e Socialista di Jugoslavia è
stato visto troppo spesso
come un processo dovuto a pulsioni nazionalistiche congenite, sorvolando
sulle cause strutturali,
strategiche, materiali, internazionali. Non è un caso, dicevo, che il
Manifesto attacchi il libro di
Sokal e Bricmont definendolo addirittura ``un'operazione di `pulizia
epistemologica', di violenza
paragonabile a pulizie balcaniche''.(7) Viceversa, è logico che il
Manifesto si esprima con tale
virulenza, quasi mostrandosi offeso, perché rivendicando l'importanza
del metodo
scientifico-dimostrativo e del linguaggio razionale gli autori del libro
pongono un problema che
travalica il merito delle scienze esatte e delle altre discipline
specialistiche (sociologia, filosofia,
ecc.). Sokal e Bricmont pongono un problema che riguarda tutta la
suddivisione del lavoro
intellettuale nella società in cui viviamo, e che riguarda pure, e
pesantemente, i giornalisti che in
questi anni hanno pubblicato menzogne pensando che la verifica delle
informazioni e delle fonti
fosse un'appendice accessoria di un sistema massmediatico nel quale
quello che conta è ben
altro: anche diffondere menzogne sulle ``pulizie etniche'' e sulle
guerre imperialiste è considerato
lecito perché ``il concetto di verità è fluttuante''; e ``in nome della
libertà di espressione'' due più
due fa quattro ma può fare anche tre o cinque. Izetbegovic è stato in
carcere sei anni nella
Repubblica Federativa e Socialista di Jugoslavia per istigazione
all'odio tra le nazionalità e per
aver scritto la ``Dichiarazione Islamica'', eppure lo si può appoggiare
come difensore di Sarajevo
multietnica.(8)

Un clima decadente

In realtà se l'informazione è il regno dell'arbitrio, e la trasmissione
delle conoscenze è regolata
sempre più da meccanismi perversi e ``blindati'', allora la nostra
società non è democratica né
libera: è decadente, come decadente era il clima intellettuale che aprì
la strada al fascismo. Come
allora, gli intellettuali e gli scienziati non svolgono più il ruolo che
a loro compete, e stanno lì a
creare una cortina fumogena che rende impossibile la conoscenza dei
fatti, rende arduo accedere
a tutti gli elementi per valutare, e rende possibili (e magari
giustificati) la devastazione e il
bombardamento prolungato per 78 giorni di un paese già vittima di un
embargo ingiusto.

Non parlare dell'occupazione fascista del Kosovo durante le Seconda
Guerra Mondiale consente
di rioccuparlo oggi, nell'ambito di un'operazione di carattere
neocoloniale travestita da missione
umanitaria. Non parlare della natura mafiosa dell'UCK e dei suoi
rapporti con il traffico
internazionale di armi e di droga consente di presentarlo come un gruppo
di romantici guerriglieri
che forse faranno degli errori, ma certo non sono assassini per
vocazione, come i Serbi...

Questo clima decadente, sviluppatosi nella Francia post-sessantottina,
regna da anni
incontrastato in tutta Europa. Si tratta di un vero e proprio
totalitarismo, ben descritto ad esempio
da Peter Handke e da Regis Debray. Quest'ultimo in un recente articolo
ha analizzato e
commentato il linciaggio a cui è stato sottoposto a causa delle sue
posizioni critiche nei confronti
dell'aggressione contro la Jugoslavia: ``A quanto pare voi incarnate la
democrazia, lo spirito
d'apertura, la civiltà contro i nuovi barbari. Non è così. Siete il
volto attuale del
fanatismo''.(9) Debray si rivolge all'intellettualità francese di cui
sopra, ma il suo commento lo
possiamo riprendere qui in Italia ed applicare alla lobby dei vari
Sofri, Matvejevic, Dizdarevic, tutti
gli editorialisti dei grandi quotidiani e tutta l'area politica
trasversale centrata sul Partito Radicale
di Bonino-Pannella, vera punta di diamante del moderno fascismo,
razzista-sciovinista e
guerrafondaio.

``Ex-sinistra'' e responsabilità degli intellettuali

Rispetto a tutto questo il ceto intellettuale progressista è complice
consenziente, oppure è
paralizzato in quanto trova spazio solamente unendosi al coro. Un motivo
di questa paralisi
dell'intellettualità di sinistra consiste nel fatto che essa oggi come
oggi è dalla parte del potere:
non dimentichiamo che è il centrosinistra, che sono le socialdemocrazie
ad aver guidato in Europa
la recente aggressione contro la Jugoslavia. È proprio il ceto
intellettuale sedicente progressista la
vera base di appoggio dell'attuale classe di governo del nostro paese,
così come gli ambienti
universitari e della ricerca rappresentano la vera clientela
dell'attuale area di governo, laddove ad
esempio fino a dieci anni fa clientela, o base sociale, del governo
pentapartito era soprattutto il
parastato, tra i lavoratori statali ed i colletti bianchi
dell'industria. Ecco perché, a mio avviso,
l'ambiente universitario e della ricerca è rimasto sostanzialmente muto
negli scorsi mesi; ecco
perché la tradizione antimilitarista di certo mondo scientifico (USPID,
Pugwash, eccetera) è
defunta, come si faceva notare in una assemblea degli studenti di Fisica
di Roma alla ``Sapienza''
nel maggio 1999. Mentre con la guerra del Golfo la maggioranza dei
professori e ricercatori
scuotevano ancora le spalle preoccupati, e solo pochi di essi
pubblicavano articoli per avvalorare
la tesi folle delle ``bombe chirurgiche'', adesso l'opinione diffusa è
che il problema stia tutto nei
Serbi: la guerra è giusta anche se fa male, oppure è ingiusta ma il
problema resta Milosevic, che è
contemporaneamente comunista e fascista, liberista e statalista,
estremista e venduto,
nazionalista serbo e jugoslavista. Se non firma è esaltato, se firma è
doppiogiochista: insomma è
serbo e va annientato.


Il mondo delle baronie universitarie è il vero ``nocciolo duro'' di
questa classe dirigente, e dunque
non può esprimere una vera opposizione alla deriva bellica ed
autoritaria in atto. Per inciso, tutto il
mondo del lavoro è paralizzato dal fatto che, si dice, ``le sinistre
sono al governo'': perciò non
viene indetto nessuno sciopero contro la guerra, e chi indica la
contraddizione è un estremista,
anzi un ``terrorista''.

Veniamo dunque all'aspetto più ``interno'' del problema, cioè
all'atteggiamento del ceto
intellettuale e del mondo della ricerca. A mio parere, una crisi sociale
e morale investe l'ambiente
dei ricercatori, la comunità scientifica nel suo complesso e le
convenzioni ed il linguaggio che essa
usa per la comunicazione al suo interno. A causa della crescente
settorializzazione delle
competenze, tutte le società a capitalismo avanzato si strutturano in
feudi e ghetti, il cui
interscambio conoscitivo è demandato a personaggi, i suddetti
``esperti'', i quali hanno spazio sui
mass-media e nei consessi dove le informazioni si dovrebbero
trasmettere.

Considerando ad esempio il mio campo specifico di ricerca,
l'astrofisica, rimango sempre più
spesso stupefatto dal crescente livello di autoreferenzialità di certe
correnti di ricerca, e dalla
strutturazione profondamente rigida e chiusa di gruppi e comunità.
Sempre più spesso si ascoltano
frasi del tipo ``non chiedetemi spiegazioni su X perché non sono un
esperto'', anche se
l'argomento X del quale non si intende parlare è profondamente connesso
con la propria
competenza e la propria ricerca. C'è un timore quasi religioso rispetto
al rischio di invadere
``campi altrui'', ed una crescente tendenza al solipsismo, accentuata
anche dal tipo di tecnologie
in uso (il fatto di stare inchiodati dinanzi al computer). In un grosso
progetto di ricerca è difficile
che un partecipante sappia con esattezza di cosa si stia occupando un
altro, e questo a causa
della ``complessità'' del problema affrontato e dei mezzi per studiarlo.
Talvolta l'incomunicabilità
non deriva nemmeno dall'effettiva divisione del lavoro, ma da pura e
meschina rivalità e
concorrenzialità tra gruppi, anzi tra parrocchie, cosicché indirizzi di
ricerca innovativi ed
interpretazioni alternative sono presi in considerazione con estrema
difficoltà. Un tipico esempio è
la cosmologia ``standard'', divenuta un enorme pachiderma sia dal punto
di vista teorico che da
quello sperimentale, sulla quale operano tantissimi ricercatori e
gruppi, con una complicata
strutturazione dei progetti e dei finanziamenti: ebbene la cosmologia
``standard'' assomiglia
sempre di più all'universo tolemaico, al quale si vanno aggiungendo
epicicli ed ipotesi ad hoc per
tappare le falle che si aprono sempre più spesso (teorie
dell'inflazione, e via discorrendo). Il
rapporto con linee di pensiero alternative, pure assai sviluppate
(teorie stazionarie, teoria di
Alfven) è inesistente, e le pubblicazioni ed i contributi in quel senso
vengono accolti con una
risatina saccente, quando non vengono semplicemente ignorati. Ma questo
non vale solamente per
la cosmologia: nel campo dell'astrofisica relativistica, stanno uscendo
a ripetizione articoli che
ipotizzano meccanismi alternativi per gli AGN e gli oggetti compatti, ed
ormai esiste addirittura
una letteratura che nega l'esistenza dei buchi neri. Questa letteratura
viene semplicemente
scansata con fastidio.

A cosa serve la scienza ?

È evidente che questo clima interno all'ambiente scientifico e
intellettuale è il riflesso di un clima
culturale più generale, che non esito a definire fascista, clima che ha
accompagnato questi anni nei
quali la guerra è ritornata ``normale''. La guerra è come il pane
quotidiano, e con la Carta
Costituzionale si fanno... aereoplanini. In questo clima, la ``scienza''
e la ``conoscenza'' vengono
certo celebrate ed evocate, ma per stravolgerne il compito ed il
significato, ovvero per
strumentalizzarle. Per il pubblico il ruolo delle scienze naturali e
della tecnologia si riduce alla
sperimentazione di sofisticati sistemi d'arma, alla menzogna
propagandistica della ``guerra
chirurgica'' e delle ``bombe intelligenti'', e all'evocazione misteriosa
dell'impiego di uranio
impoverito, fosforo combinato, sistemi a puntamento laser, e via
discorrendo. Tutto questo
nell'ambito di una sacralizzazione del portato scientifico-tecnologico
che è la precisa negazione
del significato stesso di scienza e di progresso scientifico e di quel
metodo sperimentale che
imporrebbe la verifica sulle affermazioni, e del concetto di avanzamento
tecnologico che dovrebbe
servire ad una più giusta distribuzione dei frutti del lavoro dell'uomo.




Note

(1) Sissa-Isas, Trieste
(2) Meno che mai si chiarisce perché sia stata abrogata la ``autonomia
speciale'' del Kosovo, tacendo su quello che è successo nella zona per
tutta la durata degli anni Ottanta e facendo incominciare la storia dal
1989...
(3) Il problema della disinformazione strategica nel caso jugoslavo fu
posto in termini chiari per la prima volta da Jacques Merlino nel libro
``Le verità jugoslave non sono tutte buone a dirsi'' (ed. Albin Michel,
1993), ancora non tradotto in italiano, nel quale si elencano i legami
tra i settori che conducono la disinformazione, le lobby ebraiche
statunitensi ed i lauti finanziamenti provenienti da certi paesi
islamici.
(4) Si pensi ad esempio alla censura sul documentario della BBC
riguardante questi crimini, la cui versione italiana, curata dal regista
Massimo Sani con il contributo di storici importanti come Claudio
Pavone, è tuttora chiusa a chiave in un cassetto della RAI.
(5) M.A. Rivelli, ``L' Arcivescovo del genocidio'', Ed. Kaos 1999. Si
noti che il protagonista del libro, il vescovo Stepinac
collaborazionista del nazismo croato, è stato beatificato da papa
Wojtyla il 3 ottobre scorso, durante la visita del pontefice in Croazia.
(6) Sokal, Bricmont: Imposture intellettuali, Ed. Garzanti, 1999.
(7) ``La pulizia epistemologica'', di Marco D'Eramo, il Manifesto,
16/6/1999.
(8) Si noti che durante il conflitto nessuno aveva spiegato, nemmeno sul
Manifesto, che alcuni quartieri di Sarajevo erano a maggioranza serba e
semplicemente non volevano entrare a far parte della Bosnia di
Izetbegovic; cosicché in seguito agli accordi di Dayton centinaia
di migliaia di Serbi hanno abbandonato quei quartieri (1996), nella
totale indifferenza degli intellettuali che pure avevano per anni
parlato di ``Sarajevo multietnica''.
(9) ``Una macchina da guerra'', di R. Debray, su Le Monde Diplomatique
del giugno 1999.

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Per visualizzare sia i file PostScript sia i file PDF si puo'
usare il software della Aladdin, disponibile gratuitamente
in rete (http://www.cs.wisc.edu/~ghost/):
- Per Unix/Linux/e simili e per VMS: installare ghostscript e gv
- Per Windows: installare ghostscript e gsview
(installazione semplicissima)
Inoltre, i soli PDF possono essere visionati con il famoso "Acrobat
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I file PostScript devono prima essere decompressi
con gunzip (linux/unix) o winzip (windows), mentre i PDF no. ]


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