Trieste, 8 giugno 2012
alle ore 18:30 presso l'Officina Arci - via Manzoni 9

Giacomo Scotti 
presenta la nuova edizione del suo libro

BONO TALIANO. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a 'disertori'

(prima edizione 1977) Roma: Odradek, 2012
Collana Blu - ISBN 978-88-96487-18-1 - pp. 256 € 28,00

Modera l'incontro Gianluca Paciucci, della Redazione di "Guerre&Pace"

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Oltre quarantamila furono gli italiani che, sopravvissuti ai massacri e non cedendo alle intimazioni di resa da parte dei tedeschi dopo l’8 settembre, si unirono ai partigiani jugoslavi, combattendo in Montenegro e in tutte le altre regioni del paese, dando prova di valore e conquistandosi la fiducia, l’affetto dei compagni d’arme e delle popolazioni locali. Ventimila di essi caddero, riscattando con il sangue – non è retorica il dirlo – le infamie dell’aggressione e della repressione fascista.
Scotti, sulla base di documentazione, frutto di una lunga ricerca svolta negli archivi jugoslavi e italiani, può affermare che già prima dell'8 settembre più di mille italiani disertarono dalle file dell'esercito di occupazione in Jugoslavia e passarono volontariamente nelle file della Resistenza jugoslava unendosi all’armata dei partigiani di Tito, o si “macchiarono” di altre forme di disobbedienza, di “obiezione di coscienza”, di scarsa partecipazione alle operazioni antiguerriglia, di dissociazione dalle truci azioni repressive. Furono essi, in ordine di tempo, i primi partigiani italiani, espressione del legame che si sarebbe sviluppato poi tra le due resistenze e l'altra faccia di quella stessa lotta combattuta con estrema brutalità dai fascisti italiani. 
Infine, come momento politico e organizzativo che saprà opporre queste due facce antitetiche in modo da farne scaturire un confronto risolutore, l’opera svolta dai due partiti comunisti: quello jugoslavo già forza “di governo” e salda guida della lotta popolare; e quello italiano, fratello minore che gli crescerà accanto in modo diverso, fra contrasti difficilmente sanabili.


Giacomo Scotti (Saviano 1928), stabilitosi nel 1947 in Jugoslavia, cominciò a lavorare a Fiume nella redazione del quotidiano «La Voce del Popolo», dove ha svolto per alcuni decenni la sua attività giornalistica. Dal 1982 si muove fra l’Italia e Balcani.
Ha pubblicato numerose opere riguardanti la lotta antifascista e di liberazione jugoslava, tra cui: Quelli della montagna (in collab. con R. Giacuzzo, 1972); Il battaglione degli “straccioni” (1974), Ventimila Caduti (1970); “Rossa una stella” (con L. Giuricin, 1976); I “disertori” (1980); Gli alpini dell’Intra in Jugoslavia (1984); Juris,juris! All’attacco (1984); Le aquile delle montagne nere (con L. Viazzi, 1987); L’inutile vittoria (con L. Viazzi, 1989) e numerosi altri, fino al 2009. Egli è inoltre studioso delle letterature macedone, bosniaco-erzegovese e croata. Per le sue opere ha ricevuto vari premi in Jugoslavia e in Italia, per la diffusione della letteratura italiana all’estero.


da il manifesto del 22 aprile 2012

Una anticipazione da « Bono taliano , militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a "disertori"», un saggio straordinario che svela tutto quello che «Il giorno del ricordo» dimentica

Nemesi italiana

di Giacomo Scotti 

Facciamo un lungo salto indietro, al giorno della resa del nostro esercito, l'8 settembre 1943. È un episodio accaduto nel Montenegro, alla 37a Compagnia del battaglione «Intra» (divisione «Taurinense» alpina), comandata dal capitano Pietro Zavattaro Ardizzi. La compagnia era impegnata da parecchi giorni in un'operazione di rastrellamento in alta montagna quando, la mattina dell'8 settembre, attaccò il solitario villaggio di Crna Gora, strenuamente difeso dai pochi abitanti. La notte precedente, in tutti i casolari investiti dal «rastrellamento», s'erano levati i fuochi degli incendi rituali: bruciarono capanne e pagliai, perché le case di pietra erano state già distrutte nel maggio precedente. Sempre dai nostri soldati, divisione «Ferrara», che compirono una delle più spaventose stragi e innumerevoli atti di ferocia. 

La strage di Zupa 

Li racconta lo storico montenegrino Radislav Marojevi nel volume «Z upa Niksi Ka » (La Zupa di Niksi, Niksi, 1985), presentando un'abbondante documentazione. Dunque, nel quadro delle operazioni del maggio 1943, alcuni reparti della divisione «Ferrara» e un battaglione tedesco di SS penetrarono in Valle Zupa di Niksi il 28 maggio, rimanendovi anche il 29 senza incontrare un solo partigiano. Ma in quei due giorni avvenne l'inferno. Le poche famiglie che, disubbidendo alle direttive dei comandi partigiani in ritirata, avevano voluto restare, in attesa fiduciosa del ritorno delle truppe italiane, furono vittime di violenze inenarrabili: uomini fucilati, donne ed anziani gettati vivi nel fuco delle loro case date alle fiamme, fanciulle violentate e poi massacrate. Il bilancio fu di 90 persone uccise, 680 case incendiate, chiese saccheggiate. I soldati commisero tali e tanti atti di ferocia che tuttora nei villaggi della Zupa, per significare una strage, si usa dire «il Ventinove maggio». All'alba dell'8 settembre, dunque, gli italiani erano tornati, attaccando col battaglione «Intra»: ad eccezione di poche case, tutto fu distrutto dalle fiamme. L'azione avrebbe dovuto continuare nelle giornate successive e concludersi con la «totale distruzione dei partigiani», allo scopo erano state già rese note ai comandanti di reparti le disposizioni per l'indomani. In serata, invece, arrivò la notizia dell'armistizio. Così non ci furono altri rastrellamenti: chi avrebbe dovuto continuare a rastrellare i partigiani e a bruciare i villaggi dei «comunisti» venne a trovarsi da quel giorno di fronte ai tedeschi.

«Sei il mio terzo figlio» 

Quanto al capitano Zavattaro Ardizzi, lo ritroveremo nel maggio 1944 al comando di un reparto partigiano della divisione «Garibaldi» nel villaggio di Crna Gora, quello stesso da lui attaccato e fatto bruciare all'inizio di settembre 1943. Lui e i suoi soldati non più alleati dei tedeschi e dei cetnici, ma partigiani di Tito, braccati dai tedeschi e dai cetnici, cercavano di uscire dalla morsa nemica insieme ai partigiani jugoslavi. Leggiamo una rievocazione dello stesso Zavattaro Ardizzi scritta nel maggio 1977, esattamente un mese prima di morire (col grado di generale d'armata). 
«Con il tenente Simonetta raggiungo all'imbrunire del 14 maggio il piccolo villaggio di Crna Gora sulla mulattiera che da Trsa porta a Zabljak attraverso il passo di Stolac. Siamo sfiniti e cerchiamo ricovero nelle case. Gli abitanti non vogliono ospitarci perché comprendono che siamo convalescenti di tifo petecchiale ed hanno terrore del contagio. Leghiamo i cavalli allo steccato che circonda lo spiazza della chiesetta ortodossa e, dopo aver tolto agli animali le coperte che ci servivano da sella, ci stendiamo sul sagrato della chiesa coprendoci con quelle. Intorno il terreno è coperto da chiazze di neve, il sole è ormai scomparso e comincia a far freddo. Crna Gora è sui 1500 metri di altitudine. Dopo poco che sono disteso, mi «sento» fissare: alzo gli occhi e mi trovo circondato da una decina di uomini. Dico loro che quella notte probabilmente moriremo per il gelo in quanto «loro» non ci hanno accolti, sebbene fossimo combattenti per la libertà della loro Patria. Uno degli uomini si china su di me e mi solleva, dicendomi di seguirlo in casa sua. Quando ci troviamo nella piccola casetta, seduti intorno al fuoco, circondati dagli anziani del villaggio che vogliono dagli stranieri notizie, i padroni di casa ci offrono latte caldo. Ad un tratto la moglie del nostro ospite parla sottovoce al marito e questi mi guarda intensamente. Improvvisamente mi apostrofa: Sei tu il capitano che nella scorsa estate comandava gli alpini che hanno attaccato questo villaggio? Era vero, quel capitano ero io, allora in guerra contro i partigiani che appunto erano della zona (...). Replico: Sì, ero io, allora combattevo contro di voi, oggi lotto con voi per la libertà della vostra terra perché così agevolo la libertà della mia. L'uomo tacque pensieroso, poi fra il silenzio di tutti, dice: Quel giorno, capitano, i tuoi uomini hanno ucciso i miei due figli. Io e questa donna siamo rimasti soli. Tu ora combatti per la libertà del mio paese, se il nostro terzo figlio: questa è casa tua» .


Aspettando il 25 Aprile

La ferita sempre aperta di una memoria cancellata
 
Tommaso Di Francesco
 
«Furono oltre quarantamila gli italiani che, sopravvissuti ai massacri e non cedendo alle intimidazioni di resa da parte dei tedeschi dopo l'8 settembre, si unirono ai partigiani jugoslavi, combattendo in Montenegro e in tutte le altre regioni dando prova di valore e conquistandosi la fiducia, l'affetto dei compagni d'arme e delle popolazioni locali. Ventimila di essi caddero, riscattando con il sangue - non è retorica il dirlo - le infamie dell'aggressione e della repressione fascista». È la promessa, assolutamente mantenuta, dei temi del libro di Giacomo scotti «Bono taliano» (Odradek, pagg. 253, 20 euro) che, sulla base di documentazioni di prima mano dagli archivi sia italiani che jugoslavi, arriva a dimostrare fatti finora inediti alla pubblicistica ufficiale. E cioè che già prima dell'8 settembre 1943 più di mille italiani avevano disertato dalle fila dell'esrcito di occupazione in Jugoslavia e volontariamente erano passati in quelle della Resistenza jugoslava dei partigiani di Tito, oppure disobbedendo agli ordini di rappresaglia e repressione nazifascista. Insomma furono loro, in ordine di tempo, ricorda Giacomo Scotti, i primi partigiani italiani. E insieme a queste scoperte, lo scavo ancora una volta e come non mai necessario, sulla tragedia rappresentata dalle truppe d'occupazione in Jugoslavia. Quella che «Il giorno del ricordo» volutamente «non ricorda». Parliamo delle perdute umane subite dalla Jugoslavia in seguito all'occupazione di tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari: furono un milione e e 706 mila morti, pari al 10,8% della popolazione presente nel 1941, dei quali oltre 400.000 nei territori occupati o annessi dagli italiani. In questi territori si ebbe la distruzione del 25% delle abitazioni. nel volume «Il crollo del regno di Jugoslavia» lo storico Velimir Terzic calcolò che le persone uccise, vittime dell'occupazione italiana, furono 437.395. Una cifra che si avvicinava a quella ufficiale presentata dal governo di Belgrado alla conferenza di pace. Ma nessuno dei generali criminali di guerra, Mario Roatta, Mario Robottii, Gastone Gambara, Taddeo Orlando, il governatore del Montenegro Pirzio Biroli e altri 700 responsabili, pagò mai per le fucilazioni di partigiani e i massacri di civili, per gli stupri di massa sulle donne. Anzi no, ricorda Scotti: il tenente delle Camicie nere Luigi Serrentino venne fucilato nel 1947. Ma in occasione della Giornata del Ricordo del 2007, il presidente Napolitano gli assegnò la Medaglia alla memoria come «vittima delle foibe».