L’ESODO – STRUMENTALIZZAZIONE E REALTA’

di Alessandro (Sandi) Volk


LE PARTENZE

Zara, fine marzo - inizio aprile 1941. Le autorità militari italiane, preoccupate di un attacco alla città al momento dell’aggressione delle forze dell’Asse alla Jugoslavia, decretano lo sfollamento di tutta la popolazione non indispensabile alla difesa. E’ il primo atto – ed il primo di una serie di fatti e circostanze “dimenticati” dalla storiografia più accreditata – di quel processo di ondate migratorie che coinvolsero Zara, Fiume e l’Istria e che vengono comunemente definite “l’esodo”. In questo caso, passata la paura, gli sfollati poterono tornare a Zara, anche se si trattò solo di un rinvio. L’esodo definitivo iniziò, infatti, già nel novembre del 1943, dopo il primo dei ben 54 bombardamenti alleati cui la città fu sottoposta e che spinsero il comando tedesco a emettere il 24 maggio del 1944 l’ordine di sfollamento della città. Nell’ottobre del 1944, quando Zara venne liberata dalle truppe dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo (EPLJ), se n’erano già andati quasi 12.000 dei 21.372 abitanti censiti prima della guerra, seguiti nei mesi successivi anche dalla gran parte di coloro che erano rimasti. La seconda ondata coinvolse Fiume dall’estate del 1945. Secondo alcune fonti tra il 1945 e il 1958 la città sarebbe stata abbandonata da circa 38.000 persone. Seguì l’ondata che coinvolse Pola e quella parte dell’Istria assegnata alla Jugoslavia con il Trattato di pace del 1947. Tra il dicembre del 1946 ed il marzo del 1947 lasciarono la città (che contava quasi 32.000 abitanti) tra le 25.000 e le 30.000 persone. Tra i partenti non tutti erano polesani: circa 5.000 provenivano dalle isole di Cherso, Lussino e Veglia e altri da Zara. Poco dopo, a partire dal 1948, nei territori dell'Istria assegnati alla Jugoslavia si ebbe una massiccia presentazione di domande di opzione per l'Italia, tale da sorprendere le autorità jugoslave e da far si che, su richiesta italiana, il termine per la presentazione delle opzioni, inizialmente fissato al settembre del 1948, venne spostato una prima volta fino al febbraio del 1949 e in seguito al marzo del 1951. L'ultima ondata coinvolse invece la Zona B, la parte amministrata dall'esercito jugoslavo, del mai nato staterello „Territorio libero di Trieste“ (TLT). Essa ebbe inizio nel 1953 a seguito della nota dell'8 ottobre con cui gli anglo americani annunciavano l'intenzione di abbandonare l'amministrazione della Zona A del TLT, che avrebbero consegnato all'Italia. Si trattava del preannuncio di quanto sarebbe poi effettivamente avvenuto un anno dopo con il Memorandum di Londra. La popolazione della Zona B accolse la nota come l'annuncio della soluzione definitiva del problema del confine italo-jugoslavo e, anche a causa dell'inasprimento dei rapporti tra Italia e Jugoslavia (con la chiusura delle frontiere e l'afflusso di truppe), iniziò ad emigrare. Questo flusso continuò quasi ininterrottamente anche dopo il ritorno della Zona A all'amministrazione italiana nell'ottobre del 1954. Entro il gennaio del 1956, quando scadeva il termine per potersi trasferire da un paese all'altro, le persone che avevano lasciato la Zona B sarebbero state circa 40.000.(1)

STORIA E POLITICA

L’uso politico della questione dell’esodo ha finora pesantemente condizionato la ricerca storica, arrivando a bloccare sul nascere ricerche che andassero fuori e contro il racconto stereotipato della vicenda, come nel caso del volume Storia di un esodo (Istria 1945 – 1956)(2), edito nell’ormai lontano 1980 dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli – Venezia Giulia di Trieste. Si trattava, nonostante i limiti dovuti all’inaccessibilità di numerose ed importanti fonti, del primo studio di tipo scientifico in cui venivano individuati tutti i principali aspetti e problemi della questione, nei suoi presupposti, svolgimento e protagonisti, con però una pecca imperdonabile: l’esodo era visto in un ottica non esclusivamente nazionale. Ciò metteva in discussione non solo quella che era l’interpretazione corrente (in funzione politica) dell’esodo, ma la stessa impostazione ideologica su cui la borghesia che si riconosceva come italiana ed il suo ceto politico avevano costruito la loro egemonia a Trieste, nel Goriziano e in Istria (come pure a Fiume e in Dalmazia) fin dal periodo asburgico: la trasposizione dello scontro sociale, politico ed anche nazionale su un piano esclusivamente di scontro di nazionalità.(3) Una egemonia che a Trieste e Gorizia ancora durava (e dura) e che ebbe come conseguenza che quella ricerca rimase un momento isolato senza alcun seguito. Di fatto furono così gli ambienti che oggi più si sgolano per la scarsa attenzione che storiografia ed opinione pubblica avrebbero prestato all'esodo (e più in generale alle vicende del dopoguerra in Istria, Fiume e Zara) a bloccare la ricerca che andasse al di la dell'interpretazione sostenuta dagli ambienti delle organizzazioni degli esuli. E che con l'istituzione della Giornata del ricordo è diventata l'interpretazione ufficiale dello Stato italiano. Determinante per il raggiungimento di questo risultato è stato il contributo di ambienti e personaggi della storiografia accademica, in particolare di Raoul Pupo, accreditato come il maggiore esperto dell'esodo (ma anche uno degli ultimi segretari della Democrazia cristiana triestina, in cui era egemone la componente esule)(4), che hanno semplicemente ripreso, senza alcun nuovo apporto di ricerca, le vecchie letture di tipo nazionale e, dopo averle ripulite degli aspetti più indigeribili e rivestite di una nuova terminologia, contorta quanto vuota, le hanno proposte come interpretazioni nuove, legittimandole da un punto di vista scientifico.(5)
In questo modo l'ottica nazionalista delle organizzazioni dei profughi ed i miti ad essa legati sono diventati »storia«. E così sono diventati dei dogmi il carattere forzato dell'esodo, la sua spontaneità e la sua motivazione esclusivamente nazionale. Dogmi dalle basi fragili, che solo le »trascuratezze« e »dimenticanze« di una certa storiografia italiana hanno permesso si affermassero come verità.

PROBLEMI D'INTERPRETAZIONE

Esiste però un problema preliminare, legato alla questione della quatificazione del fenomeno: chi sono le persone che vanno conteggiate tra gli esuli? Per il suo censimento dei profughi, effettuato negli anni '50, l'Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati (OAPGD) ha dichiarato di aver posto come discriminante (non rispettata(6)) il possesso del certificato di profugo rilasciato dalle prefetture. Un criterio a prima vista oggettivo, ma che tale in realtà non è, perchè le condizioni per l'ottenimento del certificato sono variate nel corso degli anni, tanto che alla fine esso veniva rilasciato anche a persone che avevano preso la residenza nei territori ceduti addirittura dopo la fine della guerra o che avevano abbandonato la Dalmazia già subito dopo la prima guerra mondiale. Mentre dall'altra parte non lo ottenne nessuno dei quei comunisti italiani che erano rimasti in Istria fino alla rottura tra Tito e Stalin e se ne andarono a causa delle persecuzioni a cui furono sottoposti per essersi schierati con i sovietici.(7)
Il fatto che questa questione venga generalmente dimenticata non è casuale. Il motivo principale è che affrontarla seriamente significa mettere in discussione la cifra ormai canonica di 350.000 esodati. Una cifra discutibilissima. Per verificarlo basta fare una operazione semplice quanto banale, sommare i numeri più alti che vengono riportati (in genere dalle organizzazioni dei profughi e da ambienti ad esse vicini) per ogni singola ondata (Zara 21.000, Fiume 38.000, Pola 30.000, Zona B del TLT 40.000): si arriva a un totale di 129.000. A tale cifra andrebbero aggiunti coloro che se ne andarono dal resto dell'Istria, esclusa Pola, dopo il Trattato di Pace, ma per arrivare ai 350.000 dovrebbero essere stati per lo meno 221.000. Non impossibile, certo, visto che la popolazione dell'Istria all'epoca si aggirava sulle 350.000 unità, ma significherebbe che l'Istria sarebbe rimasta quasi completamente spopolata, cosa che non è mai avvenuta. Ancora più difficilmente ciò sarebbe compatibile con le motivazioni di carattere nazionale delle partenze, visto che un ricercatore non certo sospettabile di simpatie „titoiste“, Olinto Mileta Mattiuz, stima che nel 1941 in Istria ci fossero in tutto 184.860 italiani (compresi i 30.000 di Pola ed i 40.000 della Zona B, naturalmente).(8)
Ma come si arriva ai canonici 350.000? Tutto parte dal censimento portato a termine dall'OAPGD nel corso degli anni '50. I dati raccolti vennero resi pubblici nel 1958: i profughi sarebbero stati „almeno 250.000“. Criterio fondamentale (come già detto) fu il possesso del certificato rilasciato dalle prefetture. In realtà i rilevatori riuscirrono a rintracciare solo 150.627 profughi che rispondevano a tale criterio, mentre di 23.124 profughi con certificato sosteneva esistessero »notizie limitate, tuttavia inequivocabili, quanto a prova della loro esistenza« e di altri 23.136 affermava che erano emigrati dall'Italia (per una parte, non quantificata, i nominativi erano stati forniti dai famigliari rimasti in Italia, mentre per i restanti si era ricorso agli schedari dell'International Refugge Organization (Iro), che assisteva i rifugiati nell'emigrazione, senza però aver avuto la possibilità di accedere ai loro fascicoli personali perché distrutti al momento della cessazione dell'assistenza). A questo punto però l'OAPGD decise di non rispettare il criterio del possesso del certificato di profugo. Infatti inserì nel conteggio anche 10.536 persone che per esplicita ammissione “pur non avendo maturato la richiesta residenza domiciliare ai fini del riconoscimento della qualifica, non potevano essere esclusi dalla rilevazione”. Non ci è dato sapere perché costoro (e solo loro) non potevano essere esclusi dal conteggio, di fatto ciò significò (per esplicita ammissione dell'OAPGD) che vennero conteggiate tra i profughi non solo persone che non avevano ottenuto il certificato, ma anche i parenti – non Istriani, Fiumani o Dalmati - acquisiti dopo l’esodo, e che quindi con l’Istria, Fiume e la Dalmazia avevano ben poco a che fare, ed i figli nati dopo l’esodo, che si trovavano nella medesima situazione. Ad ogni modo la somma di tutti questi soggetti rilevati era di 207.423 profughi. Ma la sorpresa vera arriva ora: a questo punto infatti i „rilevatori“ dell'OAPGD affermarono che tale cifra in realtà rappresentava solo l'80% del totale (ci si chiede perché sia stato effettuato un censimento se l'OAPGD sapeva in partenza il numero totale dei profughi!), per cui aggiunsero il 20% „mancante“ (cioè circa 40.000 profughi) ed arrivavano agli „almeno 250.000“.
Fu da questa cifra che partì l'opera di padre Flaminio Rocchi, reputato negli ambienti delle organizzazioni dei profughi come una sorta di storico ufficiale dell'esodo, che ha portato a livelli eccelsi la „matematica creativa“ praticata dall'OAPGD. Padre Rocchi ha aggiunto agli „almeno 250.000“ altri 95.000 profughi, della cui esistenza l’unica conferma è la sua parola. Ma non basta, perché la vetta più alta l'ha raggiunta nell'edizione del 1990 del suo “L'Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati”, i cui i profughi sono lievitati a oltre 450.000 (strano che nel titolo abbia lasciato la cifra più bassa). Una cifra impressionante, a cui arriva aggiungendo numeri su numeri, la cui esattezza e credibilità si basa anche qui esclusivamente sulla ...fede in padre Rocchi! Ed ecco così che ai precedenti 350.000 profughi si aggiungono 60.000 “slavi” che avrebbero abbandonato la regione perché non sopportavano il regime di Tito (10.000 di essi si sarebbero sistemati in Italia mentre gli altri 50.000 si sarebbero trasferiti altrove). Non pago di essere arrivato a 410.000 profughi, Rocchi crea addirittura una nuova categoria di profughi, i profughi potenziali: afferma infatti che bisogna conteggiare tra i profughi anche i circa 10.000 italiani (la cui esistenza e sempre certificati solo ed esclusivamente dalla sua parola) ai quali le autorità jugoslave rigettarono le domande d'opzione, ed i 90.000 anziani, donne e ammalati, che si sentivano italiani ma non ebbero la forza e il coraggio di lasciare la propria terra! L'apice lo raggiunge però quando crea la categoria dei profughi post-mortem: a suo dire, infatti tra i profughi andrebbero inclusi anche i 23.000 Giuliani (termine molto usato per designare gli
abitanti della Venezia Giulia al di là della loro nazionalità, ma proprio per questo del tutto arbitrario e senza un vero significato) caduti durante la guerra (evidentemente il suo stato sacerdotale gli consente di aver contezza delle scelte che avrebbero fatto i trapassati)!(9
Nonostante queste cose siano di dominio pubblico, gli storici italiani più »accreditati« (e ci si chiede a questo punto in base a cosa) hanno accettato senza fiatare e legittimato con il loro supposto „rigore scientifico“ la cifra di 350.000 profughi, che è diventata così »la« cifra. Altri ricercatori, forse meno accreditati, ma evidentemente più seri, hanno voluto riprendere la questione arrivando a un totale di emigrati tra i 188.000 e i 250.000.(10) Si tratta di numeri comunque considerevoli, ma che per le esigenze dello stato italiano e delle organizzazioni degli esuli andavano gonfiati quanto più possibile: per dimostrare l'attaccamento plebiscitario all'Italia della popolazione dei territori ceduti quale presupposto per una possibile revisione del tracciato dei confini e per accreditare il ceto dirigente delle organizzazioni dei profughi come rappresentante non solo dei profughi, ma della popolazione istriana, fiumana e zaratina in toto.
Ancora più »dimenticata« è la questione dell'articolazione interna della massa degli esuli. Da un lato si evita accuratamente di distinguere tra esuli originari dell'Istria e della Dalmazia e immigrati dopo la prima guerra mondiale. Eppure tale distinzione è utilizzata dagli stessi organi dello Stato italiano, come il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, che in una relazione sull’arrivo a Venezia dei profughi da Pola, rilevava che su 916 profughi sbarcati il 10 febbraio 1947 ben un terzo erano persone immigrate nella città istriana dalle vecchie province dopo il 1918(11). Alcuni ricercatori hanno tentato di quantificare in maniera più precisa la presenza di immigrati: Vladimir Žerjavić stima che su un totale di 188.000 profughi dall’Istria croata, da Fiume e dalla Dalmazia gli italiani immigrati dopo il 1918 siano stati ben 46.000(12); Nevenka Troha ha accertato che la quasi totalità delle 21.322 persone che abbandonarono i territori annessi alla Slovenia con il Trattato di Pace erano immigrate dopo il 1918(13); Olinto Mileta Mattiuz calcola che nel 1941 nella sola Istria gli italiani immigrati da altre province del regno dopo il 1918 erano 18.500 (su un totale di 184.860 italiani)(14). Quella della presenza tra i profughi di persone immigrate dopo il 1918 non è una questione di scarsa importanza. Essa infatti non solo toglie drammaticità al fenomeno (tra gli immigrati moltissimi erano impiegati e funzionari dello stato che in pratica con la fine della guerra seguirono il proprio impiego o fecero ritorno ai luoghi d’origine), ma testimonia anche della politica di vera e propria colonizzazione portata avanti dallo stato italiano nei territori redenti(15). Una politica che ebbe come risultato l’emigrazione di circa 120.000 persone (di cui circa 100.000 sloveni e croati) e l’immigrazione di circa altrettanti italiani delle vecchie province(16). Ma che naturalmente è meglio non ricordare per evitare di andare ad intaccare i miti dell’italianità delle terre annesse dopo la prima guerra mondiale e di quella guerra come completamento del Risorgimento e far emergere la sua sostanza imperialista.
In funzione della rappresentazione dell’esodo come “plebiscito d’italianità” ci si “dimentica” poi di approfondire la questione dell’appartenenza nazionale degli esuli. Va innanzitutto sottolineato che una determinazione univoca dell’identità e dell’appartenenza nazionale della popolazione era all’epoca (e forse lo è tuttora) almeno per buona parte dell’Istria una forzatura.(17) D’altra parte la possibilità di esercitare il diritto all’opzione non era subordinata né all’essere di nazionalità italiana e nemmeno di lingua materna italiana, bensì al fatto di avere quale lingua d’uso quella italiana. Considerando che l’italiano (e prima il dialetto veneto) era stato la lingua della classe dominante (e quindi si era imposto come lingua degli affari) e che con il fascismo l’uso pubblico dello sloveno e del croato venne totalmente cancellato, è chiaro che l’intera popolazione dell’Istria poteva dichiararsi di lingua d’uso italiana, anche sloveni e croati.(18) E sloveni e croati approfittarono di tale possibilità. Certamente lo fecero qualche migliaio di sloveni del Goriziano annesso alla Slovenia;(19) una volta in territorio italiano una parte di loro iscrisse però i figli alle scuole con lingua d’insegnamento slovena di Gorizia, suscitando per questo le ire delle organizzazioni degli esuli e l’intervento del Ministero della Pubblica Istruzione, che li obbligò a trasferire i figli alle scuole italiane. Va inoltre considerato che le organizzazioni dei profughi potevano determinare l’esclusione dei profughi ritenuti “non affidabili” dall’assistenza dello stato.(20) Mi sembra evidente che in queste condizioni per la gran massa dei profughi l’opzione significò fare una scelta di appartenenza nazionale univoca, definitiva e irrevocabile, perché cercare di rinnegarla poteva costare caro – dal perdere l’assistenza dello stato a vedersi revocata la cittadinanza (misura richiesta da alcune organizzazioni dei profughi per i profughi del Goriziano che avevano iscritto i figli alle scuole slovene).
A smentire la tesi della motivazione esclusivamente nazionale dell’esodo sono anche le stesso organizzazioni dei profughi. Il Gruppo esuli istriani (Gei), costituito a Trieste nell'estate/autunno del 1945, che si occupava anche di assistenza ai profughi, divise, infatti, i suoi assistiti in tre categorie, distinte in base ai motivi per cui avevano lasciato l'Istria: gli esuli, che erano coloro che avevano dovuto lasciare l'Istria per la loro attività a favore dell'Italia e non erano compromessi con il fascismo;(21) i profughi, partiti perché non volevano collaborare con gli jugoslavi; gli sfollati, che avevano abbandonato l'Istria per motivi diversi da quelli politici. E il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Istria (CLNI),(22) che del Gei fu erede e continuatore, affermò che tra i profughi della Zona B del Territorio libero di Trieste (TLT) almeno 3.000 erano sloveni.
Nonostante un gruppo di studiosi guidati dai già citati Raoul Pupo e Pio Nodari abbia avuto e abbia accesso a una fonte molto utile sulla questione, come le schede del censimento dell’OAPGD, la questione dell’appartenenza nazionale degli esodati non è stata approfondita, per cui dobbiamo accontentarci di stime: il Žerjavić ritiene che dei 188.000 profughi che abbandonarono i territori annessi alla Corazia 25.000 fossero di nazionalità croata (23), mentre il Mileta valuta che dei 224.000 profughi istriani (cifra che in realtà riguarda la popolazione mancante, che include le persone decedute durante la guerra) gli italiani fossero il 77,3% (173.100) mentre il restante 22,7% era composto da 36.950 croati (16,5%) e da 13.950 sloveni (6,2%)(24). Se è quindi vero che l'emigrazione coinvolse in misura molto maggiore la popolazione italiana (25), la tesi che individua la ragione della partenza esclusivamente nell'appartenenza nazionale delle persone risulta del tutto infondata.
Una questione centrale è sicuramente quella della forzosità del fenomeno. I sostenitori di questa tesi si aggrappano a una definizione coniata da Theodor Veiter, secondo il quale sarebbe da considerarsi espulso chiunque »rifiutandosi di optare (26) o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa, o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine«.(27) Una definizione molto ambigua e discutibile,(28) ricorrendo alla quale non si riesce comunque a modificare la realtà dei fatti. Innanzitutto che non si trattò di un ondata unica (come ci si potrebbe attendere in caso di espulsione e come avvenne ad es. per i tedeschi dei Sudeti), ma di diverse ondate succedutesi in un periodo di ben 13-14 anni. Ma sopratutto è tutt'altro che dimostrata l'esistenza di un preciso intento persecutorio nei confronti degli italiani in quanto tali,(29) ed è anzi accertato che nel periodo dal Trattato di Pace alla rottura tra Tito e Stalin (grosso modo tra il 1946-47 ed il 1948-49) le autorità jugoslave cercarono di impedire la partenza di tutti gli optanti, anche degli italiani. Come racconta una esule (riferendosi al 1949):

»Prima del fascismo il nostro nome era Baicich poi fu italianizzato durante il regime. Al momento di dover lasciare l'Istria però, siccome mia madre aveva cognome italiano, Negri, e mio padre i miei fratelli ed io avevamo di nuovo il cognome Baicich abbiamo dovuto scegliere tra la nazionalità italiana e quella jugoslava. I miei genitori optarono per la prima essendosi da sempre ritenuti Italiani. La prima volta fummo bocciati [la domanda di opzione venne respinta dalle autorità jugoslave, nda] in pieno come del resto la seconda, mio padre infatti occupava un posto da dirigente in quella che era allora la parte elettrica dell'Arsa. La terza volta acconsentirono ma solo in parte poiché avrebbero permesso di passare la frontiera solo a mia madre che aveva cognome italiano. Poi per vie traverse mio padre riuscì a procurarsi un passaporto per farci uscire tutti insieme. Facemmo arrivare un camion da Trieste sul quale caricammo le nostre cose e sul quale saremmo dovuti finalmente andare in Italia ma, quando la milizia vide che il camion era targato Trieste si oppose nuovamente. Quella sera pregammo Santa Rita appoggiati alle poche casse che costituivano tutto quello che ci rimaneva. Alle quattro di mattina mio padre andò a piedi in paese alla caserma di Albona dove finalmente ottenne di farci espatriare.(30)

Né si può sostenere che i poteri popolari jugoslavi abbiano portato avanti una politica di interdizione totale dell'italiano e di espulsione del personale italiano dagli uffici pubblici. L'unico intervento che ci fu, fu la (ri)conversione in scuole slovene e croate di una quota delle scuole esistenti, ma si trattava del ripristino della situazione esistente prima della completa italianizzazione delle scuole operata dal fascismo. Probabilmente gli italiani iniziarono ad essere guardati con un certo sospetto, per la posizione filosovietica assunta dal Partito comunista italiano e le concrete attività »antititoiste« da esso portate avanti in territorio jugoslavo dopo la rottura tra Tito e Stalin, in seguito alla quale la parola d'ordine della fratellanza tra italiani, croati e sloveni venne sostituita da quella della difesa dell'indipendenza jugoslava. Né si può attribuire a tutte le articolazioni dell'amministrazione statale jugoslava una volontà persecutoria univoca nei confronti degli italiani. Da quanto emerge da uno documento proveniente dal fondo del Ministero degli esteri jugoslavo, parrebbe che ancora nel 1955 l'atteggiamento da assumere nei confronti degli italiani fosse argomento di discussione tra i vari livelli dell'amministrazione e che ci fossero in proposito opinioni nettamente contrastanti. Dal documento infatti risulta che le autorità locali slovene fossero favorevoli alla partenza degli italiani rimasti, mentre quelle croate erano nettamente contrarie (perché gli elementi reazionari se ne sarebbero già andati tutti) e quelle federali tenevano una posizione d'attesa (il documento infatti rimanda la soluzione della questione a una successiva riunione, sulla quale però non possediamo documentazione)(31). Va comunque detto che atteggiamenti persecutori certamente ci furono, come pure violenze ed espulsioni vere e proprie (con tanto di accompagnamento alla frontiera da parte della polizia), ma non sono generalizzabili né riguardarono solo italiani. Come va detto che un esodo in buona misura forzato ci fu, ma riguardò categorie sociali particolari (e anche in questo caso non composte esclusivamente da italiani) e nel quadro di politiche generali del nuovo potere jugoslavo. Esso riguardò la borghesia ed il ceto intellettuale. La prima se ne andò in quanto il suo permanere in quanto classe era incompatibile con il sistema socialista e per il processo di espropriazione indiretta (in quanto avvenuto senza una legislazione diretta esplicitamente al suo esproprio ma tramite misure mirate ad esempio a colpire i proprietari assenti e le propietà dei collaborazionisti e dei nemici del popolo) a cui fu sottoposta. La seconda partì per ragioni più specifiche: si trattava di ceti che avevano detenuto il monopolio nell'accesso a tutta una serie di impieghi pubblici e privati in virtù della loro nazionalità, o meglio, del loro padroneggiare la lingua italiana, unica lingua ufficiale dello stato italiano. Con il mutamento politico avvenuto con la fine della guerra questo monopolio era venuto a cadere e l'accesso a questi impieghi e ruoli era ora aperto anche a chi l'italiano non lo padroneggiava. Per il ceto medio e intellettuale italiano, educato a considerarsi appartenente ad una civiltà superiore, l'unica feconda per l'Istria e la Dalmazia, e a considerare sloveni e croati quali appartenenti a civiltà inferiori, si trattava di una evidente e spesso inaccettabile declassamento. E che spesso si trattava di persone immigrate negli anni tra le due guerre come impiegati delle varie amministrazioni dello stato.
Una questione strettamente correlata alla precedente è quella che riguarda l'atteggiamento tenuto da parte italiana rispetto all'esodo. Se da un lato le massime autorità politiche non si espressero mai apertamente ed esplicitamente a favore dell'esodo (va però rilevato che fu l'Italia a richiedere l'inclusione della possibilità dell'opzione nel Trattato di Pace), anche se non fecero nulla per evitarlo (tranne forse gestire in maniera insufficente l'aiuto ai profughi al loro arrivo in Italia, cosa che poteva avere effetti dissuasivi) e, in particolare nel caso di Pola, mise a disposizione i mezzi per attuarlo, diverso è il discorso per quanto riguarda le organizzazioni che rappresentavano lo schieramento filoitaliano in Istria e che si sarebbero poi trasformate in organizzazioni dei profughi. Il ceto dominante italiano, che in esse si organizzerà, ricorse all'argomento dell'esodo (e delle foibe, ovvero degli intenti genocidi degli slavocomunisti nei confronti delgi italiani in quanto tali) già nell'ultima fase della guerra, quando fu chiaro che all'inevitabile crollo tedesco il potere sarebbe stato assunto dal movimento di liberazione. E ciò avrebbe indubbiamente significato per questo ceto, tra l'altro pesantemente compromesso con il fascismo, la perdita del suo ruolo sociale dominante. L'unico evento che avrebbe potuto evitare tale prospettiva era la liberazione/occupazione da parte delle truppe angloamericane e la conseguente assunzione del potere da parte di un governo militare alleato che avrebbe garantito la conservazione degli equilibrii e dei rapporti sociali (e nazionali) preesistenti. Perciò vennero indirizzati al governo italiano numerosi e pressanti appelli in cui si chiedeva che le truppe alleate (e possibilmente anche quelle del regio esercito) precedessero le formazioni dell'EPLJ e ad esso legate, giustificando la richiesta con la necessità di impedire che venissero messi in atto gli intenti genocidi e persecutori che gli »slavocomunisti« avrebbero avuto nei confronti di tutti gli italiani indistintamente. E si sottolineava che di fronte a tale prospettiva nel caso il potere fosse stato assunto dai filojugoslavi la popolazione italiana tutta avrebbe abbanodnato la regione.(32) Ma queste argomentazioni non erano proprie solo degli esponenti italiani dell'Istria, ma di tutta la borghesia e dell'élite tradizionale italiana della regione, con in testa quello che è stato probabilmente il vero leader dello schieramento filoitaliano, il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin, che nel giugno del 1945 scrisse al Papa che nel caso l'Istria fosse stata assegnata alla Jugoslavia gran parte della sua popolazione si sarebbe trasferita in Italia.(33)
Dopo la fine della guerra si passò dal preannuncio dell’esodo agli appelli all’esodo e alla sua organizzazione. Fu a Fiume che un organismo filoitaliano invitò per la prima volta apertamente la popolazione all’esodo. Nel settembre del 1945 il locale Comitato di Liberazione Nazionale (CLN, costituito dopo la fine della guerra quale rappresentante dei sostenitori del ritorno di Fiume all'Italia) diffuse un volantino in cui invitava la poplazione all'»esodo generale dalla città« e sosteneva che ciò sarebbe servito a convincere gli alleati ad assegnare la città all'Italia, e quando ciò fosse avvenuto anche la popolazione avrebbe potuto farvi ritorno (34).
L'esodo venne invece organizzato a Pola. Anche qui venne costituito, sempre dopo la fine della guerra, un CLN (e come quello fiumano privo dei rappresentanti del PCI), che in un primo momento cercò di utilizzare la minaccia dell'esodo (vennero raccolte le firme di tutti coloro che nel caso la città fosse stata assegnata alla Jugoslavia intendevano andarsene) come mezzo di pressione sulla conferenza della pace, per poi passare ad organizzare – con il sostegno dello stato italiano - il trasferimento in massa della popolazione in Italia. In ciò sostenuto anche del vescovo della città, mons. Radossi, che all'avvio dell'esodo nel gennaio del 1947 invitò dal pulpito la popolazione ad andarsene, per poi partre anch'egli.(35)
I dirigenti dello schieramento filoitaliano erano però ben consci del fatto che era molto probabile che la Conferenza della pace assegnasse buona parte dell'Istria, compresa Pola, alla Jugoslavia e iniziarono a progettare l'utilizzo dei futuri esodati almeno a partire dall’estate del 1946. Venne allora deciso che gli emigrati sarebbero stati insediati nella maniera più massiccia possibile nella Zona A del TLT, rimasto sotto l'amministrazione del Governo militare alleato (GMA) e la cui sorte definitiva non era ancora decisa, e nella parte del Goriziano che sarebbe stato assegnato all'Italia dal Trattato di Pace, al fine di rafforzarvi lo schieramento filoitaliano, allora minoritario. A Trieste e nella Zona A del TLT ciò venne fatto anche contro la volontà del GMA, che amministrava la zona e temeva che un insediamento massiccio dei profughi avrebbe aggravato le condizioni sociali vanificando la sua politica assistenziale volta al mantenimento della pace sociale e a togliere consensi ai comunisti.(36) Per Gorizia i progetti furono molto più radicali: i profughi dovevano subentrare agli filojugoslavi, che si prevedeva si sarebbero trasferiti in massa in Jugoslavia. Per aiutare concretamente l'avverarsi di questa previsione i rappresentanti istriani organizzarono squadre di profughi che dovevano convincere i filojugoslavi ad andarsene. Ma le cose andarono ben oltre e nel settembre del 1947, al momento del passaggio dei poteri dal GMA all’amministrazione italiana, a Gorizia (e in misura un po minore a Monfalcone (37)), grazie sopratutto alla fattiva collaborazione delle organizzazioni paramilitari filoitaliane locali, si verificò un vero e proprio pogrom contro sloveni e filojugoslavi, con assalti a sedi di organizzazioni slovene e/o comuniste, a pubblici esercizi e abitazioni private; si giunse alla affissione manifesti di proscrizione con nomi, cognomi e indirizzi delle persone cui si ingiungeva di andarsene.(38)
Come già detto l'insediamento massiccio dei profughi nei territori del confine orientale e nella Zona A del TLT aveva come fine la bonifica nazionale ed il rafforzamento dell’italianità in zone evidentemente considerate insicure per l’Italia, ma doveva porre anche le basi per mantenere viva e aperta la questione della revisione dei confini tracciati dal Tratato di pace, la cui revisione rimane tutt'ora l'obiettivo finale delle organizzazioni degli esuli.(39)
Sempre per quanto riguarda l’attività e l’atteggiamento dello stato italiano e delle organizzazioni dei profughi, è accertato che in Istria operavano organizzazioni clandestine filoitaliane, che si dedicarono anche ad attentati e sabotaggi.(40) Ma si tratta di un altro degli aspetti “dimenticati” (probabilmente quello meno considerato in assoluto) della vicenda dell’esodo. Dagli scarni dati disponibili emerge però come, almeno indirettamente, l’attività di queste organizzazioni un suo peso nell’influenzare la scelta di partire l’abbia avuta. Il fatto, ad esempio, che l’Ente incremento studi educativi (EISE), strettamente legato al CLNI, avesse cessato di distribuire i sussidi corrisposti clandestinamente agli insegnanti delle scuole italiane in Zona B già prima del Memorandum di Londra per utilizzare tale denaro al fine di sostenere i profughi a Trieste, non può non aver contribuito a spingere questa particolare categoria ad andarsene in massa.(41)
Per quanto riguarda questo aspetto della vicenda dell'esodo possiamo concordare con quanto affermato nel 1976 da Guido Miglia, che era stato direttore del quotidiano dello schieramento filoitaliano di Pola, L’Arena di Pola, fino al suo trasferimento a Gorizia dopo l’esodo dalla città. Egli si dichiarò convinto 

“... che il nostro esodo è stato favorito, indipendentemente dalla sensibilità di De Gasperi o di Nenni, da tutte le forze conservatrici e fasciste italiane, in funzione polemica verso le sinistre ... Il nostro esodo divenne un fatto di politica interna italiana ... e finì per ridare fiato ai fascisti risorgenti, che si servirono del nome di Trieste per fermare il corso della storia italiana, per resuscitare l’odio nazionalistico al confine orientale, per togliere credibilità e prestigio a chi auspicava un dialogo incisivo con Belgrado ...(42).

PER CERCARE DI CAPIRE 

Da quanto fin qui detto mi pare chiaro che le interpretazioni correnti dell'esodo poggiano su basi molto labili e sono funzionali più al suo uso politico che non alla comprensione di quanto avvenuto. Per liberare il campo da equivoci voglio però precisare che ritengo altrettanto fuorvianti le letture che del fenomeno diedero le autorità jugoslave e a lungo anche il Pci. Se è vero che l'esodo venne utilizzato politicamente e anche favorito dalle forze politiche italiane più conservatrici, non è assolutamente vero che se ne andarono solo fascisti e sfruttatori del popolo. E se è altrettanto vero che le organizzazioni filoitaliane operarono in determinati momenti anche per spingere la gente ad andarsene, altrettanto fuorviante è il voler presentare l'esodo come la partenza di coloro che furono abbagliati dalla propaganda e dalle promesse di queste organizzazioni e del governo italiano.
Le ragioni di un trasferimento così massiccio di popolazione, che ha contribuito in maniera determinante a modificare la composizione sociale e nazionale della popolazione ai due lati del confine italo-jugoslavo, vanno ricercate in un complesso di fattori, di breve come di lungo periodo. La vera e propria rivoluzione dei rapporti sociali e nazionali portata dalla presa di potere dei poteri popolari jugoslavi fu il detonatore che fece scoppiare contradizioni presenti da tempo e che si erano acquite nel corso degli anni. La lunga definizione delle nuove delimitazioni territoriali tra gli stati e la possibilità di emigrare legalmente e con l'assistenza dello stato italiano accelerarono, concentrandolo in un arco di tempo (relativamente) breve un fenomeno migratorio che era già presente nel periodo tra le due guerre (43) e per il quale la realtà economica e sociale dell'Istria fungeva di per se da stimolo (44). Si trattava di una realtà ulteriormente aggravata dalle distruzioni della guerra, dall'inserimento in un contesto quale quello jugoslavo, più arretrato economicamente ma anche più duramente colpito dalla guerra, dalle misure economiche (soprattutto per certe categorie come commercianti, pescatori e altri) introdotte dai poteri popolari e dalla sua esclusione dagli aiuti degli alleati occidentali (45). L'Istria venne inoltre separata da quello che per una sua buona parte era il centro urbano di riferimento economico (sia come mercato per i suoi prodotti che come luogo di occasione di impiego), Trieste, tradizionale luogo d'immigrazione per gli istriani fin dall'epoca austriaca. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che di fronte alla dura realtà dell'Istria stava la realtà sicuramente difficile, ma certamente migliore della Zona A del TLT in cui gli aiuti occidentali affluivano in abbondanza e dove, allo scopo di mantenere la pace sociale e togliere spazio ai comunisti, il GMA praticava una politica economica di tipo assistenziale (46).
Le cause di lungo periodo riguardano invece le basi ideologiche e mentali della borghesia italiana e dello schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva. Espressione di un patriziato che era stato dominante in Istria almeno dall'epoca veneta e dei ceti intellettuali di lingua italiana, questo schieramento fondò teoricamente fin dal suo nascere alla metà dell'800 la propria pretesa al monopolio nella gestione del potere sul fatto di essere l'erede di quelli che erano stati i dominantori del passato, romani e veneziani. Negando al contempo allo borghesia slovena e croata e allo schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva qualsiasi leggittimità al potere in quanto espressione di popoli senza storia, che al più erano stati oggetto dell'attivita civilizzatrice di Roma e Venezia (47). Questo tipo di concezzione idologica di tipo coloniale aveva messo profonde radici nella componente italiana della popolazione istriana (48), anche tra i socialisti istriani che guardavano al movimento nazionale di sloveni e croati come a un movimento reazionario di masse contadine arretrate, sostenuto e diretto a scopi conservatori dal clero, e concepivano il socialismo solo ed esclusivamente in un contesto italiano (49). Allo scoppio della guerra e dopo l’invasione della Jugoslavia tale atteggiamento aveva portato numerosi autorevoli dirigenti comunisti italiani dell’Istria a rifiutare a lungo la collaborazione con il neonato movimento partigiano croato perché giudicato frutto del nazionalismo borghese (50). Con la fine della guerra naturalmente questa impostazione venne mantenuta e rinnovata dai dirigenti dello schieramento filoitaliano. Sintomatico di questo atteggiamento è il fatto che i rappresentanti istriani, triestini e goriziani aggregati alla rappresentanza diplomatica italiana alla conferenza della pace di Parigi utilizzassero regolarmente il termine dispregiativo sciavi (51) per indicare gli jugoslavi (52).
A tutto questo vanno aggiunti altri fattori che ebbero la loro influenza, come ad esempio l’effetto a catena provocato da quella che in alcuni casi divenne una vera e propria psicosi da esodo e che spinse molti ad andarsene perché se ne andavano gli altri. O il fatto che in molti casi venne adottata una sorta di strategia emigratoria, con una parte della famiglia che si trasferiva in Italia – spesso a brevissima distanza, a Trieste, Gorizia - mentre un'altra rimase in Istria a “presidiare” casa, terreni e quant’altro.
Solo considerando tutti questi fattori e aspetti – nonché tenendo sempre presente che dalla fine dell'800, accanto ai due schieramenti nazionali esisteva (ed era prevalente in certi ambiti), anche uno schieramento socialista e internazionalista, che uscì dalla seconda guerra mondiale come egemone - e dando il giusto peso a quelle che erano le particolarità dei diversi ambiti geografici di partenza, si può iniziare a ricostruire una storia dell’esodo che sappia superare visioni angustamente determinate da esigenze nazionali e/o politiche.
Come è necessario, per avere una visione completa e a tutto tondo del fenomeno, prendere in considerazione anche quello che è stato il destino degli esodati e l’uso che di essi è stato fatto. E che è probabilmente uno degli aspetti finora più trascurati della questione esodo.(53)

LA SISTEMAZIONE DEI PROFUGHI IN ITALIA

Della sistemazione dei profughi si occuparono organizzazioni ed uffici privati e pubblici strettamente collegati tra loro a formare un vero e proprio apparato che seppe imporre e mantenere il proprio monopolio nella gestione dell’assistenza. Esso era composto in primo luogo da uffici governativi: l’Ufficio Venezia Giulia, costituito nel gennaio 1946 presso il Ministero degli Interni a cui nel novembre dello stesso anno succedette l’Ufficio zone di confine (Uzc) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (Pcm). L’UZC ebbe il compito di coordinare e sostenere l’attività di tutte le organizzazioni “patriottiche” nei territori di confine e in tale quadro promosse e sollecitò l’unificazione dei vari comitati profughi sorti in varie parti d’Italia in quella che è l’attuale Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd).(54) Diretta da quello che era stato il ceto dirigente in Istria, Fiume e Zara in epoca fascista non a caso l’Anvgd dichiarò immediatamente superata la pregiudiziale antifascista.(55) A Trieste venne invece costituito il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria (CLNI), fino al 1954 organismo di rappresentanza non tanto dei profughi quanto dei filoitaliani in Istria. Composto dai rappresentanti dei partiti che avevano formato i CLN in Italia durante la guerra (ad eccezione del Partito comunista italiano (PCI)) godeva perciò di particolare credito e udienza presso gli ambienti del governo italiano. Per il fatto di avere una dirigenza più giovane, non compromessa con il fascismo e anzi spesso di derivazione antifascista, il CLNI si trovò spesso in contrasto con l’Anvgd sulle prospettive da dare alla questione dei profughi. Accanto a loro venne poi costituita la già citata OAPGD. Nata come ente privato con il sostegno indiretto del governo ed esplicito (e concreto) dei massimi rappresentanti della politica (tranne quelli di sinistra) e dell’economia nel 1947, ben presto si vide riconoscere dallo stato finanziamenti ed il ruolo di gestore di tutta la politica assistenziale nei confronti dei profughi; alla fine degli anni ’50 si occupava dell’educazione e della salute dei figli dei profughi, dell’assistenza ai profughi anziani, della costruzione e assegnazione di alloggi per profughi nonché della sistemazione lavorativa dei profughi.
L’esodo da Pola, che ebbe vasta eco nell’opinione pubblica (sull’episodio venne realizzato anche un film, La città dolente), portò in Italia un’ondata di alcune decine di migliaia di profughi e pose la questione di come provvedere alla loro sistemazione definitiva. Le proposte furono diverse: da chi chiedeva venissero insediati tutti assieme in una “Nuova Pola” da costruire ex novo, a chi chiedeva venissero inseriti individualmente nel tessuto sociale dei luoghi d’insediamento, senza la creazione di insediamenti esclusivamente profughi. La scelta che prevalse fu quella di non concentrarli in uno o più mega insediamenti ma di creare tanti insediamenti più piccoli esclusivamente di profughi, i borghi. Questa scelta rispondeva all’esigenza delle organizzazioni dei profughi di avere una base quanto più possibile compatta su cui poter contare anche come forza politica ed elettorale, ma anche di creare e mantenere nei profughi un’identità da comunità particolare, fondata su patriottismo, legame alle tradizioni dei luoghi abbandonati e cattolicesimo (56). Nonostante i pubblici riconoscimenti di quello che veniva presentato come esemplare attaccamento all’Italia, la sistemazione definitiva dei profughi procedette molto lentamente, sia perché la scelta di creare nuclei compatti richiedeva tempi di realizzazione più lunghi rispetto ad una loro eventuale sistemazione individuale, ma anche perché in realtà la legislazione fu a lungo molto carente e improntata all’assistenza immediata. Fu infatti necessario attendere il 1952 per veder approvata una legge (la n. 137 del 4.3.1952) che affrontava la questione in modo relativamente organico.

BONIFICA NAZIONALE E RAFFORZAMENTO DELL’ITALIANITA’

L’insediamento più massiccio dei profughi avvenne lungo il confine orientale, e in particolare a Trieste, dove negli anni ’60 ne erano stati sistemati circa 70.000. Il fine dichiarato era la bonifica nazionale e/o il rafforzamento dell’italianità in una zona che rimase fino al 1954 ancora in ballo e che anche dopo il ritorno all'amministrazione italiana venne considerata problematica sia per ragioni etniche che politiche (57). Dopo l’iniziale contrarietà del GMA, che peraltro chiuse più di un occhio sull’insediamento clandestino dei profughi nel suo territorio, nel giugno del 1950 si arrivò ad una prima svolta. Il GMA accolse le insistenti pressioni italiane e accettò un insediamento programmato e sopratutto definitivo dei profughi. Un altro momento importante si ebbe nel 1952, quando da un lato venne ceduta all’Italia la gestione della parte civile dell’amministrazione della Zona A e dall’altro venne consentito di operare nella zona all’OAPGD, che immediatamente concentrò gran parte delle sue risorse su Trieste.(58) E nel 1954, con il ritorno della Zona A all’amministrazione italiana il progetto di insediamento mirato dei profughi poté essere ampliato e completato senza più remore.(59)
La bonifica nazionale riguardò soprattutto la fascia costiera tra Trieste e Monfalcone che alla fine della guerra era ancora abitata (e posseduta) quasi esclusivamente da sloveni. L’insediamento dei profughi (naturalmente ritenuti tutti italianissimi) doveva contribuire in maniera determinante a creare una continuità “etnica” italiana tra Trieste e Monfalcone, togliendo così alla controparte jugoslava la possibilità di rivendicare questo territorio quale naturale sbocco al mare degli sloveni che avrebbe fatto di Trieste un’enclave italiana in territorio jugoslavo. In quello che veniva denominato il corridoio accanto ad ogni villaggio sloveno sorsero così uno o più “borghi” di profughi, completamente autosufficienti per evitare indesiderate integrazioni. Particolarmente coinvolto fu il territorio del comune di Duino-Aurisina, che divideva il territorio del comune di Trieste da quello di Monfalcone. Qui il progetto venne perseguito con particolare accanimento, ricorrendo per ben due volte alla temporanea esautorazione del sindaco che si opponeva alla costruzione di nuovi alloggi dell’OAPGD non solo perché ciò avrebbe stravolto la struttura nazionale della popolazione, ma anche in considerazione del fatto che il comune non offriva sufficienti occasioni occupazionali nemmeno per la popolazione già presente. Il risultato finale fu il completo ribaltamento degli equilibri nazionali e politici: alla metà degli anni ’60 gli italiani, che ancora nel 1945 raggiungevano a stento un 10% della popolazione totale, erano ormai divenuti maggioranza.
In ambito urbano fu invece primario il rafforzamento dell’italianità. Si trattava di rafforzare numericamente (anche a livello elettorale), ma anche qualitativamente, lo schieramento filoitaliano, ampiamente minoritario fino alla rottura tra Tito e Stalin nel 1948. I borghi profughi vennero qui costruiti in rioni popolari ritenuti ostili all’Italia. L’inclusione dei profughi nelle liste elettorali fu probabilmente decisiva per portare ad un non troppo soddisfacente 60% la somma dei voti dei partiti filo italiani (compresi i neofascisti che avevano un 10% circa) alle elezioni amministrative del 1949 e del 1952. I profughi ebbero inoltre la precedenza nelle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, ma vennero inseriti anche nelle industrie, in cui ebbero (almeno inizialmente) un importante ruolo quale elemento di rottura della compattezza e delle rigidità della classe operaia triestina.(60) Esponenti delle organizzazioni degli esuli e di origine istriana in genere assunsero posizioni di punta nello schieramento filoitaliano a Trieste, nelle amministrazioni locali, nelle aziende pubbliche, ma anche a livello politico nazionale (basti citare i nomi del vescovo di Trieste mons. Santin, rovignese, del sindaco Bartoli, anch’egli di Rovigno, e del polesano Belci, deputato della Democrazia Cristiana e sottosegretario). Tutto ciò trasformò radicalmente la realtà etnica, ma anche sociale e politica di Trieste, facendo si che in una città in cui fino ad allora il cattolicesimo politico non aveva avuto che uno spazio marginale, la Democrazia cristiana diventasse il partito di maggioranza relativa (che elesse al parlamento italiano della prima repubblica solo candidati profughi).
Della politica di Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità furono peraltro indirettamente vittime anche gli stessi profughi. In attesa di fungere da bonificatori – e non tutti erano peraltro ritenuti adatti - dovettero rimanere per anni, alcuni per decenni, nei campi profughi (l’ultimo fu chiuso negli anni ’70) in condizioni igieniche tali da portare allo scoppio di epidemie (con esiti mortali). Per essere poi sistemati in borghi che avevano molto dei ghetti, spesso in località lontane dai loro posti di lavoro e dalle quali appena potevano se ne andavano. I relativi privilegi di cui godevano nell'assegnazione di alloggi pubblici e nelle assunzioni (che andavano al di là anche di quanto stabilito per legge) in un periodo in cui quello della casa e del lavoro erano problemi acuti a livello generale, ma anche una politica volta esplicitamente a questo, pr

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