MILOSEVIC “Non mi arrendo”

Intervista di Giuseppe Zaccaria
La Stampa 3 febbraio 2001

Stando alle ultime notizie, oggi Slobodan Milosevic dovrebbe vivere la
condizione di un “autorecluso”. A vederlo, non si direbbe. Per la prima
intervista da ex presidente della Jugoslavia, l’uomo più controverso
nella recente storia dei Balcani ha accettato un lungo, franco incontro
nella nuova sede dell’ “Sps”, il partito di cui è numero uno. Suo figlio
Marko è all’estero, la moglie Mirjana e la figlia Marija a Belgrado. La
situazione è incerta, le prospettive scivolose. Questa lunga intervista
esclusiva a “La Stampa” è il testamento politico dopo dieci anni al
potere.

Come si sente, signor Milosevic: un leader tradito dal popolo o
l’obiettivo di un complotto internazionale, vittima della politica
americana?

“Non sono stato tradito dal mio popolo. Considero il popolo serbo come
eroe e vittima assieme. Non sono neanche sicuro che i risultati delle
elezioni di settembre siano espressione della sua volontà. Quelle
consultazioni si tennero sotto una grande pressione esterna ed interna,
mediatica, psicologica, militare. Non si trattava di una congiura, ma
dell’attività ben orchestrata di una parte influente della comunità
internazionale. Si potrebbe anche considerare l’ipotesi del sacrificio
di un leader divenuto metafora dell’opposizione alla politica americana.
Se è davvero cosi, vorrei che fosse l’ultima volta. Vorrei che non
esistesse mai più una politica in cui chi la pensa diversamente e guida
un piccolo popolo debba essere sanzionato per disubbidienza.”

Pensa di essere stato punito solo in quanto disubbidiente?

“Non presenta forse il mondo moderno le idee di libertà, democrazia,
diritti dei popoli e dei cittadini come una sorta di manifesto? E come
mai di questo manifesto entra a far parte l’immagine di un paese potente
e arrogante che con l’uranio, impoverito o no, punisce i popoli
disubbidienti e i loro leader come una volta con la frusta?
L’amministrazione del più grande paese del mondo, usando un
atteggiamento negativo verso di me (che impersonavo la politica di
indipendenza e autonomia della Jugoslavia) ha avuto la possibilità di
proiettare questo atteggiamento sui suoi alleati europei.
Quell’amministrazione si è guadagnata alleati nei grandi e sviluppati
Paesi d’Europa per cose molto più importanti e controverse
dell’atteggiamento verso il capo di un piccolo Paese balcanico. E poi,
tutti insieme, hanno potuto facilmente organizzare un'atmosfera di
pressione materiale, finanziaria, politica, psicologica, diplomatica e
mediatica sull’opinione pubblica jugoslava. Una pressione a favore dei
risultati elettorali che si voleva ottenere.”

Sono queste le ragioni di una sconfitta storica?

“Nelle ultime elezioni hanno giocato tre fattori: pressioni, paura e
corruzione. La prima pressione è stata mediatica: il popolo e il governo
sono stati demonizzati, poi la demonizzazione è stata concentrata sul
governo, quindi su un gruppo di persone, infine su di me. Secondo genere
di pressioni, quelle economiche: per quasi un decennio siamo stati
sottoposti a sanzioni che, affermava, sarebbero state tolte solo col
cambiamento del potere. Infine la pressione militare: la Serbia è stata
bombardata tutti i giorni per tre mesi. Le minacce si sono rafforzate
prima delle elezioni. Sembrava che la Serbia sarebbe stata bombardata di
nuovo se non avesse cambiato governo.”

Prima lei ha parlato di corruzione: di chi?

“Soldi, tanti soldi che hanno avuto un grande ruolo negli avvenimenti
degli ultimi anni, in particolare dell’autunno scorso. Con questo danaro
non si sono comprati solo i voti di una parte dei cittadini ma anche la
convinzione che attività di questo tipo non fossero amorali, che i soldi
fossero un sostegno per la creazione di un sistema in cui vivere meglio.
Negli ultimi mesi la paura ha condizionato l’opinione pubblica. Gli
incendi delle sedi istituzionali, le bastonate alla gente, le violenze
fisiche di natura, come dire, non europea… Ecco, tutto questo ha
spaventato. In molti hanno pensato: se cosi, in un secondo, hanno
bruciato il Parlamento federale e la tv, perché non la mia casa, il mio
negozio, la mia fabbrica? Se hanno bastonato il direttore della tv di
Stato e i suoi giornalisti più noti, perché non la mia famiglia? Poi è
arrivata l’onda delle destituzioni: direttori di banca, di ospedali, di
scuole, rettori dell’università, pressioni fisiche e psicologiche. La
paura è diventata fattore politico, per far andare le cose secondo gli
interessi di chi la scatenava. E dura tutt’oggi.”

Fino agli accordi di Dayton l’Occidente guardava a lei come al
solo fattore di stabilità nei Balcani: che cos’è successo dopo?

“I Paesi occidentali – meglio i loro governi - mi hanno appoggiato
finché gli andava bene la stabilità nei Balcani. Nel momento in cui
hanno cominciato a considerare interessante l’instabilità ho perduto il
loro appoggio. Non cambiava la mia politica, ne il ruolo della Serbia,
ma gli interessi delle grandi potenze.”

Lo ha detto anche lei: la Serbia non è un grande Paese…

“Però è importante per la stabilità dell’area. Mi sono adoperato per
dieci anni per una politica di indipendenza: per un certo periodo è
andata bene all’Occidente, poi non più. In me avevano un alleato finché
accettavano un orientamento del genere: quando ho cominciato a dar loro
fastidio, mi hanno trasformato in un avversario.”

Che cos’hanno rappresentato le guerre jugoslave degli ultimi dieci
anni?

“L’Europa occidentale, in particolare la Germania, inebriata dalla
vittoria nella Guerra fredda, dall’unificazione tedesca, dalla
distruzione dell’Unione Sovietica, ha iniziato la spedizione per mettere
l’Est sotto un totale controllo economico e politico. Tutte le
istituzioni produttive dei Paesi dell’Est sono state smontate, causando
un vertiginoso impoverimento e le facili acquisizioni di un’industria
distrutta. Nessuno dei Paesi dell’Est è riuscito a recuperare il livello
economico di dieci anni fa.”

Ma la Jugoslavia non era un Paese dell’Est.

“Non lo era e non era membro del Patto di Varsavia: era un Paese che
andava costruendo un sistema tutto suo, basato sull’economia di mercato
e sulla parità nazionale. La sua economia diventava sempre più
fruttuosa. Era il modello per un futuro federalismo europeo.”

La Jugoslavia era dunque un’esperienza pericolosa?

“Era un “brutto” esempio, per i protagonisti dei nuovi equilibri nel
vecchio continente. Ed è per questo che la sua spartizione era sostenuta
da fuori, giocando la carta delle tensioni tra etnie e repubbliche
dell’ex federazione. In quel momento s’è iniziata la satanizzazione
della Serbia, mentre in Croazia si cantava “Danke Deutschland”, grati
per la costituzione dello “Stato croato”.

Lei crede che tutto si possa ridurre a una prospettiva
storicista?

“Non sono ancora arrivato alla fine della storia. La Repubblica Federale
di Jugoslavia, sopravvissuta nel 1992 attraverso Serbia e Montenegro, a
un certo momento era diventata il nuovo obiettivo. Tutto il decennio è
trascorso nel segno della lotta per la libertà, l’indipendenza, la pace
e la dignità nazionale. I protagonisti del nuovo ordine mondiale non
hanno potuto accettare questo precedente: l’opposizione di un piccolo
Paese balcanico all’onda del nuovo colonialismo. Alla fine hanno
inventato i motivi del Kosovo per iniziare, nel 1999, una guerra
illegale e criminale. E quando la guerra non ha dato quanto si aspettava
sono stati usati tutti i mezzi. Oggi abbiamo sulla scena le tendenze
separatiste nel Montenegro, la premura di far realizzare in Kosovo
l’indipendenza, incitando cosi la crisi in Vojvodina e nella regione di
Raska e Polimljie”.

Possibile che in questo disastro, la nazione serba non abbia
alcuna responsabilità?

“La responsabilità dei serbi è molto minore della responsabilità dei
croati, degli sloveni e di chi ha partecipato alla spartizione del
Paese. I serbi hanno tentato di salvare la repubblica federale, forse
perché vivevano in tutto il territorio. E’ ingiusto che proprio i serbi,
che più tenevano alla Jugoslavia, siano accusati dall’Occidente per la
sua spartizione.”

Non riconosce neanche una colpa?

“Le accuse ingiuste sono rivolte all’indirizzo sbagliato, sia quando si
tratta del popolo, sia quando si tratta di me. Davanti a certe
manipolazioni della verità si rimane impotenti. I mezzi d’informazione
trasformati in armi, nelle mani dei ricchi e dei potenti. Grazie alla
loro ricchezza ed al loro potere sarà onesto, coraggioso, intelligente e
buono solo chi loro decidono. E sarà disonesto, vigliacco, stupido,
cattivo chi decidono loro.”

Lei, personalmente, ha fatto tutto il possibile?

“Ho fatto tutto ciò che potevo da uomo e da guida di una delle
repubbliche, parte del Paese. Il mio ruolo negli avvenimenti legati alla
spartizione dell’ex Jugoslavia, è tema di cui si occupa continuamente la
cosiddetta comunità internazionale. Dovrebbe stupire che le stesse
domande non vengano rivolte anche ai capi delle altre repubbliche
dell’ex Jugoslavia. Il presidente della Croazia, per esempio, pone in
rilievo i propri “meriti” per la rottura del Paese. Perché allora la
cosiddetta comunità internazionale li sottovaluta tanto e dedica tutta
la sua attenzione a me? E’ offensivo per i miei colleghi….”

Non crede di aver sbagliato neanche nella questione Kosovo?

“Non ero in ritardo. In senso politico, morale e nazionale ho smosso la
questione del Kosovo nel 1986, quando non ero il presidente della
Serbia. Consideravo la situazione in Kosovo uno dei problemi principali
della Jugoslavia, e in particolare della Serbia. Quanto ai bombardamenti
e all’uranio non sono rimasto sorpreso. Direi amareggiato: come lei,
spero. Come ogni uomo normale di questo pianeta, spero.”

In quel caso non servi neppure l’antica amicizia con
l’ambasciatore americano Richard Holbrooke.

“Con Holbrooke abbiamo collaborato con successo fino agli accordi
Dayton. Lui contribui in modo decisivo alla tregua quando le forze serbe
si trovarono in una situazione critica. Gli dissi categoricamente che
avremmo interrotto i colloqui, e lui fermò l’esercito croato davanti a
Prijedor, che stava per cadere come Banja Luka. Dopo Dayton e la
promessa di togliere le sanzioni, però, non hanno mantenuto la parola.
Non hanno introdotto il cosiddetto “muro esterno”, hanno continuato con
le pressioni. Nel 1998, quando si apri in modo infondato, e assai
costruito, la questione del Kosovo, dissi a Holbrooke: “A voi gli
albanesi non interessano affatto, voi avete un altro scopo”. “Quale?” mi
chiese. Gli risposi: “Accertare il vostro ruolo di leader in Europa”.
“E’ vero, noi siamo una superpotenza e abbiamo questo interesse”,
concluse Holbrooke. Mi piacerebbe che la nuova amministrazione americana
(i repubblicani di George Bush; ndr) chiedesse alla precedente (i
democratici di Clinton): “In che modo avete servito gli interessi
nazionali americani entrando in alleanza con la narco-mafia albanese,
con trafficanti di esseri umani, assassini e terroristi?”.

E fra i problemi del suo Paese non pensa possa esserci il fatto
di non aver mai gestito una democrazia?

“Durante il mio governo “antidemocratico” ho proposto nel 1993 la
costituzione di un governo di unità popolare che è durato fino
all’ottobre del 2000. Oggi in Serbia c’è il governo di un solo partito.
Durante il mio governo “antidemocratico” il 95% della stampa era nelle
mani dell’opposizione, come quasi tutte le tv locali, circa 500. In quei
media, finanziati dall’estero, io e la mia famiglia eravamo insultati
con le parole più volgari, accusati di tutti i crimini di questo mondo.
Mai ci sono state risposte a quelle accuse infondate. Non ci sono stati
libri, spettacoli o film proibiti.
Le porte del Paese erano aperte a migliaia di giornalisti stranieri,
anche a quelli che venivano con gli articoli già scritti. A tutti i
diplomatici, anche a quelli che si comportavano in modo non
diplomatico. Incontravo l’opposizione e loro evitavano i comunicati
stampa.”

E la censura imposta ai giornali?

“Una sporca invenzione. Solo in Kosovo c’erano più di 40 giornali in
lingua albanese, completamenti dedicati in modo offensivo a me ed alla
mia famiglia. E cosi tutto un decennio. Forse la mia responsabilità è
opposta: ho lasciato che i media dell’opposizione abbassassero il senso
etico nazionale.”

Lei ha incontrato il presidente Kostunica nella notte del 6
ottobre. Che cosa può
raccontarci?

“Kostunica mi informò che la Corte costituzionale confermava la sua
vittoria. Ho accettato l’informazione. Però non mi aspettavo che la
violenza e l’anarchia sarebbero continuate. C’era uno scenario per
provocare lo spargimento di sangue, che per fortuna abbiamo evitato. Si
sa bene chi ne sarebbe stato accusato. Nella mia città natale,
Pozarevac, hanno saccheggiato e incendiato i beni di mio figlio. E’
ovvio che tutto ciò era programmato.”

Siamo arrivati a un punto delicato: il peso della sua famiglia
negli affari di Stato.

“Tutto ciò che è stato scritto di noi è una bugia. Adesso il nuovo
governo minaccia processi per i crimini che si inventano dentro i loro
uffici. Questa prassi di montaggio dei processi appartiene alle
esperienze degli anni più neri del nazismo, stalinismo o maccartismo”.

Kostunica respinge l’ipotesi di consegnarla al tribunale
dell’Aia, anche se persone come Biljana Plavsic si sono consegnate
“spontaneamente”.

“Non ho ancora un’opinione sul nuovo presidente, ci vuole un po’ di
tempo per poter valutare. Ho sempre considerato invece il Tribunale
dell’Aia un’istituzione amorale e illegale, inventata come rappresaglia
per rappresentanti disubbidienti, come un tempo esistevano campi di
concentramento per popoli superflui e gente superflua. Questo tribunale
esiste prima di tutto per i serbi. E’ la stessa forma di intimidazione
che i nazisti usarono prima verso gli ebrei e poi verso tutti i popoli
slavi.”

E la Plavsic?

“Con la sua decisione di andare “volontariamente” all’Aia, Biljana
Plavsic ha voluto dimostrare fiducia nel tribunale e
nell’amministrazione che ha appena abbandonato la scena politica
americana. Da feroce nazionalista, Biljana Plavsic si è trasformata in
collaboratrice dell’ex amministrazione americana. Non so se speri di
poter essere amnistiata dalla loro furia”.

E se dovessero processarla a Belgrado?

“Potrei capire all’Aia: li le accuse sono inventate. Ma a Belgrado, a
meno che non vi si installi una filiale del tribunale….”.

L’accusano di avere esportato capitali all’estero.

Una volta dissi a Holbrooke, che minacciava di bloccarli: “Non faccia
una fatica simile. Semplicemente, prenda tutto quel che riesce a
trovare”. Io non ho nessun conto all’estero, non l’ho mai avuto, per
tutta la vita ho avuto solo il mio stipendio. E adesso non ho nemmeno
più quello”.

Si sente in pericolo?

“Le regole dicono che la condizione di un capo dello Stato uscente è
questione d’onore e di morale per il nuovo capo dello Stato. Forse però
qualche onore e una certa morale ci saranno anche da parte degli altri,
di tutto il popolo. Quanto alla sicurezza della mia famiglia e mia
personale, no, non mi sento sicuro. Siamo nei Balcani: non c’è da
meravigliarsi se l’Europa ci guarda come una parte del continente che
vorrebbe non esistesse”.

E la politica italiana?

“E’ simile agli italiani: tenta di essere di principio, di rispettare
gli altri, badare ai propri interessi, non entrare in conflitto con
l’Europa, ma contare. Il ministro Dini ha avuto in molte occasioni un
atteggiamento di buone intenzioni, giusto e cordiale verso il nostro
Paese negli anni difficili e particolarmente durante la guerra con la
Nato. Purtroppo l’Italia non ha avuto la forza di opporsi a questo
crimine insensato contro il nostro popolo nel 99”.

Cosa vorrebbe dire infine al pubblico italiano?

“Nessuno può fare grande un uomo piccolo. Né onesto uno disonesto. Né
vigliacco un coraggioso. Né cattivo uno buono. Anche se si investe in
questo tanto sforzo – finanziario, tecnologico, mediatico, diplomatico e
psicologico”.

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Ringraziamo Carlo per averci procurato il testo dell'intervista.

A cura del Coordinamento Nazionale "La Jugoslavia Vivra'".
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