Recensioni a "Magazzino 18" di S. Cristicchi

1) Samantha Mengarelli
2) Stefano Crippa (Il Manifesto)


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Recensione sullo spettacolo “Magazzino 18”, rappresentazione del 22/12/2013 al teatro Sala Umberto di Roma


Lo spettacolo non è piaciuto, sotto vari punti di vista: artistico, storico-culturale e morale.

Ha confermato purtroppo in modo ancor più deludente le aspettative, senza dubbio influenzate dalla serie di impressioni ed opinioni maturate nel corso dei mesi scorsi, durante la promozione dello stesso. Promozione durante la quale si sono succedute corrispondenze e brevi confronti con Simone Cristicchi (coautore) ed altri suoi collaboratori, non sempre purtroppo adeguatamente argomentati.

Nonostante ciò, ci si è sforzati di assistere alla rappresentazione in modo “imparziale”, immersi nel coinvolgimento della sala e del momento. 

Lo spettacolo è risultato noioso, pesante e capzioso. In una scenografia statica che forse non rende il movimento proprio della drammaticità di una migrazione, qual vorrebbe raccontare. Apre e chiude la scena “lo spirito delle masserizie”, che piace evidentemente tanto agli autori, forse per il tocco di esoterismo e di indubbia matrice borghese, di cui viene accentuata una legittima nostalgia dei beni materiali a cui si da un’anima, che da un lato personalizza con un certo individualismo le perdite, però poi nello spettacolo la tragedia e la sfortuna di chiunque diventa la più grande tragedia di tutti. Una diffusa, abile e pericolosa arte della generalizzazione, che tradisce però il bisogno di obiettività storica, di cui lo spettacolo stesso intende farsi portavoce, come si evince in vari momenti della sua rappresentazione.

I testi dei dialoghi appaiono miseri, tendenti al patetico, inseriti in un monologo in cui il cantautore/attore si destreggia non male, con buona interpretazione, dei vari ruoli, ma dimostra più di un’ incertezza, specie laddove sembra siano state apportate modifiche, rispetto alle repliche in Istria e a Trieste. Con il tono sarcastico ed il tentativo di sdrammatizzare alcune vicende, il distratto archivista Persichetti dall’accento romano (e non romanesco) non alleggerisce nulla, ma ha l’effetto di rendere forse banali e riduttivi i delicati temi trattati. Non compaiono altri attori sulla scena. Stavolta non sono fisicamente sul palco i bambini che cantano “la buca” (testo violento, evocante le uccisioni nelle foibe, con il colpo in testa) e che accompagnano in coro, con un bastone in mano, “noi siam la classe operaia”, nel racconto della vicenda dei lavoratori Monfalconesi. L’immagine sfocata dei minori che cantano è proiettata su un grande schermo calato sullo sfondo. Sul palco fa ingresso soltanto una bambina, nella rievocazione della tragedia sulla spiaggia di Vergarolla, a seguito dello scoppio delle mine insabbiate in tempo di guerra (ma insabbiate da chi? non viene detto). La bambina è tenuta in braccio dal protagonista dopo la morte scenica, a mo’ di pietà religiosa. Il racconto di questa strage di civili nello spettacolo è in fila alle rappresaglie antifasciste per mano jugoslava, si richiama la sua natura di attentato, che si allude di origine partigiana. Nella realtà, non si conoscono i mandanti.

La Jugoslavia di Tito e dei “partigiani con la stella rossa” (così il protagonista li richiama spesso) ne escono demonizzati, non c’è alcun dubbio. Il peggior comunismo della storia appare quello di Tito. E’ dichiarato piuttosto esplicitamente quando si accenna all’uscita della Jugoslavia dal COMINFORM. Vicenda storico-politica complessa su cui lo spettacolo ironizza, semplifica e non argomenta abbastanza.

Tale lettura è dimostrata dal fatto che il protagonista riporta una “testimonianza storica” quale la presunta confessione di un collaboratore di Tito, Milovan Gilas, identificato come il suo braccio destro, che lo accusa di aver dichiaratamente fatto propaganda anti-italiana, ordinando la cacciata dalle terre d’Istria, per il progetto di invasione della grande Jugoslavia. Di qui, le accuse di pulizia etnica addossate ai partigiani di Tito, come gli unici colpevoli degli orrori delle foibe e delle stragi della rappresaglia antifascista, secondo un piano di strategia del terrore, ampiamente richiamato nello spettacolo. Ma quali sono le fonti?

E’ anche per questo, che l’obiettivo dello spettacolo, mascherato da una veste che pretende di essere equilibrata per il solo fatto di introdurre in non più di dieci minuti l’antefatto fascista, citando i campi di concentramento in Italia come Rab e richiamando con buonismo le vittime (come la bambina slovena) di tutte le guerre, risulta invece di evidente sapore nazionalista, antipartigiano e anticomunista. Non può pertanto vantare oggettività storica e imparzialità politica, poiché alcune delle parti in causa, ne escono offese e snaturate e questo può ricevere consensi, ma non è intellettualmente onesto

In questa rappresentazione a Roma, differendo da precedenti, all’antifascismo è fatta qualche concessione in più. Non è stato riproposto il commento di sdegno e di biasimo dato alla voce degli esuli, rivolto all’ex Presidente Sandro Pertini, in occasione del riconoscimento degli onori ai partigiani jugoslavi ed al Presidente e generale Tito. Sono state invece introdotte delle parti di testo, anche a seguito di corrispondenza polemica con membri dell’ANPI e dell’associazione CNJ onlus. Viene citata l’ invettiva di Mussolini: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche [”  parafrasando e rendendo il concetto di evidente razzismo con l’espressione: “per ogni dente italiano una testa slava” e poi ironizzando sul mito “Italiani Brava gente”, a cui si allude con un connotazione fortunatamente condivisibile. Verso la fine si parla dei “rimasti” in Istria, considerati le vittime per eccellenza sia degli italiani fascisti che degli slavi comunisti titini. Ma, il biasimo più grande viene reso a Tito, estrapolando e interpretando un suo discorso sull’accoglienza e sul rifiuto del riconoscimento della condizione di esuli ai “dirigenti fascisti”, additandolo di paradossale intolleranza, nutrita (e non è vero) verso tutti gli esuli. I “rimasti” in Istria, appaiano i disadattati nel regime comunista jugoslavo o gli accusati di fascismo; è proprio così?

E quindi accade che, anche la citazione sopra riportata di Mussolini riguardante gli Slavi, nel corso dello spettacolo sembra far gioco alla legittimazione del giudizio di barbarie e crudeltà delle truppe partigiane titine, che risultano incriminate di tutte le tragedie personali rappresentate, come la storia di Norma stuprata e buttata nelle foibe, la storia del postino, che risale la buca, la storia dell’attentato di Vergarolla, la storia della bambina che muore di freddo nel campo profughi di Patriciano, la storia dei Monfalconesi portati nel campo di prigionia di Goli Otok, le rappresaglie violente antifasciste, la storia dell’esodo della famiglia di Ferdinando Biasol e delle sue “cose” nel Magazzino 18, al Porto Vecchio di Trieste.

Uno degli azzardi più impropri è il paragone tra gli emigranti italiani del dopo guerra e gli esodati istriani, dove viene evidenziata la diversa condizione dei primi motivati secondo gli autori, solo dal sogno “dell’andar a cercare fortuna” e dei secondi, cacciati dalla loro terra dalle politiche di conquista della “Grande Jugoslavia”. Questa approssimazione non rende verità storica e umana ne’ agli uni ne’ agli altri; è infatti nota la disperazione, la povertà di base degli emigranti italiani del dopo guerra, e la realtà delle politiche di economia industriale del Piano Marshall. Così come è noto e documentato che le ondate degli esodi degli Istriani hanno avuto carattere diverso, e contava fascisti militanti, borghesi regnicoli e Italiani meno abbienti, spinti dalla miseria. Lo stesso protagonista dello spettacolo restituisce invece immagini di molti degli esuli che perdono le loro belle case con panorama sulle sponde dell’Adriatico dell’Istria, per migrare in Italia. Forse, i paragoni non sono così semplici… Le condizioni di partenza e le ragioni non sono sempre uguali e tanto meno i risvolti.

L’Istria viene commemorata come terra Italiana da sempre. E quindi trova consensi emotivi tra i molti disinformati (loro malgrado) che ascoltano e rivivono legittimamente vicende proprie o riportate. I vissuti sono preziosi, ma la storia non dovrebbe mentire e dovrebbe interpretarli con un certo distacco per rispettarli.

Lo spettacolo mostra quindi, purtroppo, ignoranza storica e politica, con vari momenti propagandistici.

Come la vicenda dei 2000 Monfalconesi che il protagonista definisce “in controesodo” ridicolizzati sulla scena, col fazzoletto rosso sventolato ironicamente ed il bastone…, perchè partono per la Jugoslavia mossi dall’ideale del socialismo comunista e poi invece vengono spediti a Goli Otok, per l’espulsione del “Tito eretico” dal Cominform: così viene definito dal protagonista interpretato da Cristicchi, in tono ambiguo tra il sarcastico e l’accusatorio.

E che ruolo viene dato ai numeri e alle fonti della storia? nello spettacolo si parla dell’importanza dei dati, ma si citano solo questi numeri: 350.000 esuli, 10 campi profughi, 28 morti a Vergarolla, 2000 Monfalconesi in controesodo, spediti a Goli Otok. Sui dati degli infoibati si ironizza, si sposta il piano del giudizio, evidenziando che gli storici giocano sui numeri, da cinquecento a svariate migliaia, ma che ciò non ha importanza, di fronte alle tragedie umane. Ma non è l’archivista Persichetti al telefono con l’Ufficio esuli del Ministero degli Interni ad affermare che i dati sono importanti? Si fa un uso molto scenico, di questi dati (ammesso che siano esatti), quando servono li diciamo, quando no, meglio tacere. Artisticamente è legittimo, storicamente no.

Perciò il rischio di mistificazione è facile e lo spettacolo non si esime, nella sua promiscuità di piani su cui viene affrontata una vicenda complessa e dibattuta. E così l’esodo degli Istriani è definito in esso come un fenomeno di proporzioni “bibliche”, varie volte, come “uno dei più grandi mai accaduti” e la violenza delle foibe un’atrocità di dimensioni improprie, perché non dimostrate.

L’ultima scena dello spettacolo: una decina di sedie in fila alla ribalta, dove vengono fatti sedere gli spiriti di alcuni personaggi famosi che appaiono anch’essi vittime dell’esodo, come il cantautore Sergio Endrigo, l’attrice Laura Antonelli, Alida Valli, perché ovviamente, qualche nome noto fa comodo spolverarlo per rafforzare il messaggio ed i consensi. Tali personaggi siedono accanto agli spiriti dei protagonisti delle storie più tragiche raccontate, vissuti per i quali non si ha la percezione di ciò che è “autentico” e di ciò che è romanzato.

Per concludere, lo spettacolo sembra sortire il suo scopo, che appare quello di un’operazione politica ben commercializzata, un’opera su commissione. Ma di chi e perché? Una propaganda demagogica poco intelligente ed alquanto populista, che fa leva sull’ignoranza ma soprattutto spera forse nella pigrizia di un pubblico variegato, anche di intellettuali di parte, che probabilmente non si andrà mai a verificare criticamente la storia rappresentata e qui giudicata, ma comodamente tornerà a casa e soprattutto nelle scuole, a dire ai propri figli che finalmente qualcuno racconta delle verità storiche nascoste dai comunisti per 70 anni. E non funziona così, proprio no.

Ma fortunatamente c’è anche chi, con un po’ più di senso critico, non vorrebbe trovarsi questo “spettacolo dei sentimenti” o delle “emozioni” (definizione dell’autore Cristicchi) come bibliografia o come capitolo dei libri di storia dei nostri figli di oggi e di domani, dove fascisti e antifascisti si minestrano troppo superficialmente, favorendo distorsioni storiche e politiche gravi. Le distorsioni alimentano non verità e conflittualità, e soprattutto non restituiscono di certo giusta commemorazione e rispetto ai vissuti dolorosi di chi non c’è più, o di chi è sopravvissuto ed in una storia più onesta può al limite sperare, per meglio elaborare e trovare un po’ di pace.

Samantha Mengarelli


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Magazzino 18. Cristicchi e la storia secondo un archivista ‘distratto’

Stefano Crippa, 27.12.2013

Teatro. Il monologo, con la regia di Antonio Calenda, a rischio di revisionismo


Cen­ti­naia di sedie una sopra l’altra, vec­chi mobili, camere da letto, oggetti lasciati dagli esuli ita­liani nel Porto Vec­chio di Trie­ste. Tutti acca­ta­stati nel Magaz­zino 18, anche titolo dello spet­ta­colo di Simone Cri­stic­chi per la regia di Anto­nio Calenda, che ha debut­tato lo scorso otto­bre al Poli­teama di Trie­ste e sta girando i tea­tri della peni­sola. Al cen­tro l’esodo degli ita­liani dalle terre d’Istria, Fiume e Dal­ma­zia e il dramma delle foibe, uno spac­cato di sto­ria com­pli­cato e mai risolto che Cri­stic­chi — memore di sue espe­rienze pas­sate sul pal­co­sce­nico (come Li romani di Rus­sia), riprende in un mono­logo a metà fra il reci­tato e la canzone.

Nella mes­sin­scena Cri­stic­chi è un archi­vi­sta romano, inviato al Magaz­zino 18 dal mini­stero dell’interno per fare un grande inven­ta­rio. Anda­tura dinoc­co­lata, sopra­bito e vali­getta, un gua­scone che si rifà alla mito­lo­gia dell’uomo medio incar­nato da Sordi in tanti film: arruf­fone, egoi­sta, ma che nella fin­zione passa da un disin­te­resse totale a una più decisa con­sa­pe­vo­lezza. Un rac­conto inter­val­lato da una sorta di com­pen­dio veloce dei fatti sto­rici che scon­vol­sero quelle terre dai primi del Nove­cento al ’47, cer­cando di con­te­stua­liz­zarne le vicende. E qui Cri­stic­chi inciampa rovi­no­sa­mente, met­tendo in scena uno spet­ta­colo che si basa quasi esclu­si­va­mente sul testo di Ian Ber­nas Ci chia­ma­vano fasci­sti. Era­vamo Ita­liani, e pro­pone un’interpretazione di que­gli acca­di­menti par­ziale, se non univoca.

Così la sto­ria tutto ingoia e omo­loga, senza per­met­tere allo spet­ta­tore di valu­tare le ragioni e i com­por­ta­menti che sono stati alla base di que­gli eventi; avvi­ci­nando anzi peri­co­lo­sa­mente le due ideo­lo­gie con­trap­po­ste, comu­ni­smo e fasci­smo, per omo­lo­garle. E gene­rando con­fu­sione nel pub­blico: per­ché non si pos­sono dedi­care tre minuti tre di «rias­sunto» alle ter­ri­bili sof­fe­renze por­tate dal fasci­smo in Slo­ve­nia; lo ster­mi­nio di oltre 350 mila slo­veni, croati, serbi mon­te­ne­grini, slavi nelle regioni occu­pate e/o annesse dal 3 aprile 1941 al set­tem­bre del 43, le 35 mila vit­time uccise da fame e malat­tie in oltre 60 campi di inter­na­mento per civili sparsi dal nord al sud Ita­lia, che sono fon­da­men­tale per com­pren­dere la suc­ces­sione degli avvenimenti.
«Non mi inte­ressa la poli­tica — rac­conta in un’intervista al Pic­colo il can­tau­tore — Mi inte­res­sano le sto­rie, e mi inte­ressa con­ti­nuare a svi­lup­pare, sia a tea­tro che con le mie can­zoni un’operazione didat­tica della memo­ria». Ma per rico­struire una suc­ces­sione di eventi così com­plessa — e dichia­ra­ta­mente con «fini didat­tici» — serve un lavoro diverso. Non basta limi­tarsi a costruire can­zoni o, peg­gio, riu­ti­liz­zare uno strug­gente pezzo di Ser­gio Endrigo come 1947, facen­dolo pas­sare per un’irredentista. Altri­menti — e ci dispiace per­ché in pas­sato Cri­stic­chi ha dato prova di sen­si­bi­lità nel par­lare di disa­gio men­tale — si pre­sta solo il fianco al revi­sio­ni­smo sto­rico che avve­lena il tes­suto sociale di que­sto paese da troppo tempo.