Il libro nero della Difesa nazionale

1) Difesa, ecco il libro nero della ministra Pinotti ( Manlio Dinucci)
2) L'hangar segreto di Sigonella con i droni spia americani. Le fotografie (Repubblica.it
3) Limitiamo i danni e rinunciamo ora all’F-35 (Gianandrea Gaiani / Analisidifesa.it)


Vedi anche:
Foto e resoconti sulla manifestazione del 28 giugno a Venegono
contro la consegna degli aerei Aermacchi ad Israele


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http://ilmanifesto.info/difesa-ecco-il-libro-nero-della-ministra-pinotti/

Difesa, ecco il libro nero della ministra Pinotti

di  Manlio Dinucci, su Il Manifesto del 24.6.2014

Dopo aver rice­vuto l’imprimatur del Con­si­glio supremo di difesa, con­vo­cato dal pre­si­dente Napo­li­tano, la mini­stra Pinotti ha pub­bli­cato le linee guida del futuro «Libro bianco per la sicu­rezza inter­na­zio­nale e la difesa», che trac­cerà «la stra­te­gia evo­lu­tiva delle Forze armate sull’orizzonte dei pros­simi 15 anni». Stra­te­gia che, come indi­cano le linee guida, con­ti­nuerà a seguire il solco aperto nel 1991, subito dopo che la Repub­blica ita­liana aveva com­bat­tuto nel Golfo, sotto comando Usa, la sua prima guerra. Sulla fal­sa­riga del rio­rien­ta­mento stra­te­gico del Pen­ta­gono, il mini­stero della difesa del governo Andreotti annun­ciò un «nuovo modello di difesa». Vio­lando la Costi­tu­zione, esso sta­bi­liva che com­pito delle Forze armate è «la tutela degli inte­ressi nazio­nali, nell’accezione più vasta di tali ter­mini, ovun­que sia neces­sa­rio» e defi­niva l’Italia «ele­mento cen­trale dell’area che si estende dallo Stretto di Gibil­terra al Mar Nero, col­le­gan­dosi, attra­verso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico».

Que­sto «modello di difesa» è pas­sato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sem­pre sotto comando Usa (Jugo­sla­via, Afgha­ni­stan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in par­la­mento. Tan­to­meno lo sarà ora: la mini­stra della Difesa — ha deciso il Con­si­glio supremo pre­sie­duto da Napo­li­tano — invierà le linee guida ai pre­si­denti delle com­mis­sioni Esteri e Difesa dei due rami del par­la­mento, «affin­ché ne pos­sano even­tual­mente venire valu­ta­zioni e sug­ge­ri­menti utili alla defi­ni­zione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».

Resta dun­que immu­tato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discus­sione. Com­pito delle forze armate — si riba­di­sce nelle linee guida — è non tanto la difesa del ter­ri­to­rio nazio­nale, oggi molto meno sog­getto a minacce mili­tari tra­di­zio­nali, quanto la difesa degli «inte­ressi nazio­nali», soprat­tutto gli «inte­ressi vitali», in par­ti­co­lare la «sicu­rezza eco­no­mica». Sicu­rezza che con­si­ste nella «pos­si­bi­lità di usu­fruire degli spazi e delle risorse comuni glo­bali senza limi­ta­zioni», con «par­ti­co­lare rife­ri­mento a quelle ener­ge­ti­che». A tal fine l’Italia dovrà ope­rare nel «vici­nato orien­tale e meri­dio­nale dell’Unione euro­pea, fino ai paesi del cosid­detto vici­nato esteso» (com­preso il Golfo Per­sico). Per la sal­va­guar­dia degli «inte­ressi vitali» — si chia­ri­sce — «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le ener­gie dispo­ni­bili e ad ogni mezzo neces­sa­rio, com­preso l’uso della forza o la minac­cia del suo impiego».

Nel pros­simo futuro le Forze armate saranno chia­mate a ope­rare per il con­se­gui­mento di obiet­tivi sem­pre più com­plessi, poi­ché «rischi e minacce si svi­lup­pe­ranno all’interno di estese e fram­men­tate aree geo­gra­fi­che, sia vicine sia lon­tane dal ter­ri­to­rio nazio­nale». Rife­ren­dosi in par­ti­co­lare a Iraq, Libia e Siria, il Con­si­glio supremo sot­to­li­nea che «ogni Stato fal­lito diviene ine­vi­ta­bil­mente un polo di accu­mu­la­zione e di dif­fu­sione glo­bale dell’estremismo e dell’illegalità». Igno­rando che il «fal­li­mento» di que­sti e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demo­liti con la guerra dalla Nato, con l’attiva par­te­ci­pa­zione delle Forze armate ita­liane. Secondo le linee guida, esse devono essere sem­pre più tra­sfor­mate in «uno stru­mento con ampio spet­tro di capa­cità, inte­gra­bile in dispo­si­tivi mul­ti­na­zio­nali», da impie­gare «in ogni fase di un con­flitto e per un pro­tratto periodo di tempo».
Le risorse eco­no­mi­che da desti­nare a tale scopo, sta­bi­li­sce il Con­si­glio supremo di difesa, «non dovranno scen­dere al di sotto di livelli minimi inva­li­ca­bili» (che diver­ranno sem­pre più alti) poi­ché — si sot­to­li­nea nelle linee guida — «lo stru­mento mili­tare rap­pre­senta per il paese una assi­cu­ra­zione e una garan­zia per il suo stesso futuro». A tal fine si pre­an­nun­cia una legge di bilan­cio quin­quen­nale per i mag­giori inve­sti­menti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo cac­cia F-35), così da for­nire «l’indispensabile sta­bi­lità di risorse».

Occorre inol­tre «spin­gere l’industria a muo­versi secondo tra­iet­to­rie tec­no­lo­gi­che e indu­striali che pos­sano rispon­dere alle esi­genze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bel­lica, pun­tando sull’innovazione tec­no­lo­gica, «resa neces­sa­ria dall’esigenza di un con­ti­nuo ade­gua­mento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere con­ti­nua­mente ammo­der­nati. È neces­sa­rio allo stesso tempo non solo un migliore adde­stra­mento dei mili­tari, ma un gene­rale ele­va­mento dello «sta­tus del per­so­nale mili­tare», attra­verso ade­gua­menti giu­ri­dici e normativi.

Poi­ché nasce dalla «esi­genza di tute­lare i legit­timi inte­ressi vitali della comu­nità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere con­si­de­rata un tema di inte­resse essen­zial­mente dei mili­tari, quanto della comu­nità tutta». La mini­stra Pinotti invita quindi tutti gli ita­liani a inviare «even­tuali sug­ge­ri­menti» alla casella di posta elet­tro­nica librobianco@​difesa.​it. Spe­riamo che i let­tori del mani­fe­sto lo fac­ciano in tanti.


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L'hangar segreto di Sigonella con i droni spia americani

Alberto Bonanno Alessandro Puglia
29 giugno 2014

SIGONELLA - Maestosi, agili, potenti, sinistri. Minacciosi come un gigantesco insetto alieno, partorito dalla fantasia di uno scrittore di fantascienza. Eccoli i droni americani dell'hangar segreto di Sigonella, dove mai nessuno prima di "Repubblica" è riuscito a portare macchina fotografica e telecamera. Dormono silenti, in attesa della prossima missione di ricognizione nell'area del Nordafrica e del Medio Oriente, le zone in cui questi Global Hawk, gioielli tecnologici prodotti dalla Northrop Grumman, sono destinati a operare.
Inutile cercare sulla loro testa rigonfia gli occhi formati dagli oblò della cabina di pilotaggio. I veri occhi di questi mostri dei cieli sono altri, si trovano sparsi sotto la fusoliera e sotto il muso. E sono occhi ad altissima tecnologia, obiettivi e telecamere capaci di cogliere dettagli del suolo da 20 mila metri di altezza e trasferirli poi su mappe precise al millimetro, da utilizzare per studiare il territorio e per pianificare interventi militari. «Abbiamo diversi aerei con diverse capacità militari », racconta ermetico il comandante della base Us Navy di Sigonella, Christopher Dennis. Che con lo sguardo sembra venerare il mostro dalle ali larghe 35 metri.
Già, perché qui a Sigonella il drone è un cult. Lo si nota dalla scultura sul piedistallo che accoglie i visitatori sul piazzale, che riproduce un drone in volo. Dalle decine di gigantografie che arredano il corridoio che porta all'hangar segreto. Dagli striscioni appesi nell'hangar stesso: "Welcome in the Global Hawk country", mentre un altro celebra il traguardo delle centomila ore di volo dell'aereo senza pilota, che ha debuttato nel febbraio 1998. Si nota dai due militari armati fino ai denti che sorvegliano l'aereo, protetto con teli e coperture in ogni suo punto vulnerabile. Un Global Hawk equipaggiato con le attrezzature fotogrammetriche di base costa oltre 220 milioni di dollari, ma a seconda degli equipaggiamenti il suo costo può quasi raddoppiare. Quanti ce ne siano custoditi sotto questo e gli altri hangar resta un mistero. Di sicuro ci sono almeno cinque Global Hawk. Così come di sicuro da qualche altra parte della base sono custoditi i temibilissimi Predator, i piccoli droni della General Atomics che possono anche viaggiare con un carico di bombe. Ma qui entriamo nella "top secret area".
Intanto la stazione aeronavale di Sigonella non è mai stata così popolata di marines: ce ne sono ottocento. Il gruppo legato al comando Africom si chiama "Special Purpose Air Ground Task Force Crises Response", ed è arrivato a maggio ufficialmente per rafforzare il livello di protezione nelle ambasciate Usa in Nord Africa. Resterà qui senza limite di tempo. Una presenza voluta dal Pentagono con indicazioni precise, spiegato il colonnello Brian T. Koch, comandante del gruppo giunto qui con il suo staff dalla base di Moròn, in Spagna. «Non abbiamo scadenza. Siamo qui a Sigonella su ordine del Pentagono, secondo gli accordi con il governo otaliano, per fronteggiare qualsiasi cosa accada nel Nordfrica, e ovviamente in Libia, considerato che è il luogo a noi più vicino. Per il resto la nostra principale attività rimane l'addestramento dei militari africani». Il termine chiave per capire il loro ruolo è "Crises Response", che in soldoni significa: "Pronti a intervenire qualsiasi cosa accada". Dalla missione in Libia per proteggere il personale Usa a quella più sofisticata in Nigeria per rintracciare le liceali rapite da Boko Haram: «Non abbiamo avuto nessuna indicazione sulla Nigeria, ma ovviamente se venissimo coinvolti saremo pronti anche a quest'altra missione», ammette Koch.
I marines ci tengono a non fare la parte degli "invasori". Si impegnano in prima persona per spegnere gli incendi che in questi giorni hanno devastato la Sicilia. Dedicano intere giornate a ripulire siti archeologici, coste e spiagge dell'Isola, da Brucoli a Termini Imerese. Rapporti di buon vicinato che nessuno smentisce. Neppure il contadino che davanti all'ingresso della base ha costruito un giaciglio con copertoni e resti di biciclette: mai nessuno si è sognato di scacciarlo. A due passi dall'avamposto Usa forse si sente al sicuro.


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LIMITIAMO I DANNI E RINUNCIAMO ORA ALL’F-35

di Gianandrea Gaiani
6 luglio 2014, pubblicato in Editoriale

L’ennesimo blocco alla flotta di F-35 è stato accolto in Italia da polemiche da parte degli oppositori ideologici del velivolo (Sinistra e pacifisti) e con un evidente tentativo di ridimensionare il problema da parte dei numerosi fans del programma. Abbiamo dovuto sorbirci ancora una volta filippiche contro la spesa militare e, dall’altra parte, i rinnovati appelli a non buttare i soldi già spesi nel programma, a salvaguardare le future “capacità” delle nostre forze aeree e soprattutto (tema di facile presa in momenti di crisi economica) a tutelare i posti di lavoro italiani connessi con la partecipazione del nostro Paese al programma.
Come le inchieste di Analisi Difesa hanno dimostrato in questi ultimi anni, si tratta per lo più di aria fritta. Se l’F-35 diverrà davvero operativo e manterrà le promesse circa caratteristiche e prestazioni, le capacità di cui tanto si parla saranno quelle di mettere le nostre forze armate per i prossini 50 anni in condizione di totale sudditanza e dipendenza dagli Stati Uniti. Una superpotenza che mai come oggi opera su scala globale contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa come è apparso chiaro negli ultimi anni a chiunque non sia cieco o in mala fede guardando al ruolo di Washington dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iraq.
Se all’acquisizione degli F-35 aggiungiamo poi la volontà della Marina Marina di equipaggiare i nuovi “pattugliatori d’altura” (ma non sarebbe meglio chiamarli con il più realistico anche se meno “dual use” termine di cacciatorpediniere?) con il sistema antimissile americano Aegis (radar SPY-1 e missili Standard) il tentativo di far diventare le nostre forze armate una succursale di quelle statunitensi è evidente.  Ovviamente i costi li paghiamo noi mentre gli americani incasseranno le commesse di prodotti “made in Usa” e risparmieranno i in termini di dispiegamento di forze oltremare. Come abbiamo più volte ribadito gli interessi  italiani, strategici e industriali, si tutelano completando la commessa degli Eurofighter Typhoon che sono perfettamente in grado di compiere operazioni di attacco come ben sanno tutte le aeronautiche che lo impiegano tranne la nostra, che finge di non saperlo e dice di considerarlo  solo un caccia ma poi gli imbarcherà sopra il missile da crociera Storm Shadow, arma strategica per l’attacco a lungo raggio contro obiettivi terrestri che non entra nella stiva dell’F-35 progettata (ma guarda un po’)  per imbarcare solo armi americane.
Ma a chi dobbiamo fare la guerra?  Pensiamo di effettuare un first strike nucleare su Mosca o Pechino? Di attaccare basi aliene?  Perché se questi obiettivo non sono compresi nelle opzioni strategiche italiane tutte le altre missioni di attacco aereo a obiettivi terrestri possiamo tranquillamente effettuarle col Typhoon e con una forza aerea composta da 120 velivoli di questo tipo (la Germania con finanze ben più consistenti avrà una forza aerea di 160 Typhoon, forse meno).
Certo il Typhoon non è invisibile ed utilizza tecnologie meno spinte e futuristiche dell’F-35 che però potrebbe rivelarsi un flop anche se a Washington si farà di tutto per salvare il programma militare più costoso della storia pur in presenza di un dibattito certo più ricco e concreto rispetto a quello apertosi in Italia.
Al di là delle cause del recente incendio sulla base di Eglin ci sono infatti molti dubbi circa il fatto che il jet di Lockheed Martin risulterà così “stealth” come si dice. O che disporrà di un motore affidabile dopo che Barack Obama  nel 2012 cancellò lo sviluppo di un propulsore alternativo (sviluppato anche dall’italiana Avio) e forse migliore di quello di Pratt & Whitney. Di sicuro la concorrenza avrebbe ridotto i costi pari oggi a 29 milioni di dollari a esemplare. Problemi a cui aggiungere ritardi e difficoltà nello sviluppo del sistema di combattimento che stanno inficiando le prestazioni e l’operatività del velivolo confermando il fallimento dell’iniziativa mai tentata prima d’ora di iniizuare a produrre il velivolo prima di averne completato lo sviluppo.
I problemi al motore dovrebbero preoccupare soprattutto la Us Navy che con l’F-35 (aereo joint comune a Navy, Marunes e Air Firce pur se con diverse versioni) è costretta a rinunciare a imbarcare jet bimotori (lo erano tutti quelli impiegati negli ultimi decenni) affidandosi a un monomotore che potrebbe far registrare non poche perdite a causa di guasti  negli spazi oceanici dove operano le portaerei.
Restando in Italia basta invece dare un’occhiata ai bilancio della Difesa dei prossimi anni per rendersi conto che l’F-35 non possiamo permettercelo.
A Roma si riempiono la bocca con le “Linee guida” del  Libro Bianco ma è tutto fumo perché non ci sono e non ci saranno risorse per mantenere l’attuale struttura militare già alla paralisi, figuriamoci se potremmo permetterci qualcosa di meglio o forze aeree basate su due macchine da combattimento costose come il Typhoon e l’F-35. Basta leggere la tabella riportata nel Documento Programmatico Pluriennale del Ministero della Difesa (che sarà oggetto di un prossimo approfondimento) per rendersi conto che nei prossimi anni i fondi per la Funzione Difesa scenderanno sotto i 14 miliardi annui.
La percentuale del PIL dedicata alla Difesa calerà dall’attuale 0,87 allo 0,80 nel 2016 e ben difficilmente il governo Renzi dedicherà la necessaria attenzione alle forze armate, forse considerate utili per i buonismi da Mare Nostrum ma non percepite come strumento per la tutela degli interessi nazionali dall’approccio da boy-scout che caratterizza l’attuale esecutivo.
Ricordate le tante belle chiacchiere sulla riforma Di Paola e i “miracoli” derivanti dalla riduzione del personale da 183 mila a 150 mila effettivi? Un’iniziativa definita necessaria a liberare risorse per Esercizio e Investimenti migliorando l’efficienza delle forze armate.
Ebbene, le spese per il Personale aumenteranno da 9,55 miliardi di quest’anno a 9,78 negli anni 2015 e 2016 raggiungendo il 70 per cento dello stanziamento per la Funzione Difesa. Se poi si tiene conto che l’aumento di questa voce di spesa risulta contenuto dal pagamento con ritardi biblici di ogni forma di straodinario e indennità d’impiego e soprattutto dal blocco degli stipendi dei militari e di quasi tutti i pubblici dipendenti in atto ormai da quattro anni appare chiaro come ogni ipotesi di riformare lo strumento militare con le risorse oggi disponibili risulti del tutto inattendibile.
Dovremmo rassegnarci all’idea che la Difesa si inginocchi agli ordini del Pentagono, compri 90 (o 65) F-35 ma continui a non adeguare gli stipendi dei militari e a ritardare all’infinito il pagamento di indennità e straordinari?  I fondi per l’Esercizio (cioè l’addestramento e la gestione di strutture ed equipaggiamenti), che costituiscono la nota più dolente, scenderanno da 1,34 miliardi di quest’anno a 1,25 nel 2016. Previste riduzioni anche per ai fondi per acquisire nuovi mezzi che scenderanno da 3,22 a 2,86 miliardi annui. Fondi  che peraltro potrebbero venire ulteriormente decurtati nelle prossime Leggi Finanziarie o con provvedimenti improvvisi di austerity.
Forze armate che hanno budget tripli ai nostri, come quelle di Germania e Francia, configurano le flotte di aerei da combattimento su un solo velivolo (Typhoon e Rafale) e noi italiani vogliamo averne due? Come Analisi Difesa ha più volte ribadito se anche riuscissimo a comprare un numero deguato di F-35  non avremo i soldi per fare il pieno di carburante e per la manutenzione che sarà molto più costosa di quanto previsto inizialmente. Il governo spagnolo ha appena respinto con realismo l’ipotesi di acquistare una ventina di  F-35 B per rimpiazzare gli Harrier imbarcati che verranno aggiornati per prolungarne la vita utile. Una strada che dovrebbe forse percorrere anche la nostra Marina per gestire meglio le magre risorse e perché  l’AV-8B  ammodernato sarà ancora a lungo sufficiente a colpire con efficacia ogni nostro potenziale nemico.
Il Programma F-35 non è quindi un bon affare per noi sotto nessun punto di vista: azzera la sovranità nazionale, pone la nostra industria alle dipendenze di Lockheed Martin e azzoppa definitivamente le forze aeree con un velivolo che non riusciremo a gestire. Sul piano dei ritorni industriali la situazione non è migliore: produrremo poche ali (l’unico contratto firmato finora da Alenia Aermacchi riguarda una ventina di ali per 140 milioni di dollari contro le 1.200 ali promesse)  e qualche “bullone” realizzato da una quarantina di piccole e medie imprese. Nulla di sofisticato e non avremo ritorni nel campo del know-how dal momento che le tecnologie avanzate del velivolo verranno trattare solo da personale statunitense in aree “US Only” (ma pagate dai contribuenti italiani)  dello stabilimento di Cameri.  Persino il numero di aerei che verranno assemblati alla FACO è talmente ridotto  da rendere lo stabilimento improduttivo: l’Italia scenderà da 131 esemplari a 90 o ancor meno e l’Olanda è già scesa da 85 a 37 la cui manutenzione verrà forse effettuata in Gran Bretagna.  
La decisione del governo italiano diprendere tempo per valutare l’entità della commessa di velivoli non potrà che peggiorare tale situazione e benché il Pentagono, i fans italici dell’F-35 e Lockheed Martin continuino a riferire di oltre 6 mila “nuovi” posti di lavoro e più di 15 miliardi di commesse nei prossimi 20 anni all’industria nazionale la situazione reale risulta ben diversa.
A far chiarezza sui numeri ha provveduto il segretario generale della Cisl Piemonte Orientale, Luca Caretti, che preoccupandosi del possibile impatto sulle attività produttiuve di Cameri dello stop ai voli decretarto dal Pentagono,  ha riferito di poco più 200 persone impiegate alla FACO : un’ottantina sono giovani diplomati del territorio novarese e altri 130 sono stati trasferiti dallo stabilimento Alenia di Caselle Torinese. Questi ultimi non costituiscono “nuovi” posti di lavoro ma sono maestranze dirottate dal programma Eurofighter Typhoon ridimensionato già dall’ultimo governo Berlusconi rinunciando all’ultima Tranche di 25 velivoli (i più avanzati).
Da quanto afferma Caretti lo lo stabilimento di Cameri costato agli italiani 814 milioni di euro ha prodotto finora 80 nuovi lavoratori più altrettanti tecnici statunitensi di Lockheed Martin e le prospettive, col basso numero di velivoli da assemblare, non sono certo incoraggianti. Meglio allora limitare i danni ai circa 4 miliardi spesi dall’Italia negli ultimi 15 anni e uscire ora dal programma F-35.
Rivendiamo agli Stati Uniti o ad altri Paesi gli aerei già acquisiti, trattiamo con Lockheed Martin la vendita o l’affitto della FACO per la manutenzione dei jet delle forze americane in Europa o di altri Paesi alleati. Anche indennizzando le piccole e medie imprese italiane già coinvolte nel programma e completando la commessa del Typhoon ad Alenia Aermacchi otterremmo un forte risparmio, guadagneremmo in autonomia strategica e industriale e potremmo rilanciare quella cooperazione europea di cui da anni tutti i politici vanno blaterando. E poi, quale migliore occasione del semestre di presidenza dell’Unione Europea per annunciare l’uscita dell’Italia dal programma americano più costoso e (per ora) fallimentare della storia?

GIANANDREA GAIANI
Giornalista nato nel 1963 a Bologna, dove si è laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 ha collaborato con numerose testate occupandosi di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportages dai teatri di guerra. Attualmente collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio, Libero, Il Corriere del Ticino e con il settimanale Panorama sul sito del quale cura il blog “War Games”. Dal febbraio 2000 è direttore responsabile di Analisi Difesa. Ha scritto Iraq Afghanistan - Guerre di pace italiane.
www.presseurop.eu/en/content/author/269701-gianandrea-gaiani