(fonte: mailing-list del Comitato NO NATO - vedi anche:
Sul volume "Se dici guerra" – Kappa Vu, aprile 2014 – vedi anche:
M. Dinucci è anche membro del Comitato Scientifico del Coord. Naz. per la Jugoslavia - onlus


Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 4

Manlio Dinucci


Le armi nucleari Usa/Nato in Europa
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima). 
Altri aspetti, emersi da una audizione della sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche, gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché «l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa. 
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti lo violano perché si sono impegnati a «
non trasferire a chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi». 

Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo «vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente Obama?  Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel 2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel Mare del Nord e nel Mar Baltico. 
Gli Usa e gli alleati Nato accrescono nel corso degli anni la pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa decidono di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe annuncia che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey, lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16 missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori. 
Su questo e altro i media europei, in particolare quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così, prima che esploda la crisi ucraina, la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno pericoloso di quello della guerra fredda. 
 
Il colpo di stato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani. 
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo. 
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato. 
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. 
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato. 
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti»  cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda, divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda. 
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014 al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale –  sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
 
(4 – continua)


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Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5

Manlio Dinucci


Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità. 

Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.

Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples  è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto (come già detto) uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica. 

Il Jfc Naples (come già detto) è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs». 
 
Quanto ci costa la Nato
L’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. 
La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles, il cui costo, previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. 

Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia. 

L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. 
Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (all’undicesimo posto su scala mondiale) ammonta in media a 72 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a circa 100 milioni al giorno. 

Agli oltre 
1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza. 

Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.

Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). 
Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate. 
 
Il riposizionamento militare Usa in Europa
«Gli Stati uniti ridimensionano le forze militari in Europa e sotto la scure dei risparmi cade anche la base di Camp Darby», titola un giornale toscano, precisando che «mezzo Camp Darby tornerà all’Italia». Un vero e proprio bluff: l’area che verrà restituita dal Pentagono nell’arco di 5 anni è in reatlà quantificata in 5-6 ettari su un totale di oltre 800. 

In realtà, quella annunciata dal Pentagono non è una riduzione ma un riposizionamento delle forze militari Usa, così da «massimizzare le nostre capacità militari in Europa e rafforzare le nostre importanti partnership europee, sostenendo nel miglior modo i nostri alleati Nato e partner nella regione». Risparmiando allo stesso tempo, secondo i calcoli di Washington, circa 500 milioni di dollari annui. 

In tale quadro si inserisce Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni. Nei suoi 125 bunker e in altri depositi vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partire le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quelle contro la Iugoslavia e la Libia.

Il collegamento di Camp Darby col porto di Livorno è stato potenziato dai lavori effettuati dagli enti locali (a guida Pd) sul Canale dei navicelli, allo scopo dichiarato di dare impulso ai cantieri che fabbricano yacht (in realtà in crisi e in attesa di qualche compratore straniero). Il vero scopo emerge da uno studio della Provincia di Livorno: «
Il Canale dei navicelli riveste una notevole importanza strategica militare, per il fatto di attraversare la base militare di Camp Darby, costituendo una componente determinante per i traffici della base». Per di più nel limitrofo interporto di Guasticce, sullo Scolmatore dove sono in corso lavori per accrescerne la navigabilità, si può creare un indotto per lo stoccaggio di materiali logistici di Camp Darby. In tal modo si può liberare, nella base, spazio da destinare agli armamenti. Per di più, la limitata area che il comando Usa dovrebbe «restituire all’Italia» nei prossimi anni andrà al Ministero della difesa, che la potrà destinare a funzioni di supporto di Camp Darby e alla proiezione di forze: l’aeroporto militare di Pisa è stato trasformato in Hub aereo nazionale da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici, e sempre a Pisa si è appena costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito.

Il «ridimensionamento» di Camp Darby è comunque compensato dal potenziamento della base Usa di Aviano. Qui, annuncia il Pentagono, sarà trasferito dalla base aerea di Spangladem (Germania) il 606th Air Control Squadron, addetto (con un personale di 200 militari) al comando, controllo e  rifornimento di grandi operazioni di guerra aerea. Il suo spostamento ad Aviano conferma il ruolo «privilegiato» dell’Italia quale base della proiezione di forze Usa/Nato nell’area mediterranea, mediorientale e africana. Ruolo destinato a crescere poiché, annuncia il Pentagono, «la U.S. Air Force dislocherà permanentemente suoi caccia F-35 in Europa», a cominciare dalla base britannica di Lakenheath, e quindi anche in Italia.

Il riposizionamento di forze e basi, sottolinea il Pentagono, non indebolisce ma rafforza la presenza militare Usa in Europa. Esso permette di «potenziare la presenza a rotazione di forze Usa in Europa per esercitazioni e altre attività Nato; migliorare le infrastrutture per una accresciuta presenza militare Usa e alleata nell’Europa orientale; permettere agli Usa di accrescere la capacità dei nuovi alleati, come Ucraina, Georgia e Moldavia». In tal modo, partendo dall’Europa, gli Usa e gli alleati Nato saranno in grado di «rispondere rapidamente alle crisi su scala planetaria». Ossia di scatenare guerre ovunque nel mondo siano ostacolati i loro interessi.
 
(5 – fine)