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La vigilia della guerra

Come gli Usa hanno operato, attraverso la Cia, per trascinare l'Italia
nell'agressione contro la Jugoslavia

di Domenico Gallo

La sera del 24 marzo 1999, quando si sono levati in volo i
bombardieri della Nato e sono partiti i primi missili Cruise dalle navi

militari americane schierate nell’Adriatico, si è consumato un evento
che ha segnato una drammatica rottura dell’ordine internazionale, come
delineato dalla Carta delle Nazioni Unite. Un gruppo di potenze, unite
sotto la “leadership” degli Stati Uniti, attraverso una avventura
bellica,
ha aperto una nuova avventura nelle relazioni internazionali,
rivendicando, manu militari, il “diritto” della cosiddetta ingerenza
umanitaria. In realtà il diritto di regolare unilateralmente le
situazioni
di crisi internazionale attraverso la coercizione fondata sulla
geometrica potenza delle armi occidentali.
Quando il pomeriggio del 24 marzo il Parlamento italiano è stato
informato dal Governo che l’azione della Nato era iniziata, i
bombardieri erano già in volo, la macchina da guerra si era messa in
moto secondo un progetto predisposto e reso operativo da tempo, e la
politica non avrebbe potuto fare niente per arrestarla: ormai si era
consumato un evento (anche politicamente) irreversibile.
In quel frangente, nessuna forza di maggioranza o di opposizione
contraria alla guerra, nessun sindacato, nessuna mobilitazione
popolare, nessuno sciopero generale (che non c’è stato), avrebbe
potuto fermare i bombardieri in volo ed impedire che oltrepassassero
quella soglia, destinata a produrre quegli eventi disastrosi per il
Kosovo e la Serbia che si sono sviluppati come vicende ineluttabili.
Se il 24 marzo la macchina bellica della Nato non poteva più essere
arrestata dalla politica, allora v’è da chiedersi quando è maturata
questa irreparabilità, quando e da chi sono stati fatti i passi, sono
state
compiute le scelte politiche che hanno reso, prima, il ricorso alla
guerra possibile e, poi, ineluttabile?
Sebbene, a quella data, ormai irreversibile, l’evento della guerra è
stato frutto di un processo politico il cui esito, per niente scontato,
è
stato costruito tenacemente, dai soggetti interessati, giorno per
giorno,
manovrando diversi tasselli sullo scacchiere internazionale, compreso
quello della crisi di governo in Italia e del rimpasto del governo in
Germania con l’allontanamento di La Fontaine.
Se tutti noi conosciamo la data di inizio della guerra e possiamo
collocarla in uno spazio temporale e in una dimensione politica,
altrettanto non può dirsi per la vigilia della guerra.
Crista Wolf in Cassandra ricostruisce il passaggio della società di
Troia da uno stato di pace ad uno stato di guerra ed il conseguente
degrado delle istituzioni, della politica, del linguaggio di fronte
all’avanzata dell’immagine del nemico e si pone appassionatamente
questa domanda: quando è iniziata la vigilia della guerra?
Parafrasando Crista Wolf vogliamo chiederci anche noi: quando è
iniziata la vigilia della guerra del Kosovo? Dove, e quando, e da chi,
sono state fatte le scelte politiche che hanno spianato la strada alle
armi e che hanno fatto fallire ogni tentativo di soluzione politica del

conflitto, a cui tanto la Jugoslavia, quanto la leadership albanese non

UCK, erano seriamente interessate?
Orbene, per quanto si tratti di un processo politico, nel quale gli
avvenimenti sono concatenati fra di loro, un punto di svolta c’è ed è
possibile risalire ad esso.
È la decisione assunta dal Consiglio dei Ministri del Governo Prodi,
dopo la sfiducia, (votata dalla Camera il 9 ottobre), qualche ora prima

di fare le valigie e di sloggiare da Palazzo Chigi, relativa adesione
dell’Italia all’activation order.
Un comunicato di Palazzo Chigi del 12 ottobre 1998 informa che il
Consiglio dei Ministri ha deciso di autorizzare il rappresentante
permanente dell’Italia presso il Consiglio Atlantico ad aderire al c.d.

Activation order. “ Di conseguenza – recita il comunicato – l’Italia
metterà a disposizione le proprie basi qualora risulterà necessario
l’intervento militare da parte dell’Alleanza atlantica per fronteggiare

la crisi del Kosovo…Nell’attuale situazione costituzionale – conclude
il comunicato - il contributo delle forze armate italiane sarà limitato

alle attività di difesa integrata del territorio nazionale. Ogni
eventuale
ulteriore impiego delle Forze armate italiane dovrà essere autorizzato
dal Parlamento.”
Il giorno successivo, il 13 ottobre, il Segretario Generale della Nato,

Solana, emana l’activation order e conferisce al Comandante militare
(SACEUR), generale Clark, il potere di ordinare attacchi armati contro
la Repubblica federale Jugoslava. È il 13 ottobre del 1998 che la
macchina da guerra della Nato accende (non solo in senso simbolico) i
suoi motori. Non li spegnerà più, malgrado l’accordo fra Milosevic ed
Hoolbroke del 14 ottobre, ed il conseguente dispiegamento dell’OSCE
nel Kosovo e malgrado i negoziati intavolati a Rambouillet. Inizia così

la vigilia della guerra.
Come e attraverso quali percorsi politici si è arrivati a questa
svolta?
Il retroterra è costituito dal conflitto nato dalla dissoluzione della
ex
Jugoslavia, ed in particolare dalla guerra nella Bosnia e dal nuovo
ruolo strategico militare che gli Stati Uniti hanno concepito per la
Nato
dopo la fine della guerra fredda e che è stato ufficialmente proclamato

a Washington il 24 aprile, proprio mentre veniva sperimentato in vivo.
Pochi ricordano che nell’estate del 1993, durante una delle fasi più
oscure del conflitto in Bosnia si verificò un durissimo braccio di
ferro
fra la Nato (che minacciava di intervenire in Bosnia con
bombardamenti contro le forze serbo-bosniache) e l’Unprofor (i caschi
blu dell’Onu) che si opponeva con tutte le sue forze.
Il braccio di ferro si concluse con la stipula di un memorandum
d’intesa, siglato nell’agosto dall’ammiraglio americano Jeremy Borda
(Comandante delle operazioni Nato) e dal generale francese Jean Cot
(Comandante delle forze Unprofor) con quale fu stabilito il principio
che la Nato non poteva bombardare senza il consenso della missione
dell’Onu, sebbene astrattamente autorizzata all’intervento dalle
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che avevano stabilito alcune
misure interdittive della guerra e coercitive per i belligeranti. E
quando la Nato finalmente intervenne nella fase finale della guerra in
Bosnia, nella notte fra il 29 ed il 30 agosto del 1995, ciò accadde
soltanto per effetto di una legittima (ma inopportuna) richiesta di
intervento dell’Onu, che faceva seguito allo sconcerto ed
all’indignazione provocata dalla strage del mercato di Sarajevo
occorsa il giorno precedente (28 agosto).
Furono proprio le vicende della guerra di Bosnia e la possibilità – e
per un limitato verso anche l’esigenza – che la Nato giocasse un ruolo
nel contesto delle garanzie della sicurezza internazionale a far si che

venisse messa a punto nell’ambito della Nato una strategia operativa
di intervento per la gestione delle crisi, includendovi dentro tanto le

tradizionali (per l’Onu) missioni di peacekeeping (mantenimento della
pace), quanto le missioni di peacebuilding (ricostruzione della pace),
di cui la missione militare dispiegata in Bosnia, a seguito degli
accordi di Dayton costituisce un esempio classico, che le missioni di
peaceenforcing (per esempio, sorveglianza degli embarghi delle armi)
e le missioni di peacemaking (costruire la pace attraverso un vero e
proprio intervento bellico). In questo contesto, per la decisa
posizione
assunta dall’Italia, durante il Governo Dini, fu stabilito che la Nato
non aveva legittimità a ricorrere a misure comportanti l’uso della
forza
senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come
del resto prevede la Carta delle Nazioni Unite. Addirittura in questo
periodo il ministro degli esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli,
diede platealmente uno schiaffo agli Stati Uniti, vietando – per
qualche
tempo – che fossero dislocati ad Aviano i cacciabombardieri invisibili
Stealth, (che saranno i principali protagonisti della guerra del 99),
fino
a quando l’Italia non fu inclusa nel Gruppo di contatto, da cui
l’amministrazione americana voleva tenerla fuori. Questa posizione
assunta dal Governo Dini fu ereditata dal Governo Prodi e lo stesso
Dini, come ministro degli esteri la mantenne in piedi, come posizione
ufficiale della Farnesina, in dichiarazioni pubbliche e comunicati
stampa, fino al settembre del 1998.
Nel frattempo la crisi della convivenza interetnica fra serbi ed
albanesi nel Kosovo si aggravò in quanto qualcuno decise di soffiare
sul fuoco del conflitto armato, appoggiando una banda armata (l’Uck)
che aveva avuto oscure origini e che fino a quel momento non aveva
giocato un ruolo effettivo.
È il 1° marzo 1998 la data che segnò l’inizio della guerriglia
dell’Uck,
con l’uccisione di due poliziotti serbi a Drenica, a cui fece seguito
una
reazione inconsulta che provocò la morte di venti albanesi. Nella
primavera del 1998 si accesero i fuochi di sporadiche azioni di
guerriglia a cui fecero seguito drastiche azioni di repressione.
A questo punto la Nato, sotto la spinta dell’amministrazione
americana, decise di intervenire “politicamente” nel conflitto
lanciando, con un comunicato del Consiglio atlantico del 28 maggio,
un duro monito a Belgrado, in cui lasciava intravedere la possibilità
di
un intervento militare. Questa posizione, in realtà, più che favorire
un
self restraint da parte dell’apparato militare jugoslavo, non poteva
che
incoraggiare l’Uck sulla strada della guerriglia che, seppure perdente
sul terreno, in prospettiva diventava vincente, potendo giocare un
ruolo di detonatore per l’intervento militare occidentale. I furiosi
combattimenti che ne sono seguiti durante l’estate del 98 e la
durissima
repressione scatenata dalle forze di sicurezza serbe (peraltro
ingigantita dalla stampa internazionale con la fabbricazione di notizie

false) hanno sollecitato lo sdegno dell’opinione pubblica
internazionale, creando l’humus politico favorevole per l’intervento
della Nato. C’era, però, un problema da risolvere.
La carta delle Nazioni Unite non consente che gruppi di Stati possano
ricorrere all’uso della forza per regolare le crisi internazionali e,
conseguentemente, la Nato non aveva alcuna legittimità per effettuare
un intervento militare per regolare la crisi del Kosovo, aggredendo una

delle parti in conflitto ed alleandosi con l’altra.
Nel corso della primavera, dell’estate e del mese di settembre del
1998 si sviluppò un dibattito sulla possibilità che la Nato
intervenisse
militarmente nel Kosovo, anche in assenza di una formale
autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Tale dibattito
nascondeva un conflitto politico durissimo fra Stati Uniti e Gran
Bretagna (che sostenevano la tesi della legittimità del ricorso alla
forza) e l’Italia che continuava ad opporsi. Tale posizione, peraltro,
non era affatto scontata all’interno del Governo italiano, in quanto il

Ministro della difesa Beniamino Andreatta, propugnava l’allineamento
totale dell’Italia alle esigenze degli Stati Uniti, secondo la
tradizionale
politica di “fedeltà atlantica”, tuttavia gli equilibri politici di
maggioranza escludevano che il Governo Prodi potesse assumere una
posizione differente senza rischiare una crisi.
È sorta a questo punto per l’Alleato americano l’esigenza di provocare
un mutamento di Governo in Italia per ottenere una maggioranza più
omogenea alle esigenze belliche della Nato. Poiché non si poteva
correre il rischio di nuove elezioni, il cui esito non sarebbe stato
prevedibile, è sorta l’esigenza di trovare una maggioranza di ricambio
che potesse fare accrescere il tasso di “fedeltà atlantica”
dell’Italia,
sostituendo Rifondazione comunista con forze più omogenee alla Nato.
A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali della
Cia
nel sistema politico italiano, l’ex Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. Cossiga, fino all’inizio del
1998, aveva svolto un ruolo di tutore del centro destra e sembrava che
volesse contendere a Berlusconi la leadership della destra. Nella
primavera del 1998 Cossiga ha fatto un revirement e, utilizzando la sua

influenza politica occulta ma reale sul sistema politico italiano, è
riuscito a staccare una frazione di deputati e senatori dal centro
destra,
fondando l’Udeur, con il dichiarato scopo di far nascere una nuova
maggioranza politica che sostituisse quella basata sull’alleanza
dell’Ulivo più Rifondazione e guidata da Prodi.
Quasi tutti hanno commentato l’operazione Udeur guidata da Cossiga
come una manifestazione del peggiore costume trasformistico italiano.
Ed invece tale operazione, che si avvaleva si della tendenza al
trasformismo esistente nel sistema politico italiano, aveva uno
specifico significato ed un preciso obiettivo di natura internazionale:

quello di provocare un mutamento della posizione internazionale
dell’Italia e di ottenere la legittimazione della Nato al ricorso alla
guerra, come strumento della politica di potenza americana.
Operazione perfettamente riuscita.
Perso il condizionamento di Rifondazione comunista, indeboliti i
Verdi, indebolita la posizione autonomistica di Dini, il 12 ottobre
1998 il Governo Prodi, sebbene sfiduciato, ha compiuto l’atto
politicamente più rilevante dalla sua nascita, e più gravido di
conseguenze per il futuro, accettando l’adesione dell’Italia
all’activation order.
In sede politica la svolta dell’Italia sulla liceità del ricorso
all’uso
della forza da parte della Nato era stata propugnata dall’allora
segretario del partito dei DS - l’on. D’Alema - e dal sottosegretario
alla Difesa, Brutti, i quali si erano affrettati a dichiarare che la
concessione dell’uso delle basi italiane (nella imminente guerra contro

la Jugoslavia) costituiva un “atto dovuto” ed un effetto “automatico”
della partecipazione italiana alla Nato.
Era ormai alle porte un Governo D’Alema, con la benedizione di
Cossiga e con l’uomo giusto, Carlo Scognamillo, al posto giusto, il
Ministero della Difesa.
Sul Foglio del 4 ottobre 2000 proprio Carlo Scognamillo,
polemizzando con James Rubin, l’ex portavoce di Madeleine Albright,
si lascia sfuggire: A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto
cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politici-militari

che si delineavano in Kosovo…Prodi ad ottobre aveva espresso una
disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la
presenza
di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe mai potuto
impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io
ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema In che
cosa consisteva questo accordo? Due parti. La prima era il rispetto
dell’impegno per l’euro... la seconda era il vincolo di lealtà alla
Nato:
l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe
deciso di fare. Questo è esattamente ciò che l’Italia ha fatto. Adesso
che la missione è compiuta Cossiga può rientrare nel centro destra.
D’Alema è già tornato a casa.

(Tratto da: L'ERNESTO, ottobre 2000)

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