Attualità del colonialismo

1) Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre età di una dominazione (S. Bouamama)
2) Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione” (#politicanuova, maggio 2016)


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www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo - 30-05-16 - n. 591

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre età di una dominazione

Saïd Bouamama | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/05/2016

Iraq, Libia, Sudan, Somalia, etc., la lista di nazioni che sono andate a pezzi dopo un intervento militare statunitense e/o europeo non cessa di aumentare. Sembra che al colonialismo diretto di una "prima età" del capitalismo e al neocolonialismo di una "seconda età", succeda adesso la "terza età" della balcanizzazione. Parallelamente si può constatare una mutazione delle forme del razzismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il razzismo culturale prese il posto di quello biologico e da diversi decenni il primo tende a presentarsi a livello religioso, sotto la forma attualmente dominante dell'islamofobia. A nostro parere, siamo in presenza di tre storicità strettamente vincolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.

Ritorno a Cristoforo Colombo

La visione dominante dell'eurocentrismo spiega l'emergere e la successiva estensione del capitalismo a partire da fattori interni delle società europee. Da qui deriva la famosa tesi che alcune società (alcune culture, religioni, etc.) siano dotate di una storicità, mentre altre ne siano carenti. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 che "il dramma dell'Africa è che l'uomo africano non è entrato sufficientemente nella storia" (1) non fa altro che riprendere un tema frequente delle ideologie di giustificazione della schiavitù e della colonizzazione:

"La "destoricizzazione" svolge un ruolo decisivo nella strategia di colonizzazione. Legittima la presenza di colonizzatori e certifica l'inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali e poi le "scienze coloniali" imposero una postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l'Europa è "storica" mentre è "l'astoricità" che caratterizza le società coloniali definite come tradizionali e immobili. […] Mossa dai suoi valori intellettuali e spirituali, l'Europa svolge attraverso la missione coloniale una missione storica, facendo entrare nella Storia i popoli che ne sono privi o che sono rimasti fermi ad uno stadio dell'evoluzione storica superato dagli europei (stato di natura, medio evo, ecc.)" (2)

Sia l'antichità di questa lettura essenzialista ed eurocentrica della storia del mondo che la sua ricorrenza (al di là delle diverse forme in cui si presenta) mettono in evidenza la sua funzione politica e sociale: la negazione delle interazioni. Da quando Cristoforo Colombo ordinò ai suoi soldati di sbarcare, la storia mondiale si è convertita in una storia unica, globale, collegata, mondializzata. La povertà degli uni non si può più spiegare senza interrogarsi sui nessi di causalità con la ricchezza degli altri. Lo sviluppo economico degli uni è indissociabile dal sottosviluppo degli altri. Il progresso dei diritti sociali qui è possibile solo per mezzo della negazione dei diritti lì.

L'invisibilità delle interazioni richiede una mobilitazione dell'istanza ideologica per formalizzare alcuni schemi esplicativi gerarchizzanti. Questi schemi costituiscono il "razzismo", sia nelle sue costanti che nelle mutazioni. C'è invariabilità perché tutti i volti del razzismo, da quello biologico all'islamofobia, hanno un risultato comune: la gerarchizzazione dell'umanità. C'è anche mutazione perché ogni volto del razzismo corrisponde a uno stadio del sistema economico di depredazione e a uno stadio dei rapporti di forza politici. Al capitalismo monopolista corrisponderà la schiavitù e la colonizzazione come forma di dominazione politica, e il biologismo come forma di razzismo. Al capitalismo monopolista globalizzato e senile corrisponderà la balcanizzazione e il caos come forma di dominazione, e l'islamofobia (in attesa di altre versioni per altre religioni del Sud in funzione dei paesi da balcanizzare) come forma di razzismo.

Tempo fa, nella sua analisi sull'apparizione del neocolonialismo come successore del colonialismo, Mehdi Ben Barka mise in evidenza le relazioni tra l'evoluzione della struttura economica del capitalismo e le forme di dominazione. Analizzando le "indipendenze concesse", le pone in relazione con le mutazioni della struttura economica dei paesi dominanti:

"Questo orientamento [neocoloniale] non è una semplice opzione nel dominio della politica estera. E' l'espressione di un cambiamento profondo nelle strutture del capitalismo occidentale. Dal momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale e grazie all'aiuto [del Piano] Marshall e a una interpenetrazione sempre maggiore con l'economia statunitense, l'Europa occidentale si allontana dalla struttura del XIX secolo per adattarsi al capitalismo statunitense, diventa normale che inizi anche ad adottare le relazioni degli Stati Uniti con il mondo. In una parola, che avesse anch'essa la sua "America Latina". (3)

Per il leader rivoluzionario marocchino ciò che suscita il passaggio del colonialismo al neocolonialismo è in effetti la monopolizzazione del capitalismo. Allo stesso modo, la precocità del processo di monopolizzazione negli Stati Uniti è una delle cause della precocità del neocolonialismo come forma di dominazione in America Latina.

Frantz Fanon, da parte sua, mise in evidenza le relazioni tra la forma della dominazione e le evoluzioni delle forme del razzismo. La resistenza che suscita una forma di dominazione (il colonialismo, ad esempio) obbligano questa a mutare. Tuttavia, questa mutazione richiede il mantenimento della gerarchizzazione dell'umanità e, in conseguenza, chiama una nuova età dell'ideologia razzista. "Questo razzismo", precisa Fanon, "che si vuole razionale, individuale, determinato, genotipico e fenotipico si trasforma in razzismo culturale". Per ciò che si riferisce ai fattori che portano alla mutazione del razzismo, Frantz Fanon menziona la resistenza dei colonizzati, l'esperienza del razzismo, ossia, "l'istituzione di un regime coloniale in piena terra d'Europa" e "l'evoluzione delle tecniche" (4), ossia, le trasformazioni della struttura del capitalismo, come rilevava Ben Barka.

Conseguentemente, senza entrare in un dibattito complesso di una periodizzazione del capitalismo datata con precisione è possibile porre in relazione i tre ordini di fatti che sono le mutazioni della struttura economica, le forme della dominazione politica e le trasformazioni dell'ideologia razzista. Le tre "età" del capitalismo chiamano tre "età" della dominazione, che suscitano tre "età" del razzismo.

L'infanzia del capitalismo

Lo stesso capitalismo come modo di produzione economica, a causa della sua legge del profitto, necessita di una estensione permanente. E' immediatamente in mondializzazione, anche se questa conosce i suoi limiti di sviluppo. Ossia, si tratta dell'ingannevole discorso attuale della globalizzazione, presentata come un fenomeno completamente nuovo, legato ai mutamenti tecnologici. Come mette in evidenza Samir Amin, la nascita del capitalismo e la sua mondializzazione vanno di pari passo:

"Il sistema mondiale non è la forma relativamente recente del capitalismo, risalente solo all'ultimo terzo del XIX secolo, quando si costituisce "l'imperialismo" (nel senso che Lenin diede a questo termine) e la spartizione coloniale del mondo ad esso associata. Al contrario, noi affermiamo che questa dimensione mondiale trova immediatamente la sua espressione, dall'origine, e prosegue come una costante del sistema attraverso le tappe successive del suo sviluppo. Ammettendo che gli elementi essenziali del capitalismo si cristallizzino in Europa a partire dal Rinascimento (la data del 1492, inizio della conquista dell'America, sarebbe la data di nascita simultanea del capitalismo e del sistema mondiale), entrambi i fenomeni sono inseparabili". (5)

In altre parole, sia il saccheggio e la distruzione delle civiltà amerindie che la schiavitù furono le condizioni affinché il modo di produzione capitalistico potesse esser dominante nelle società europee. Non ci fu nascita del capitalismo e successivamente sua estensione, ma un saccheggio e una violenza totali che riunirono le condizioni materiali e finanziarie affinché si installasse il capitalismo. Sottolineiamo inoltre con Eric Williams che la distruzione delle civiltà amerindie si accompagna alla loro schiavizzazione. Così, la schiavitù non è conseguenza del razzismo, ma quest'ultimo è il risultato della schiavitù degli indios. "Nei Caraibi", sottolinea questo autore, "il termine schiavitù si è applicato esclusivamente ai neri. […] Il primo esempio di commercio di schiavi e di manodopera schiavistica nel Nuovo Mondo non riguarda il nero ma l'indio. Gli indios soccombettero rapidamente all'eccesso di lavoro e al cibo insufficiente, morirono di malattie importate dai bianchi". (6)

Quindi la colonizzazione non è che il primo processo di generalizzazione dei rapporti capitalistici al resto del mondo. E' la forma di dominazione politica che infine si è trovata per l'esportazione e l'imposizione di questi rapporti sociali al resto del mondo. Per questo, era necessario distruggere le relazioni sociali indigene e le forme di organizzazione sociale e culturale che avevano generato. L'economista algerino Youcef Djebari dimostrò la grandezza della resistenza delle forme anteriori di organizzazione sociale e l'indispensabile violenza per distruggerle: "In tutti i suoi intenti di annessione e dominazione in Algeria, il capitale francese si trovò di fronte una formazione sociale e economica ostile alla sua penetrazione. Dispiegò tutto un arsenale di metodi per schiacciare e sottomettere le popolazioni autoctone" (7). Per questo la violenza totale è consustanziale alla colonizzazione.

Il razzismo biologico appare per legittimare questa violenza e questa distruzione. Fanon mette in evidenza che il razzismo "entra in un insieme distinto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini sugli altri. […] Per questo l'oppressione militare ed economica prevede quasi sempre il razzismo, lo rende possibile e lo legittima. Bisogna abbandonare il costume di ritenere che il razzismo sia una disposizione dello spirito, una tara psicologica". (8)

Conseguentemente, il razzismo come ideologia di gerarchizzazione dell'umanità che giustifica la violenza e lo sfruttamento non è una caratteristica dell'umanità, ma una prodotto ritracciabile storicamente e geograficamente: l'Europa dell'emergere del capitalismo. Il biologismo come primo volto storico del razzismo conosce la sua età dell'oro nel XIX secolo, insieme all'esplosione industriale da una parte e alla febbre coloniale dall'altra. Il medico e antropologo francese Paul Broca classificò i crani umani con fini comparativi e concluse che "rispetto alla capacità craniale, il negro d'Africa occupa una posizione approssimativamente media tra l'europeo e l'australiano". (9) Di conseguenza, esiste qualcuno inferiore al nero, l'aborigeno, ma uno superiore indiscutibilmente, l'europeo. E siccome tutte le dominazioni richiedono dei processi di legittimazione, se non simili quanto meno convergenti, estende il suo metodo alla differenza di sesso per concludere che "la piccolezza relativa del cervello della donna dipende a sua volta dalla sua inferiorità fisica e dalla sua inferiorità intellettuale". (10)

1. Monopoli, neocolonialismo e culturalismo

Il XX secolo è quello della monopolizzazione del capitalismo. Questo processo si sviluppa a ritmi differenti per ognuna delle potenze. I grandi gruppi industriali dirigono sempre più l'economia e il capitale finanziario diviene preponderante. La relazione fisica e soggettiva tra il proprietario e la proprietà sparisce a beneficio della relazione tra il coupon dell'azione borsistica e l'azionista. Il grande colono proprietario di terre cede il passo all'azionista di miniere. Questa nuova struttura del capitalismo richiede una nuova forma di dominazione politica, il neocolonialismo, che Kwane Nkrumah definisce nel modo seguente: "L'essenza del neocolonialismo è che lo Stato sottomesso ad esso è teoricamente indipendente, possiede tutte le insegne della sovranità sul piano internazionale. Ma in realtà la sua economia e di conseguenza la sua politica sono manipolate dall'estero". (11)

Naturalmente, la presa di coscienza nazionalista e lo sviluppo delle lotte di liberazione nazionale accelerano la transizione di una forma di dominazione politica all'altra. Ma siccome l'obiettivo è mantenere la dominazione, continua ad esser necessario giustificare una gerarchizzazione dell'umanità. La nuova dominazione politica richiede una nuova età del razzismo. Il razzismo culturalista emergerà progressivamente come risposta a questa necessità facendosi dominante nei decenni che vanno dal 1960 al 1980. Adesso non si tratta di gerarchizzare biologicamente, ma culturalmente. L'esperto e il consulente si sostituiscono al colono e al militare. Adesso non si studia "la diseguaglianza dei crani" ma i "freni culturali allo sviluppo". Siccome adesso non si può legittimare su base biologica, la gerarchizzazione dell'essere umano si dispiega in una direzione culturale, attribuendo alle "culture" le stesse caratteristiche che prima determinavano in modo presunto le razze biologiche (immobilità, omogeneità, ecc.).

Sul piano internazionale il nuovo volto del razzismo permette di giustificare il mantenimento di una povertà e di una miseria popolare nonostante le indipendenze e le esperienze di emancipazione che ci sono state. Come si eludono le nuove forme di dipendenza (funzionamento del mercato mondiale, ruolo dell'aiuto internazionale, il franco CFA, ecc.), si trovano come cause esplicative alcuni aspetti culturali che presumibilmente caratterizzano i popoli delle ex colonie: l'etnicismo, il tribalismo, il clanismo, il gusto per le cose sfarzose, spese sontuose, ecc. Si dispiega così tutta una corrente teorica denominata "afro-pessimista". Stéphan Smith considera che "l'Africa non funziona perché continua ad esser "bloccata" da alcuni ostacoli socioculturali che essa sacralizza come i suoi gris-gris [amuleti] identitari" o anche che "il dattilografo, adesso provvisto di un computer, non ha più la fronte macchiata dal nastro della macchina da scrivere a forza di fare la siesta su di essa" (12). Gli fa eco Bernard Lugan, secondo cui la carità, la compassione e la tolleranza e i diritti umani sono estranei alle "relazioni africane ancestrali". (13)

Sul piano nazionale il razzismo culturalista assolve la stessa funzione, ma rispetto alle popolazioni sorte dall'immigrazione. Spiegare culturalmente alcuni fatti che segnalano le diseguaglianze sistemiche di cui sono vittime permette di delegittimare le rivendicazioni e le rivolte che suscitano queste diseguaglianze. Il fallimento scolastico, la delinquenza, il tasso di disoccupazione, le discriminazioni, le rivolte dei quartieri popolari, ecc., adesso non si spiegano per mezzo di alcuni fattori sociali ed economici, ma per mezzo di alcune causalità culturali o identitarie.

2. Capitalismo senile, balcanizzazione e islamofobia

Da quella che è stata chiamata "mondializzazione", il capitalismo si trova di fronte a nuove difficoltà strutturali. L'aumento costante della competizione tra le diverse potenze industriali rende impossibile la minima stabilizzazione. Le crisi si succedono una dietro l'altra senza interruzione. Il sociologo Immanuel Wallerstein considera che:

"Da trent'anni siamo entrati nella fase terminale del capitalismo. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase della successione ininterrotta di cicli congiunturali precedenti è che il capitalismo non riesce adesso a "fare sistema", nel senso che lo intende il fisico e chimico Ilya Prigogine (1917-2013): quando un sistema, biologico, chimico o sociale, si devia troppo e troppo spesso dalla sua situazione di stabilità non ottiene di recuperare l'equilibrio e si assiste allora ad una biforcazione. La situazione si rende allora caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino ad allora". (14)

Non si tratta semplicemente di una crisi di sovrapproduzione. Contrariamente a questa, la recessione non prepara nessuna ripresa. Le crisi si succedono e si incatenano senza ripresa alcuna, le bolle finanziarie si accumulano ed esplodono sempre più regolarmente. Le fluttuazioni sono sempre più caotiche e, pertanto, imprevedibili. La conseguenza di ciò è una ricerca del massimo profitto con qualsiasi mezzo. In questa competizione esacerbata in situazioni di instabilità permanente, il controllo dei flussi di materie prime è una questione più importante che nel passato. Adesso non si tratta solo di aver accesso per sé alle materie prime, ma di impedire che vi accedano i competitori (e in particolare le economie emergenti: Cina, India, Brasile, ecc.).

Minacciati nella loro egemonia, gli USA rispondono attraverso la militarizzazione e le altre potenze la seguono per garantire anch'essi l'interesse delle loro imprese. "Dal 2011", segnala l'economista Philip S. Golub, "gli Stati Uniti hanno intrapreso una fase di militarizzazione e di espansione imperiale che ha alterato profondamente la grammatica della politica mondiale" (15). Dall'Asia Centrale al Golfo Persico, dall'Afghanistan alla Siria passando per l'Iraq, dalla Somalia al Mali le guerre seguono il cammino dei luoghi strategici del petrolio, del gas, dei minerali strategici. Ora non si tratta di dissuadere i competitori e/o avversari ma di realizzare "guerre preventive".

Alla mutazione della base materiale del capitalismo corrisponde una mutazione delle forme della dominazione politica. Il principale obiettivo adesso non è insediare dei governi fantoccio che non possono più resistere in forma duratura alla collera popolare, ma balcanizzare per mezzo della guerra per far sì che questi paesi siano ingovernabili. Dall'Afghanistan alla Somalia, dall'Iraq al Sudan il risultato delle guerre è ovunque lo stesso: la distruzione della base stessa delle nazioni, la decadenza di tutte le infrastrutture che permettono la governabilità, l'installazione del caos. Da adesso si tratta di balcanizzare le nazioni.

Tale dominio ha bisogno di una nuova legittimazione, formulata in base alla teoria dello scontro di civiltà. Questa teoria vuole indurre certi comportamenti di panico e di paura, con l'obiettivo di suscitare una richiesta di protezione e approvazione delle guerre. Dal discorso del terrorismo, che richiede guerre preventive fino alla teoria della grande sostituzione passando per le campagne sull'islamizzazione dei paesi occidentali e sui rifugiati vettori di terrorismo, il risultato atteso è sempre lo stesso: paura, panico, richiesta di sicurezza, legittimazione delle guerre, costruzione del musulmano come nuovo nemico storico. L'islamofobia è, effettivamente, una terza età del razzismo che corrisponde alle mutazioni di un capitalismo senile, ossia, che non può più apportare nulla di positivo all'umanità, ma solo guerra, miseria e la lotta di tutti contro tutti. Non esiste uno scontro di civiltà ma una crisi di civiltà imperialista che esige una vera rottura. Ciò che cercano di evitare con tutti i mezzi non è la fine del mondo, ma la fine del loro mondo.

Note

(1) Nicolas Sarkozy, discorso di Dakar del 26 luglio 2007, http://www.lemonde.fr/afrique/article/2007/11/09/le-discours-de-dakar_976786_3212.html .

(2) Pierre Singaravelou, Des historiens sans histoire? La construction de l'historiographie coloniale en France sous la Troisième République, Actes de la Recherche en Sciences Sociales, n° 185, 2010/5, p. 40.

(3) Mehdi Ben Barka, Option révolutionnaire au Maroc. Ecrits politiques 1957-1965, Syllepse, París, 1999, pp. 229-230. [Mehdi Ben Barka è stato un politico marocchino, combattente per l'indipendenza e più tardi dissidente del regime di Hasan II, cofondatore dei partiti politici Istiqlal e Unione Nazionale delle Forze Popolari, e segretario della Conferenza Tricontinentale].

(4) Frantz Fanon, "Racisme et Culture", Pour la Révolution africaine. Ecrits politiques, La Découverte, París, 2001, p. 40.

(5) Samir Amin, "Les systèmes régionaux anciens", L'Histoire globale, une perspective afro-asiatique, éditions des Indes savantes, París, 2013, p. 20.

(6) Eric Williams, Capitalisme et esclavage, Présence Africaine, 1968, p. 19.

(7) Youcef Djebari, La France en Algérie, la genèse du capitalisme d'Etat colonial, Office des Publications Universitaires, Argel, 1994, p. 25.

(8) Frantz Fanon, Racisme et culture , op.cit., p. 45.

(9) Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, Volumen 1, Hennuyer, París, 1861, p. 48.

(10) Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, op.cit., p. 15.

(11) Kwame Nkrumah, Le néocolonialisme, dernier stade de l'impérialisme, Présence Africaine, París, 1973, p. 9.

(12) Stephen Smith, Négrologie: Pourquoi l'Afrique meurt, Fayard, París, 2012, p. 49 et 58.

(13) Bernard Lugan, God bless Africa. Contre la mort programmée du continent noir, Carnot, Paris, 2003, pp. 141-142.

(14) Immanuel Wallerstein, "Le capitalisme touche à sa fin", Le Monde, 16 de diciembre de 2008, http://www.lemonde.fr/la-crise-financiere/article/2008/12/16/le-capitalisme-touche-a-sa-fin_1105714_1101386.html

(15) Philip S Golub, De la mondialisation au militarisme: la crise de l'hégémonie américaine, A Contrario, 2004, n°2, p. 9.


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Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione”

Pubblicato il 17 luglio 2016   in Internazionale/Interviste   di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini

Proponiamo di seguito l’intervista integrale al giornalista d’investigazione belga Michel Collon apparsa sull’edizione di maggio 2016 del quadrimestrale d’approfondimento marxista #politicanuova, a cura di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini.


  1. Quali sono le principali caratteristiche dei rapporti tra Occidente (Usa ed Europa) e Medio Oriente a partire dai momenti conclusivi del Novecento? Quale funzione svolge il Medio Oriente all’interno delle strategie geo-politiche e geo-economiche occidentali?

Il Medio Oriente, inteso in senso ampio, quindi comprendente anche il Maghreb, la penisola arabica, il Corno d’Africa e paesi asiatici quali l’Afghanistan e il Pakistan – di fatto quel “Grande Medio Oriente” concepito dall’amministrazione statunitense -, è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione, innescata nel 1991 con la prima guerra del Golfo. A quel tempo Saddam Hussein cadde in una trappola: gli si fece credere che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi laddove egli avesse tentato di recuperare il Kuwait, sottratto all’Iraq dal colonialismo britannico; ma George Bush senior, invece, intervenne. Lo scopo degli Stati Uniti era quello di distruggere l’Iraq assieme a Saddam Hussein perché quest’ultimo aveva commesso l’imperdonabile errore di sollecitare gli arabi e più in generale il Medio Oriente alla ricerca dell’indipendenza rispetto agli Stati Uniti, alla resistenza rispetto ad Israele e all’utilizzo del petrolio al fine di ingenerare uno sviluppo autonomo che mettesse fine alla colonizzazione economica della regione. Così facendo Saddam Hussein, come tutti quei dirigenti arabi che storicamente si sono mostrati troppo indipendenti rispetto agli Stati Uniti e al colonialismo in generale, firmò la sua condanna a morte: si tentò dunque di abbatterlo, ma la resistenza irachena si rivelò molto forte, e inoltre non si riuscì a contare su personaggi corrotti interni al paese né ad organizzare la divisione tribale di quest’ultimo. La guerra, in ogni caso, indebolì molto l’Iraq, e servì da avvertimento generale ai paesi arabi, africani e asiatici. Possiamo dire che, con il 1991, si aprì un periodo nuovo: parallelamente alla caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avviarono la ricolonizzazione di tutto quanto, precedentemente, avevano perduto: i paesi del Terzo mondo divenuti indipendenti nel Medio Oriente e in Africa, assieme ai paesi dell’Europa dell’Est. L’obiettivo era quello di instaurare un nuovo ordine a livello mondiale in cui gli Stati Uniti si fossero imposti quale unica superpotenza – e, in tal senso, era ottimo che la Russia eltisiniana si fosse fortemente indebolita, mentre l’Europa andava mantenuta quale vassallo subordinato e il processo di crescita della Cina andava in qualche modo depotenziato.


  1. Quali fattori hanno portato gli Stati Uniti ad avviare una tale dinamica? E, all’interno di quest’ultima, quale funzione ha svolto il Medio Oriente e quale invece Israele e le petro-monarchie del Golfo? L’Europa, dal canto suo, come si posiziona?

Ragione principale alla base d’un tale progetto è stata la crisi economica che attanagliava gli Stati Uniti dal 1973, se non da prima: il paese si era indebolito economicamente, il tasso di profitto evidenziava un’importante caduta, e inoltre, se, da una parte, la delocalizzazione delle aziende di vari settori produttivi (tessile, automobilistico, informatico) aveva fatto aumentare i guadagni delle multinazionali statunitensi e permesso agli Stati Uniti di avvantaggiarsi rispetto ad Europa e Giappone, dall’altra, essa aveva assestato un duro colpo alla base economico-produttiva nazionale e, ancora, aveva indebolito in modo importante il potere d’acquisto dei consumatori statunitensi. Di conseguenza, dati questi presupposti, gli Stati Uniti, con uno squilibrio della bilancia dei pagamenti e con un profondo deficit dei conti statali – reso maggiormente acuto dalle dispendiose politiche militari -, sono via via diventati dipendenti dal credito.
Nel quadro del processo di rivalsa coloniale e soprattutto nel tentativo di acquisire un potere mondiale unipolare, il controllo del Medio Oriente si è rivelato, per gli Stati Uniti, un’arma d’importanza basilare: l’obiettivo, a tal proposito, non era tanto quello di assicurare le proprie forniture petrolifere – gli Stati Uniti importavano petrolio prevalentemente da territori vicini quali il Messico e il Venezuela (dall’Arabia Saudita proveniva solo il 19% della quantità totale) – quanto quello di controllare – in termini strategici – l’approvvigionamento dei rivali (Europa, Giappone, Russia e Cina). Oggi, 25 anni dopo la prima guerra del Golfo, la strategia in questione si è rafforzata. Obama ha indicato con chiarezza che l’obiettivo centrale è il controllo dell’Asia: egli, del resto, non fa altro che applicare le indicazioni del suo maître à penser, Zbigniew Brzezinski, il quale, a suo tempo, spiegò che se gli Stati Uniti avessero voluto restare i signori del mondo avrebbero dovuto controllare l’Eurasia, ossia la zona ove è presente la maggior parte della popolazione, della produzione e della ricchezza mondiale – e la crescita della Cina ha confermato ciò. Secondo Brzezinski, al fine di controllare effettivamente l’Eurasia, occorre impedire ai vari vassalli di unirsi: Russia e Cina, a tal proposito, devono rimanere ben divisi – politicamente ed economicamente – dall’Europa e, in modo particolare, la Russia non si deve connettere alla Germania. Di fatto, quindi, i paesi dell’Europa non posseggono un’indipendenza integrale rispetto agli Stati Uniti. Emblematica, in tal senso, la celeberrima esclamazione dell’inviato speciale statunitense per l’Ucraina Victoria Nuland, «Fuck the EU», che evidenzia la ben scarsa considerazione, da parte statunitense, delle posizioni dei partner europei1.
Israele e le petro-monarchie del Golfo rappresentano dei pilastri molto importanti al fine di mantenere il controllo sul Medio Oriente: gli Stati Uniti, infatti, non sono in grado di garantire un attivo e sistematico intervento nella regione – cioè attraverso invasioni via terra o colpi di stato, entrambe le azioni essendo alquanto pericolose – e quindi Israele, una forza di valenza militare, e le petro-monarchie del Golfo, una forza di valenza economica, si rivelano funzionali a dividere il Medio Oriente.


  1. Il concetto di «primavere arabe» ha raccolto nello stesso contenitore numerosi processi aventi carattere regionale e/o nazionale. Ritieni che tale concetto sia effettivamente in grado di contenere in modo esaustivo quanto sotto di esso è stato posto?

Quello di «primavere arabe» è un concetto fasullo [concept bidon], fabbricato dagli esperti di comunicazione psicologica e di manipolazione dell’opinione. Esso è funzionale a velare due fondamentali elementi. In primo luogo, il fatto che gli Stati Uniti e l’Europa hanno sostenuto [maintenu en place] e protetto sino all’ultimo momento dittatori arabi come Ben Ali e Mubarak. In secondo luogo, il fatto che gli Stati Uniti – molto lungimiranti e con ciò sempre pronti ad anticipare il maturare dei processi -, sapendo che Ben Ali e Mubarak erano personaggi politici finiti – rivolte terribili non potevano che sorgere sia date una dittatura e una corruzione inaccettabili sia dato l’accumulo scandaloso di ingenti quantità di ricchezza in antitesi a una condizione di spaventosa povertà -, hanno preparato la loro sostituzione. A tal proposito, in Egitto e in Tunisia, si sono avuti degli scioperi operai e delle rivolte molto importanti, ma sono stati stroncati dal governo con l’aiuto e il sostegno di Stati Uniti ed Europa. La strategia occidentale consisteva nel tentativo di controllare l’esplosione delle proteste affinché si potessero alleviare [soulager] le frustrazioni ma, nel contempo, impedire che a livello politico qualcosa effettivamente cambiasse: ciò è stato conseguito sacrificando qualcheduno, come Mubarak, Ben Ali e i loro più stretti seguaci, ma mantenendo al loro posto sia le élite sia le istituzioni militari, dividendo i giovani e in generale la società civile e organizzando delle elezioni. Il libro che Investig’Action ha recentemente pubblicato, “Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes”2, scritto da Ahmed Bensaada, mostra con evidenza il modo con cui gli Stati Uniti hanno individuato, comprato, condotto negli Stati Uniti e formato i cosiddetti young leaders – i dirigenti di domani –, preparati appositamente al fine di giocare un ruolo nell’ammaestramento della rivolta popolare affinché essa non si sviluppasse in una direzione eccessivamente radicale e cioè che non diventasse una vera rivoluzione sociale e politica.


  1. Per il caso libico e per quello siriano si può parlare di uno snaturamento sostanziale delle proteste ad opera degli attori esterni? Cioè, se inizialmente si sono presentate legittime ragioni di malcontento relative a contraddizioni interne, successivamente c’è stata una deformazione e con ciò un ingigantimento dei motivi e dei moti di protesta? Come districare la matassa che lega protestanti sinceri, fondamentalisti e attori eterodiretti?

In Libia e in Siria – certamente – vi erano delle legittime ragioni di manifestare.
Per la Libia non parlerei di problematiche sociali: Gheddafi ridistribuiva i proventi del petrolio e, inoltre, aveva concesso [avait accordé] un livello di vita estremamente elevato a tutti i libici: l’educazione e la sanità erano gratuite, e le politiche dell’alloggio avevano permesso una buona accessibilità. Vero è che negli ultimi anni si erano avute delle misure che avevano ridotto questo Stato sociale – misure che, peraltro, erano state prese a seguito della pressione e dei consigli degli Stati Uniti e degli altri popoli sedicenti liberi; ma, ciononostante, in Libia c’era il più alto livello di vita dell’Africa. La Libia, d’altro canto, non era definibile una democrazia liberale: essa aveva bensì l’aspetto d’un regime autocratico. E però, a tal proposito, il dato centrale risiede nel fatto che in Medio Oriente c’erano e ci sono ordinamenti politici ben peggiori, come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuweit – di conseguenza, se veramente gli Stati Uniti avessero voluto solamente instaurare una democrazia liberale (che, in ogni caso, non può essere imposta dall’esterno con le bombe), avrebbero dovuto cominciare da questi ultimi. In Libia la protesta – come ho spiegato nel mio libro “Libye, Otan et médiamensonges”3 – è stata manipolata e, molto velocemente, orientata [détournée] verso un altissimo contenuto di violenza, della quale sono stati responsabili i terroristi islamisti rispondenti alla sezione libica di al-Qaida: dal secondo giorno di manifestazioni sono apparsi missili e armi anticarro, e si è assistito all’attacco delle prigioni finalizzato alla liberazione dei terroristi ivi prigionieri. Insomma, non si è trattato propriamente di manifestazioni pacifiche.
In Siria c’erano legittime ragioni di carattere politico che hanno portato a manifestare. Anche la Siria, infatti, non può essere definita una democrazia liberale. C’erano inoltre delle ragioni di carattere socio-economico, date dal fatto che anche in questo paese si era avuto un ridimensionamento dello Stato sociale (e, come nel caso libico, gli Stati Uniti si sono distinti per le pressioni volte al varo di riforme neoliberali) – la Siria era un paese meno ricco rispetto alla Libia, ma comunque pure ivi erano attive forme di socialità relativamente consistenti se paragonate alla miseria di altri paesi circostanti. Ad essere colpiti in modo particolarmente acuto da queste riforme sono stati i contadini, i quali parallelamente avevano dovuto sopportare due annate filate di siccità: essi si sono perciò ritrovati in grosse difficoltà a livello finanziario e sociale. Il copione, a questo punto, è grosso modo lo stesso: le legittime ragioni di protesta sono state ben presto messe a frutto dagli attori esterni, Stati Uniti in primis, la cui volontà di rovesciare Assad era tale già da diversi anni: l’ex Ministro degli affari esteri di Francia Roland Dumas (1984-1986, 1988-1993) ha dichiarato che, nel 2009 – cioè ben due anni prima delle manifestazioni -, era stato avvicinato, a Londra, da agenti inglesi i quali, comunicandogli che la Siria sarebbe stata presa di mira, lo interrogarono circa la volontà francese di partecipare a ciò4. Ci sono poi molti altri documenti e rivelazioni di giornalisti, statunitensi e non, che mostrano con chiarezza l’effettiva preparazione di un’offensiva nei confronti della Siria.
Appare alquanto chiaro come una grande potenza non abbia alcun motivo valido di sferrare un attacco contro un paese per il fatto che all’interno di quest’ultimo si stiano svolgendo delle manifestazioni di protesta, ché di esse ve ne sono pressoché dappertutto tutti i giorni. Gli Stati Uniti, invece, intervengono al fine di esacerbare le tensioni, operare delle provocazioni, trarre un pretesto dal caos ingenerato per pretendere e prendere delle sanzioni economiche e militari e, infine, effettuare un cosiddetto regime changhe.


  1. Nei tuoi interventi hai sostenuto l’operare di una «propaganda di guerra» finalizzata a legittimare l’intervento militare occidentale. In tal senso, hai individuato i cinque principi costituenti di tal narrazione: ce ne puoi parlare?

C’è una cosa che una grande potenza intenzionata a muovere una guerra non potrà mai dire: la verità. «Facciamo questa guerra per impadronirci della ricchezza della regione»; «questo paese mette in pericolo la nostra supremazia»; «questa guerra è necessaria per i profitti delle nostre multinazionali»: sono tutte dichiarazioni che mai si sentiranno pronunciare ufficialmente. Queste ragioni vanno oscurate, perché evidentemente c’è bisogno che l’opinione pubblica – il contribuente finanziario – sostenga queste onerose operazioni. La cinque regole della propaganda di guerra rispondono a questa necessità.

  1. Nascondere il fatto che, alla base, stiano determinati interessi economici. Se il Medio Oriente non fosse un campo di petrolio bensì di carote, gli Stati Uniti avrebbero le stesse ragioni per spendere, ogni anno, tre o quattro miliardi di dollari per fare d’Israele il guardiano della regione? E se l’Iraq non contenesse nient’altro che sabbia, e non quindi petrolio, gli Stati Uniti avrebbero speso molte energie per far sloggiare un dittatore quando invece, nel contempo, essi ne proteggono molti altri?
  2. Invertire i ruoli tra vittima e aggressore: colui che sferra l’attacco militare non può definirsi l’aggressore, egli è infatti la vittima o, anche, il protettore che accorre a soccorso della vittima. Quando Israele passa all’offensiva per annettere dei territori palestinesi, pretende sempre di agire in posizione di legittima difesa contro gli Arabi, che o l’avrebbero attaccato o si preparerebbero a farlo.
  3. Offuscare la storia e con ciò fabbricare un pretesto plausibile e inattaccabile – proprio ché non si possono comprendere gli antecedenti e le cause profonde d’un conflitto – per poter intervenire in una data regione. In Ruanda, Francia e Belgio si presentano come forze neutrali; in realtà essi hanno aizzato le etnie una contro l’altra al fine di meglio dividere e con ciò indebolire la loro resistenza.
  4. Demonizzare l’avversario – crudele, immorale e pericoloso – e di riflesso convincere l’opinione pubblica del sincero desiderio, da parte delle forze governative, di proteggerla tramite l’eliminazione della minaccia da esso rappresentata. Si tratta, in fondo, di manipolare le emozioni dell’opinione pubblica – che si impaurisce oppure si indigna – impedendole di analizzare lucidamente i reali interessi in gioco.
  5. Monopolizzare l’informazione, dando prevalentemente voce alle fonti e agli esperti organici agli interessi dominanti, impedendo così alla popolazione di riflettere sulla base dei due o più punti di vista in campo. Come dimostrato da Noam Chomsky, esiste una vera e propria censura che non pronuncia il proprio nome e che impedisce un effettivo dibattito sul ruolo delle multinazionali, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Medio Oriente, come anche in America latina o in Africa. Il discorso massmediatico viene fatto virare su questioni secondarie o totalmente false, ed esso, inoltre, non presenta adeguatamente le posizioni dell’altra parte in causa e in generale le prospettive alternative come quelle proposte dagli analisti che rilevano l’ingiustizia e la strumentalità di queste guerre.

  1. Spesso e volentieri, le letture di largo respiro, cioè quelle analisi costruite da ramificazioni causali che tendenzialmente assorbono le varie dinamiche in un disegno complessivo, vengono accusate di avere una natura “complottista”. Come è più adeguato rispondere a questo tipo di accuse – nel caso concreto finalizzate a svalutare l’attendibilità delle posizioni anti-imperialiste?

In genere nei miei scritti cito testi, dichiarazioni e rapporti provenienti dai dirigenti politici degli Stati Uniti oppure dai responsabili della strategia di questo paese: li faccio parlare. Domandiamoci: quando Hillary Clinton afferma che gli Stati Uniti hanno creato al-Qaida, è anch’essa complottista? E quando il già citato Brzezinski ammette di essere il responsabile dell’invio di Osama bin Laden in Afghanistan e della crescita dell’islamismo, è anch’egli un complottista? E, se io li cito, divento un complottista? Non credo proprio.
Credo occorra porsi altre tre domande.
I complotti esistono? Sì, essi hanno un’esistenza reale. La definizione che ne dà un vocabolario è molto chiara: stiamo parlando di una manovra, di una cospirazione, di un’intesa segreta, tra più soggetti, finalizzata a conseguire uno o più obiettivi. Nella storia politica degli Stati Uniti – come in quella degli altri paesi – ci sono stati dei complotti, ad opera di determinate personalità, le quali hanno mantenuto le loro azioni celate all’opinione pubblica nazionale e internazionale. La faccenda relativa al presunto possesso, da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, di armi di distruzione di massa, è un caso emblematico: George W. Bush e Tony Blair hanno fatto in modo fossero redatti falsi rapporti che dimostrassero le loro pretestuose tesi. Ma si pensi anche all’Operazione Gladio, promossa dalla Cia in Europa al fine di seminarvi il panico, giustificare l’adozione di politiche repressive e impedire ai comunisti di andare al governo: essa rappresenta un complotto i cui dettagli sono oggi appurabili. E, di complotti di tal genere, se ne svolgono in modo periodico. E – detto tra parentesi – ci sono pure i “complotti di sinistra”: quando Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara organizzano di nascosto il rovesciamento della dittatura militare di Fulgencio Batista e con essa la dominazione statunitense su Cuba, essi effettuano nient’altro che una cospirazione, che fortunatamente ha avuto successo.
Ma, alla luce di ciò, possiamo comprendere tutta la politica e la storia facendo uso dei complotti? No. Oggi, pensatori appartenenti all’estrema destra francese ed europea credono di poter spiegare la crisi economica, la crescita delle ineguaglianze, la povertà, come se tutto ciò fosse un complotto ordito dalle banche, o dagli ebrei, o dai massoni o, ancora, dai dirigenti statunitensi. Credo che di fronte a tali questioni si debba essere chiari: non esiste nessuno in grado di controllare l’economia al punto da poter provocare una crisi. L’economia capitalista funziona attraverso leggi intrinseche e cioè in modo tendenzialmente autonomo rispetto alle volontà e ai progetti degli attori umani (singoli o collettivi). L’economia capitalista – concretamente – si basa sulla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione: in virtù di ciò i proprietari possono decidere ciò che deve essere prodotto e a quale prezzo, e possono fissare le retribuzioni salariali; c’è poi anche il momento della concorrenza tra i capitalisti, che si lega a filo doppio all’assenza d’una pianificazione della produzione: ognuno, all’interno di questa dinamica, perseguendo la legge della massimizzazione del profitto, tenta di guadagnare più degli altri, sia attraverso la compressione dei costi del lavoro e delle materie prime, sia precipitandosi nei settori maggiormente redditizi e con ciò investendo nell’innovazione tecnologica funzionale all’incremento della produttività. Ma ciò genera tre conseguenze alquanto rilevanti: il montante sfruttamento del lavoro indebolisce il potere d’acquisto e di riflesso una quota maggiorata di prodotti resta invenduta; i capitalisti, investendo nello stesso momento in quei settori che appaiono più redditizi, elevano la capacità di produzione in modo sproporzionato rispetto alle reale possibilità di assorbimento del mercato (il caso dell’industria automobilistica è emblematico: ogni anno si sfornano 25 milioni di auto in più di quanto il mercato può assorbire) e così si genera un enorme spreco di forze produttive; il miglioramento delle tecniche produttive, dal canto suo, se da un lato aumenta la produttività, dall’altro, in termini complessivi, dato che comporta un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile (il solo creatore di plusvalore e quindi di profitto), conduce ad una flessione del saggio di profitto complessivo. Così ha origine la crisi di sovrapproduzione, la quale porta con sé diminuzione degli investimenti, chiusura degli stabilimenti, licenziamenti, diminuzione dei salari e altre similari reazioni, che non fanno altro che incrinare ulteriormente la situazione economica complessiva. Grosso modo da quarant’anni ci troviamo in questo tipo regime. E non c’è alcun dirigente politico né capitalista – per nulla interessato al fatto che si produca in funzione dell’interesse della popolazione e secondo una forma di pianificazione – che possieda gli strumenti per risolverne le contraddizioni. Bisogna dunque smetterla di fantasticare pensando che la crisi sia il frutto d’un complotto voluto da banche o da non so chi altro; la crisi è un prodotto inevitabile del capitalismo, e le guerre sono condotte per conseguire interessi economici e sono la diretta conseguenza delle politiche economiche delle grandi potenze, intenzionate sia a controllare le materie prime, a non pagarle e ad impedire che i rivali se le aggiudichino, sia ad ottenere nuovi mercati per le loro merci, sia, infine, a procurarsi manodopera a basso costo. Come ebbe a dire all’inizio del XX secolo Jaen Jaurès, «le capitalisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l’orage». Il complottismo, quindi, è un’assurdità dal punto di vista dell’analisi teorica – anche se, evidentemente, i complotti si fanno per fabbricare pretesti, nascondere le vere ragioni e per conseguire altri obiettivi strumentali.
Ma perché, allora, ci sono persone come Bernard-Henri Lévy o Caroline Fourest che utilizzano quale spauracchio la questione della teoria del complotto laddove si critichi la politica statunitense, europea ed israeliana, laddove si critichino le politiche coloniali? La ragione è semplice: essi non possiedono altri argomenti, non hanno assolutamente nulla da ribattere allorquando gli si presenta sotto gli occhi un’analisi basata sui fatti oggettivi, allorquando si dà la parola alle vittime, allorquando, in fin dei conti, si esce dal perimetro del pensiero dominante amministrato dalle élite occidentali. È continuamente in atto una battaglia ideologica che ruota attorno alla spiegazioni di fenomeni quali le contraddizioni economiche, le cause della povertà e delle ingiustizie, la guerra e il terrorismo. Le classi dominanti auspicano che i giovani e i lavoratori accettino le letture dominanti e che non si pongano altre domande. La precisa funzione di uno spauracchio quale la sempre in agguato accusa di complottismo, in questo senso, è quella di impedire che la gente rifletta autonomamente.


  1. Concretamente, i pacifisti e gli anti-imperialisti occidentali come si devono muovere?

Penso che la sparizione, in Europa occidentale, del movimento contro la guerra sia una vera e propria tragedia. Nel passato si sono avuti dei grandi movimenti che si opponevano alle politiche guerrafondaie: i lavoratori scioperavano per impedire che le navi caricassero le armi che sarebbero poi state usate nelle guerre coloniali, una quota importante di giovani rifiutava di servire negli eserciti, c’erano fenomeni di disobbedienza, e gli intellettuali si mobilitavano per lanciare appelli contro la guerra e per la costruzione di un movimento per la pace.
Dopo la prima guerra del Golfo si è avuta praticamente una guerra all’anno – considero anche le guerre non dichiarate e le cosiddette proxy wars. Ma la popolazione non si è mobilitata. È vero che nel 2003 c’è stato un grande movimento contro la guerra, quando George W. Bush attaccò l’Iraq; ma nel caso specifico va tenuto conto di due fenomeni eccezionali. Bush, coi suoi metodi, ha fatto ben comprendere a tutti che si trattava d’una guerra per il petrolio; inoltre, alcuni paesi europei si sono opposti denunciando l’azione statunitense (comprendendo come si trattasse, anche, di una guerra contro l’Europa): ciò ha aperto uno spazio di discussione che rese possibile che sui media si parlasse esplicitamente di “guerra per il petrolio”. Ma nel 2011 per la Libia od oggi per la Siria sui media non si può leggere che le guerre sono fatte per interessi economici; e come se non bastasse, non è sorto alcun movimento che sensibilizzi e faccia contro-informazione. Questo è anche la conseguenza della capitolazione della sinistra – per non parlare dei socialisti al governo – e dei suoi intellettuali; le “mediamenzogne” vengono accettate, senza ricercare altre spiegazioni, e, inoltre, non si osa difendere determinati governi i quali, pur non essendo delle democrazie liberali e pur non essendo di sinistra, difendono almeno la sovranità del loro paese e con essa il diritto alla libera gestione delle loro ricchezze. La sinistra occidentale, insomma, non conducendo più una lotta contro il colonialismo e la guerra, ha commesso un vero e proprio tradimento nei confronti della sua storia: di ciò non potranno non tenere conto i progressisti delle prossime generazioni, chiamate a ricostruire al più presto un movimento per la pace di cui i popoli del Sud hanno assolutamente bisogno.



[1] In italiano, una possibile traduzione della citata esclamazione potrebbe essere la seguente: «E per quel che riguarda l’Unione Europea […], vada a farsi fottere!». Viktoria Nuland è massimo responsabile statunitense per i rapporti con l’UE e all’epoca della presidenze di George W. Bush è stata consigliera in materia di politica estera del vicepresidente Dick Cheney. Nuland ha affermato quanto sopra durante una telefonata – realizzata nel gennaio 2014 – con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, in cui si è discussa la possibilità di trovare un accordo tra il governo ucraino di Viktor Ianukovich e l’opposizione guidata da Vitali Klitschko. Per maggiori informazioni, si veda s.n., “’L’Unione europea si fotta’, l’audio della diplomatica che imbarazza gli USA”, IlFattoQuotidiano.it, 6 febbraio 2014 (http://goo.gl/U269Gh). 
[2] Ahmed Bensaada, Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes, Investig’Action, 2015 
[3] Michel Collon, Libye, Otan et médiamensonges, Investig’Action – Couleur livres, 2011 
[4] Qui è possibile visualizzare il video della dichiarazione di Dumas: https://goo.gl/3xk5N4