All'inferno (segue)
 
1) In morte di Giampaolo Pansa (Nicoletta Bourbaki)
2) Pansa, la sconcertante santificazione di un falsario (Tomaso Montanari)
3) Pansa è morto ma i suoi vizi restano (Tiziano Tussi)
 
 
Sullo stesso tema si veda anche il post precedente su JUGOINFO:
 
 
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In morte di Giampaolo Pansa

di Nicoletta Bourbaki, 13 gennaio 2020
 

In Italia, negli ultimi vent’anni circa, il mainstream ha sdoganato e amplificato una grande quantità di bufale storiche e leggende d’odio antipartigiane che a lungo erano rimaste confinate nelle cerchie neofasciste.

La legittimazione e l’imprimatur da parte dei grandi media e della politica hanno incoraggiato i neofascisti a inventare sempre nuove bufale, ancora e ancora. Dalla fine degli anni Novanta, li abbiamo visti coniare storie di «eccidi partigiani» dei quali mai si era parlato, o aggiungere a storie vecchie dettagli sempre più macabri assenti dalle precedenti ricostruzioni. Inutile dire che tali aggiunte erano prive di pezze d’appoggio documentali: in queste storie, le fonti latitano e ci si affida alla «storiografia del nonno»: «Mio nonno raccontava che…»

L’avvento dei social media ha impresso a questo processo un’accelerazione fortissima: oggi una bufala storica antipartigiana può nascere e diffondersi in poche ore.
Su Facebook, ad esempio, prosperano pagine dove si sparano a casaccio cifre iperboliche — ovviamente prive del benché minimo riscontro — su presunti stupri compiuti da partigiani. Cifre implausibilmente precise, per farle sembrare basate su ricerche in realtà inesistenti: 3245, oppure 4768. Ebbene, la diffamazione dei partigiani fondata su accuse di violenza sessuale è un fenomeno divenuto popolare tra i neofascisti soltanto di recente, queste presunte «migliaia» di stupri sono assenti dalla stessa memorialistica e pseudo-storiografia di estrema destra pubblicata nel XX secolo.

La manipolazione di Wikipedia da parte di milieux neofascisti — o comunque anti-antifascisti — organizzati ha fornito pezze d’appoggio per queste operazioni: centinaia di pagine della Wikipedia italiana dedicate a fascismo, seconda guerra mondiale e Resistenza sono inquinate dalla propaganda di cui sopra. Ce ne siamo occupate molte volte.

Veniamo al punto: uno dei massimi responsabili di tutto questo è stato Giampaolo Pansa. Nel 2003, il suo bestseller Il sangue dei vinti — che, come ha fatto notare Wu Ming 1 in Predappio Toxic Waste Blues, conteneva una menzogna già nel titolo — inaugurò una produzione di «oggetti narrativi male identificati» che usavano come fonti la memorialistica repubblichina sulla guerra civile, ne accettavano le ricostruzioni piene di buchi e aporie, e riempivano i buchi ricorrendo a tecniche letterarie ed espedienti vari.

Tecniche ed espedienti prese più volte in esame: ne hanno scritto Ilenia Rossini nel suo L’uso pubblico della Resistenza: il «caso Pansa» tra vecchie e nuove polemiche (pdf quihttps://www.academia.edu/1720067/L_uso_pubblico_della_Resistenza_il_caso_Pansa_tra_vecchie_e_nuove_polemiche ) e Gino Candreva nel suo La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa (pdf quihttp://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/06/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf ).

Al principio, la fama dell’autore, il suo essere «di sinistra» e l’uso strumentale e ambiguo di certi caveat e disclaimer — della serie «Io sono antifascista ma», «la Resistenza fu un fenomeno nobile ma» — ha reso subdola l’operazione. Oggi, certi caveat non c’è più bisogno di usarli: i romanzi-spacciati-per-inchieste che si inseriscono nel solco scavato da Pansa, come quelli di Gianfranco Stella, stanno platealmente, sguaiatamente, dalla parte di Salò (cioè, ricordiamolo sempre, di Hitler).

Chi si occupa di questo revisionismo non può che imbattersi in Pansa girando ogni angolo. È capitato più volte anche a noi, mentre smontavamo bufale di estrema destra alla cui circolazione l’ex-vicedirettore di Repubblica aveva dato un contributo fondamentale. In quelle occasioni, abbiamo mostrato come Pansa avesse dato dignità di fonti ai libri di pubblicisti di estrema destra come Pisanò, Pirina o Serena, o di improvvisati “storici” locali, “abbellendo” quelle storie con ulteriori dettagli e svolazzi.

Qui [ https://www.wumingfoundation.com/giap/tag/giampaolo-pansa/ ] si possono trovare le inchieste dove abbiamo parlato (anche) di lui, unitamente ad alcuni scritti di Wu Ming, come il già citato Predappio Toxic Waste Blues, dove si smontano le retoriche pansiane.

Oggi che la morte di Pansa suscita uno scontato cordoglio bipartisan e il suo nome sta per essere accolto nel canone della «memoria condivisa», noi vogliamo ricordare i danni gravissimi che i suoi libri e i polveroni mediatici che si compiaceva di suscitare hanno arrecato alla cultura storica e alla memoria pubblica in Italia.

Pansa è morto, ma il pansismo resterà con noi a lungo, purtroppo.

 
 
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Pansa, la sconcertante santificazione di un falsario
di Tomaso Montanari
 
La santificazione a testate unificate di Giampaolo Pansa lascia sconcertati. 
 
È naturalmente comprensibile il lutto degli amici e degli ammiratori, così come è lodevole la gratitudine dei più giovani giornalisti che ripensano ai loro debiti verso quello che fu, fino a un punto preciso della sua vita, un maestro del nostro italianissimo giornalismo. Ma il silenzio sulla scelta revisionista di Pansa (una scelta che assorbe, portandolo di male in peggio, quasi gli ultimi vent’anni della sua vita), o peggio i tentativi di liquidarla con accenni a un suo gusto per le questioni «controverse», al suo essere «bastian contrario» o «sempre contro», sono invece inaccettabili. E nemmeno il combinato disposto dell’intollerabile ipocrisia italica e borghese del «de mortuis nihil nisi bonum» e del corporativismo giornalistico possono giustificare questa corale opera di depistaggio. 
 
È esattamente questa coltre di silenzio che obbliga a prendere la parola proprio ora, a caldo: perché ci sia almeno qualche voce che contraddica la canonizzazione, e instilli dubbi proprio nel momento in cui il nuovo santo viene innalzato sugli altari, a riflettori ancora accesi. 
 
E il punto non è solo che Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo» (http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/06/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf). E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «in generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano “revisionismo storico”».
 
Basterebbe questo a renderne la memoria esecrabile: almeno per chi crede davvero nei valori della nostra Costituzione. Ma se almeno la qualità giornalistica del lavoro di Pansa fosse indiscutibile, potrei faticosamente arrivare a comprendere (mai ad accettare, né tantomeno ad approvare) la celebrazione corporativa della grande firma. È quello che avvenne per la Fallaci: e se trovo mostruoso che le si dedichino vie o strade, perché oggi sarebbe condannata per istigazione all’odio razziale, posso capire che le si riconoscano qualità di scrittura e di inchiesta (che personalmente, tuttavia, giudico al contrario assai modeste).
Ma i peana per il giornalismo di Pansa rivelano in chi li eleva una ben curiosa idea di giornalismo. Il punto, infatti, è che i libri di Pansa dal 2003 (l’anno in cui esce il Sangue dei vinti) consistono in una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico. Pansa era stato uno storico: si era laureato in storia con uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati. Ma quando decise di ribaltare il tavolo e sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico, ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro. Una affabulazione senza nessun apparato di documenti e di note: e dunque inverificabile per il lettore. 
 
Sono testi, i suoi, che non hanno nulla a che fare con la storiografia: ma nemmeno col giornalismo, per quanto estesa possa essere l’idea di quest’ultimo. Perché sono testi in cui è inutile chiedersi se le cose narrate siano vere o meno: ed è inutile perché è impossibile rispondere. Ciò nonostante, moltissimi storici professionisti (a partire da Giovanni De Luna) hanno chiarito in molte occasioni (si leggano per esempio questo e questo) come si tratti di testi privi di qualunque valore cognitivo, irti di coscienti omissioni, falsificazioni, disonestà intellettuali di ogni tipo. Carta straccia che racconta una storia falsa: fiction ideologica, dalla parte dei fascisti. 
 
Nonostante questo – e con un metodo ben calcolato – l’abilissimo Pansa e un’ampia corte di giornalisti (quelli fascisti, quelli di destra, quelli che semplicemente non leggevano nulla e quelli troppo ignoranti per porsi il problema) a ogni uscita di libro hanno trasformato la percezione di quei romanzi nel racconto di una nuova storiografia di riscoperta, di revisione, di rovesciamento della verità stabilità dai vincitori antifascisti. Cosicché, nel discorso pubblico, Pansa oggi non è (come dovrebbe) l’autore di romanzetti curiosamente filofascisti, ma è il giornalista antifascista che ha svelato – dimostrando la coraggiosa capacità di andar contro ‘la sua parte’ – il lato oscuro della Resistenza. Una clamorosa distorsione della verità: una lunghissima, perversa ambiguità che non solo ha eroso, di libro in libro, il consenso alla Repubblica antifascista, ma che contestualmente ha mandato in vacca ogni idea di giornalismo, ledendo programmaticamente il primo essenziale patto che lega chi scrive e chi legge, perché «la prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non dica bugie» (George Orwell).
 
Una risposta efficace era quella di Giorgio Bocca, un giornalista che aveva eguale udienza presso i media, e che definiva Pansa, semplicemente, «un falsario».
 
Invece, contro questa mistificazione gli storici veri hanno avuto più difficoltà a rispondere: perché come disse (con straordinario cinismo) lo stesso Pansa allo storico Angelo D’Orsi, che lo rimproverava di non mettere nessuna nota nei suoi libri: «Tu vendi 2.000 copie e io 400.000… vuoi anche le note?». La stessa situazione, a me ben nota, in cui si trova lo storico dell’arte che voglia smontare le bufale di Dan Brown su Leonardo, o anche solo l’ennesima attribuzione farlocca a Caravaggio sparata in prima pagina dal redattore orbo di turno.
 
Come si possa salutare oggi, dando fiato senza risparmio a tutte le trombe della retorica, un ‘maestro di giornalismo’ è veramente un mistero doloroso del rosario di fake news, falsi storici, manipolazioni o semplici sciocchezze che si snocciola ogni santo giorno sui media italiani. Per fortuna, in queste ore non sono mancate lucide voci contro: per esempio quelle del collettivo Nicoletta Bourbaki, rilanciate dai Wu Ming, o quella di Luca Casarotti su Jacobin Italia. Ma sulla carta stampata non si è trovato davvero nessun antidoto (salvo un timido cenno sul Manifesto): e non per caso anche queste righe non appaiono su un giornale, ma su un sito felicemente eretico.
 
La triste morale è che è inutile, ipocrita, e in ultima analisi intollerabile, inondarci di retorica sull’insegnamento della storia nelle scuole e difendere sdegnati la libertà di stampa e i giornali indipendenti, se poi è la nostra idea di giornalismo (e dunque di democrazia) a esser così gracile, ipocrita, superficiale.

(15 gennaio 2020)
 
 
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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 21-01-20 - n. 735

Pansa è morto ma i suoi vizi restano

Tiziano Tussi

21/01/2020

Giampaolo Pansa è morto a 84 anni, a Roma, il 12 gennaio 2020. Si può trovare in rete molto materiale rispetto alla sua figura. Io stesso ne avevo scritto per Resistenze sia il 20-1-2005 sia il 20-10-2006.

Riassumendo le modalità di lavoro delle sue ultime opere, quelle che vedono la Resistenza sul banco degli accusati si può dire: un pastone tra aneddotica non controllabile, ricordi vari riportati come verità, continui rimandi allusivi lasciati lì come tracce per non si sa bene cosa, demonizzazione della sinistra italiana. Su questo si possono leggere utilmente: Gino Candreva, Zapruder, gennaio-aprile 2016; Luca Casarotti, Jacobin Italia, 14 gennaio 2020 (qui vi sono altre indicazioni di testi di rimando) e Tomaso Montanari, 15 gennaio 2020, Micromega. Tutti in rete.

È di quest'ultimo che volevo parlare. Lo scritto di Montanari non si discosta dalle critiche che anche gli altri citati, ed altri ancora, indirizzano o hanno indirizzato a Pansa. Anche sulla rivista dell'ANPI, in anni trascorsi, erano apparsi articoli e documenti di condanna dell'uso disinvolto, diciamo così, che Pansa ha fatto delle problematiche resistenziali. Forse il motivo, lo dice Paolo Flores d'Arcais, sempre Micromega, 21 gennaio 2020, risiede nell'astio per il "sistema mediatico" e per la sinistra (?) per "aver visto frustrate le sue ambizioni di direzione nel gruppo Repubblica/Espresso".

Le brevi note di Montanari, in ogni caso, hanno fatto alzare l'indignazione di Aldo Grasso, il 19 gennaio, nella prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo della sua rubrica "La storia secondo Maramaldo Montanari." Ora, usare il termine Maramaldo significa dare un segno necrofilo a chi ha scritto qualcosa di orribile. In questo caso Montanari e la sua analisi negativa dello scrittore Pansa. Una critica diciamo così tecnica, che va a toccare i punti disciplinari dell'allegra vocazione storica di Pansa che lo stesso, seriamente e professionalmente, aveva usata almeno nel suo scritto iniziale sulla Resistenza, Guerra partigiana tra Genova e il Po (dalla tesi di laurea, relatore Guido Quazza, pubblicata da Laterza nel 1967).

Modalità poi persa nei libri sui Vinti, e su altri successivi. Le motivazioni le abbiamo adombrate sopra. Così le copie vendute sono schizzate a centinaia di migliaia, e Montanari lo ricorda nel suo intervento. Forse perché così l'Autore ha riaffermato una notorietà ed un ruolo di "bastian contrario", di destra naturalmente, dato che poi è finito a scrivere anche sul quotidiano La verità, che in fondo, in un'epoca post-comunista, post-socialista, post progressista, post ogni cosa, come quella di oggi, fa sempre bene, rende. Certo a scapito del riscontro possibile delle fonti, osiamo dire della verità o del tentativo di arrivarvi il più vicino possibile.

Quindi ne deriva che chi ora si preoccupa di riportare alla decenza storica, in un sito di livello, con una visibilità pubblica, la decenza culturale, subito viene tacciato di essere un Maramaldo. Ricordo: dare del maramaldo ci riporta ad una battaglia del 1530, nella quale un condottiero, appunto tale Fabrizio Maramaldo, al soldo degli spagnoli, trafigge quasi uccidendolo, il già ferito Francesco Ferrucci, che aveva combattuto per i fiorentini: uccisione di un moribondo.

Nel caso di Pansa, ora, già morto. Ma che ci azzecca, direbbe un erudito componente della Crusca, leggendo il pezzullo di Grasso, campione delle ovvietà del Corriere che ci ha abituato alle banalità del potere, alla finesse tutta in punta di forchetta? Non importa: anche in questo caso Grasso ripete la sua invettiva, scrivendo in modo schizofrenico, basta leggere il pezzo, come in un flipper, frasi senza senso sulla pratica acritica di Montanari. Quasi non si potesse scrivere criticamente dell'opera di un morto.

Puarin l'è mort: e quindi essendo stato toccato dalla morte, un'azione passiva, si è mondi per ogni azione sbagliata, orrenda o utilitaristica, insomma negativa che si è compiuto in vita. Ma come dice Nicoletta Bourbaki, il 13 gennaio, intervento che si trova in rete digitando In morte di Giampaolo Pansa: Pansa è morto, ma il pansismo - riferendosi ovviamente ai suoi vizi storico/letterari prima citati, ndr -  resterà con noi a lungo, purtroppo.