Era il 1991 e Mira Furlan fu costretta, per il suo cosmopolitismo e per il rifiuto della guerra e della violenza, all'esilio. Prima di lasciare il suo paese scrisse però una lettera ai propri concittadini...  [hrvatskosrpski / italiano]
 
Mira Furlan: Lettera ai concittadini / Pismo sugrađanima
 
 
 
Mira Furlan, lettera ai concittadini
 
Era il 1991 e Mira Furlan fu costretta, per il suo cosmopolitismo e per il rifiuto della guerra e della violenza, all'esilio. Prima di lasciare il suo paese scrisse però una lettera ai propri concittadini. Che ora riproponiamo, ricordando così la recente scomparsa dell'attrice
 
// IL LUTTO
Mira Furlan è nata a Zagabria il 7 settembre del 1955. Figlia di docenti universitari ha seguito studi di recitazione e canto. E’ stata membro del Teatro Nazionale di Zagabria e la si ricorda per numerose apparizioni in produzioni per la televisione quanto in numerosi film. Tra i primi, il dramma “Klipklop” (1982) del regista Antun Vrdoljak dove la Furlan ha recitato accanto a Rade Šerbedžija, il dramma romantico “Za sreću je potrebno troje” (Three for Happiness) diretto da Rajko Grlić e il famoso film di Emir Kusturica “Papà è in viaggio d’affari” Palma d’Oro a Cannes nel 1985.

Sposata con il regista serbo Goran Gajić, a seguito dell’inizio delle guerre di dissoluzione della ex Jugoslavia, nel 1991 decide di trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti. Qui ha cominciato a emergere in produzioni internazionali. Dopo aver vestito i panni dell’ambasciatrice Delenn nella serie Tv “Babylon 5”, ha acquisito fama internazionale entrando nel 2004 nel cast della serie televisiva “Lost”, considerata una delle migliori serie Tv di tutti i tempi che ha anche ottenuto vari premi tra cui un Golden Globe e tre Emmy Awards. Stanca di vivere alle Hawaii, dove è stata girata la serie nell’arco di sei anni, dopo le prime 4 stagioni decide di tornare alla sua residenza per dedicarsi ad altri lavori. Ha in seguito collaborato con diversi registi dei paesi della regione dei Balcani occidentali, come con Danis Tanović nel film "Cirkus Columbia", ma anche con il regista italiano Sergio Castellitto in “Venuto al Mondo” (2012), ambientato a Sarajevo durante e dopo l’assedio, tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini vincitore del Premio Campiello 2009. //

 

25/01/2021 – Mira Furlan, una delle più note attrici croate e jugoslave, è mancata il 20 gennaio 2021. Il cordoglio si è diffuso a livello internazionale, anche per via della carriera statunitense dell’attrice. Negli ultimi giorni, diverse testate e pagine social nei paesi post-jugoslavi hanno rilanciato una toccante lettera scritta da Mira Furlan nel novembre del 1991 e pubblicata all’epoca dal settimanale Danas. Da Belgrado, si rivolgeva ai suoi concittadini di Zagabria, dopo il licenziamento dal Teatro nazionale croato e gli attacchi pubblici e privati subiti a causa del suo impegno professionale nella capitale serba, dove viveva il marito Goran Gajić. La coppia si trasferì a New York poco tempo dopo la pubblicazione della lettera. La riproponiamo grazie alla traduzione di Marijana Puljić.

 

Con la presente vorrei ringraziare tutti i miei concittadini che, senza risparmiarsi, si sono uniti in questo piccolo, casuale e, a a ben vedere, non così tanto importante linciaggio nei miei confronti. Anche se casuale, cambierà e segnerà però tutta la mia vita. Ciò è, naturalmente, del tutto insignificante in un contesto di morte quotidiana, di distruzione, di devastazione e di crimini orrendi nel quale si svolge la nostra vita.

Poiché si tratta comunque dell’unica vita che ho, ed è già stata scelta per essere usata come uno straccio sporco che ogni tanto torna utile per pulirsi le scarpe infangate, e siccome sono troppo disperata per avere anche la voglia di polemizzare sui giornali, penso di dovere a me stessa, e a questa città almeno qualche riga. Proprio come alla fine di una sfortunata, tormentata e sbagliata storia d’amore, quando, completamente fuori strada, si vuole ancora dire qualcosa e spiegare, anche se nel profondo dell’animo sappiamo che le parole sono superflue, perché non c’è più nessuno che le possa udire. Perché, infatti, è finita.

Ascoltando la mia segreteria telefonica ho sentito un numero incredibile di messaggi ripugnanti in modo indescrivibile da parte dei miei concittadini, e ho desiderato ricevere anche un solo messaggio di un qualche amico. O perfino non amico. Di un conoscente qualunque. Di un collega. Ma un messaggio del genere non c’era. Non una singola voce familiare, non un solo amico – uno si domanda se sia possibile una cosa del genere. Eppure, li ringrazio. Anche quei nobilissimi patrioti che mi giurano con premura “di massacrarmi alla maniera serba” e quei colleghi, amici e conoscenti che con il loro silenzio mi fanno sapere che non posso più contare su di loro.

Grazie anche ai colleghi con i quali ho recitato negli spettacoli di Držić, di Molière, di Turgenev e di Bernard Shaw, grazie per il loro silenzio, grazie per non aver nemmeno provato a capire, se non a giustificare, la mia lettera sulla messa in scena dello spettacolo al festival di Bitef, una lettera dove ho cercato di spiegare che recitare per me in questo momento rappresenta la difesa della nostra professione comune che non deve, e non può, mettersi al servizio di nessuna idea politica o nazionale perché è semplicemente contro la sua natura – quella di una professione che deve, persino nei momenti più bui, instaurare ponti e connessioni, che è estranea ad ogni limite nazionale, e che, nel suo essere, non conosce e non riconosce confini.

So che in questo momento tutti quei discorsi sull’arte cosmopolita sembrano inappropriati. So che sembra inopportuno professare il pacifismo, l’amore universale e la fratellanza di tutti gli uomini mentre muoiono persone e bambini, e i giovani ritornano a casa mutilati per sempre. Come faccio a dire qualunque cosa che non sembri una stupidaggine impertinente nel momento in cui Dubrovnik è sotto minaccia, per ragioni del tutto incomprensibili, la città dove ho recitato il mio spettacolo preferito Gloria?

Tuttavia, io non so pensare diversamente. Nella mia testa non riesco ad accettare la guerra come unica soluzione, non riesco a costringermi a odiare, non riesco a credere che le armi, gli assassinii, la vendetta, l’odio, il crescere del male potranno mai risolvere qualcosa. Non significa forse che ogni personale consenso alla guerra è in realtà anche una partecipazione a quel crimine, l’accettazione anche della più piccola parte di colpa, per la guerra, essere responsabili per essa?

In ogni caso penso, so e sento che il mio dovere, il dovere della nostra professione, è di costruire ponti. Di non rinunciare alla collaborazione e alla comunità. Ma non nazionale. Professionale. Umana. E anche quando è terrificante, come lo è adesso, bisognerebbe insistere, fino all’ultimo respiro, sulla collaborazione e sul mantenimento delle relazioni tra le persone. È una scommessa per il futuro. E il futuro arriverà un giorno, prima o poi. Io, dal canto mio, ero pronta, fino a poco tempo fa, a tutti i tormenti e alle difficoltà possibili su trasporto-comunicazione-finanze, ero pronta a farmi 20 ore di viaggio attraverso l’Austria e l’Ungheria, e sarei pronta a sottopormi a tratte più spericolate e pericolose pur di raggiungere i miei spettacoli in due città in guerra, a farmi vedere sul palcoscenico esattamente alle sette e mezza con i miei colleghi zagabresi oppure belgradesi e recitare a turni Corneille e Turgenev, nel nome della continuità del mio lavoro, nel nome di qualcosa che vivrà oltre questa guerra e quest’odio, per me incomprensibile. E sarei ancora pronta a investire me stessa ancora e ancora come promessa per un futuro che tuttavia ci aspetta, fino a che un fanatico patriota non mi massacrerà per davvero, come mi promettono.

Ero pronta, e sarei tuttora pronta a tutti gli sforzi e agli orrori connessi al caso, se non fossi stata, all’improvviso, sommersa con spaventosa ferocia dall’odio della mia città natale. Sono inorridita dalla forza e dalla mole di tale odio, dall’unanimità della condanna, dal fatto che nessuno ha visto una buona intenzione nel mio gesto, vale a dire la difesa dell’integrità professionale, un tentativo di difendere almeno uno spettacolo buono e bello. Non avevo comunque intenzione di continuare a recitare in quello spettacolo, come ho sottolineato nella mia lettera. Il festival teatrale internazionale di Bitef a cui partecipavano inglesi, russi, francesi, belgi, e tra di loro anche uno sloveno, mi sembrava degno della mia presenza, soprattutto perché la mia non comparsa avrebbe significato un tradimento dello spettacolo che ho portato avanti nelle circostanze più difficili durante le manifestazioni del nove di marzo con tanto di cannoni, con le minacce giornaliere di un colpo di stato, ecc, ecc, ecc.

È terribilmente triste essere costretti a giustificarsi quando il reato non esiste. Esiste solo la disperazione, la nausea e l’orrore. Davanti a me non ci sono più decisioni da prendere. Hanno deciso tutto gli altri. Hanno deciso che devo tacere, arrendermi, sparire, mi hanno privata del diritto di fare il mio lavoro nel modo in cui io reputo di doverlo fare, mi hanno privata del diritto di tornare a casa nella mia città, mi hanno privata del diritto di poter tornare un giorno nel mio teatro e di recitare nei miei spettacoli.

Qualcuno ha anche deciso che bisognasse licenziarmi. Grazie al Teatro nazionale croato, grazie al mio collega Dragan Milivojević che ha firmato il licenziamento. So che molte persone vengono licenziate, che sono solo una fra tanti, semplicemente un surplus. Uno si domanda continuamente se ha il diritto, in questo orrore generale, di fare una sua intima domanda. Io certamente per un po’ di tempo (quanto?) non intendo recitare su nessun palcoscenico di questo frantumato e dolente paese. Forse non bisognava affrettarsi con quel licenziamento, tutto si sarebbe risolto da sé. Con più eleganza. Più a modo. Non così duramente. Certo, non sono questi i tempi della tenerezza. Ma, qualcuno si dovrà vergognare dopo tutto questo? E sarò proprio io, come cercano di convincermi i miei colleghi nelle loro interviste ortodosse.

Si può giustificare con la brutalità della guerra ogni piccolo abominio contro il proprio prossimo? Si può tacere l’ingiustizia contro l’amico o il collega nel nome del grande, illuminato obiettivo nazionalista? Si può, nel nome della sensibilità di tutto il popolo, rimanere impassibili nei confronti della sofferenza del singolo (che per puro caso è altrettanto parte di quel popolo)? Faccio queste domande ai miei amici di Zagabria, i quali non rispondono, rimproverando nello stesso tempo il silenzio di Belgrado.

È difficile scrivere senza rancore. Vorrei poterlo fare, perché: “Amate i vostri nemici”. Vorrei che tutti ne fossimo in grado. Forse la soluzione per tutti noi è in questo. Ma ho paura di essere incredibilmente lontana dal cammino di Dio. E questo è sempre un cammino d’amore. Non di odio.

A chi scrivo veramente questa lettera? Chi la leggerà? Chi la vorrà leggere? Tutti sono presi dalle grandi questioni collettive, i piccoli destini individuali non contano più. Quanti amici tradiremo pur di non commettere il grande, unico riconosciuto, tradimento della patria? Quanti piccoli tradimenti umani, quante piccole meschinità deve commettere uno per rimanere “pulito davanti alla patria”?

Mi dispiace, la mia scala di valori è diversa. Per me esistono, e esisteranno sempre solo persone, persone individuali, e quel numero di persone (Dio, come ce ne sono poche!) esisteranno sempre nella mia testa, nonostante tutti i cataclismi di questo mondo, saranno sempre un’eccezione da tutte le generalizzazioni. Io, purtroppo, non riuscirò mai a “odiare tutti i Serbi”, né tanto meno comprendere il significato di questo odio. Sempre, o almeno fino al momento in cui non la smetteranno con le premurose minacce telefoniche, porgerò la mia mano a una persona anonima “dall’altra parte”, persona altrettanto disperata e sola quanto me, che è altrettanto triste, traumatizzata e spaventata a morte. Persone del genere esistono anche nella città dalla quale scrivo questa lettera, e nella quale mi ha portata l’amore, quella cosa che in questo momento pare indecente anche solo nominare. Nulla serve più da scusa, tutto è calpestato e disprezzato, se non è direttamente al servizio del grande obiettivo. Quale amore, quali matrimoni, quali amicizie, quali spettacoli teatrali!

Rifiuto e non accetto uno sfregio del genere a me stessa e alla mia vita. I miei ultimi spettacoli a Belgrado li ho recitati per quei poveracci che non sono “serbi”, ma persone, persone come me, persone che odiano questo teatrino schifoso da Grand Guignol nel quale volano teste mozzate. Mi rivolgo a quelle persone, qui e lì. Forse qualcuno mi udirà.

La punizione che la mia città, la mia unica città, il mio teatro, il mio unico teatro, ovvero l’unico teatro che ho considerato essere mio, la punizione che mi hanno riservato, penso di non essermela meritata perché ho lavorato come penso si debba lavorare sempre: credendo nelle persone e nella nostra professione che deve unire le persone e non separarle. Non “rinnegherò” mai i miei amici belgradesi come alcuni miei colleghi, perché reputo che quegli amici non abbiano in alcun modo contribuito a questa catastrofe che ci ha colpiti, come non rinnegherò mai i miei amici zagabresi, nemmeno quando sono loro a rinnegare me. Cercherò in tutti i modi di capire il loro panico, la paura, il rancore, e persino l’odio, ma chiedo la stessa comprensione per me stessa, ovvero per una storia diversa dalle solite, per una vita che per un puro caso del cosiddetto destino è fuoriuscita dalla cornice aspettata. Perché tutto deve essere così uguale, spaventosamente uniforme, appiattito, uniforme? Non ne abbiamo avuto a sufficienza? So che è il momento delle divise, che sono tutte uguali, ma io non sono un soldato, non lo posso essere, non sono capace di esserlo, non spetta a me esserlo.

Senza pensare se vivremo in un unico, in cinque o in cinquanta paesi, cerchiamo di non dimenticarci delle persone, tutte singolarmente, senza pensare da che parte di questo nostro Muro si trovi la persona in questione. Siamo nati qui per caso, siamo questi o quelli per caso, ci sarà dunque qualcos’altro che vada oltre a questo?

Spedisco questa lettera al vuoto, al buio, non sapendo chi e come la leggerà, né tanto meno in che modo la si potrà strumentalizzare. Probabilmente servirà da cibo alla sempre affamata bestia della propaganda. Forse dopotutto qualcuno la leggerà a mente aperta.

Quella persona avrà la mia gratitudine.

 

Da Belgrado a Zagabria, 1.11.1991.

 

Traduzione di Marijana Puljić

 
 
 
PISMO SUGRAĐANIMA MIRE FURLAN

In memoriam
 

Od velike Mire Furlan opraštamo se njezinim "Pismom sugrađanima" koje je iz Beograda u Zagreb poslala 1. 11. 1991. godine. Hajka kojom je otjerana iz Zagreba, velika je sramota hrvatskog društva. Pogotovo je velika sramota da su Mira Furlan i brojni drugi protjerani zauvijek iz svojih domova, a njihovi progonitelji postali su posljednja tri desetljeća, kako se kaže, stupovi društva.


"Pismo sugrađanima"
Mira Furlan

Ovim putem želim zahvaliti svojim sugrađanima koji su se bezrezervno pridružili ovoj maloj, usputnoj i, po svemu sudeći, ne naročito značajnoj hajci na mene. Iako usputna, ona će ipak promijeniti i označiti cijeli moj život. Što je, naravno, posve nevažno u kontekstu svakodnevnih smrti, uništavanja, razaranja i stravičnih zlodjela u kojima se odvija naš život.

Budući da se ipak radi o mom jedinom životu, i kad sam već iz nekog razloga izabrana da poslužim kao prljava krpa o koju je zgodno tu i tamo obrisati blatne cipele, pa iako sam previše očajna da bih uopće imala volje za polemiziranje po novinama, ipak mislim da sebi i ovom gradu dugujem barem nekoliko rečenica. Baš kao na kraju nespretne, mučne, krive ljubavne priče, kad se, potpuno pogrešno, uvijek još nešto hoće reći i objasniti, iako u dubini duše znamo da su sve riječi suvišne, jer ih, naime, više nema tko čuti. Jer je, naime, kraj.

Preslušavajući svoju telefonsku sekretaricu, slušajući neshvatljiv broj neopisivo odvratnih poruka svojih sugrađana, čeznula sam za samo jednom jedinom porukom nekog prijatelja. Ili čak ne prijatelja. Običnog znanca. Kolege. Ali takve poruke nije bilo. Ni jednog jedinog poznatog glasa, ni jednog jedinog prijatelja – čovjek se pita da li je to moguće. Pa ipak, hvala im. I onim plemenitim rodoljubima koji mi ljubazno obećavaju "masakr na srpski način" i onim kolegama, prijateljima i znancima koji mi svojom šutnjom daju do znanja da na njih više ne računam.

Hvala i svim mojim kolegama u kazalištu s kojima sam igrala Držića, Molierea, Turgenjeva i Shawa, hvala im na njihovoj šutnji, hvala im na tome što nisu pokušali barem razumjeti, ako ne pravdati, moje pismo povodom igranja predstave na Bitefu, pismo u kojem sam pokušala objasniti da je igranje predstave u ovom času za mene obrana naše zajedničke profesije koja ne smije i ne može sebe staviti u službu ni jedne političke ili nacionalne ideje, koja se ne može i ne smije sputavati političkim ili nacionalnim okvirima, jer se to naprosto protivi njenoj prirodi, koja mora, i u najgorim trenucima uspostavljati mostove i veze, kojoj je strana svaka nacionalna međa, koja je, u samoj svojoj biti, profesija koja ne pozna i ne priznaje granice.
Znam da se u ovom času sve te priče o kozmopolitizmu umjetnosti čine deplasiranima. Znam da se čini neumjesnim zaklinjati se u pacifizam, opću ljubav i bratstvo svih ljudi, dok ginu ljudi, ginu djeca, mladići se vraćaju kući zauvijek osakaćeni. Kako da kažem bilo što što neće zvučati kao deplasirana glupost u trenutku kad se, iz apsolutno neshvatljivih razloga, prijeti Dubrovniku u kojem sam igrala svoju najdražu predstavu, "Gloriju"?

Pa ipak, ja ne znam drugačije misliti. Ne mogu u svojoj glavi pristati na rat kao jedino rješenje, ne mogu se natjerati da mrzim, ne mogu vjerovati da ce oružje, ubijanje, osveta, mržnja, da ce gomilanje zla bilo što ikada moći riješiti. Ne znači li svako pojedinačno intimno pristajanje na rat i zapravo i suučestvovanje u tome zločinu, prihvaćanje makar i najmanjeg dijela krivice za taj rat, odgovornosti za nj?

Ja u svakom slučaju mislim, znam i osjećam da je moja dužnost, dužnost naše profesije da gradi mostove. Da ne odustaje od suradnje i zajedništva. Ali ne nacionalnog. Profesionalnog. Ljudskog. I onda kad je najužasnije, kao što je to sada, trebalo bi inzistirati, do zadnjeg daha, na uspostavljanju i održavanju veza između ljudi. To je ulog za budućnost. A ona ce valjda jednog dana ipak doći. Ja sam, sa svoje strane, sve do nedavno, bila spremna na sve moguće muke i poteškoće transportno – komunikaciono – financijske vrste, bila sam spremna da 20 sati putujem preko Austrije i Mađarske, a bila bih spremna da podnesem još mnogo luđe i opasnije varijante putovanja, samo da stignem na svoje predstave u dva zaraćena grada, da se točno u pola osam pojavim na sceni sa svojim zagrebačkim ili beogradskim kolegama i da odigram naizmjenično Corneillea i Turgenjeva, u ime kontinuiteta svog posla, u ime nečega što će nadživjeti ovaj rat i ovu, meni neshvatljivu, mržnju. I bila bih i dalje spremna da sebe uvijek iznova ulažem kao zalog za neku budućnost koja nas valjda ipak čeka, sve dok me neki strastveni rodoljub dosita ne izmasakrira, kao što mi obećavaju.

Bila sam spremna i bila bih spremna i dalje na sve napore i užase s tim u vezi, da me odjednom, takvom strahovitom žestinom, nije zapljusnula mrznja iz mog rodnog grada. Užasnuta sam silinom i količinom te mržnje, jednodušnošću osude, činjenicom da baš nitko u mom gestu nije vidio dobru namjeru, obranu integriteta profesije, pokušaj da se makar obrani jedna dobra i lijepa predstava. Ja ionako više nisam imala namjeru nastaviti s igranjem te predstave, što sam naznačila u svom pismu. Bitef kao internacionalni festival, na koji su došli Englezi, Rusi, Francuzi, Belgijanci, među njima i jedan Slovenac, činio mi se vrijedan mog prisustva, tim više što bi moje neigranje značilo izdaju predstave koju sam pod najtežim okolnostima radila za vrijeme devetomartovskih tenkova, svakodnevnih prijetnji vojnim udarom itd. itd. Itd.
Strahovito je tužno biti prisiljen na opravdavanje, a nedjelo ne postoji. Postoji samo očaj, muka i užas. Preda mnom više ne stoje nikakve odluke koje moram donijeti. Sve su odlučili drugi. Oni su odlučili da ja moram zašutjeti, odustati, zamrijeti, oni su mi ukinuli pravo da radim svoj posao na onaj način na koji ja mislim da bih ga trebala raditi, oni su mi ukinuli pravo da dođem kući u svoj grad, ukinuli su mi pravo da se jednoga dana vratim u svoje kazalište i igram svoje predstave.

Netko je u to ime odlučio i to da mi treba dati otkaz. Hvala Hrvatskom narodnom kazalištu, hvala mom kolegi Draganu Milivojeviću koji je taj otkaz potpisao. Znam da mnogi ljudi dobivaju otkaze, da sam ja samo jedna od mnogih, jednostavno višak. Čovjek se stalno pita ima li pravo u ovom općem užasu postavljati svoje malo osobno pitanje. Ja svakako neko vrijeme (koje?) ne mislim igrati ni na jednoj kazališnoj sceni ove raspadajuće, izmrcvarene države. Možda se nije trebalo tako žuriti s otkazom, sve se moglo riješiti samo od sebe. Elegantnije. Pristojnije. Ne tako grubo. Naravno, nije vrijeme nježnosti. Ali, hoće li se netko nakon svega ovoga morati stidjeti? I da li ću to biti baš ja, kao što me uvjeravaju moje kolege po svojim pravovjernim intervjuima?

Može li se užasom rata opravdati svaka mala gadost počinjena prema svojem bližnjem? Smije li se prešutjeti nepravda učinjena prijatelju ili kolegi u ime velikog svijetlog nacionalnog cilja? Smije li se u ime osjetljivosti za patnje cijelog jednog naroda ostati neosjetljiv na patnju pojedinca (koji je slučajno isto tako dio tog naroda)? Postavljam ova pitanja svojim prijateljima u Zagrebu koji šute, zamjerajući istovremeno šutnju Beogradu.

Teško je pisati bez gorčine. Voljela bih da to mogu, jer: "Ljubite neprijatelje svoje". Voljela bih da svi to možemo. Tu možda leži rješenje za sve nas. Ali se bojim da sam nevjerojatno daleko od Božjeg puta. A on je uvijek put ljubavi. Ne mržnje.

Kome zapravo pišem ovo pismo? Tko će ga pročitati? Tko će ga htjeti pročitati? Svi su obuzeti velikih općim stvarima, male pojedinačne sudbine više nisu važne. Koliko ćemo prijatelja izdati da ne bismo počinili veliku, jedino priznatu, nacionalnu izdaju? Koliko malih ljudskih izdaja, koliko sitnih podlosti treba počiniti da bi čovjek ostao "čist pred nacijom"?

Žao mi je, moj vrijednosni sistem je drugačiji. Za mene su uvijek postojali i uvijek će postojati samo ljudi, pojedinačni ljudi, i ti neki ljudi (bože, kako ih je malo!) uvijek će u mojoj glavi, bez obzira na sve kataklizme ovoga svijeta, biti izuzeti od svih generalizacija. Ja, na žalost, nikada neću moći "mrziti sve Srbe", niti uopće shvatiti što to zapravo znači. Ja ću uvijek, valjda do trenutka kad se ljubazne telefonske prijetnje konačno ostave, svoju ruku držati ispruženu prema nekom anonimnom čovjeku s one "druge strane", čovjeku koji je isto tako očajan i izgubljen kao ja, koji je isto tako tužan, zgranut i na smrt preplašen. Tih ljudi ima i u ovom gradu iz kojeg pišem ovo pismo, a u koji me odvela moja ljubav, ta stvar koju je u ovom času gotovo nepristojno i spomenuti. Ništa više ne služi kao ispričnica, sve je zgaženo i prezreno, ako nije u direktnoj službi velikog cilja. Kakva ljubav, kakvi brakovi, kakva prijateljstva, kakve kazališne predstave!
Odbijam i ne pristajem na takvo osakaćenje sebe same i svog života. Svoje zadnje predstave u Beogradu igrala sam za one očajnike koji nisu "Srbi", nego ljudi, ljudi kao ja, ljudi koji se gnušaju ove odvratne granginjolške farse u kojoj lete mrtve glave. Tim ljudima, i ovdje i tamo, sada se obraćam. Možda će me netko čuti.

Kaznu koju mi je moj grad, moj jedini grad, moje kazalište, moje jedino kazalište, tj. jedino kazalište koje sam smatrala svojim, kaznu koju su mi priredili, mislim da nisam zaslužila, jer sam radila onako kako mislim da uvijek treba raditi: vjerujući u ljude i našu profesiju, koja ljude mora spajati a ne razdvajati. Nikad se neću "odreći svojih beogradskih prijatelja" kao neke moje kolege, jer ne mislim da su ti prijatelji na bilo koji način pridonijeli ovoj katastrofi koja nas je zadesila, kao sto se nikad neću odreći ni svojih zagrebačkih prijatelja, čak ni onda kad se oni odriču mene. Trudit ću se na sve načine da razumijem njihovu paniku, strah, ogorčenje, pa čak i mržnju, ali molim to isto razumijevanje i za sebe, tj. za jednu priču koja je drugačija od uobičajenih, za jedan život koji je, igrom tzv. sudbine, izašao iz očekivanog okvira. Zašto sve mora biti tako isto, tako zastrašujuće izjednačeno, poravnano, jednoobrazno? Nije li bilo dosta toga? Znam da je vrijeme uniformi, a one su sve jednake, ali ja nisam vojnik, ne mogu to biti, nisam u stanju to biti, nije moje da to budem.

Bez obzira na to hoćemo li živjeti u jednoj, u pet ili u pedeset država, dajte da ne zaboravimo na ljude, na svakoga pojedinačno, bez obzira na kojoj se strani ovog našeg Zida taj dotični slučajno zatekao. Slučajno smo se ovdje rodili, slučajno smo ovi li oni, pa valjda ima još nešto osim toga?

Upućujem ovo pismo u prazninu, u mrak, ne znajući tko će ga i kako pročitati, niti na koje se sve načine ono može zloupotrijebiti. Vjerojatno će poslužiti kao hrana za vječno gladnu propagandnu zvjerku. Možda će ga ipak netko pročitati čistoga srca.
Takvom čovjeku ću biti zahvalna.

Iz Beograda u Zagreb, 1.11.1991.