Esattamente 80 anni fa terminava la guerra d’Aprile, il conflitto tra le forze dell’Asse Roma-Berlino e la Jugoslavia. In proposito FarodiRoma ha intervistato il prof. Marco Cuzzi, dell’Università di Milano, che ha dedicato diversi studi all’argomento

[Riferimenti alla implicazione dei fascisti croati nella strategia della tensione che insanguinò l'Italia durante la Guerra Fredda si possono trovare anche sul nostro sito, spec. alle pagine:

https://www.cnj.it/documentazione/ustascia.htm#italia


 
Tito e la difficile coesistenza tra popoli diversi in Jugoslavia. La pesante eredità dell’occupazione italotedesca. Intervista a Marco Cuzzi (di Giordano Merlicco)

Di redazione - 19/04/2021
 

Esattamente 80 anni fa terminava la guerra d’Aprile, il conflitto tra le forze dell’Asse Roma-Berlino e la Jugoslavia. In proposito FarodiRoma ha intervistato il prof. Marco Cuzzi, dell’Università di Milano, che ha dedicato diversi studi all’argomento. 

 

Professore, quali furono le motivazioni dell’invasione della Jugoslavia?

Tanto la Germania quanto l’Italia avevano da tempo inserito la Jugoslavia nella loro sfera di interessi. La Germania – soprattutto dopo l’Anschluss dell’Austria – aveva iniziato una penetrazione economico-industriale segnatamente in Slovenia e Croazia. L’Italia sin dal 1918 rivendicava il controllo dell’Adriatico orientale e aveva giocato la duplice carta della destabilizzazione (sostenendo il separatismo croato e macedone) e del dialogo asimmetrico e quasi paternalista (dal 1935 e fino al 1939, durante la leadership di Stojadinović, il «quasi duce» jugoslavo). Si potrebbe dire che la Jugoslavia – tanto quella prebellica quanto quella occupata –  fu uno dei teatri dove maggiormente si sviluppò la concorrenza tra Italia e Germania: tramontata la pedina Stojadinović, la partita passò ai tedeschi che esercitarono un’analoga influenza sul governo Cvetković-Maček. Il putsch di Belgrado del 27 marzo 1941, ispirato dalla Gran Bretagna, scatenò Hitler, che sperava di utilizzare la Jugoslavia come polmone agro-alimentare e industriale per l’imminente Operazione Barbarossa. Quanto a Mussolini, il quale aveva già creato numerosi problemi a Berlino con la disastrosa campagna di Grecia, approfittò dell’occasione sia per riconquistare un briciolo di credibilità sia per perfezionare l’antico progetto di un “lago italiano” nell’Adriatico, occupando Dalmazia e Montenegro in una continuità di sovranità da Trieste all’Albania e oltre, fino alle isole Ionie strappate alla Grecia. Fino al 1943 Roma e Berlino ebbero parecchi contrasti proprio a causa delle rispettive volontà egemoniche sull’ex Stato degli Slavi del Sud.

Quali furono i settori maggiormente disposti a collaborare con l’Asse?

L’Italia aveva puntato tutto – soprattutto durante la gestione Grandi del dicastero degli Esteri (1929-1932) – sul movimento ustascia e sul separatismo macedone. Tuttavia, durante l’occupazione lo Stato indipendente di Croazia di Ante Pavelić si dimostrò insofferente dinanzi agli appetiti dalmati di Roma, avvicinandosi a Berlino. Quanto ai macedoni, le pressioni italo-albanesi sui confini nord occidentali della regione li convinsero a simpatizzare di più per i bulgari. Gli interlocutori degli italiani furono gli sloveni (la cosiddetta Bela Garda, una milizia clericale controllata dal vescovo Rožman) e i cetnici del Generale Mihailović, o meglio alcuni suoi proconsoli in Montenegro, nella regione della Lika, in Erzegovina e nella provincia di Lubiana: un’amicizia interessata e molto ambigua in entrambi i casi. In Serbia, invece, gli italiani non giocarono alcun ruolo: Belgrado fu letteralmente sequestrata dal Terzo Reich, con un’occupazione spietata, rapace, brutale. Ma anche qui ci furono vari collaborazionisti: il governo e le milizie del generale Milan Nedić, il Petàin serbo, i seguaci di Ljiotić, il leader fascista prebellico, i cetnici «neri» del popolare voivoda  Pećanac, l’eroe del primo conflitto mondiale.

L’Italia mantenne rapporti con i collaborazionisti anche dopo la fine del fascismo. Perché e con quali esiti?

Anzitutto dal 1944 l’Italia liberata fu meta di un crescente flusso di profughi provenienti dalla Jugoslavia, caratterizzati da uno spiccato anticomunismo. Molti di questi erano stati più o meno convinti collaborazionisti (ustascia, cetnici, belogardisti, nediciani, ljoticiani, macedoni eccetera) e avevano intessuto rapporti con i servizi di informazione militare dal 1941 al 1943. Raggruppati in diversi campi di raccolta, questi jugoslavi «refrattari» al nuovo regime titoista furono prima monitorati e poi in parte utilizzati come agenti informatori: la conoscenza delle lingue slovena, serbo-croata e macedone li trasformò in spie attive nel periodo di «piccola guerra fredda» tra Italia e Jugoslavia (1945-1954). Con la successiva «piccola distensione» in seguito al ritorno di Trieste all’Italia, la loro utilità andò scemando: i loro capi abbandonarono Roma alla volta del Canada, degli Stati Uniti, dell’America Latina o dell’Australia. I pochi rimasti nella nostra capitale si avvicinarono alle organizzazioni di estrema destra, sempre monitorati dai nostri servizi segreti.

Il rapporto tra servizi ed esuli jugoslavi è emerso anche in occasione delle indagini sulla strategia della tensione.

È un tema tutto da studiare e sul quale non è ancora stata fatta piena luce. Alcuni esponenti del collaborazionismo mantennero un loro domicilio in Italia (ad esempio il leader del separatismo macedone Mihajlov) e come ho detto non disdegnarono relazioni con l’estrema destra italiana. Ci sono state diverse indagini che hanno coinvolto ex cetnici ma soprattutto ex ustascia attivi in Italia negli anni Settanta: il commissario Luigi Calabresi stava seguendo tra l’altro una «pista croata» quando fu assassinato. Ripeto: si tratta di un tema che deve ancora essere analizzato. Potrebbe riservare parecchie sorprese.

Dopo la fine della Jugoslavia l’opinione pubblica regionale ha operato una radicale rilettura degli eventi della seconda guerra mondiale. La tesi dominante, nella versione più estrema, presenta la guerra come un conflitto tra italiani e serbi, da una parte, contro tedeschi e croati, dall’altro. Hanno senso interpretazioni di questo tipo?

Ben poco. Anzitutto si tratta di una lettura troppo schematica. I «nazionalisti serbi» filo-Asse collaborarono con entrambi, prima con gli italiani fino al 1943 e poi con i tedeschi. Gli ustascia giunsero a Zagabria nell’aprile 1941 indossanti uniformi del Regio esercito italiano, perché provenivano dai campi di addestramento in Italia. Il fatto che i primi fossero più filo italiani e i secondi più filo tedeschi non implica che entrambi non mantenessero rapporti con l’altro alleato. Aggiungo che tale lettura sembra quasi assolvere tutti gli altri fenomeni quisling jugoslavi (sloveno, serbo, macedone eccetera) «scaricando» solo sugli ustascia croati tutte le responsabilità.

Veniamo ora all’esercito partigiano. A cosa si deve il successo di Tito?

Innanzitutto propugnavano un modello di Jugoslavia federale dove tutte le nazionalità avrebbero trovato uno spazio autonomo riconosciuto: persino ai musulmani «bosgnacchi» sarebbero stata riconosciuta una identità nazionale (clamoroso, in uno Stato socialista e ateo!). Questo progetto, che raccolse vasti consensi, collideva con gli esempi centralisti del passato, ai quali si ispirava il movimento concorrenziale e monarchico di Mihailović, che non a caso solo nel 1944 –ormai fuori tempo massimo- abbracciò il federalismo. Si aggiunga che l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia era disciplinato ed efficiente, oltre a perseguire una strategia offensiva nei confronti degli italo-tedeschi. I cetnici viceversa erano meno organizzati e più attendisti. Alla fine, gli Alleati – sebbene non ne apprezzassero le idee politiche e i progetti futuri –  preferirono puntare su Tito perché più popolare e più utile rispetto al suo concorrente. Il quale, cinicamente, venne abbandonato al suo destino dagli stessi che lo avevano sostenuto all’inizio.

 

Giordano Merlicco