Segnaliamo questa interessante intervista che tratta, tra l'altro, del contesto storico in cui sorse l'ideale jugoslavista e dell'annoso problema dei rapporti tra Europa occidentale e orientale. Senza necessariamente condividere tutte le posizioni del prof. Leoncini riteniamo che essere meritino di essere conosciute ed apprezzate per la loro autonomia dal conformismo saccente e superficiale che impera su questi temi. (Italo Slavo)
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Chi ha nostalgia del Muro di Berlino e della guerra fredda? Intervista a Francesco Leoncini, storico e slavista di fama internazionale (Giordano Merlicco)
11/10/2021
 

Il professor Francesco Leoncini, storico e slavista di fama internazionale, è uno dei massimi specialisti di Europa centro-orientale; recentemente ha curato l’edizione del volume La Nuova Europa: il punto di vista slavo, dello statista e intellettuale cecoslovacco Tomáš Garrigue Masaryk (Castelvecchi, 2021). 

FarodiRoma lo ha intervistato per fare il punto della situazione dell’Europa, a trenta anni dalla fine della divisione del vecchio continente in blocchi contrapposti

 

Professor Leoncini, Tomáš Masaryk sognava un’Europa coesa ma plurale, in grado di valorizzare l’apporto delle varie nazioni. Il suo messaggio è ancora attuale?

Direi piuttosto che il quadro generale delle sue considerazioni sia sul piano geopolitico sia nell’ambito dell’organizzazione sociale appaia paradossalmente inattuale e la sua riproposizione rappresenti un atto provocatorio. Lui fu il fondatore della Cecoslovacchia e l’ispiratore, il ‘padre spirituale’, della Jugoslavia. Gran parte della intelligencija degli slavi del sud si era formata alla sua cattedra di Filosofia all’Università Carlo di Praga, dove era stato chiamato nel 1882. Ancora oggi nelle tre capitali degli stati successori, Lubiana, Zagabria e Belgrado, nonostante il ‘tradimento’ dell’ideale unitario, esistono delle strade intitolate a lui. In Repubblica Ceca ci sono innumerevoli luoghi e diverse istituzioni intitolate a lui, c’è un museo a Hodonín, suo villaggio natale, una sua statua campeggia fuori dell’entrata del Castello a Praga, non si capisce però perché non sia dentro, nel cortile principale. Egli tra l’altro attuò un radicale restauro del complesso con il concorso dell’architetto sloveno Jože Plečnik. Anche questa sua creatura, la Cecoslovacchia, è scomparsa.
Come Mazzini egli riteneva che i piccoli popoli dell’Europa centrale, vale a dire di quell’area che sta tra la Germania e la Russia e che va dal Baltico all’Egeo dovessero trovare delle forme di aggregazione federativa una volta che si fossero liberate dal dominio dei grandi imperi, l’asburgico, l’ottomano e il russo. L’«Europa centrale» masarykiana (la Střední Evropa ) indica una realtà ben diversa dalla Mitteleuropa di stampo germanico, è comprensiva anche dei Balcani e si sarebbe dovuta sottrarre all’ipoteca austro-tedesca. Qualcosa del genere è avvenuto con la creazione del Gruppo di Visegrád giusto trent’anni fa. Vi era l’intenzione di autodefinirsi con una propria identità e originalità, presupponeva il mantenimento delle statualità cecoslovacca e jugoslava e l’Italia, con il ministro Gianni De Michelis, aveva giocato un ruolo importante dando vita alla cosiddetta ‘Esagonale’, nacque poi l’Iniziativa centro europea, ma l’ispirazione originaria venne meno. 

Qual è invece lo scenario dell’Europa dei nostri giorni?

Si è ricostituita una Mitteleuropa di stampo tedesco che sta allargando i suoi confini all’Italia del nord. Che altro vuol dire l’“autonomia differenziata” richiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna se non la costituzione di un blocco sempre più legato alla Germania (di fatto una secessione) e l’abbandono dell’Italia meridionale in una condizione di endemico sottosviluppo? A questo si aggiungano le tensioni in Catalogna, Scozia, e in tante altre parti del Continente, le cosiddette ‘Euroregio’ non sono altro che un’ulteriore espansione dell’influenza tedesca. Come vede siamo ben distanti dal progetto di Masaryk che prevedeva un ridimensionamento della potenza tedesca, proprio per creare una balance of power nel Continente e assicurare il pieno sviluppo delle nazionalità minori.
Tutto questo è piuttosto legato all’ideologia neoliberista che comporta la frammentazione delle formazioni statali otto-novecentesche, in modo che i nuovi spazi ridotti siano più omogenei e più funzionali alle esigenze del Capitale. Di conseguenza vengono emarginate le aree meno produttive o quelle che appaiono parassitarie. Il dogma del neoliberismo è la “differenziazione”, e questo deve avvenire sia sul piano sociale sia su quello territoriale. Così come si concentra la ricchezza, ad altezze vertiginose, analogamente sono favorite le regioni che hanno un più alto tasso di sviluppo, e cosa dire delle “eccellenze” che vengono coltivate e sollecitate nel campo dell’istruzione! 

Era possibile un diverso equilibrio sul vecchio continente?

Pensi che Masaryk nel suo volume parla di una «barriera latino-slava» da contrapporre al pangermanesimo. E lo diceva nel 1918, la politica nei decenni successivi andò in tutt’altro senso, a partire dall’Italia, la cui classe dirigente abbandonò completamente il pensiero di Mazzini volto a un’alleanza strategica con i movimenti di liberazione delle popolazioni slave e successivamente con i nuovi stati che si sarebbero formati. Vi fu invece una ostilità crescente nei confronti degli jugoslavi.
Ne parlo ampiamente nel mio recente volume Alternativa mazziniana (Castelvecchi, 2018), dove metto in evidenza come già la conduzione della guerra mondiale stessa poteva essere realizzata in modo completamente diverso e più profittevole per l’Italia qualora si fosse stabilito un rapporto di alleanza con i comitati ceco-slovacco e jugoslavo. E’ la prospettiva che fu portata avanti con tenacia ma senza successo dai neomazziniani, da Gaetano Salvemini, da Leonida Bissolati, da Luigi Albertini, allora direttore del “Corriere della sera”, da Carlo Sforza, da Andrea Torre, e che condusse alla convocazione della “Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria-Ungheria” dell’aprile del 1918, ma essa fu sempre duramente osteggiata da Sonnino e dallo stesso Orlando. Un versante della storia della Grande guerra che rimane a tutt’oggi molto emarginato dalla storiografia corrente, tutta rivolta all’ambito interno e sorda agli aspetti internazionali, spesso anche limitata a una histoire bataille. Basti guardare le serie televisive dedicate all’evento su RaiStoria, dove parlano quelli che io chiamo i “Signori della guerra”, cioè gli specialisti di quel conflitto, che tanto specialisti non sono se non tengono conto del contesto generale, di ciò che avveniva al di là delle Alpi e dell’Adriatico. Si pensi che ancora adesso si parla di una guerra “italo-austriaca”, ma era una guerra italo-slava! Noi combattevamo contro le aspirazioni di indipendenza dei popoli slavi, la stragrande maggioranza dei militari asburgici apparteneva alle varie nazionalità slave e l’Italia voleva le loro terre.
A quel filone neomazziniano si deve ricondurre il pensiero di Masaryk e quello del suo migliore allievo Edvard Beneš che nel 1917 fece circolare in Italia il pamphlet La Boemia contro l’Austria-Ungheria. La libertà degli zceco-slovacchi (sic) e l’Italia, che ora ho rivisto e ripubblicato con postfazione (Editrice Storica, 2020). Beneš perora proprio la causa di un’alleanza strategica tra italiani, ceco-slovacchi e jugoslavi per impedire la rinnovata penetrazione austro-tedesca in Adriatico, ma venne bellamente ignorato. Anzi negli anni ’40 l’Italia fascista si unì alla Germania nazista per distruggere la Jugoslavia e l’Italia subì poi una durissima occupazione tedesca.
Questo volume ha quindi un carattere retrospettivo onde dimostrare come una diversa politica avrebbe potuto salvare il Continente dalle tragedie che invece lo devastarono. Un programma di collaborazione democratica ante litteram che avrebbe evitato il lungo inverno delle dittature nazifascista e bolscevica. Thomas Mann, ricordando Masaryk e i suoi progetti, scrisse che egli si era lanciato cent’anni in avanti e lo colloca tra le grandi personalità della prima metà del Novecento assieme a Léon Blum e Franklin Delano Roosevelt.

Nella Sua postfazione a La Nuova Europa argomenta che le aspettative suscitate tra il 1989 e il 1991 non si sono concretizzate.

Non a caso la mia postfazione si intitola Sfida e doppia sconfitta dell’umanesimo. La prima sconfitta fu quella verso la fine degli anni ’30, quando non solo la Cecoslovacchia, che era stato l’unico paese a sud del Baltico e a est della Svizzera a mantenere istituzioni democratiche, venne amputata della regione dei Sudeti con il Patto di Monaco del ’38 e poi distrutta dalla successiva occupazione della Boemia da parte del Terzo Reich, nel sostanziale assenso delle potenze occidentali, ma anche tutti gli stati formatisi dopo i Trattati di Parigi vennero aggrediti da Germania, Italia e Urss e furono cancellati dalla carta politica dell’Europa. Una certa pubblicistica tedesca li aveva definiti Saisonstaaten (stati effimeri) per quella che sembrava la loro intrinseca debolezza.
Il fatto è che essi non si dissolsero per convulsioni interne di carattere interetnico o economico ma a causa, come ho appena detto, di aggressioni. E venne cancellato anche quell’anelito di libertà che si era affermato nel più vasto ambito europeo grazie alla personalità di Masaryk. A ragione Benedetto Croce, rievocando la sua figura nella commemorazione che fece nel 1945 a Palazzo Venezia e che ho inserito nel volume, ricorda come la Cecoslovacchia «intraprese una ordinata e pacificata vita di lavoro, irraggiata dalle idealità morali del suo presidente e dalle antiche memorie boeme che egli radunava intorno alla sua giovane repubblica, perché il Masaryk ritenne sempre non poco del romanticismo storico che era stato nelle origini del risveglio della Boemia, e si considerava erede dei Fratelli boemi, allievo del grande educatore Comenius, interprete del sentimento politico boemo che era tutt’insieme nazionale e universale».
Per cinquant’anni l’Europa centrale subì dure occupazioni e governi dittatoriali, ma al suo interno si svilupparono pure dei movimenti di dissenso e di opposizione molto significativi, basti pensare al ’56 polacco-ungherese, alla Primavera di Praga, al movimento di Solidarność. Tutto lasciava prevedere, prima dell’89, che potesse venire proprio dall’“est”, dalle lotte contro i regimi imposti dal dominio sovietico, dall’intellettualità critica di quei paesi un contributo inedito e autonomo al dibattito allora in corso in Occidente sul processo di rigenerazione e di riformulazione delle istituzioni democratiche. Così non fu e da qui trae origine la seconda sconfitta. 

Cosa è andato storto dopo la caduta del muro di Berlino?

Cosa andò storto? Il fatto che i popoli dell’ex blocco sovietico, dopo l’abbattimento del muro, non incrociarono il welfare state che aveva assicurato all’Europa occidentale un quarantennio di progressiva espansione della ricchezza ai ceti meno abbienti, alle classi subalterne, con il riconoscimento dei fondamentali diritti sociali, all’abitazione, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Non dimentichiamo che l’art. 1 della Costituzione italiana nata dalla Resistenza pone il lavoro come fondamento della repubblica. Incrociò invece la dottrina dei Chicago boys già ampiamente diffusa da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher, il cui dogma è l’anatema antkeynesiano «mai più stato». Essi incrociarono il neoliberismo che, come scrisse Luciano Gallino alcuni anni fa «non è una continuazione alla nostra epoca della dottrina politica liberale ma ne rappresenta una perversione, inesauribile nella sua vocazione puntigliosamente totalitaria». Essa ha di gran lunga peggiorato la condizione delle tradizionali democrazie e ha determinato il progressivo scivolamento delle classi medie verso la povertà.
Le società ex sovietiche hanno subito da parte loro un passaggio traumatico dal comunismo alla dittatura del mercato. La riconquista della libertà è stata pagata da durissime privazioni, è completamente caduta tutta la rete di sicurezza sociale che bene o male i precedenti regimi avevano costruito e l’individuo si è trovato solo di fronte al potere anonimo delle forze economiche e finanziarie, inserito in un sistema globale che premia lo sfruttamento e la speculazione. Di conseguenza sono esplose profonde disuguaglianze e nuovi squilibri territoriali. Di questo hanno approfittato le componenti politiche radicali di estrema destra, come è avvenuto alle recenti elezioni nei Länder orientali della Germania, in particolare in Turingia e in Sassonia, ma anche a Varsavia, a suo tempo distrutta dai nazisti, cittadini polacchi hanno marciato sulla piazza principale con svastiche e croci uncinate.

Il crollo del blocco sovietico ha permesso anche la riunificazione della Germania. A distanza di trenta anni, qual è stato l’impatto dell’unità tedesca sugli equilibri del vecchio continente?

L’unificazione della Germania, che poi non è una “riunificazione” perché manca tutta la parte oltre l’Oder-Neisse, non è la Germania del ’37, ha riproposto l’identità tra stato e nazione e ha ricostituito un’area compatta che inevitabilmente si contrappone alla pluralità di etnie che stanno ad est e a sud-est. Le prime vittime sono state non a caso la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, questa volta non a causa di aggressioni ma per implosione, un’implosione che è stata favorita sicuramente da una certa strategia vaticana di voler costituire un’Europa ‘cattolica’, ma anche dalla pressione politica austro-tedesca, e qui siamo di nuovo al Drang nach Osten, che ha sempre caratterizzato la storia tedesca e di cui parla ampiamente Masaryk. Certo l’esempio della Germania ha fatto scuola, l’esempio cioè di creare uno stato-nazione. Di conseguenza abbiamo assistito innanzitutto alla separazione incruenta tra cechi e slovacchi. Non dimentichiamo però che lo slovacco Alexander Dubček, l’artefice del ’68, era decisamente contrario e la sua morte, in un incidente stradale qualche mese prima della divisione, rimane alquanto oscura.
In Jugoslavia invece siamo stati di fronte per un decennio, e non è ancora finita, a un’immane tragedia. Un paese che nel suo insieme era già stato ‘associato’ alla Comunità europea si è dilaniato con forme di inaudita violenza e ora abbiamo una serie di minuscoli stati che sono diventati progressivamente, com’era inevitabile che avvenisse, oggetto e preda delle ambizioni e degli interessi delle grandi potenze. Impallidisce il ricordo di quando la Jugoslavia di Tito era la protagonista del movimento dei ‘non allineati’ assieme all’Egitto di Nasser e all’India di Nehru. Ed erano degli equilibri utilissimi nel quadro della guerra fredda e che sarebbero stati assai importanti anche dopo.
Invece nell’immediato si è pensato che rimanesse un mondo unipolare e che gli Stati Uniti potessero essere i dominatori assoluti del pianeta, quindi ci si è guardati bene dal considerare le proposte di Michail Gorbačëv per «una casa comune europea», per un’Europa dall’Atlantico agli Urali, che poi non era altro che la riproposizione del progetto di Charles De Gaulle. Di conseguenza si è favorito e ci si è compiaciuti della disgregazione dell’Unione Sovietica e del ridimensionamento della Russia (dottrina Brzezinski) e poi ci si è trovati invece di fronte a una pluralità di soggetti internazionali (anche di matrice terroristica) e all’emergere, proprio grazie all’adozione di un sistema di stampo neoliberista (controllo ferreo sulla società e briglia sciolte al capitale), del colosso cinese. 

Qual è stato il ruolo dell’Unione Europea?

In questo contesto l’Unione europea in sé aveva poco da dire, quella fondata da Adenauer, De Gasperi e Schuman, l’Europa carolingia, e la Germania unita ha inevitabilmente assunto un ruolo egemone, il centro non è Bruxelles, è Berlino, e non va lontano dal vero chi la paragona mutatis mutandis a una nuova ‘Unione Sovietica’. Basti vedere come è stata trattata la Grecia, nemmeno la Cecoslovacchia è stata così bistrattata da Brežnev! Al di la dei paroloni e delle promesse roboanti vedremo come andrà a finire con il nuovo piano lanciato per la ripresa dopo la pandemia. Le trattative in corso con i liberali per il nuovo governo tedesco, molto restrittivi sul piano dei bilanci europei, non lasciano ben sperare.
Nel frattempo, per conto e su ordine degli Stati Uniti, dobbiamo aumentare gli armamenti contro la Russia e imporre delle sanzioni che danneggiano pesantemente i paesi europei, in particolare l’Italia, che aveva una prateria per i prodotti agro-alimentari. D’altra parte la penetrazione economica cinese dilaga ovunque, in Europa, in Africa, in America latina. E’ risibile, oltre che umanamente esecrabile, la lotta che si fa contro l’immigrazione dei disperati, ben altri sono i pericoli per le società europee!
Il messaggio di Masaryk è quanto mai attuale non solo sul piano geopolitico, gli interessi tedeschi e degli europei del nord sono obiettivamente diversi da quelli degli altri paesi, e quindi c’è bisogno di un riequilibrio, altrimenti l’Unione non sta in piedi, mentre Polonia e Ungheria tentano di rinverdire passate glorie. Ma soprattutto vanno recuperati i valori che lui richiama alla fine del suo volume: «La democrazia, così come la nazionalità e il socialismo, poggia sul principio umanistico: nessun uomo può servirsi di un altro uomo come strumento dei propri interessi e analogamente nessuna nazione può servirsi di un’altra nazione come strumento dei suoi interessi particolari. Questo è il senso morale del principio politico dell’uguaglianza e dell’uguaglianza dei diritti». 

Masaryk non nutriva simpatia né per lo zarismo, né per il sistema sovietico, tuttavia sottolineava che la Russia è una componente irrinunciabile dell’Europa, sia a livello culturale che politico. 

Certo, come dicevo prima, è stato archiviato troppo frettolosamente il progetto di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, nella sostanza da Lisbona a Vladivostok, che sarebbe stata tanto più auspicabile nell’occasione dell’unificazione tedesca. Un’Europa plurale, autonoma in campo industriale e nelle fonti di energia, avrebbe potuto veramente assumere un ruolo cardine nel contesto globale, fronteggiando opportunamente Stati Uniti e Cina, E invece abbiamo lasciato che la Russia si schiacciasse sulla Cina, abbiamo perso la Gran Bretagna, i cui rapporti economico-finanziari hanno ancora una dimensione mondiale.
Vede, andando un momento indietro, Masaryk e il suo ministro degli Esteri Edvard Beneš, e poi successore alla presidenza della repubblica, si batterono durante tutto il periodo tra le due guerre per creare un sistema di sicurezza europeo che comprendesse anche l’Unione Sovietica, cosa che avrebbe imbrigliato le spinte aggressive tedesche, quelle italiane in Africa si sarebbero potute facilmente contenere. Il disegno non riuscì mai. E questo perché? Lo spiegò assai bene Thomas Mann in uno scritto, non a caso della fine del ’38 quando ormai la dinamica espansionistica tedesca e la debolezza occidentale si erano manifestate a Monaco: «Vi era nelle democrazie capitalistiche dell’Occidente il cauchemar ‘l’incubo’ bolscevico, la paura del socialismo e della Russia: essa portò come conseguenza la rinuncia della democrazia alla propria posizione spirituale-politica, il riconoscimento della bipartizione hitleriana del mondo nell’aut-aut di fascismo e comunismo e la corsa ai ripari dell’Europa conservatrice dietro il ‘baluardo’ del fascismo».
Non fu il Patto Molotov-Ribbentrop lo spartiacque della storia del Novecento bensì il Patto di Monaco, quello fu il segnale del tradimento da parte delle democrazie occidentali delle formazioni statali che loro stesse avevano contribuito a creare dopo il Primo conflitto mondiale. Allora il Novecento è messo sotto tutta un’altra luce e le responsabilità dei governi di Londra e di Parigi appaiono evidenti con le conseguenze tragiche della Seconda guerra mondiale e del successivo espansionismo sovietico in Europa centrale.
Masaryk, come già Wilson al VI dei suoi Quattordici punti, è a favore della ripresa di un rapporto di collaborazione con la Russia dopo l’immane sconvolgimento della rivoluzione. E’ convinto, come il presidente americano, che in Russia si debba favorire un’evoluzione positiva del processo rivoluzionario. Il leader ceco è assai netto nel giudizio sulla situazione colà creatasi: «Hanno eliminato lo zar, ma non si sono sbarazzati dello zarismo». D’altra parte però esclude che si debba indebolire la Russia e ricorda, citando uno studioso francese dell’epoca, che «chi vuole distruggere la Russia o danneggiarla gravemente, deve toglierle l’Ucraina». Imputa alle manovre austro-tedesche i tentativi allora in atto di proclamare l’indipendenza ucraina e sostiene che anche la Polonia e le altre regioni orientali avranno bisogno di una Russia forte «altrimenti, pur conservando un’apparenza di indipendenza, saranno soggette economicamente e politicamente alla Germania». E’ esattamente quello che è avvenuto con la ricostituzione, come dicevo dianzi, di una Mitteleuropa tedesca. 

Come valuta, le preclusioni adottate contro Mosca dall’Ue?

Più si cerca di escludere la Russia e più essa si chiude a riccio e si finisce per favorire indirettamente una involuzione conservatrice e autoritaria, come ora sta avvenendo, con l’aggravante dell’alleanza con la Cina. Un’alleanza del tutto innaturale per un paese che ha subito nel passato più di due secoli di dominazione mongola, dalla quale con molta difficoltà si è liberato. Ora essa cerca di recuperare alcune posizioni perdute della precedente potenza imperiale e di reagire a un accerchiamento che obiettivamente si è concretizzato da parte della Nato dopo la caduta del Muro.
Riaprire i canali di scambio e di collaborazione con la Russia e rallentare la corsa agli armamenti nel Continente sarebbe una politica saggia e proficua, risolvendo al più presto i contenziosi sul tappeto. Un’Unione europea arroccata sotto la guida tedesca in campo economico e statunitense sul piano militare non giova sicuramente a una pace durevole. Quella che sarebbe necessaria se si vuole veramente affrontare con un minimo di consenso internazionale la sfida ecologica, e se in questa sfida l’Europa vuole giocare un ruolo di comprimario. 

Negli ultimi anni è stato impegnato in un’intensa attività editoriale volta ad analizzare i legami tra l’Italia e le nazioni dell’Europa centrale. Quali sono i Suoi progetti per il futuro?

Guardi, i progetti per il futuro sono innanzitutto quelli di far conoscere quello che ho finora pubblicato e di sviluppare se possibile un dibattito sulle varie tematiche e sulle linee interpretative che sono andato elaborando a partire dagli anni ‘70. Viviamo sempre più in un mondo in cui la cultura, l’approfondimento culturale è lasciato a eventi effimeri quali i vari festival, ogni città ha un festival di qualcosa (guardi gli annunci sui giornali), mentre le persone leggono, studiano e riflettono sempre meno. Gli ambienti accademici sono sempre più chiusi in dimensioni specialistiche, ulteriormente accentuate dalla sciagurata eliminazione delle facoltà universitarie. I contributi scientifici sono valutati per quantità, sono ridotti a prodotti, il confronto, il dialogo tra discipline e tra queste e la società è quanto mai ridotto. Come ha scritto Zygmunt Bauman: «Viviamo in un’era non di idee, ma di frasi a effetto, creature effimere destinate ad avere il massimo di impatto e soggette a un’obsolescenza istantanea».
Non si preoccupi comunque, di progetti ne ho diversi. Mi piacerebbe anche riprendere i miei studi su Jan Hus e l’hussitismo, un tema che ho contribuito a far riscoprire alla cultura italiana con un saggio uscito sulla «Rivista di storia e letteratura religiosa» nel 1985 e ripubblicato in un mio successivo volume sull’Europa centrale. S’immagini che l’ultimo a scrivere in Italia dell’eretico boemo, in termini puramente polemici e anticlericali, era stato l’allora socialista rivoluzionario Mussolini …

 

Giordano Merlicco