Sante Giovannetti, in primo piano, durante la visita alla mostra fotografica sul Territorio Libero allestita nel palazzo della Castelli-na a Norcia, 11 ottobre 1975. Alla sua destra si riconoscono il sindaco di Norcia Alberto Novelli, Bogdan Pesic, Svetozar Lakovic; piu indietro, con il fazzoletto tricolore al collo, Guglielmo Vannozzi. (Foto: Studio Magrelli da Arch. priv. Giovannetti). In Martocchia, 2014

Per i novant’anni del compagno e amico Santino Giovannetti “Merenna”, elementi per una biografia

Il più giovane tra i partigiani

 

di Andrea Martocchia – Articolo apparso sul numero 2/2016 del periodico della Ass. ProRuscio La Barrozza

 

A Monteleone di Spoleto, remoto antico borgo dell’Umbria situato a poca distanza dal massiccio laziale del Terminillo, l’8 novembre del 1926 nasce Sante Giovannetti. Figlio del postino del paese, Santino ancora giovanissimo trova da lavorare, tra l’altro, nella miniera di lignite della frazione di Ruscio, dove viene impegnato anche nel montaggio delle baracche per i prigionieri di guerra stranieri – soprattutto montenegrini – che erano lì assegnati ai lavori forzati (Nardelli 2013). Dopo l'8 Settembre 1943, per oltre sei mesi svolge attività partigiana nel territorio, dapprima nel gruppo comandato dal tenente Parigino Marchi, con base a Colle del Capitano:

 

Il 14 settembre 1943 alle ore 14,30 ci incontrammo in località “Madonna della Cerqua”. Eravamo circa trenta uomini; proseguimmo verso la Fonte dell’Asola, dove trovammo un altro gruppo di circa quindici elementi e insieme raggiungemmo la Miniera di lignite […] Sapevamo che tutto il materiale bellico e il vettovagliamento del presidio militare era nascosto nelle gallerie della miniera; […] Allorché decidemmo di impadronirci delle armi nascoste nella miniera, il tenente Marchi parlò a tutti noi mettendo in evidenza l’impegno che stavamo assumendo e i rischi e i pericoli che dovevamo affrontare, dicendo quindi che chi non intendeva proseguire poteva tornare indietro. Ma tutti uniti e decisi, continuammo la marcia verso la miniera per prelevare armi e materiale bellico. Arrivammo alla miniera verso le ore 17; […] Io che avevo allora 17 anni, ero l’unico dei presenti a essere in possesso di un’arma, cioè una rivoltella a tamburo che avevo rubato a mio padre due ore prima di andare all’appuntamento con i miei compagni per portare a termine tale azione. Conoscevo bene la miniera in quanto vi avevo lavorato per circa due anni come apprendista. Quando il capo cantiere vide che avevo in mano il revolver si decise ad indicarci dove erano le armi nascoste. A questo punto intervenne il caporale della miniera, un vecchio compagno antifascista di Papigno di nome Ascani che ci condusse alle gallerie e portammo in superficie tutte le armi: fucili modello 91, un mitragliatore con tutte le munizioni e tutto il vettovagliamento. Ci armammo tutti e ci avviammo alla frazione Trivio di Monteleone dove occupammo la scuola elementare per trascorrere la notte. Il 15 settembre ci spostammo al casale di Stranaccia dove ebbe inizio l’organizzazione in modo impegnativo e disciplinato. Alcuni giorni dopo cominciarono a nascere le prime difficoltà, come organizzazione, vettovagliamento, viveri ecc.; alcuni decisero di ritirarsi e ritornare a casa. Gli altri rimasti, decisero di spostarsi al Colle del Capitano dove si presero delle decisioni importanti sul da farsi. (Giovannetti 1975)

 

La prima azione armata, contro una camionetta tedesca in transito sulla Cascia-Monteleone, è della metà di ottobre. Ne deriva, il 31 ottobre, una rappresaglia da parte dei tedeschi, che uccidono il giovane pastore Nicola Risoldi, mentre “un partigiano di nome Besana (il genovese), per correre ad avvertire il comando al Colle Capitano precipitò da un muro, poche ore dopo morì” (Giovannetti 1975; cfr. anche Vannozzi 1944). Di fronte all’inasprirsi della lotta alcuni esponenti del gruppo, ufficiali di carriera, sono titubanti e si allontanano; ciononostante il comandante dei partigiani di Monteleone, Guglielmo Vannozzi “Anselmo”, riesce a consolidare quella formazione che diventerà via via il battaglione “Cimarelli” della brigata “Antonio Gramsci”. A Santino, che è il partigiano più giovane della formazione e risulterà il più giovane della intera brigata “Gramsci”, viene assegnato il buffo soprannome di Merenna – gli era infatti capitato di chiedere ai compagni: “Sempre a marciare… quand’è che ci fermiamo un attimo per fare una merenda?” – ed entra a far parte della squadra di Umberto Angelini detto “il tasso” (“Lu Tascio”).

Nel corso dell’inverno i combattenti di Monteleone assumono il controllo del paese, prendono gli ammassi del grano e della lana in tutta la zona, sottraendoli ai tedeschi e distribuendoli gratuitamente alla popolazione: il 30 gennaio 1944, ad esempio, all’assalto dell’ammasso di Terzone c’è anche Santino (Vannozzi 1944), che partecipa poi, fra l'altro, all’attacco alla caserma della GNR di Vindoli e alle azioni del 25-26 febbraio 1944 in cui viene giustiziato il commissario prefettizio di Leonessa Fernando Pietramico, ponendo le premesse per la presa di Leonessa. Giovannetti ricorda che in quella occasione i partigiani partirono da Salto del Cieco (“lu Sartu”), la notte si attestarono a Villa Pulcini presso un contadino e la mattina dopo in località Fuscello assaltarono la corriera di linea della ditta Saura sulla strada Cascia-Leonessa, su cui viaggiava Pietramico. Ad ucciderlo, dopo un aspro interrogatorio, fu Volfango Costa, ex prigioniero alla Rocca di Spoleto. I partigiani catturarono in quella occasione anche due guardie forestali:

 

le conducemmo a Villa Pulcini dove, su sollecitazione del parroco, anziché ucciderle le processammo sulla pubblica piazza. La gente del posto indicò solo uno dei due come colpevole di vessazioni, l'altro venne liberato; quello ancora prigioniero fu condotto a Salto del Cieco, dove giorni dopo si recò lo stesso parroco, che intercedette per la sua liberazione. Dopo pochi giorni però i tedeschi lo interrogarono a Leonessa, e la sua testimonianza fu centrale per individuare i partigiani e i loro famigliari, da prendere di mira nella feroce rappresaglia che seguì [a inizio aprile]. (Giovannetti, nostra intervista, dicembre 2012; cfr. anche Vannozzi 1944 e Bovini 1972 pp.231 e 241)

 

Inizio marzo 1944 è il periodo della massima espansione del Territorio Libero di Cascia, la straordinaria esperienza di autogoverno antifascista che si sviluppò ben oltre l’area di Monteleone e Leonessa, da Poggio Bustone e Polino a Sud fino ed oltre Norcia a Nord, con “capitale” per l’appunto a Cascia, dove presso l’Albergo Italia pose la sua base il Comando della brigata, guidato dallo jugoslavo Svetozar Laković “Toso”, commissario politico Alfredo Filipponi “Pasquale” (Martocchia 2014). In quella situazione, persino il nuovo podestà di Leonessa, Tavani, succeduto a Pietramico, si mise a disposizione dei partigiani, mentre a Monteleone era insediato

 

un nostro sindaco nella persona di Sereni Giuseppe [che] coadiuvato dal figlio Delfino e da altri patrioti […] aveva riorganizzato il comune su basi democratiche, assicurando cioè il regolare vettovagliamento della popolazione e la sicurezza dei nostri reparti. [E perciò durante la terribile repressione di inizio aprile] denunziato da un fascista, venne colpito e sepolto ancor vivo. (Vannozzi 1944)

 

In realtà Giovannetti ricorda un’altra figura che fu designata come sindaco – Duilio Vannozzi. Giovannetti ricorda inoltre un suo quasi coetaneo, Luigi Bernardini, romano, unico sopravvissuto della sua famiglia al bombardamento di San Lorenzo e perciò riparato a Monteleone presso il nonno, fabbro ferraio. Bernardini segue l’esempio di Santino e diventa partigiano ma il suo destino sarà di finire tra le vittime della violenza nazifascista.

La repressione più dura si scatena infatti dal 31 marzo al 7 aprile. Il battaglione dei monteleonesi si disarticola, come tutta la brigata, e lo stesso Merenna, che con il suo gruppo tiene prigionieri a Casale Maccario, sopra la miniera di lignite, ben tre di sette ufficiali tedeschi catturati a Biselli il 21 marzo, deve oramai agire come capo-squadra in autonomia.

È il momento più difficile sia per i partigiani della Gramsci che per la popolazione civile della Valnerina e aree limitrofe. Santino, visto l’accerchiamento, decide di sciogliere la sua squadra e liberare i tedeschi sequestrati già da una settimana. In seguito si dirige a piedi verso Terni, ma tra Gavelli e Monte San Vito incontra un gruppo di compagni, guidati da Iannilli, che ancora non hanno smobilitato ed anzi hanno riacciuffato i tre tedeschi in zona Ocosce con l’intenzione di scambiarli con compagni prigionieri nel carcere di Spoleto (tutti e sette i tedeschi saranno invece scambiati il 28 marzo a Cascia con due partigiani detenuti a Perugia).

 

Infuriato per l’andamento contraddittorio degli eventi, Giovannetti rientra a Monteleone dove il 4 aprile è catturato dai tedeschi. Il suo destino è deciso in una riunione in una osteria cui partecipano il parroco, don Enrico Ricci, il podestà, Luigi Massi, e un ufficiale tedesco: Santino è deportato attraverso Leonessa e Rieti, fino a Roma, nel campo di internamento di Cinecittà, da dove troverà la salvezza. A Luigi Bernardini invece, in quanto orfano di guerra, è concesso di rimanere in paese, ma questo paradossalmente gli costerà la vita. Infatti pochi giorni dopo, nel secondo grande rastrellamento, uno degli ufficiali tedeschi ex prigionieri lo riconoscerà come partigiano: il pomeriggio del 6 aprile Bernardini sarà trucidato assieme a Sereni e a Carlo Ciampini. Ai tre viene ordinato di scavarsi la fossa, poi gli sparano alla tempia. Giovannetti ricorda sempre che, se non lo avessero deportato a Roma e se lo avessero tenuto a Monteleone, certamente avrebbe fatto la fine tragica dei tre compagni. Gli altri uccisi in zona in quei giorni terribili sono Antonio Poli e Attilio Peroni, semplici contadini colpiti a Budino.

La prigionia di Santino a Roma dura quasi due mesi. Il 4 giugno, alla vigilia della Liberazione della capitale, durante un trasporto riesce rocambolescamente a fuggire nel corso di un attacco aereo. Infatti i prigionieri sono caricati su camion e trasportati verso la Magliana dove dovrebbero occuparsi di minare il ponte, ma giunti sulla Laurentina le mitragliatrici angloamericane dal cielo sparano su una autocolonna che li precede, diretta al fronte: tutti i prigionieri vengono fatti scendere di corsa dai camion. Sante ed altri dapprima si nascondono dietro i cespugli nelle scarpate, poi sfruttano l’occasione per darsela a gambe. Giunto al Dazio, all’ingresso della città, Sante evita il posto di blocco fascista entrando in una trattoria: il burbero oste decide di aiutarlo e lo fa uscire dal retro, indicandogli la via dei campi attraverso Tor Carbone e l’Appia Antica per tornare verso il centro abitato, dove Sante può raggiungere la casa di parenti.

 

Dopo la guerra Sante Giovannetti rimane a vivere prevalentemente a Roma, ma continuamente frequentando il paese di origine. Svolge innumerevoli attività politiche e professionali-lavorative: è elettricista, fondatore e segretario della Sezione del PCI di Monteleone di Spoleto, titolare del primo ed unico cinema del paese, gestore di una pizzeria e di un ristorante, collaboratore della Pro Loco e animatore di iniziative culturali e sociali che a Monteleone non si erano mai viste prima.

Si è impegnato a fondo nelle attività associative degli ex partigiani. Nel 1975 partecipa all’incontro internazionale di Norcia e Cascia per il Trentennale della Resistenza (Martocchia 2014); dieci anni dopo fa da guida all’ex comandante della sua brigata Gramsci, “Toso” Laković, e a “Bora” Pešić, tra Terni e Roma, per le pratiche di riconoscimento della qualifica di partigiani degli ex-combattenti jugoslavi in Italia.

La passione politica e l’attività lavorativa gli fanno incontrare molti personaggi noti, dai grandi leader comunisti fino al presidente Pertini. Nei suoi racconti ritroviamo tanti mondi e tanti ideali che si sono affastellati nel corso dei decenni: dalle greggi antiche di Monteleone alla vivacità delle sezioni del PCI, alla Roma dei pischelli e dei tram elettrici tipo “Ladri di biciclette”.

Santino, il più giovane tra i partigiani della “Gramsci”, a 90 anni rimane sempre per simpatia e vivacità uno di quei regazzini della Roma popolare fatta grande, durante il boom, dagli immigrati di ogni parte d’Italia. Tuttora risiede a Roma, dove è sempre attivo militante dell'ANPI. Benché regazzino, è stato oramai insignito di numerosi riconoscimenti, tra i quali: la croce al Merito di Guerra, la stella delle Brigate Garibaldi (1947, con diploma firmato da Secchia e Longo), la croce di Cavaliere della Repubblica italiana (1982), il Diploma del Combattente per la libertà d’Italia (1985, firmato da Spadolini e Pertini), la medaglia del cinquantenario dell’ANPPIA (1993). L’8 Settembre 2016, assieme agli altri partigiani di Roma, è stato insignito della Medaglia della Liberazione.

 

FONTI:

Bovini Sergio (a cura di), 1972, L’Umbria nella Resistenza, Antologia di documenti (vol.I + vol.II), Roma, Editori Riuniti.

Giovannetti Sante “Merenna”, 1975, Eventi e fatti avvenuti dopo l’8 settembre a Monteleone di Spoleto, in: Martocchia 2014.

Martocchia Andrea (a cura di), 2014, Il Territorio Libero di Norcia e Cascia a 70 anni dalla proclamazione, Atti della Tavola Rotonda tenuta a Norcia nel 1975. Roma: Odradek Edizioni.

Nardelli D. Renato, 2013, Il campo di prigionia n.117, IX Quaderno di Ruscio. Roma: ProRuscio.

Piccinelli Marco, 2016, 8 Settembre, consegna delle Medaglie della Liberazione ai Partigiani, sul sito di ANPI ROMA (9/10/2016 – http://www.anpiroma.org/2016/09/8-settembre-consegna-delle-medaglie.html ).

Vannozzi Guglielmo, 1944, Relazione del comandante il battaglione “Cimarelli” della brigata “A. Gramsci”, in: Bovini 1972, vol.I pp.276-282.