(english / deutsch / italiano)

Il Tribunale penale internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia (ICTY) ha chiuso da un anno... ma fa ancora danno

0) PRO-MEMORIA: Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"
1) Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto (Italo Slavo / Jacopo Zanchini, marzo 2018)
2) La giustizia che punisce solo i vinti (Paolo Mieli, dicembre 2017)
3) FLASHBACK: Provoking nuclear war by media (John Pilger on ICTY' de facto exoneration of Slobodan Milosevic, 2016)


Altri link / À lire aussi / Weiter lesen / Also recommended:

TPIY : L’ENQUÊTE SUR LE SUICIDE DE SLOBODAN PRALJAK EST CLOSE (Klix.ba | Traduit par Eléonore Loué-Feichter | lundi 5 novembre 2018)
L’enquête sur le suicide de Slobodan Praljak en pleine audience du TPIY, le 29 novembre 2017, n’a pas réussi à établir de quelle manière ni à quel moment l’ancien chef croate d’Herzégovine s’était procuré du cyanure de potassium. Aucune infraction pénale n’a donc pu être établie....

Al link seguente un "articolo" sulla nuova sentenza per Seselj, nel quale però non si parla per niente di quello che avrebbe fatto Seselj per essere processato all'Aia ma in compenso il nome "Milosevic" è menzionato ben sette volte a mo' di insulto... e giù "soldataglia miloseviciana", "centinaia di migliaia di civili" assassinati, Vucic "oggetto di attentati" che si sposterebbe "solo in veicoli blindati", Mira Markovic che con "molti leader del clan panserbo-filorusso vivono oggi a Mosca, con ampi mezzi finanziari", Milosevic "morto suicida in carcere all'Aja", ed altre (come definirle?) invenzioni letterarie per le quali la NATO bombarda, saluta, ringrazia e paga lo stipendio (a cura di Italo Slavo):
SERBIA, LEADER ULTRANAZIONALISTA CONDANNATO IN APPELLO MA EVITA IL CARCERE (di Andrea Tarquini, 12 aprile 2018)
http://www.repubblica.it/esteri/2018/04/12/news/serbia_leader_ultranazionalista_serbo_condannato_in_appello_ma_evita_il_carcere-193652881/

JUSTIFIED GRIEVANCES? A QUANTITATIVE EXAMINATION OF CASE OUTCOMES AT THE INTERNATIONAL TRIBUNAL FOR THE FORMER YUGOSLAVIA (ICTY)
by Jovan Milojevich, February 2018 (Journal of Balkan and Near Eastern Studies, DOI: 10.1080/19448953.2017.1421414 )
Abstract: Scholars have long debated the impartiality of the ICTY. Some argue that the Tribunal is biased while others argue that it fairly and impartially seeks justice for all the victims of the war. The present study offers a narrower approach to the question of possible bias by examining whether certain case variables were associated with case outcomes. The results show strong evidence of an association between the ethnicity of the accused (and of the victims) and the verdict and years sentenced, which calls into question the Tribunal’s impartiality. Nonetheless, the main goal of this study was not to question or dispute its decisions but to assess the validity of certain grievances against the Tribunal. For instance, the Serbs feel the Tribunal has not delivered justice for their victims and—as a result—their ‘collective suffering’ has been disavowed by the other communities in the region as well as by the West. Western political elites have largely rejected the validity of the Serbs’ claim and have attributed their belief to a denial by the Serbs of their role in the war. Unfortunately, the contentious nature of this debate has contributed to the lack of peacebuilding and reconciliation efforts in the region.

Die Webseite www.free-slobo.de, nach fünfjährigem Unterbruch, wird wieder topp-aktuell nachgeführt.. Die sie tragende deutsche Sektion des ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milosevic) hat schon zu Beginn des Jugoslawien Krieges (neben jungewelt.de) dezidiert und fundiert gegen die kriminellen Machenschaften der NATO, insbesondere auch der Dämonisierung von Slobodan Milosevic, Stellung bezogen. (Kaspar Trümpy, ICSM Schweiz)


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Milano 1 Dic. 2018: "G. Torre" Award Ceremony / Premiazione del concorso "G. Torre"



La Commissione per l’attribuzione dei premi “Giuseppe Torre” per elaborati critici sul Tribunale per la ex Jugoslavia, ed. 2018, ha deciso di non attribuire il primo premio e di attribuire due secondi premi ex-aequo a Stefan Karganović e Jovan Milojevich – si veda il comunicato integrale della Giuria: https://www.cnj.it/home/it/diritto-internazionale/8917-i-vincitori-del-concorso-g-torre.html

La PREMIAZIONE dei vincitori si terrà a Milano sabato 1 dicembre p.v., dalle ore 10:30 presso la Galleria Milano, Via Turati 14. Per ragioni organizzative gli interessati a partecipare [ad eccezione dei membri di Jugocoord ed invitati] devono inviare richiesta di iscrizione all'indirizzo jugocoord @ tiscali.it specificando: nome, cognome, telefono di ciascun partecipante. Solo in caso di raggiungimento del massimo della capienza sarà inviata risposta negativa entro 1-2 giorni dalla sottomissione della richiesta.

Programma:

ORE 10:30: Accoglienza

ORE 11:00: Saluti e introduzione del segretario della associazione promotrice Jugocoord Onlus: Andrea Martocchia.

ORE 11:15: Dichiarazione della Giuria del Concorso a cura del membro delegato: Jean Toschi Marazzani Visconti.

ORE 11:30: Premiazioni ed interventi dei vincitori

Stefan Karganović: "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica]

Jovan Milojevich: "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY)” [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)]

ORE 12:00: Proiezione di stralci dal documentario "De Zaak Milosevic" ("Il caso Milosevic", di Jos de Putter / VPRO, Olanda 2003, V.O. sottotitolata).

ORE 12:15: Interventi degli invitati:
Gen. Giorgio Blais, già responsabile di missioni militari all'estero, esperto di Diritto internazionale ed umanitario e protezione dei Beni Culturali
Tiphaine Dickson, già avvocato difensore in casi di crimine internazionale, capo consulente al Tribunale Penale Internazionale sul Ruanda, ex consigliere legale nel processo Milosevic e ora docente alla Scuola di Amministrazione Mark O. Hatfield della Portland State University (Stati Uniti)
Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, autore di saggi sulle questioni jugoslave tra cui "Imputato Milosevic. Il processo ai vinti e l'etica della guerra"
Slobodan Lazarević, giornalista, presidente del Consiglio Direttivo della Associazione Sloboda–Libertà, Belgrado

ORE 12:45: Discussione e conclusioni.

ORE 13:15: Aperitivo.

I lavori si terranno nelle lingue INGLESE ed ITALIANO


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Slobodan Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto

L'articolo di Jacopo Zanchini, che linkiamo di seguito (1), è una difesa d'ufficio dell'operato del "Tribunale ad hoc" dell'Aia: un bel compitino che non convince più nessuno. Se persino Paolo Mieli la interpreta oramai diversamente (2), "Internazionale", tempio in cui officiano i sacerdoti del mainstream, preferisce andare dritta a testa bassa e con robusti paraocchi.

La sua ricostruzione della guerra fratricida in Bosnia e Jugoslavia è assai carente e faziosa, tutta piegata a dimostrare la vulgata della "aggressione serba"; però già la sintesi dell'operato del "Tribunale ad hoc" è inaccettabile, poiché non solo i numeri degli imputati e dei condannati palesano il pesantissimo squilibrio "etnico" delle accuse, ma soprattutto il loro trattamento prima, durante e dopo le sentenze andrebbe analizzato. Milosevic dal carcere è uscito con i piedi davanti, e non per cause naturali, e non è stato il solo. Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS abbiamo promosso un concorso (premi "Giuseppe Torre") su questi temi, che non possono essere liquidati come fa Zanchini.

Sulla questione specifica, Zanchini trascura che la assoluzione de facto di Milosevic è stata persino reiterata negli incartamenti della sentenza contro Ratko Mladić a fine 2017 – vedasi il link (3) per tutti i dettagli. Ma non c'è peggior sordo di chi pensa che le fake news siano solo le fake news degli altri.

(1) Slobodan Milošević è pericoloso anche da morto - Jacopo Zanchini - Internazionale 28.3.2018.
https://www.internazionale.it/opinione/jacopo-zanchini/2018/03/28/amp/slobodan-milosevic-assoluzione-notizia-falsa

(2) La giustizia che punisce solo i vinti (di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017 – riportato anche di seguito, al punto 2.)

(3) Hague Tribunal Exonerates Slobodan Milosevic Again

(a cura di Italo Slavo)


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La giustizia che punisce solo i vinti

Dopo ventiquattro anni sta per smobilitare il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia

di Paolo Mieli, 13 dicembre 2017

In punta di piedi, se ne andrà, tra quindici giorni, il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Ha operato — la Corte dell’Aia — per ventiquattro anni, nel corso dei quali sono stati portati alla sbarra 161 imputati: 90 hanno poi ricevuto una sentenza di condanna. L’ultima immagine di questo dibattimento giudiziario destinata a rimanere impressa è quella di fine novembre: il settantaduenne generale croato-bosniaco Slobodan Praljak che, appreso di dover stare in prigione vent’anni (due terzi dei quali, già scontati), si è suicidato ingerendo, davanti alle telecamere, una fiala di veleno. Per la cronaca, Praljak in un primo tempo era stato accusato di aver ordinato, nel 1993, la distruzione dello Stari Most. Si trattava del Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico realizzato tra il 1557 e il 1566 sulla Neretva dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar per consentire alle comunità cristiana e musulmana di integrarsi tra loro. I giudici dell’Aia, però, avevano assolto Praljak per quell’ordine stabilendo che quel ponte era un «obiettivo legittimo» in quanto costituiva una «linea di rifornimento del nemico». E si erano limitati a condannarlo per altri crimini. Ma anche questo, evidentemente, era per lui intollerabile pur se gli anni da trascorrere in cella sarebbero stati davvero pochi. Del tutto diverso il suo dal caso di Hermann Göring a Norimberga, al quale pure era stato il generale croato impropriamente paragonato. Göring si era sì dato la morte nell’ottobre del 1946 con il cianuro, ma dopo essere stato condannato a morte. Sarebbe morto comunque. Prima di Praljak si erano suicidati altri imputati di questo interminabile processo: l’ex ministro dell’Interno serbo Vlajko Stojiljkovic, l’ex sindaco di Vukovar Slavko Dokmanovic e, nel marzo del 2006, il quarantottenne presidente della Repubblica serba di Krajina, Milan Babic, impiccatosi in cella mentre stava scontando una pena di tredici anni. Tutti casi di condanne relativamente lievi, ben diversi da quelli del numero due di Adolf Hitler.
Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che «la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra» e che «l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia». Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi «contrario» mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi «combattuto»).
Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aja ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato «caso Karadzic»: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aja ha condannato Radovan Karadzic — l’uomo che si vantò della «pulizia etnica» — a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: «La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Dopodiché nella Republika Srpska, uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale, (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il Presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo.
Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokio, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare «giusto» un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori? Siamo proprio sicuri — ad esempio — che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro «rilascio», chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno.


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Provoking nuclear war by media

by John Pilger, 23 August 2016

The exoneration of a man accused of the worst of crimes, genocide, made no headlines. Neither the BBC nor CNN covered it. The Guardian allowed a brief commentary. Such a rare official admission was buried or suppressed, understandably. It would explain too much about how the rulers of the world rule.
The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) in The Hague has quietly cleared the late Serbian president, Slobodan Milosevic, of war crimes committed during the 1992-95 Bosnian war, including the massacre at Srebrenica.
Far from conspiring with the convicted Bosnian-Serb leader Radovan Karadzic, Milosevic actually "condemned ethnic cleansing", opposed Karadzic and tried to stop the war that dismembered Yugoslavia. Buried near the end of a 2,590 page judgement on Karadzic last February, this truth further demolishes the propaganda that justified Nato's illegal onslaught on Serbia in 1999.
Milosevic died of a heart attack in 2006, alone in his cell in The Hague, during what amounted to a bogus trial by an American-invented "international tribunal". Denied heart surgery that might have saved his life, his condition worsened and was monitored and kept secret by US officials, as WikiLeaks has since revealed.
Milosevic was the victim of war propaganda that today runs like a torrent across our screens and newspapers and beckons great danger for us all. He was the prototype demon, vilified by the western media as the "butcher of the Balkans" who was responsible for "genocide", especially in the secessionist Yugoslav province of Kosovo. Prime Minister Tony Blair said so, invoked the Holocaust and demanded action against "this new Hitler". David Scheffer, the US ambassador-at-large for war crimes [sic], declared that as many as "225,000 ethnic Albanian men aged between 14 and 59" may have been murdered by Milosevic's forces.
This was the justification for Nato's bombing, led by Bill Clinton and Blair, that killed hundreds of civilians in hospitals, schools, churches, parks and television studios and destroyed Serbia's economic infrastructure.  It was blatantly ideological; at a notorious "peace conference" in Rambouillet in France, Milosevic was confronted by Madeleine Albright, the US secretary of state, who was to achieve infamy with her remark that the deaths of half a million Iraqi children were "worth it".
Albright delivered an "offer" to Milosevic that no national leader could accept. Unless he agreed to the foreign military occupation of his country, with the occupying forces "outside the legal process", and to the imposition of a neo-liberal "free market", Serbia would be bombed. This was contained in an "Appendix B", which the media failed to read or suppressed.. The aim was to crush Europe's last independent "socialist" state.
Once Nato began bombing, there was a stampede of Kosovar refugees "fleeing a holocaust". When it was over, international police teams descended on Kosovo to exhume the victims of the "holocaust". The FBI failed to find a single mass grave and went home. The Spanish forensic team did the same, its leader angrily denouncing "a semantic pirouette by the war propaganda machines". The final count of the dead in Kosovo was 2,788. This included combatants on both sides and Serbs and Roma murdered by the pro-Nato Kosovo Liberation Front. There was no genocide. The Nato attack was both a fraud and a war crime.
All but a fraction of America's vaunted "precision guided" missiles hit not military but civilian targets, including the news studios of Radio Television Serbia in Belgrade. Sixteen people were killed, including cameramen, producers and a make-up artist. Blair described the dead, profanely, as part of Serbia's "command and control". In 2008, the prosecutor of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Carla Del Ponte, revealed that she had been pressured not to investigate Nato's crimes.
This was the model for Washington's subsequent invasions of Afghanistan, Iraq, Libya and, by stealth, Syria. All qualify as "paramount crimes" under the Nuremberg standard; all depended on media propaganda. While tabloid journalism played its traditional part, it was serious, credible, often liberal journalism that was the most effective - the evangelical promotion of Blair and his wars by the Guardian, the incessant lies about Saddam Hussein's non-existent weapons of mass destruction in the Observer and the New York Times, and the unerring drumbeat of government propaganda by the BBC in the silence of its omissions.
At the height of the bombing, the BBC's Kirsty Wark interviewed General Wesley Clark, the Nato commander. The Serbian city of Nis had just been sprayed with American cluster bombs, killing women, old people and children in an open market and a hospital. Wark asked not a single question about this, or about any other civilian deaths. Others were more brazen. In February 2003, the day after Blair and Bush had set fire to Iraq, the BBC's political editor, Andrew Marr, stood in Downing Street and made what amounted to a victory speech.. He excitedly told his viewers that Blair had "said they would be able to take Baghdad without a bloodbath, and that in the end the Iraqis would be celebrating. And on both of those points he has been proved conclusively right." Today, with a million dead and a society in ruins, Marr's BBC interviews are recommended by the US embassy in London.
Marr's colleagues lined up to pronounce Blair "vindicated". The BBC's Washington correspondent, Matt Frei, said, "There's no doubt that the desire to bring good, to bring American values to the rest of the world, and especially to the Middle East ... is now increasingly tied up with military power." 
This obeisance to the United States and its collaborators as a benign force "bringing good" runs deep in western establishment journalism. It ensures that the present-day catastrophe in Syria is blamed exclusively on Bashar al-Assad, whom the West and Israel have long conspired to overthrow, not for any humanitarian concerns, but to consolidate Israel's aggressive power in the region. The jihadist forces unleashed and armed by the US, Britain, France, Turkey and their "coalition" proxies serve this end. It is they who dispense the propaganda and videos that becomes news in the US and Europe, and provide access to journalists and guarantee a one-sided "coverage" of Syria.
The city of Aleppo is in the news. Most readers and viewers will be unaware that the majority of the population of Aleppo lives in the government-controlled western part of the city. That they suffer daily artillery bombardment from western-sponsored al-Qaida is not news. On 21 July, French and American bombers attacked a government village in Aleppo province, killing up to 125 civilians. This was reported on page 22 of the Guardian; there were no photographs.
Having created and underwritten jihadism in Afghanistan in the 1980s as Operation Cyclone - a weapon to destroy the Soviet Union - the US is doing something similar in Syria. Like the Afghan Mujahideen, the Syrian "rebels" are America's and Britain's foot soldiers. Many fight for al-Qaida and its variants; some, like the Nusra Front, have rebranded themselves to comply with American sensitivities over 9/11. The CIA runs them, with difficulty, as it runs jihadists all over the world.
The immediate aim is to destroy the government in Damascus, which, according to the most credible poll (YouGov Siraj), the majority of Syrians support, or at least look to for protection, regardless of the barbarism in its shadows. The long-term aim is to deny Russia a key Middle Eastern ally as part of a Nato war of attrition against the Russian Federation that eventually destroys it.
The nuclear risk is obvious, though suppressed by the media across "the free world". The editorial writers of the Washington Post, having promoted the fiction of WMD in Iraq, demand that Obama attack Syria. Hillary Clinton, who publicly rejoiced at her executioner's role during the destruction of Libya, has repeatedly indicated that, as president, she will "go further" than Obama.
Gareth Porter, a samidzat journalist reporting from Washington, recently revealed the names of those likely to make up a Clinton cabinet, who plan an attack on Syria. All have belligerent cold war histories; the former CIA director, Leon Panetta, says that "the next president is gonna have to consider adding additional special forces on the ground".
What is most remarkable about the war propaganda now in floodtide is its patent absurdity and familiarity. I have been looking through archive film from Washington in the 1950s when diplomats, civil servants and journalists were witch-hunted and ruined by Senator Joe McCarthy for challenging the lies and paranoia about the Soviet Union and China.  Like a resurgent tumour, the anti-Russia cult has returned.
In Britain, the Guardian's Luke Harding leads his newspaper's Russia-haters in a stream of journalistic parodies that assign to Vladimir Putin every earthly iniquity.  When the Panama Papers leak was published, the front page said Putin, and there was a picture of Putin; never mind that Putin was not mentioned anywhere in the leaks.
Like Milosevic, Putin is Demon Number One. It was Putin who shot down a Malaysian airliner over Ukraine. Headline: "As far as I'm concerned, Putin killed my son." No evidence required. It was Putin who was responsible for Washington's documented (and paid for) overthrow of the elected government in Kiev in 2014. The subsequent terror campaign by fascist militias against the Russian-speaking population of Ukraine was the result of Putin's "aggression". Preventing Crimea from becoming a Nato missile base and protecting the mostly Russian population who had voted in a referendum to rejoin Russia - from which Crimea had been  annexed - were more examples of Putin's "aggression".  Smear by media inevitably becomes war by media. If war with Russia breaks out, by design or by accident, journalists will bear much of the responsibility.
In the US, the anti-Russia campaign has been elevated to virtual reality. The New York Times columnist Paul Krugman, an economist with a Nobel Prize, has called Donald Trump the "Siberian Candidate" because Trump is Putin's man, he says. Trump had dared to suggest, in a rare lucid moment, that war with Russia might be a bad idea. In fact, he has gone further and removed American arms shipments to Ukraine from the Republican platform. "Wouldn't it be great if we got along with Russia," he said.
This is why America's warmongering liberal establishment hates him. Trump's racism and ranting demagoguery have nothing to do with it. Bill and Hillary Clinton's record of racism and extremism can out-trump Trump's any day. (This week is the 20th anniversary of the Clinton welfare "reform" that launched a war on African-Americans). As for Obama: while American police gun down his fellow African-Americans the great hope in the White House has done nothing to protect them, nothing to relieve their impoverishment, while running four rapacious wars and an assassination campaign without precedent.
The CIA has demanded Trump is not elected. Pentagon generals have demanded he is not elected. The pro-war New York Times - taking a breather from its relentless low-rent Putin smears - demands that he is not elected. Something is up. These tribunes of "perpetual war" are terrified that the multi-billion-dollar business of war by which the United States maintains its dominance will be undermined if Trump does a deal with Putin, then with China's Xi Jinping. Their panic at the possibility of the world's great power talking peace - however unlikely - would be the blackest farce were the issues not so dire.
"Trump would have loved Stalin!" bellowed Vice-President Joe Biden at a rally for Hillary Clinton. With Clinton nodding, he shouted, "We never bow. We never bend. We never kneel. We never yield. We own the finish line. That's who we are. We are America!"
In Britain, Jeremy Corbyn has also excited hysteria from the war-makers in the Labour Party and from a media devoted to trashing him. Lord West, a former admiral and Labour minister, put it well. Corbyn was taking an "outrageous" anti-war position "because it gets the unthinking masses to vote for him".
In a debate with leadership challenger Owen Smith, Corbyn was asked by the moderator: "How would you act on a violation by Vladimir Putin of a fellow Nato state?" Corbyn replied: "You would want to avoid that happening in the first place. You would build up a good dialogue with Russia... We would try to introduce a de-militarisation of the borders between Russia, the Ukraine and the other countries on the border between Russia and Eastern Europe. What we cannot allow is a series of calamitous build-ups of troops on both sides which can only lead to great danger."
Pressed to say if he would authorise war against Russia "if you had to", Corbyn replied: "I don't wish to go to war - what I want to do is achieve a world that we don't need to go to war."
The line of questioning owes much to the rise of Britain's liberal war-makers. The Labour Party and the media have long offered them career opportunities.. For a while the moral tsunami of the great crime of Iraq left them floundering, their inversions of the truth a temporary embarrassment. Regardless of Chilcot and the mountain of incriminating facts, Blair remains their inspiration, because he was a "winner".
Dissenting journalism and scholarship have since been systematically banished or appropriated, and democratic ideas emptied and refilled with "identity politics" that confuse gender with feminism and public angst with liberation and wilfully ignore the state violence and weapons profiteering that destroys countless lives in faraway places, like Yemen and Syria, and beckon nuclear war in Europe and across the world.
The stirring of people of all ages around the spectacular rise of Jeremy Corbyn counters this to some extent. His life has been spent illuminating the horror of war. The problem for Corbyn and his supporters is the Labour Party. In America, the problem for the thousands of followers of Bernie Sanders was the Democratic Party, not to mention their ultimate betrayal by their great white hope. In the US, home of the great civil rights and anti-war movements, it is Black Lives Matter and the likes of Codepink that lay the roots of a modern version.
For only a movement that swells into every street and across borders and does not give up can stop the warmongers. Next year, it will be a century since Wilfred Owen wrote the following. Every journalist should read it and remember it...

 

If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues,
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
The old lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.

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Follow John Pilger on twitter @johnpilger