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1) Dostupan je broj 6 serije orientamenti Jugocoord-a / Disponibile il numero 6 della collana orientamenti di Jugocoord 

2) A short report about early promotions of the book “Essays about the State '' in Serbia

3) Angelo d’Orsi: Antonio Gramsci, tra Machiavelli e Marx, alla ricerca di un nuovo modello di rivoluzione

4) Francesca Chiarotto: La scoperta di Gramsci in Italia nel primo dopoguerra (1947-1951)

 

Antonio Gramši: O DRŽAVI [SAGGI SULLO STATO]

 

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Disponibile il numero 6 della collana orientamenti di Jugocoord

 

Nel novembre 2021 è stato stampato in Serbia il numero 6 della collana orientamenti di Jugocoord, frutto della collaborazione con la associazione marxista Proletkult. Si tratta di una antologia di scritti gramsciani sul tema dello Stato, mirata soprattutto alla formazione di giovani militanti. Essa è corredata dai saggi di due noti studiosi italiani del pensiero di Antonio Gramsci quali Angelo d'Orsi – affermato storico, filosofo della storiografia, giornalista, militante politico e pacifista, fondatore di diverse riviste tra cui «Historia Magistra» e «Gramsciana» – e Francesca Chiarotto – dottoressa di ricerca, tra l'altro coordinatrice della redazione centrale delle stesse riviste di cui sopra.

Riportiamo qui, più sotto, le versioni originali, in lingua italiana, dei loro contributi.

Dopo la pubblicazione, il libro è stato subito presentato in due iniziative a Novi Sad e Belgrado. L'acquisto è attualmente possibile solo rivolgendosi direttamente all'editore serbo, all'Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli. .

 

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Dostupan je broj 6 serije orientamenti Jugocoord-a 

 

 

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A short report about early promotions of the book “Essays about the State '' in Serbia

 

 

 

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Antonio Gramsci, tra Machiavelli e Marx, alla ricerca di un nuovo modello di rivoluzione

Angelo d’Orsi

 

Antonio Gramsci, secondo i dati dell’Unesco, è il pensatore italiano più studiato e tradotto nel mondo, insieme a Machiavelli, che, non a caso, è stato uno degli autori fondamentali di Gramsci, e nel periodo del carcere, probabilmente l’autore di riferimento principale, e il dato si spiega con un processo di autoidentificazione nel “Segretario Fiorentino”[1]. Infatti, proprio come Machiavelli Gramsci, arrestato nel 1926 (sarebbe morto nel 1937, nella seconda delle due cliniche dove trascorse, in condizione di semi-reclusione, gli ultimi suoi anni), si sentiva un attore politico sottratto alla lotta, e come Machiavelli decise di affidare alla carta il patrimonio dato dalla sua esperienza diretta di militante e dirigente – socialista e comunista, italiano e poi anche internazionale – nonché quella di studioso. Il Principe e i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, di Machiavelli, sono i Quaderni e le Lettere dal carcere, per Gramsci. Entrambi, Machiavelli e Gramsci, ci hanno dunque lasciato una sorta di thesaurus teorico-politico, ma anche filosofico, antropologico, letterario e via seguitando, un repertorio di concetti ideologici, di casi storici, di esempi politici a cui possiamo attingere per affrontare il mondo. E nel caso di Gramsci (ma in fondo anche di Machiavelli, che fu a suo modo un rivoluzionario[2]) anche per trasformarlo, secondo il noto precetto marxiano della XI Tesi su Feuerbach.

Anche quando, dunque, egli fu sottratto all’azione diretta, Gramsci non smise di ragionare in termini politici, ossia non rinunciò mai alla dimensione pratica del pensare: non sarebbe stato lui a portare avanti la lotta, ma, con i testi affidati ai suoi 33 Quaderni e alle centinaia di Lettere, contava sul fatto che altri avrebbero raccolto il testimone dalle mani del combattente caduto, ossia lui stesso. Perciò dobbiamo tenere presente, sempre, la duplice natura di quei testi, teorica e pratica, all’intendimento di riflessione e al messaggio per l’azione che contengono. 

Non bisogna tuttavia dimenticare né sottovalutare il contributo teorico e culturale fornito da Gramsci prima dell’arresto, un contributo espresso nell’attività giornalistica, prima di tutto, e poi nel lavoro direttamente legato al ruolo di dirigente del Partito comunista, che egli aveva contribuito a fondare nel gennaio 1921, anche se il vero fondatore fu Amadeo Bordiga, che ne rimase alla guida fino al 1924, e contro il quale, pur recalcitrando, Gramsci fu costretto a condurre una battaglia via via più aspra, fermo restando la stima reciproca fra i due.

Nel lavoro giornalistico, avviato in modo sistematico a partire dall’autunno 1915, a Torino – dove si era trasferito dalla natia Sardegna, quattro anni prima, per studiare in quella Università  – il giovane Gramsci svolse, attraverso molte centinaia di articoli, un lavoro diuturno per affermare la verità, contro le menzogne di cui sempre, allora come oggi, la propaganda di guerra si nutre. La Grande  guerra, scoppiata nell’estate 1914, in cui l’Italia era entrata alla fine del maggio 1915, fu il sottofondo di quasi l’intera produzione gramsciana di quegli anni, sul quotidiano del Partito Socialista Italiano, l’Avanti!, sul settimanale del socialismo piemontese Grido del Popolo, e su altre testate più occasionalmente. A questo giornalista formatosi nel severo ambiente degli studi torinesi, anche se mai si laureò, all’ombra della scuola storico-giuridica, del metodo critico-filologico, nella culla della “cultura positiva”, non interessava la guerra in quanto tale, in quanto serie di eventi militari, o scenario della geopolitica mondiale. Gli interessava soprattutto come meccanismo di propaganda, appunto, che agiva sulla mente e anche sull’inconscio delle persone, condizionandone i comportamenti, non solo indirizzandone le idee politiche[3]. Era un tema affascinante e nuovo, che, molti anni dopo, egli avrebbe ripreso, dal carcere, con l’esame del capitalismo nordamericano, affidato a uno dei più celebri suoi Quaderni “speciali”, ossia monografici, quello da Gramsci stesso intitolato Americanismo e fordismo, nel quale egli coglie la realtà di un dominio di classe da parte della borghesia che passa innanzi tutto attraverso la sua capacità di essere classe dirigente, appunto, prima che dominante.  Un’analisi che, sia pure con le pesantissime limitazioni che la reclusione gli imponeva, si rivela acuta e quasi profetica; un’analisi che avrebbe corroborato Gramsci nella teorizzazione, per “l’Occidente”, ossia per i Paesi a capitalismo maturo, una “rivoluzione” diversa da quella di Lenin, rivoluzione che doveva realizzarsi non attraverso l’attacco frontale (il modello bolscevico, dell’assalto al Palazzo d’Inverno, a Pietrogrado, il 7 novembre 1917), una rivoluzione da costruirsi pazientemente, attraverso la costruzione di una contro-egemonia dal basso. Di qui l’importanza per le masse proletarie di avere i propri intellettuali di riferimento, che Gramsci definisce “organici”, in grado di indirizzare quelle masse attraverso il lavoro culturale e ideologico, verso la rivoluzione, che sarebbe stata essenzialmente un processo invece che un atto.

Era la ripresa, in definitiva, di una tematica giovanile, quella appunto portata avanti nel giornalismo militante del tempo del Primo conflitto mondiale, un giornalismo attento a quello che io ho chiamato il “fattore C”[4]. Un giornalismo che Gramsci intende come una scienza sociale, in cui si devono studiare i fenomeni (politici, economici, culturali e sociali), attentamente, prima di poterne scrivere su quei fogli destinati ai proletari. Un giornalismo espresso con una eccezionale capacità comunicativa, che spesso attinge i toni della polemica, secondo il registro che Gramsci stesso ebbe a chiamare di “sarcasmo appassionato” e che non di rado egli porta avanti, come ammette, intingendo la sua penna “nell’acido corrosivo dell’imbecillità”[5]. E tuttavia nei suoi scritti troviamo certo la riflessione politica, l’osservazione antropologica, l’analisi sociologica, ma anche gustosi ritratti di persone, e recensioni critiche di spettacoli teatrali e persino musicali. Nondimeno, nella grande varietà degli argomenti, tratti da fatti dell’attualità, o frutto di riflessione su tematiche storiche o filosofiche, lo scopo del suo lavoro, è sempre lo stesso: aiutare i proletari a liberarsi dalla menzogna, a vedere le cose come realmente sono dietro il velo della propaganda, a compiere un’autentica operazione di aletheia, la parola greca per dire “verità”, che significa, appunto, disvelamento.  In riferimento al conflitto militare in corso, dunque, per il giornalista socialista il dovere della verità risulta accresciuto, considerati i destinatari dei suoi articoli, quei proletari che sono le prime vittime della guerra.

Dalla guerra, alla quale egli non partecipa per la menomazione fisica che da bambino lo ha colpito e che lo tormenta, Gramsci trae molti spunti di analisi, e persino un lessico che ritroveremo nella produzione di testi in carcere e in clinica, tra il 1929 (quando ottiene finalmente il permesso di scrivere in cella, nel carcere di Turi, vicino Bari) e il 1935 (anno in cui si arrestano sostanzialmente le sue note, nella clinica di Formia; nella successiva clinica di Roma, fra il 1935 e il 1937, anno della morte, Gramsci scrisse soltanto lettere, poche, ma nessuna pagina dei Quaderni): “Guerra di posizione” e “guerra di movimento” (o “guerra manovrata”),  “casematte”, “esercito proletario”, il giornale socialista come “trincerone della lotta di classe”, e così via… E l’osservazione critica della guerra, accresce e acuisce in lui il bisogno di verità, già emerso nell’infanzia, dopo  la scoperta dell’arresto di suo padre (che gli era stato nascosto dalla mamma), facendone una linea di condotta teorico-ideologica e morale. Su tale linea egli si attestò contrastando Bordiga, che riteneva che la verità in seno al Partito comunista dovesse essere decisa dall’alto, dalla dirigenza, ed essere poi affermata gerarchicamente, sui militanti; mentre Gramsci sosteneva che era importante “arrivare insieme alla verità”, discutendo, dal basso, dialetticamente, e che questa pratica, uno dei punti centrali di quella “democrazia operaia” teorizzata nel 1919,  fosse di per sé eminentemente rivoluzionaria. La verità giova sempre, e a tutti, questo il pensiero costante di Gramsci: verità in politica, verità nei rapporti umani, verità nelle relazioni internazionali.

In fondo, fu questo amore per la verità a spingere Gramsci, allora segretario del Partito comunista d’Italia (aveva ormai sostituito Bordiga alla testa del partito, ma di fatto non lo controllava), a scrivere ai compagni dal Partito comunista russo nell’ottobre  1926, per rimproverarli, esprimendo una dura critica verso le loro contese interne, che fornivano uno spettacolo triste e preoccupante ai proletari di tutto il mondo che al gruppo bolscevico guardavano con deferenza,  essendo il gruppo che aveva guidato la prima rivoluzione vittoriosa nel segno di Marx, nella storia. Quella rivoluzione che Gramsci aveva seguito con entusiasmo, fin dai suoi esordi, con la premessa della rivoluzione di marzo, a cui egli aveva preconizzato un secondo tempo, come accadde, e che si espresse nei tumultuosi avvenimenti del 7 novembre 1917, che condussero al potere, in quell’immenso Paese, di Lenin e dei bolscevichi.

Dall’esperienza russa, Gramsci trasse spunto anche per una delle sue creature politiche più interessanti: i Consigli di fabbrica, ispirati ai Soviet russi, con un carattere però più ampio e con una spiccata vocazione educativa, strumento di azione politica, e di organizzazione delle masse, certo, ma anche e soprattutto di democrazia operaia, una democrazia che passa attraverso non l’appartenenza al sindacato o al partito, ma l’assemblea, dove contano gli individui, non le tessere, dove si è compagni in quanto uguali, e si arriva insieme, discutendo, alle decisioni, alle scelte.

Fin dal 1916, peraltro, Gramsci aveva teorizzato che “ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee”[6],  insomma, alla rivoluzione occorre una base ideologica e culturale. Per tale ragione, nel 1919 egli con tre suoi compagni di scuola e di militanza, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, aveva dato vita a L’Ordine Nuovo, che aveva un sottotitolo esplicito: “Rassegna settimanale di cultura socialista”. L’idea di fondo era appunto che la classe operaia avesse necessità di formarsi una sua propria cultura, come bagaglio utile e indispensabile per la rivoluzione; e che quella cultura dovesse essere autonoma, non un sottoprodotto cioè delle culture padronali, e che dovesse fare centro nella fabbrica, il luogo, fisico e simbolico, in cui la classe trascorre gran parte del suo tempo, soffre, lotta, e si guadagna di che vivere. Ma la creazione di una cultura propria non doveva escludere – tutt’altro! – l’acquisizione di tutte le tradizioni culturali preesistenti, secondo quella ispirazione onnivora di Gramsci, che invitava gli operai a leggere tutto, compresa la letteratura creativa, non solo cioè i testi dei classici del pensiero, non solo i marxisti; e organizzava visite alle mostre d’arte, e conduceva egli stesso ai concerti di musica classica o di operetta, un genere “leggero” che amava particolarmente.

Nel corso del tempo, tuttavia, rapidamente, quella rivista, senza smettere di essere un foglio culturale, divenne un giornale di auto-organizzazione politica, e il gruppo di Torino, quello che si identificava sostanzialmente nella Redazione dell’Ordine Nuovo, fu il propulsore del movimento dei Consigli di fabbrica, che svolsero un ruolo importante nelle agitazioni operaie del 1920, in particolare nello “sciopero delle lancette” (aprile) e nell’occupazione delle fabbriche (settembre), quando Gramsci si convinse che Torino potesse essere la “Pietrogrado d’Italia”. E i Consigli avrebbero dovuto essere i Soviet italiani. Era una sopravvalutazione evidente del ruolo di Torino, e in generale delle capacità della classe operaia, e insieme una sottovalutazione delle difficoltà intrinseche del movimento socialista, frammentato tra correnti, persone, partito (PSI, diviso in Gruppo parlamentare dominato dai riformisti e Direzione in mano agli intransigenti) e sindacato, di orientamento moderato e tendenzialmente collaborazionista, ma a sua volta diviso in Federazione dei Lavoratori della Terra e in Confederazione Generale del Lavoro. Non tutta l’Italia era politicamente matura come Torino, e del resto non tutto il proletariato torinese era come l’avanguardia dei lavoratori metallurgici (la FiAT in primo luogo), a cui Gramsci guardava con particolare attenzione ed empatia.

Ad ogni modo il gruppo dell’Ordine Nuovo (gli “ordinovisti”, come venivano chiamati), partecipò al XVII Congresso del PSI, a Livorno nel gennaio 1921, e insieme al gruppo di Bordiga, facente capo a un’altra rivista, Il Soviet, e con alcuni altri compagni di varie sedi, diedero vita a una nuova formazione politica: il Partito comunista d’Italia  (PCd’I), che recava nell’insegna la precisazione “Sezione italiana della III Internazionale”. Ciò voleva dire che quel partito, come gli altri partiti chiamati da allora in avanti, “fratelli”, era soltanto una sezione locale, sul piano nazionale, di una organizzazione più grande, il Comintern, appunto, visto come il “Partito mondiale della rivoluzione”[7].  La natura di parte (il partito) di un tutto (la II Internazionale) evidentemente limitava l’autonomia della nuova formazione, come dei vari singoli partiti aderenti al Comintern.

Ciò spiega anche la prudenza con cui pur nel coraggio, il capo dei comunisti italiani – che tra il ’22 e il ’24 aveva trascorso parecchio tempo in Russia, a contatto con i dirigenti sovietici, compreso lo stesso Lenin, che gli concesse un incontro personale – si rivolse alla dirigenza del partito russo, che aveva la piena egemonia nell’organismo internazionale, in quella lettera a cui ho fatto riferimento prima, dell’ottobre 1926. In essa, si ha la prova, tuttavia, che  l’ammirazione per i compagni russi, non fu mai disgiunta, in Gramsci, da una valutazione critica del loro operato. La frase chiave di quella lettera è un inno alla verità: “Compagni, voi state distruggendo l’opera vostra”, frase che suscitò la contrarietà di Togliatti, e lo indusse, peraltro dopo aver consultato l’Ufficio politico del Pcd’I, a non consegnare la lettera, provocando così la rottura definitiva con l’antico compagno di lotta, conosciuto ai tempi torinesi, tra università e sezione del Partito socialista in cui entrambi – Togliatti e Gramsci – militavano[8]. E alla strenua difesa della verità si ispirarono, sia pure sempre nei limiti concessi dalla detenzione – che lo inducevano sovente all’auto-censura, o a usare formule bizzarre e perifrasi per non far comprendere ai carcerieri i riferimenti politici (preoccupazione a ben pensarci assurda e fuori luogo, essendo ben  noto che egli era capo dei comunisti italiani), e sulla base di una informazione parziale e tardiva, o non corretta, le note dei Quaderni, e gli accenni nelle Lettere, relativamente agli svolgimenti del socialismo in Unione Sovietica.

Non era soltanto una pur controllata e non sempre esplicita presa di distanza politica da Mosca, ma era anche e soprattutto un superamento del marxismo-leninismo, in particolare la critica a Bucharin e al suo Manuale di Sociologia, e un allargamento del campo del marxismo, e dello stesso pensiero di Marx. Con Gramsci, in definitiva, si arriva a una nuova teoria generale del marxismo, che nasce dalla feconda contaminazione di quel bagaglio, pure enorme e dal quale comunque Gramsci non si allontanò, con altre filosofie, altre culture, in relazione alla necessità di attrezzare meglio il movimento proletario, l’azione dei “Gruppi subalterni” (la locuzione che cominciò a usare, accanto e in sostituzione di “classe operaia” e “proletari”). Attrezzarlo meglio per comprendere il suo tempo, che benché non così distante cronologicamente da quello di Marx, e persino da Lenin, gli appariva diverso: il mondo, e l’Occidente, in specie, si erano addentrati nel “moderno”, e Antonio Gramsci voleva cogliere ogni sfaccettatura di quella condizione storica, sul piano ideologico, socio-economico, culturale[9]. La differenza di interpretazioni della Crisi del 1929, tra lui e il Comintern, e l’analisi del capitalismo statunitense sono la testimonianza di una differenza che nei primi anni Trenta è la chiave di volta di questo nuovo marxismo, che, per certi aspetti, sembra anticipare le teorie della Scuola di Francoforte, maturate negli anni Quaranta, quando Gramsci non era più in vita.

Sicché nella “cassetta degli attrezzi” di Gramsci noi oggi non troviamo semplicemente i concetti marxisti più o meno canonici, ma troviamo un enorme repertorio di parole-chiave che ci appaiono altrettanti strumenti per decrittare la modernità, sempre con un occhio alla storia (il pensiero gramsciano è sempre storico[10]), con una persistente volontà, come dicevo all’inizio, di cambiare verso al presente, e di lavorare per la rivoluzione. Non ne sarebbe stato protagonista, né comprimario, e neppure spettatore; ma era per lui importante lasciare un retaggio teorico-ideologico a quanti avrebbero potuto riprendere e portare avanti il lavoro politico che a lui era stato impedito, dall’arresto. Concetti quali egemonia, rivoluzione passiva, filosofia della praxis, Stato allargato, blocco storico, cesarismo progressivo e regressivo, intellettuale organico, e così via, sarebbero così diventati altrettante armi per continuare a pensare e a costruire, con pazienza, “ la città futura”, quella che egli aveva preconizzato in un giornaletto, un numero unico da lui interamente scritto, nel febbraio del 1917.

Vent’anni più tardi, nel 1937 (per l’esattezza il 27 aprile), Antonio Gramsci spirava, nella clinica romana “Quisisana”, senza aver potuto portare a compimento non soltanto la sua azione pratica, ma neppure la sua riflessione teorica. Ma il suo lascito è immenso, e anche se la sua attualità oggi può apparire dubbia, non lo è certo la sua necessità. E questo piccolo libro ne è una ulteriore testimonianza.  

 

[1] Cfr. A. d’Orsi, L’autore e il suo doppio. Gramsci e Machiavelli, in G. Francioni - F. Giasi (a cura di), Un nuovo Gramsci. Biografia, temi, interpretazioni, Viella, Roma 2019, pp. 173-196. Per un inquadramento complessivo, rinvio al mio recente libro: Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2018 (nuova edizione riveduta e accresciuta; 1° ed. ivi, 2017)

[2] Si veda per questa interpretazione: U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Carocci, Roma 2003.

[3] Sul giornalismo v. A. d’Orsi, Una strategia di verità. Il giornalismo integrale, in Id., Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci, Mucchi, Modena 2015, pp. 71-94 (nuova ediz. aggiornata e ampliata; 1° ed. ivi, 2014).

[4] Cfr. A. d’Orsi, Il “fattore C”,  in Id., Gramsciana cit., pp.

[5] Qualche cosa, in “Avanti!”, 3 settembre 1917, ora in A. Gramsci, La città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino  1982, pp. 306-308 (306).

[6]  Alfa Gamma [A. Gramsci], Socialismo e cultura, in “Il Grido del Popolo”, 29 gennaio 1916: Cronache torinesi (1913-1917), a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi 1980,  pp. 99-103.                                                   

[7] Cfr. A. Agosti, Il partito mondiale della rivoluzione. Saggi sul comunismo e l’Internazionale, Unicopli, Milano 2009.

[8] La vicenda con i documenti relativi (comprese le lettere di Gramsci e Togliatti, naturalmente) è ricostruita in C. Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, con un saggio di G. Vacca, Einaudi, Torino 1999.

[9] Insiste su questo, sia pure con una interpretazione diversa dalla mia, G. Vacca, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2017.

[10] Cfr. A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei Quaderni del carcere, Laterza, Roma-Bari 2003. 

 

 

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La scoperta di Gramsci in Italia nel primo dopoguerra (1947-1951)

Francesca Chiarotto[1]

 

La straordinaria “fortuna” del pensiero gramsciano nel mondo è testimoniata dalla sterminata bibliografia, che comprende oggi oltre ventimila documenti in quarantuno lingue ed è la più vasta bibliografia dedicata a un singolo autore. Antonio Gramsci è oggi uno degli autori italiani più conosciuti al mondo. Il numero di contributi dedicati al rivoluzionario sardo, al suo pensiero e ai concetti del suo lessico, è in continuo aggiornamento; la prima Bibliografia gramsciana, curata dallo statunitense John Cammett, comprendente gli scritti gramsciani dal 1922 al 1993, contava circa diecimila titoli[2]. Solo in Italia, tra il 1997 e il 2012, sono stati dati alle stampe circa 180 volumi dedicati al pensatore sardo (libri o numeri monografici di riviste)[3].

La fortuna di Gramsci, pur inevitabilmente condizionata dalle stagioni politiche e culturali durante le quali si costruì e si consolidò, a partire dal sesto decennale della scomparsa, non ha più subito sostanziali battute d’arresto; Gramsci e le interpretazioni del suo pensiero sono ormai radicalmente diffusi nella cultura italiana e non solo.

Incomincia nel dopoguerra la tormentata vicenda della pubblicazione dei manoscritti gramsciani (i futuri Quaderni del carcere e una larga parte della corrispondenza), i quali, messi in salvo dalla cognata Tatiana Schucht, che dà anche una prima numerazione dei Quaderni, e custoditi in vari luoghi “sicuri”, giungono a Mosca, per ritornare in Italia solo dopo la caduta del fascismo. Intanto, rientrato nella parte d’Italia già liberata, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, esattamente il 30 aprile del 1944, dedica l’intera terza pagina del quotidiano fondato da Gramsci, «l’Unità», «Al 7° anniversario della morte di Antonio Gramsci». L’anno seguente, il 1945, Felice Platone, ormai al lavoro sotto le direttive di Togliatti, stende una relazione sullo stato del lavoro di edizione dei Quaderni[4], nel quale è resa nota al pubblico, la straordinaria ricchezza delle note stese da Gramsci in carcere, e vengono segnalate le questioni di ordine filologico e metodologico che una loro pubblicazione avrebbe dovuto affrontare. Ma i Quaderni furono preceduti, esattamente a un decennio di distanza dalla morte di Gramsci, da una raccolta, sia pure molto incompleta, delle epistole carcerarie. Nel 1947 furono date alle stampe, per l’editore Einaudi, le Lettere dal carcere.[5] Si tratta del momento essenziale della scoperta della figura di Antonio Gramsci in Italia. Le lettere diventano immediatamente un “caso” editoriale, culturale, politico. La vittoria del Premio Viareggio (18 agosto 1947) se da una parte favorisce la scoperta e il “lancio” di Gramsci nella pubblica opinione, d’altra parte dà il via ad accese polemiche, sull’opportunità di concedere il premio a un autore considerato da tanti commentatori un politico, un ideologo, “un comunista”, per giunta defunto.

Solo molti anni dopo sarebbero venute le critiche più assennate, concernenti la censura di Togliatti alle lettere, che aveva espunto quelle che potessero incrinare l’immagine di compattezza del Partito e di accordo in seno al gruppo dirigente. Eppure, malgrado tali limiti, le Lettere dal carcere suscitano un’ondata di commozione nell’opinione pubblica italiana, prescindendo largamente dagli orientamenti politici[6]. L’intero mondo intellettuale italiano ne è coinvolto e non può fare a meno di riconoscere l’altezza morale e letteraria di quel testo:…[7].  Tutto ciò conferma la saggezza della scelta di Togliatti, autentico regista di questa operazione politica e culturale: ossia di far conoscere prima l’uomo Gramsci, attraverso la pubblicazione di scritti “intimi”, come sono le Lettere dal carcere e poi, attraverso la pubblicazione dei Quaderni, il pensatore e lo studioso, mettendo in luce un Gramsci non di parte, ma nazionale. Del resto la strategia politica togliattiana era volta a costruire un partito politicamente “affidabile” e culturalmente e ideologicamente “italiano”. Che l’accoglienza alle Lettere sia entusiastica, è testimoniato dall’aneddoto concernente Benedetto Croce, il più importante filosofo italiano del XX secolo, il quale si sarebbe immerso tanto intensamente nella lettura dei testi di Gramsci da svegliare la figlia nel cuore della notte per leggerle qualche brano. Croce, firma infatti una recensione lusinghiera, benché polemica con i comunisti del suo tempo, a cui contrappone Gramsci. Croce afferma che quel libro «appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico»; per «la reverenza e l’affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell’uomo» e perché «come uomo di pensiero egli fu dei nostri»[8].

Intanto, mentre il nome di Antonio Gramsci era fuoruscito dalla cerchia dei militanti e della dirigenza comunista, diventando un nome della letteratura italiana, Palmiro Togliatti portava avanti la sua operazione politica. Essa era volta a far crescere consenso intorno al PCI, forza «nazionale» che seguiva fedelmente le orme di un gigante del pensiero e della storia d’Italia.  Togliatti, dunque, dopo aver avviato per tempo la costruzione di un Gramsci nazionale e popolare, un “Gramsci di tutti”, fa progredire su un piano scientifico, che non esclude l’interesse e anche l’uso politico, la conoscenza dei testi principali del grande “compagno”: ed è “l’operazione Quaderni”. Ma intanto, altri leader comunisti contribuiscono all’edificazione della “leggenda di Gramsci”.

Nel 1948, intanto, l’Einaudi ha dato inizio alla pubblicazione, in edizione tematica in sei volumi, voluta e pensata da Togliatti e curata da Felice Platone, dei Quaderni del carcere. L’ultimo volume vedrà la luce nel 1951. All’uomo, segue dunque, come si è detto, il pensatore. Nell’organizzazione dei complessi materiali gramsciani, Togliatti e Platone seguono un criterio analogo a quello usato per le Lettere: favorire la conoscenza della personalità di Gramsci, rendendolo un autore nazionale, ma annettendolo alla storia del PCI, sia per mostrare l’“italianità” di questo, sia per insistere sulla coerenza e la continuità tra Gramsci e Togliatti.

Le recensioni ai sei volumi sono numerosissime, e davanti ad ognuno di essi aumenta la sorpresa: Gramsci, considerato uomo di partito, tutt’al più un brillante giornalista, e, dopo la pubblicazione delle lettere, un individuo di grande sensibilità e dall’animo nobile, appare in tutta la sua grandezza; anche i più disinteressati fra gli osservatori sono costretti a riconoscerlo benché non manchino le critiche a questo o quell’aspetto dell’elaborazione gramsciana; in casa comunista prosegue un lavoro di discreto utilizzo politico, per legittimare il PCI come forza politica italiana, democratica e, soprattutto, dotata di un sostrato culturale di grande rilevanza, che non ha paura del confronto con gli altri, anzi, nel nome di Gramsci, sembra quasi voler lanciare una sfida.

La sfida si accentua, nel corso degli anni; in seguito agli sviluppi internazionali e interni, la posizione del PCI si irrigidisce, e il Gramsci «di tutti», secondo l’intenzione togliattiana, viene ricacciato in un alveo prevalentemente di partito[9]. Lo sfondo politico –  il centrismo, e la nascita di quello che a molti parve un nuovo regime – condizionerà la ricezione dei Quaderni. Non mancarono i toni pesanti in alcune recensioni, come sulla «Civiltà Cattolica»[10]. Ma anche in ambienti cattolici ci saranno, per converso, dei folgorati da Gramsci, come Gianni Baget Bozzo, il quale sottolinea innanzi tutto la distanza dallo stalinismo: «Tutta l’opera di Gramsci è la negazione del dogmatismo culturale: essa è un’indagine storico-concreta, un’interpretazione della realtà in base a canoni di natura empirica che di per sé non appartengono ad alcuna metafisica[11]». E auspica che tale pensiero non diventi monopolio esclusivo dei comunisti.

Anche in merito ai Quaderni, come già accaduto per le Lettere, troviamo osservazioni di critica al criterio tematico scelto per la pubblicazione: v’è chi osserva che l’ordine cronologico sarebbe stato preferibile, e alla luce dell’edizione critica dei Quaderni, curata da Gerratana sappiamo che questo è vero; ma sarebbe stata pensabile quel tipo di edizione allora? E quanto tempo sarebbe occorso per realizzarla? E quanti italiani avrebbero potuto accostarvisi? L’edizione tematica fu in realtà decisiva per facilitare la conoscenza del pensiero di Gramsci.  

Il tema delle censure serpeggia lungo tutto l’arco temporale in cui vengono dati alla luce i sei volumi, al punto che alcuni commentatori si domandano se non siano stati compiuti «tagli ad usum» dei testi gramsciani, proponendo che l’editore depositi i manoscritti presso gli archivi notarili a disposizione dei critici[12].

Accanto ai Quaderni – in quello stesso arco di tempo –, videro la luce rispettivamente nel 1949 e nel 1951 Americanismo e fordismo e La questione meridionale. Si tratta anche in questo caso di due testi significativi nell’ambito della strategia togliattiana di costruzione di una certa fisionomia del partito di cui era leader. Pur essendo pubblicato nel 1949, il testo Americanismo e fordismo, tratto interamente dal Quaderno 22, fu in qualche modo ridimensionato nella sua importanza e ridotto quasi ad una lettura propedeutica alla Questione meridionale che allora, nel pieno delle rivolte contadine che stavano variamente interessando l’intero Mezzogiorno, si presentava come urgenza da affrontare – anche teoricamente – da parte del partito comunista[13]. Si susseguirono, negli anni successivi, sempre nelle edizioni con il marchio dello Struzzo einaudiano, il Gramsci ordinovista, quello degli scritti giovanili, il Gramsci giornalista[14]. Va detto che Togliatti seguì ogni fase dei lavori preparatori per ciascuno dei volumi, senza trascurare nulla, non solo dei contenuti, ma della stessa presentazione grafica ed editoriale degli stessi: dal carattere usato al colore della copertina e così via; senza tralasciare le modalità relative alla promozione. Leggendo il contratto tra Einaudi e Felice Platone, si evince chiaramente l’obiettivo, condiviso dunque dall’editore, di «facilitare al massimo la diffusione nei diversi strati sociali del pensiero di Antonio Gramsci»[15].

Tutta la politica culturale del “nuovo” partito comunista è svolta, insomma, nel nome di Gramsci, la cui scoperta – integralmente postuma – è strettamente connessa alla costruzione di un’egemonia prima intellettuale che politica, messa in atto da Togliatti e dai principali dirigenti del partito a partire dal primissimo dopoguerra. Non vanno dimenticate, oltre la pubblicazione degli scritti, tutte le altre iniziative ad essi variamente connesse che potessero favorire la conoscenza del “grande compagno” che ormai veniva presentato come l’icona quasi sacrale del partito: dalla costituzione della Fondazione Gramsci, che fu inaugurata il 27 aprile 1950 (ossia esattamente a distanza di tredici anni dalla morte di Antonio Gramsci) e che – a prescindere dalle valutazioni dei direttori che si succedettero – divenne, nel corso degli anni, «un centro nazionale per l’approfondimento, la popolarizzazione, l’irradiazione culturale del marxismo-leninismo nel nostro paese, particolarmente nel senso dello sviluppo di quegli infiniti spunti che nell’opera di Gramsci si ritrovano per un più profondo radicamento del marxismo nella tradizione culturale e politica progressiva italiana»[16]. Anche in questo caso la “missione” si può dire compiuta.

Dopo la morte di Togliatti (1964) si aprì una nuova fase di studi, facilitata anche dall’edizione molto accresciuta delle Lettere dal carcere, che fu pubblicata nel 1965[17]. Ma la vera “rivoluzione” si compì dieci anni dopo, quando Valentino Gerratana e i suoi collaboratori, dopo lunghi anni di gestazione, e con un’inaugurazione a carattere internazionale, svoltasi a Parigi, poterono presentare al pubblico l’edizione critica dei Quaderni. Era, di fatto, un Gramsci altro rispetto a quello veicolato con la pur meritoria edizione “tematica”: un Gramsci senza intermediari, ma anche un Gramsci più autentico e certamente ben più corretto sul piano della mera filologia, su cui si innescarono e si innestarono nuove proposte, nuove idee e una stagione di studi a carattere internazionale, che almeno in parte lasciò cadere le strumentalizzazioni e le polemiche della provincia Italia[18].

La “fortuna” di Gramsci, alla lunga, finì per prescindere dalle concrete situazioni storiche, e dalle appartenenze politiche, diventando quella che merita un autentico, grande “classico” del pensiero.

 

[1] Francesca Chiarotto è dottore di ricerca in Studi Politici (Università di Torino). Svolge attività di ricerca per l’Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. È coordinatrice della Redazione centrale di «Historia Magistra. Rivista di storia critica» e di «Gramsciana. Rivista internazionale di studi su Antonio Gramsci». Ha pubblicato Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra (Bruno Mondadori, Milano 2011), ha curato il volume Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968 (Accademia University Press). Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.

[2] Bibliografia gramsciana 1922-1988, a cura di J. M. Cammett, prefazione di N. Badaloni, Editori Riuniti, Roma 1991; J. M. Cammett e M.L Righi, Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, Fondazione Istituto Gramsci, Roma 1995.

[3] G. Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche (1922-2012), Editori Riuniti University press, Roma 2012, p. 11.

[4] Cfr. F. Platone, Relazione sui quaderni del carcere. Per una storia degli intellettuali italiani, in «Rinascita», 1946, 4, p. 87.

[5] Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1947; la pubblicazione è preceduta da una piccola scelta di lettere fatta da E. Vittorini per la sua rivista «Politecnico», nel 1946, nella quale si privilegia un Gramsci eterodosso se non addirittura eretico, in seno al comunismo internazionale.

[6] Si veda, in generale, E. Santarelli, Gramsci ritrovato. 1937-1947, Abramo, Catanzaro 1991.

[7] Cfr. F. Chiarotto, Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, pp. 47 ss.

[8] B. Croce, Rec. a Gramsci, Lettere cit., in «Quaderni della Critica», 1947, 3, pp. 86-88. La replica di Togliatti (Antonio Gramsci e don Benedetto), in «Rinascita», 1947, 6, p. 152.

[9] Cfr. Liguori, Gramsci conteso cit., pp. 89 ss.

[10] F. Giannattasio, Sviluppi italiani della filosofia della prassi, in «Civiltà Cattolica», [1949], n. 1.

[11] G. Baget Bozzo, Gramsci e la fondazione della teoria politica, in «Studium», 1951, 3, pp. 145-148.

[12] E. Falqui, Gramsci censurato dai compagni? in «Il Tempo» [Milano], 31 agosto 1951.

[13] Solo all’inizio degli anni Settanta, all’inizio della fase di declino della classe operaia e di una certa organizzazione produttiva, Americanismo e fordismo sarà ripreso e rivalutato come merita.

[14] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, Torino 1954; Id., Scritti giovanili (1914-1918), ivi, 1958; Id., Sotto la Mole (1916-1920), ivi, 1960

[15] Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Istituto Gramsci, b. 10, “Corrispondenza anni Cinquanta”, ora in C. Daniele (cura), Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Roma 2005, pp. 73-74.

[16] Questo si legge nel “Progetto per l’istituzione della Fondazione Gramsci”, in Istituto Gramsci, Storia Istituto, lettera alla segreteria del pci e alla commissione per il lavoro ideologico datata 6 novembre 1948 Sulle attività della Fondazione Istituto Gramsci di Roma cfr. il vol. di A. Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. Storia dell’Istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, prefazione di F. Barbagallo, Editori Riuniti, Roma 1992.

[17] A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino 1965. In questa edizione sono pubblicate 428 lettere, di cui 119 inedite. La prima edizione ne comprendeva 218.

[18] Cfr., su questo, G. Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche. 1922-2012 cit., pp. 215-48 e, più in generale sulla “fortuna” gramsciana, A. D’Orsi, Gramsci dopo Gramsci. La “fortuna” carsica di un pensatore rivoluzionario, saggio introduttivo alla ristampa del volume del 1970 (poi riedito nel 1973, con aggiunte e sottrazioni) di M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Viella, Roma 2007, pp. 9-41, e il più recente L’infinita scoperta di Gramsci, saggio introduttivo al volume F. Chiarotto, Operazione Gramsci cit., pp. 1-21.