recensione

Franco Marenco (a c. di), Imbrogli di guerra. Scienziate e scienziati contro la guerra, Contributi al Seminario sulla guerra nei Balcani (Roma, 21 giugno 1999), Odradek edizioni, Roma. Pp. 162. ISBN 88-86973-21-7.

 

Gli interventi raccolti in questo volume affrontano una gamma di argomenti legati alla guerra nei Balcani – come la chiamano con una dizione precisa – che comprendono aspetti ambientali, di salute pubblica, politici, militari, giuridici, mediatici. Non si tratta soltanto di uno sguardo “scientifico” sulla guerra, è una seria discussione complessiva, a più voci, di una realtà che non è soltanto il nostro “hic et nunc” ma ci aiuta a capire e magari a contrastare un futuro in agguato.

Il primo intervento è un lungo articolo di Alberto Di Fazio, Le connessioni fra la guerra dei Balcani e la crisi energetica prossima ventura. Ricco di dati, espressi anche in grafici (troppo piccoli per consentire una lettura agevole), il saggio fornisce un quadro apocalittico di un pianeta le cui risorse per il sostentamento della vita umana sono già pericolosamente ridotte. Di Fazio elenca, in ordine di decrescente gravità (cioè da gravissimo a molto grave) nove aree critiche – clima, energia, foreste, acque, crescita demografica, desertificazione, biodiversità, agricoltura, pesca. Di queste, soltanto quattro sono oggetto di “convenzioni quadro” internazionali, peraltro inadeguate alla risoluzione dei problemi, anche se fossero rigorosamente applicate. Le crisi implicano interessi politici, economici, spesso questioni di semplice sopravvivenza, di aree contrapposte, divise tra “paesi in via di sviluppo” (una dicitura che trovo ottimistica, superata dai fatti) e pochi paesi industrializzati. L’Alleanza imperniata sugli Stati Uniti è costruita “per imporre una dominanza per tendere a risolvere i problemi in modo da garantire la sopravvivenza di una parte del cosiddetto Occidente a discapito del resto dell’Umanità” (p. 10).

Se da un giorno all’altro si chiudessero tutte le fabbriche e le altre fonti di emissione di anidride carbonica (che è all’origine dell’effetto serra), “la situazione naturale preindustriale verrebbe ripristinata soltanto dopo 200 anni [...] Le variazioni climatiche che stiamo subendo adesso sono dovute alla CO2 che abbiamo emesso fino ad 80 anni fa, e quella che stiamo emettendo adesso produrrà i suoi effetti tra 50-80 anni” (p. 22). Il bollettino sulla salute (pessima) del pianeta, cui è dedicato il grosso dell’intervento, non ha consentito al relatore di approfondire le connessioni fra le crisi (climatiche, energetiche, e le altre ad esse variamente legate) e i conflitti, in particolare con l’aggressione alla Jugoslavia. Genericamente Di Fazio afferma, oltre al valore simbolico dei bombardamenti e dell’occupazione militare che ne è seguita (“dimostrazione della dominanza occidentale” – p. 41), che le motivazioni sono “il controllo del petrolio del Caucaso” e l’imposizione del modello liberista dell’economia del mercato (p. 42).

In un breve intervento, Vito Francesco Polcaro commenta con perizia l’"imbroglio” degli interventi chirurgici e i limiti e le vulnerabilità di alcune armi high tech USA.

Silvana Salerno, la prima delle sei donne intervenute (su un totale di 32 scienziati/e), non si limita a documentare nello specifico l’ovvietà, che la guerra danneggia la salute delle popolazioni, ma individua tali danni come insiti nella guerra moderna stessa, inevitabili ed intenzionali.

Un dettagliato intervento, a firma di sette ricercatori (Lucio Triolo et al.), riccamente documentato ed illustrato da grafici (non chiari per i profani), tabelle e cartine geografiche (queste troppo piccole per essere leggibili), offre un quadro complessivo dell’inquinamento chimico nella zona dei bombardamenti (Serbia, Kosovo), con particolare attenzione ai danni, spesso irreversibili, nell’ambiente e alle conseguenze per la salute umana, sia quelle già constatabili che quelle presumibili in futuro. Chiaramente sono dati e considerazioni che risalgono al momento della scrittura, quindi bisognosi di un aggiornamento, ma il lavoro d’équipe si impone per la sua serietà metodologica, rafforzata e non offuscata dalla passione civile che l’informa. Diciotto fra depositi di carburante, stabilimenti chimici, raffinerie, centrali termoelettriche e magazzini colpiti dai bombardamenti sono stati studiati. Si sono valutate le emissioni di una vasta gamma di sostanze dannose – il ritratto di un disastro, oggettivamente un atto di accusa contro i responsabili anche se formulato in termini freddi, privi di aggettivazione. Danni gravi sono stati subiti dall’agricoltura: a causa dei bombardamenti, nella primavera del ’99 ben 2.500.000 ettari non si sono potuti coltivare, i due terzi della superficie arabile.

L’impiego di proiettili all’uranio impoverito contro la Jugoslavia fornisce a Nicola Pacilio e Carlo Pona l’occasione per un’esauriente presentazione delle caratteristiche di questo prodotto di scarto delle industrie di produzione di energia nucleare e di bombe atomiche, e delle conseguenze del suo impiego come arma. Considerando la controversia sull’impiego del DU, gli autori avrebbero dovuto essere più cauti, o comunque chiari, nel distinguere fra le conseguenze del maneggiare i proiettili e del respirare o comunque ingerire le particelle contaminate in seguito ad un’esplosione. Bisogna usare un’analoga cautela valutativa nel paragonare il ruolo causativo del DU nella “sindrome del Golfo” e nella crisi sanitaria in Iraq. Pur con questo rilievo critico, si può ritenere l’intervento di Pacilio e Pona una denuncia efficace dei probabili danni umani e ecologici in Jugoslavia conseguenti ad un impiego a dir poco irresponsabile di arme ad uranio impoverito da parte dell’Alleanza. Quando scrissero, c’era una “completa assenza di dati quantitativi certi” (p. 85): ora “Il manifesto” parla di 31.000 bombe (9/3/2000).

Va notato che “Guerre e pace” è stata la prima fonte italiana a denunciare l’uso del DU in Iraq, e poi in Bosnia (partendo da Avignano).

Sulla questione del DU torna con valutazioni prudenti Angelo Baracca in un breve scritto che indica nella Guerra dei Balcani la svolta verso un mondo senza diritto (e senza diritti), aperto alla “logica del più forte” (p. 101), in cui le guerre future, per un’insita e inevitabile dinamica, comporteranno distruzioni di massa e crimini contro l’umanità. Alla cinica obbiezione che “la guerra è guerra”, l’autore risponde che è “la guerra stessa [...] che dev’essere messa al bando”, un obbiettivo realistico per quanto possa sembrare illusorio (p. 102). La seconda metà dell’intervento esterna fondate preoccupazioni per lo scoppio, sia per calcolo che per errore, di una guerra nucleare in piena regola. Si ricorda che gli USA, nonché la Francia e la Gran Bretagna, si riservano il diritto di “first strike”, di colpire per primi se lo giudicassero “necessario”, ma anche la Russia e altri paesi stanno rivalutando la propria politica atomica in questo senso.

Sulla questione della crisi del diritto si ritorna con un ben argomentato appello a firma di Raniero La Valle e altre tredici persone. Interessanti, tra l’altro, le valutazioni sui fondamentali interessi nazionali dell’Italia, in contrasto con quelli dell’Alleanza, e sulla necessità di un attento lavoro di riconquista di irrinunciabili poteri nazionali in materia di politica estera. Nell’appello si chiede l’istituzione ovunque in Italia di Comitati per la Democrazia Internazionale, la riaffermazione nelle scuole di una rinnovata educazione alla pace, un’apertura nel movimento dei lavoratori, nei sindacati, ad una sensibilità per le problematiche della pace come intimamente connesse con le rivendicazioni dei diritti civili e sociali.

Fulvio Grimaldi, con dovizia di riferimenti a casi precisi legati ai conflitti dal Vietnam al Golfo alla Bosnia alla Guerra dei Balcani, denuncia la complicità dei mezzi di comunicazione di massa che, in prossimità dei conflitti e per tutta la loro durata, subiscono una vera e propria militarizzazione – un controllo capillare che lascia le veline mussoliniane nella preistoria. La polemica è pungente, efficace. Peccato solo che c’è una tendenza a confondere i popoli coi loro governi, o una parte per il tutto, per cui “i kosovari albanesi erano [...] il maggior centro di smistamento degli stupefacenti provenienti dall’Afganistan e dalla Turchia verso l’Occidente: il 75% della droga veniva distribuito dai kosovari albanesi. La comunità kosovara in Europa è la seconda per numero di arresti e per traffico di stupefacenti” (p. 122).

Antonino Drago, constatata la complicità del mondo della scienza, anche nella sua espressione accademica, con il lavoro bellico, propone una collettiva trahison des clercs, ossia un movimento di scientifici che metta in atto iniziative che contrastino la guerra. Attingendo alla storia del movimento per la pace e della non violenza, compresa una sua particolare lettura degli eventi del 1989, Drago suggerisce metodi ed obbiettivi di intervento per favorire iniziative a partecipazione popolare per la risoluzione dei conflitti, e per “contribuire alla fine della superpotenza bellica statunitense” (p. 125). Egli sottolinea come la semantica della politica militarista abbia assorbito termini che avevano, nel loro contesto originario, un senso progressista, per rovesciarne la portata – termini come “nuovo modello di difesa”, “ingerenza umanitaria”, “difesa dei diritti umani fondamentali” (pp. 128-129).

L’intervento di Elizabetta Donini è articolata in tre momenti. Il primo sostiene come alla cultura generativa e sostenitrice di vita delle donne si è da sempre contrapposto un “codice di morte” – dare e rischiare la morte – tipicamente maschile. Tale maschilismo ha caratterizzato le scienze dalla loro origine – l’autrice giudica “francamente sessista” il tipico linguaggio di Francesco Bacone che “abbonda di veli da squarciare, segreti da estorcere, natura da penetrare e rendere schiava” (p. 133), per non parlare delle metafore cui ricorrevano gli scienziati di Los Alamos per salutare la “nascita” del “bambino”, cioè la bomba H. Il secondo momento affronta l’integrazione tra ricerca scientifica e il militare, una descrizione convincente in sé ma, nella struttura dell’intervento, piuttosto sciolta dal discorso di genere svolto prima. In questo contesto Donini richiama una statistica significativa, che la percentuale di vittime civili è continuamente cresciuta nelle guerre del ‘900 (p. 135) – cenno che verrà ulteriormente elaborato nell’intervento di Michele Emmer. Nel terzo e ultimo momento del suo discorso, Donini identifica un’altra caratteristica tipicamente maschile delle scienze: il (falso) canone dell’oggettività, che a sua volta si ricollega col concetto di “obbiettivo”, anche nel senso di “atto a conseguire lo scopo”. Anche qui, però, sfugge (a me) il carattere necessariamente di genere che l’autrice attribuisce a questa caratteristica, mentre mi risulta chiaro e persuasivo il proseguimento del discorso in cui viene criticata la non eticità della deresponsabilizzazione tipica del mondo scientifico e tecnologico. Non quindi un’esaltazione di un sapere che raggiunge lo scopo – direi – ma un sapere ridotto ad attività ludica, fine a sé, i cui veri scopi e utilizzi non competono al giudizio dei “giocatori”. Dal discorso di avvio della Donini si sarebbe aspettato che venisse attribuito alle donne, in particolare alle scienziate, un ruolo preminente nel chiamare in questione e superare la “pulsione di morte” tipica del maschile. Invece il percorso proposto, ragionevole ed auspicabile, è che il mondo scientifico superi – non il maschilismo – ma il nazionalismo “mettendo in atto una trasversalità davvero aperta alla collaborazione tra le scienziate e gli scienziati” (p. 138) di tutto il mondo.

Buona parte dell’intervento di Michele Emmer è una rilettura di un testo didattico del 1989, Matematica della guerra, a c. del Coordinamento Insegnanti Non Violenti (fra cui c’era anche Tonino Drago), alla luce delle guerre che da allora hanno visto l’Italia coinvolta – contro ogni aspettativa ai tempi di quel libro, concepito nel contesto della Guerra Fredda e della corsa agli armamenti.

L’ultimo intervento, di Andrea Martocchia, analizza il rapporto tra scienza e guerra. Alla crisi dei criteri e dei fondamenti della conoscenza, che l’autore definisce “devastante” (pp. 149-150), è legata una mercificazione estrema delle informazioni, sì da creare l’attuale “società della propaganda”, che maschera con un “bombardamento” pubblicitario l’attacco sistematico e protervo “contro le conquiste di cent’anni di lotta dei lavoratori” e “contro popoli e stati che frappongono ostacoli [... alla] fase suprema dell’espansione del grande capitale: l’Imperialismo” (p. 150). Delle disinformazioni della TV italiana l’autore fornisce un elenco di significativi esempi: Milosevic che avrebbe tolto l’autonomia al Kosovo nel 1989, e che avrebbe formulato (28/6/1989) e poi cercato di attuare un piano di “pulizia etnica”; il bombardamento di Lubiana nel 1991 (non c’è stato); gli stupri di massa in Bosnia nel 1993 (mai avvenuti); le fosse comuni di Orahovac in Kosovo nel 1998 (inesistenti); l’attribuzione ai serbi delle stragi di Sarajevo. L’autore estende l’accusa di inaffidabilità delle notizie “anche e soprattutto” ai quotidiani di sinistra che trasmettono acriticamente dispacci di agenzia. Martocchia connette la “società della propaganda” alla classe degli intellettuali che, in qualità di “esperti”, ne costituiscono un elemento portante. Si tratta di un’intellettualità in crisi, malata di antirazionalismo, colpevole di “imposture” (decostruzionismo, pensiero debole), pronta ad ogni trasformismo. L’autore muove critiche esplicite al “Manifesto”, giudicato troppo affascinato dall’antirazionalismo, dal pensiero “differenzialista” postmoderno, e nel contempo come troppo aperto ad interpretazioni dello squartamento della Jugoslavia come se si fosse trattato di “un processo dovuto a pulsioni nazionalistiche congenite” (p. 156).

Se non lo trovate in libreria, il libro può essere ordinato da Odradek Edizioni, s.r.l., via delle Canapiglie, 112 – 00169 Roma.

Gordon Poole
Napoli, febbraio 2000