IL RUOLO DELLA GERMANIA NELLA DISTRUZIONE DELLA JUGOSLAVIA

a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia

Indice

[l'articolo, di Rudiger Göbel, è comparso sui Marxistische Blätter - Fogli marxisti - del marzo 1995]

Secondo la propaganda occidentale, la convivenza dei popoli della Jugoslavia era stata imposta attraverso la repressione di Stato sotto il "regime monopartitico", perciò lo sfascio ed i conflitti armati erano inevitabili con la crisi del sistema socialista. Questa tesi è priva di qualsivoglia fondamento. Viceversa: la Jugoslavia si formò dopo la II Guerra Mondiale come unione libera e volontaria di tutte le popolazioni. La guerra civile è iniziata in seguito alla divisione del paese nel 1991/'92.

La crisi della Jugoslavia e la conseguente guerra civile nella ex Bosnia-Erzegovina certo non si lasciano spiegare soltanto adducendo la politica interventista degli Stati imperialisti, e da sola la spinta al riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte della diplomazia tedesca non è certo ragione e cagione dello smembramento della Jugoslavia (1). Tuttavia essa ha esercitato un influsso determinante per lo scoppio della crisi e l'escalation di questi giorni, rendendo i problemi connessi davvero irrisolvibili. Gli interessi perseguiti in questo caso non sono così univocamente riconoscibili come ad es. nella guerra contro l'Iraq. Gli Stati imperialisti perseguono chiaramente molteplici obiettivi, in parte persino differenti. Erano tutti d'accordo sulla necessità di farla finita, anche in Jugoslavia, con i resti di una società socialista, e sulla cancellazione del paese in quanto soggetto autonomo nello scenario internazionale. Tutti gli Stati hanno ora la possibilità di avere un'influenza la più grande e diretta possibile sugli avvenimenti dei Balcani.

Gli interessi più facili da riconoscere sono quelli dell'imperialismo tedesco, che si riallaccia immediatamente alla sua politica per l'Europa del Sudest dalla seconda metà del XIX secolo sino al 1945. Proprio come allora, questo guarda ai Balcani come al suo naturale "cortile" e ponte verso la Turchia e più avanti, fino al Medio Oriente. Pertanto si è potuto riportare in vita il tradizionale stereotipo dei "Serbi assetati di sangue", utile a sostegno della politica estera tedesca.

GERMANIA - LA POTENZA CENTRALE D'EUROPA

Lo storico conservatore e biografo di Adenauer Hans-Peter Schwarz apre il suo ultimo lavoro sul ruolo della Germania in quanto "potenza centrale d'Europa" con la considerazione che tra le grandi svolte della storia tedesca è da annoverare il 1 Settembre 1994, giorno della partenza delle ultime unità russe dalla Germania. "Con ciò un'epoca, iniziata mezzo secolo prima, volge alla fine" (2). Cosicchè, quattro anni dopo l'annessione della RDT, la RFT è di nuovo tre cose in una: è uno Stato nazionale, è una grande potenza europea ed è la potenza centrale d'Europa. "Perchè esiste un solo paese che, grazie alla sua posizione geografica, alle sue potenzialità economiche ed alla sua influenza culturale, grazie alle sue dimensioni ed ancora grazie al dinamismo di cui dispone può sentire il compito di una potenza centrale - e questo è proprio la Germania" (3). La Germania è già una grande potenza europea. Ma poichè il concetto di "grande potenza" risveglia il ricordo di sfrenata politica egemonica, guerra ed annientamento, Schwarz propone il nuovo concetto di "potenza centrale d'Europa" - che vuol dire la stessa cosa.

E puntualmente, proprio il giorno della grande svolta, 1 Settembre 1994, il leader della frazione CDU/CSU Wolfgang Schäuble insieme con il portavoce per la politica estera del gruppo parlamentale, Lamers, hanno pubblicato un documento strategico contenente "Riflessioni sulla politica europea". Ivi sono formulati gli obiettivi della nuova politica tedesca da grande potenza - proprio nello stesso senso di Schwarz - e ci si pronunzia a favore della costruzione di un "nocciolo duro europeo" comprendente Germania, Francia e gli Stati del Benelux come nocciolo, mentre Germania e Francia sarebbero il "nocciolo del nocciolo duro" - con l'intenzione di risorgere finalmente dopo quasi 50 anni d'astinenza come potenza ordinatrice nel continente. Di fianco alla "stabilizzazione dell'Est" Schäuble e Lamers citano l'accesso allo spazio mediterraneo e lo sviluppo di una partnership strategica con la Turchia come ulteriori obiettivi strategici.

Il loro testo di 14 pagine può essere considerato come abbozzo strategico di base per il salto della RFT a potenza mondiale. I suoi autori ritengono che il paese sia destinato a diventare una grande potenza "in base alla sua posizione geografica, alle sue dimensioni ed alla sua storia". E se la Francia e gli Stati del Benelux non dovessero essere d'accordo sulla costruzione del nocciolo europeo, la RFT potrebbe "essere tentata, in base a considerazioni sulla propria sicurezza, di effettuare da sola la stabilizzazione dell'Europa orientale, nella maniera tradizionale" (4). Le "tradizionali" risistemazioni tedesche dell'Est in questo secolo hanno causato al mondo per due volte milioni di morti ed anni di oppressione e distruzione bellica.

Per le loro tesi sull'"Europa del nocciolo duro" Schäuble e Lamers hanno trovato sostegno nel portavoce della direzione della Deutsche Bank, Hilmar Kopper, che nell'edizione domenicale della FAZ [Frankfurter Allgemeine Zeitung, il più influente quotidiano tedesco, legato all'apparato industriale-finanziario, ndt] rendeva noto che nel documento della Unione era stato detto solamente ciò che tutti in effetti già "pensavano, sapevano o temevano". Nello stesso tempo il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, riproponeva alla discussione il concetto dei "cerchi concentrici", relativamente al futuro della politica europea della Germania (5).

In conclusione del turno di presidenza tedesco della UE il governo Kohl, in occasione del vertice di Essen del Dicembre '94, decideva un "approccio strategico" per gli Stati dell'Europa orientale, mirante all'estensione ad Est dell'Unione Europea - attualmente la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria sono associati all'Unione, mentre con gli Stati Baltici e la Slovenia si preparano i relativi accordi. Sarà innanzitutto la RFT a trarre profitto dall'allargamento della Unione, visto che il 50 per cento degli scambi commerciali della UE con l'Europa dell'Est toccano alla RFT. Pertanto l'Est è visto come "campo d'azione della politica estera tedesca".

LA FINE DEL BLOCCO DELL'IMPERIALISMO TEDESCO

Con la fine della contrapposizione Est-Ovest e lo scioglimento dell'Unione Sovietica, dopo circa 50 anni di interdizione in politica estera nella RFT si discute apertamente delle ambizioni politiche da grande potenza in direzione Est, e si passa anche alle azioni concrete. Il riconoscimento di Croazia e Slovenia nel Dicembre 1991 - contro gli intendimenti degli alleati occidentali - doveva dimostrare a tutti il ritorno della Germania nella sua posizione di potenza mondiale a tutti gli effetti. I vecchi piani di pressione verso Est poterono esser nuovamente tirati fuori dal cassetto.

Già Friedrich Naumann sapeva bene che la costruzione di uno spazio d'influenza economica sarebbe stata possibile solo sfruttando le tendenze indipendentiste di parte dei Cechi, degli Slovacchi, dei Croati, degli Sloveni e così via. A lui parevano essenziali due elementi chiave: l'unione economica dell'Europa centrale e gli "Stati del nocciolo mitteleuropeo" (6). Al presente questi due elementi chiave sotto un certo punto di vista sono l'Unione Europea ed i già esposti pensieri sugli Stati del nocciolo duro, attraverso i quali si perseguirebbe una estensione ulteriore dell'egemonia tedesca. Dopo il 1945 tutto questo non era ancora stato possibile. La "'Mitteleuropa' appariva come pallida immagine di una storia irriproponibile" (7).

Il pensiero di una "Mitteleuropa" tornò in auge solamente negli anni '70 ed '80 - esso doveva essere usato solo in funzione della destabilizzazione degli Stati del blocco dell'Est. La "Mitteleuropa" fu invocata dagli intellettuali ungheresi, croati e polacchi tanto apprezzati qui in Occidente, poichè d'opposizione, a partire dalla metà degli anni '80. A ciò aveva contribuito l'allora Vicepresidente degli USA, George Bush, che nel Settembre 1983 dopo un viaggio in Jugoslavia, Romania ed Ungheria tenne una conferenza nella Hofburg viennese, proclamandosi a favore di una politica della differenziazione regionale, allo scopo di favorire l'indipendenza di questi Stati - già allora quindi la sovranità jugoslava era messa apertamente in questione. Il concetto per mezzo del quale egli identificava questa regione - Ungheria, Slovenia, Croazia, Cecoslovacchia, Polonia, ecc. - era espresso dalla parola tedesca "Mitteleuropa" (8). Tra gli intellettuali di quell'area "Mitteleuropa" divenne così una specie di parola in codice che doveva segnalare che si sentivano parte della cultura politica dell'Ovest.

Nel 1991 veniva pubblicato un discorso, nel quale si dava rilievo al ruolo della Germania per il futuro. "Se le difficoltà dell'unificazione verranno superate - tra cinque, dieci o venticinque anni - la Germania non eluderà affatto la penetrazione economica dell'Europa orientale, e probabilmente le toccherà su questa strada di arrivare a ciò che il Terzo Reich con alcune centinaia di divisioni non aveva raggiunto - il predominio su quelle aree estese a perdita d'occhio tra Weichsel, Bug, Dnjepr e Don". Questa la predizione dell'editore conservatore Wolf Jobst Siedler. E per di più questi sosteneva che la Germania sarebbe nuovamente la potenza egemone di tutta la Mitteleuropa: "essa sarà per i Cecoslovacchi, per gli Ungheresi ed in parte anche per i Polacchi la potenza-guida" (9).

"Per lungo tempo in Europa orientale non ci sarà più di fatto alcuno Stato veramente sovrano; tutti, chi più chi meno, si dovranno inchinare dinanzi al dettato del Leviatano germanico. No, la futura, già avviata germanizzazione dell'Europa orientale non avverrà più per mezzo della guerra e della violenza, bensì sarà una versione allargata della 'Mitteleuropa' concepita nei primi decenni di questo secolo da Friedrich Naumann, una specie di costruzione k.u.k. ingrandita [kaiserlich und königlich - imperiale e reale, detto dell'Impero Austroungarico, ndt]", secondo il pubblicista spagnolo Heleno Saña nel suo libro "Il quarto Reich - la vittoria ritardata della Germania" (10).

I rapporti economici con la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l'Ungheria, la Bulgaria e la Slovenia già oggi riportano al modello degli anni '30: con bilanci commerciali asimmetrici, a favore della RFT, che rappresenta in questa area l'effettiva potenza economica, insieme alla Francia. Il consulente imprenditoriale tedesco Roland Berger ha descritto il ruolo della Germania proprio nel senso della politica dei "cerchi concentrici", di intensità e pressione economica via via minore, in una intervista allo Spiegel nel 1992: "I tedeschi dovrebbero rendersi conto della propria forza ed innanzitutto lasciar stare ciò che altri già possono (perdipiù con minori costi). (...) Noi siamo forti in tutti i lavori ad alta intensità di sapere ed in quelli creativi, nell'inventare, nello sviluppare, nel costruire, nella realizzazione di parti essenziali e prodotti tecnologici all'avanguardia. (...) Il nostro futuro in quanto paese industriale è quello di un cervello del sistema, non quello d'un produttore di profilati in alluminio o d'un sarto di camicie. (...) Il mercato mondiale diviene unitario, pertanto dobbiamo riorganizzare la divisione del lavoro tra i vari paesi, secondo il motto: il know-how in Germania, più componenti da fuori ed assemblaggio sul posto (dentro o fuori il paese)" (11).

L'INTERVENTO DELLA RFT NELLA GUERRA CIVILE JUGOSLAVA

Negli ultimi anni uno slogan essenziale della politica tedesca riguardo l'attuazione dei suoi interessi in Europa orientale e meridionale è stato quello del "diritto all'autodeterminazione dei popoli". Con questo la RFT cerca di ricollegarsi ai conflitti esistenti tra gruppi di diversa lingua o Weltanschauung all'interno di uno stesso Stato o di una Federazione di Stati. Conflitti, che riportano più che altro a problemi e diseguaglianze di tipo economico - diverso livello di sviluppo tecnico o industriale, mancanza di beni di consumo, ecc. -, sono esplicitati per il loro carattere etnico (la "etnicizzazione del sociale"). Così è stato ad es. per le Repubbliche baltiche della ex Unione Sovietica o per le Repubbliche slovena e croata all'interno dello Stato federale jugoslavo, che pure avevano una posizione economica privilegiata. "La politica della RFT si riallaccia a queste contraddizioni interne dei paesi, con l'obiettivo della frammentazione o della riduzione dello Stato o Federazione, oppure con l'obiettivo della cancellazione o separazione della parte in questione dalla Federazione di Stati" (12). Questo tuttavia soltanto allo scopo di portare le parti distaccate verso la dipendenza economica e politica.

Possiamo attualizzare meglio le riflessioni che fanno da sfondo riferendoci forse alla teoria "dell'arancia" di Paul Rohrbach, politico del colonialismo: essa intendeva portare l'Impero russo a sciogliersi nelle sue varie componenti, o perlomeno ridurlo in parti controllabili dalla Germania; l'Impero degli Zar, secondo Rohrbach, era scomponibile nelle sue varie parti come un'arancia - se si suddivide abilmente un'arancia non si ottiene un insieme caotico inutilizzabile, nè distruzione, bensì i vari spicchi restano intatti ed appetibili (13). Dietro la politica della RFT di sconvolgere la Jugoslavia tramite "il piede di porco (...) del riconoscimento di Croazia e Slovenia" (14) nel Dicembre 1991 non c'è nient'altro che l'antica tattica del divide et impera - niente a che vedere con l'"umanità", i "diritti umani" o il "diritto all'autodeterminazione dei popoli".

A Slovenia e Croazia era assegnata una particolare e specifica funzione nel mercato interno della Jugoslavia. Lo standard di vita di queste regioni industrializzate era più alto che in qualunque altra parte della Federazione jugoslava. Mentre durante la crisi politico-economica degli anni '80 lo sviluppo era in stagnazione, i rapporti di scambio con le Repubbliche più povere avuti fino allora furono percepiti come "zavorra" e si cercarono prospettive nell'annessione al mercato CEE o a quello mondiale.

Che la strada di Slovenia e Croazia verso la "autodeterminazione" avrebbe portato alla rovina lo avevano pronosticato già il FMI e la Banca Mondiale nell'estate del 1991. Il Vicepresidente della Banca Mondiale, Wapenhans, aveva detto allora: "Secondo la nostra opinione non sussiste alcun dubbio sul fatto che nessuna delle parti componenti la Jugoslavia trarrà profitto dallo sfascio della Jugoslavia o della sua economia nel breve e medio periodo" (15). In tale maniera egli ammetteva indirettamente che con la salvaguardia della Federazione e del mercato interno jugoslavo era sì dato un fondamento per la sopravvivenza anche di Croazia e Slovenia, piuttosto che con uno status slegato da questa base comune - cioè l'"indipendenza", che sfocia per forza di cose nel legame con l'area tedesco-europea.

Sicuramente esiste anche una continuità storica, che ha determinato la spinta e l'appoggio di una grande parte della popolazione slovena e croata alla svolta verso la Germania. L'antico legame nella "divisione del lavoro" con l'economia globale tedesco-imperiale e pantedesca è rimasta nella coscienza di parte di quelle popolazioni come un fatto positivo. L'odierno Presidente croato Tudjman potè trovare parecchi sostenitori promettendo che alla separazione dalla Federazione jugoslava sarebbe conseguito l'"appoggio" della Comunità Europea, ed in particolare della vecchia amica Germania. Gli slogan anticomunisti hanno fatto il resto.

Il giornalista americano John Newhouse aveva reso noto sulla rivista The New Jorker dell'agosto 1992 che "Genscher era stato quotidianamente in contatto col Ministro degli Esteri croato. Egli incitava i Croati ad abbandonare la Federazione e a dichiarare l'indipendenza" (16). E questo benchè i leader politici della Bosnia premessero sulle potenze occidentali perchè si ritirasse il riconoscimento di Slovenia e Croazia, altrimenti sarebbero stati costretti essi stessi a chiedere l'indipendenza. La loro sicurezza, dicevano, era fondata sull'esser parte di uno Stato multinazionale (17).

Nel Novembre 1991 il Presidente bosniaco Izetbegovic' aveva fatto visita al Ministero degli Esteri di Bonn. Egli si opponeva alla politica dei riconoscimenti, poichè era convinto che questa avrebbe "invitato" Serbia e Croazia ad aggredire la Bosnia, con la conseguenza di un inimmaginabile bagno di sangue. Anche l'Ambasciatore tedesco a Belgrado considerava il riconoscimento come una cattiva idea ed aveva fornito ad Izetbegovic' argomenti per il suo colloquio con Genscher, ci informa Newhouse (18). Ciò che ad Izetbegovic' fu promesso da Genscher non ci è ancora dato di sapere: fatto sta che, dopo il colloquio, egli aveva ripiegato dalla sua iniziale posizione apprensiva.

Prima ancora delle sanzioni ufficiali da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU la RFT, durante l'inverno, poco prima del suo riconoscimento di Croazia e Slovenia, aveva imposto unilateralmente il blocco dei traffici con la RFJ; poi, puntualmente a Natale, ebbe luogo il promesso riconoscimento - e la prevedibile e fino ad oggi proseguita escalation della guerra civile jugoslava. In tal modo l'imperialismo tedesco manifestava il suo ritorno alla "normalità" dopo la fine del "blocco". Il 23 Dicembre 1991 va pertanto segnato sul calendario - analogamente al 1 Settembre 1994 di Hans-Peter Schwarz - tra le "svolte importanti" della storia tedesca.

LA JUGOSLAVIA E LA "NORMALIZZAZIONE" TEDESCA

La discussione sui riconoscimenti ed il conseguente dibattito sulla Bosnia è nel segno del "ritorno alla normalità", un obiettivo dello Stato preordinato dall'alto con il quale dovrebbe concludersi la fase quarantennale di interdizione della Germania dai traffici di politica estera.

In politica interna, sin dall'inizio della guerra in Jugoslavia, si persegue "una quasi-normalizzazione del Nazionalsocialismo per mezzo della moltiplicazione delle sue forme di apparizione", e la corrispondenza giornalistica tedesca mira a creare "una, due, tante Auschwitz" per poter gettare finalmente nella spazzatura dodici anni di storia propria. Così esistono persino "campi di sterminio serbi", "campi di concentramento", la "Grande Serbia", una "Endlösung" [soluzione finale, detto per l'Olocausto degli Ebrei, ndt] operata dai Serbi e la "follia di dominio" serba, stese a copertura della propria storia (19). Con l'istituzione, su iniziativa della RFT, di un Tribunale internazionale per i crimini di guerra a L'Aia, si cerca da parte tedesca di relativizzare finalmente lo "smacco di Norimberga". Naturalmente a Bonn si nega ogni corresponsabilità nei crimini e nella guerra in Jugoslavia: nella versione ufficiale c'è solo un gruppo di responsabili e criminali di guerra - i Serbi. Quale sia lo scopo dell'arresto e dell'atteso processo contro Dusko Tadic', un serbo abitante a Monaco, lo ha chiarito un avvocato di Amburgo, che avrebbe condotto le autorità tedesco-federali sulle tracce di Tadic', nel corso di una trasmissione speciale della ARD: Tadic' sarebbe in effetti soltanto un Hess, un guardiano di campi di concentramento; per suo tramite si vuole arrivare ad Himmler - Karadzic' - ed Hitler - Milosevic'.

Questo genere di demagogia e revisionismo storico hanno permesso al giornalista americano David Binder, pure conservatore, di chiedere che anche Kohl e Genscher vengano messi nella lista dei criminali di guerra in un procedimento giudiziario sulla guerra in Bosnia, poichè questi "hanno preso decisioni che hanno portato all'estensione e all'intensificazione della guerra" (20).

Attraverso il riconoscimento della anticostituzionale secessione delle Repubbliche ex-jugoslave alla politica tedesca ed occidentale era riuscito di internazionalizzare un conflitto essenzialmente di carattere interno, impegnandosi più apertamente per un intervento nel senso di "garantire la pace". Persino Genscher ha potuto farsi passare da critico difensore dei diritti umani, mentre spingeva gli alleati europei al riconoscimento: "Anche nel futuro la Germania si porrà dalla parte dei diritti umani, dei diritti delle minoranze e del diritto all'autodeterminazione, contro l'aggressione e l'oppressione. (...) Alla Comunità Europea si impone di aprire una prospettiva europea ai popoli della Jugoslavia per il futuro" (21). Avendo sottolineato, come premessa, che soltanto ai popoli della Jugoslavia spetta di decidere sul proprio futuro, egli metteva poi in guardia esplicitamente: "Non possiamo lasciare da sole le Repubbliche indipendenti (...). Non le possiamo spingere nell'isolamento rispetto alla comunità internazionale degli Stati!". Con ciò egli riusciva a dare al "futuro dei popoli jugoslavi" una precisa prospettiva nel quadro comunitario, con l'obiettivo (suddetto) della decomposizione o del rimpicciolimento di quello Stato, e della conseguente annessione di queste parti distaccate ad una vasta area di influenza in qualità di soggetti economicamente e politicamente dipendenti, nel quadro della gerarchia raffigurata dal già citato Roland Berger.

L'Handelsblatt [importante quotidiano economico e finanziario, ndt] descriveva nel Settembre 1991 lo sviluppo economico dell'Europa nella seguente maniera: la "storia dell'economia [insegna] che la dinamica economica non si sviluppa mai in senso superficiale-orizzontale, bensì di regola a partire da centri le cui attività si estendono verso l'esterno come anelli che si allargano. Così lo sviluppo economico del continente ha potuto evolvere secondo i seguenti binari: i centri mitteleuropei si irradiano verso Est, conquistando innanzitutto gli ex paesi satelliti. Solo in seguito verranno raggiunte le regioni di confine dell'impero sovietico. Tralasciando alcuni punti di forza industriali propri presenti sul territorio dell'Unione Sovietica, attorno al nocciolo duro europeo si formeranno anelli concentrici con livelli di attività economica decrescente, il cui standard produttivo fluttua nel contatto con l'Europa..." (22).

Per poter esercitare più influenza su questi "anelli concentrici che circondano il nocciolo dell'Europa con attività economica decrescente", e per controllarli meglio, tramite lo slogan dell'"autodeterminazione" è stata distrutta la Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia.

"L'attuale politica interventista contro la Jugoslavia, in interazione con gli attuali meccanismi di formazione della opinione pubblica all'interno della RFT, ancora non si configurano come uno stato di guerra [palese, nda]. Si mira però a raggiungere una capacità di mobilitazione bellica, tanto all'esterno quanto all'interno" (23).

Come questo può avere luogo ce lo indica la seguente considerazione: "Le circostanze mi hanno costretto per anni a parlare quasi soltanto di pace. Solo tramite la costante proclamazione del desiderio tedesco di pace e delle intenzioni pacifiche mi è stato possibile procacciare al popolo tedesco la libertà, pezzetto per pezzetto, e l'equipaggiamento che fu sempre necessario come condizione per poter fare il passo successivo (...). E' stato altresì indispensabile mutare a poco a poco la psicologia del popolo tedesco, e chiarirgli lentamente che esistono cose che vanno ottenute per mezzo della violenza, se non possono esserlo con mezzi pacifici. Tuttavia a tale scopo si è reso necessario non solo propagandare la violenza in quanto tale, bensì illuminare il popolo tedesco in merito a certi accadimenti di politica estera, in modo che nel cervello delle masse si generasse lentamente la seguente convinzione: se questo non si può cambiare con le buone, allora lo sarà con la violenza". Così si esprimeva Adolf Hitler dinanzi alla stampa tedesca il 10-11-1938 (24).

La "illuminazione" sistematica e persuasiva su avvenimenti di politica estera, compiuta in maniera tale da indurre gran parte della popolazione ad esprimersi a favore di misure violente contro un altro Stato, è un costituente essenziale della formazione di una propria capacità bellica. E sotto questo aspetto vanno analizzati anche gli ultimi tre anni di politica riguardo la Jugoslavia.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

L'economista egiziano e teorico marxista Samir Amin ha recentemente individuato quali compiti oggi si pongano concretamente nella discussione riguardante interventi propagandati con la copertura dell'umanitarismo e dei diritti umani: "Sotto ogni aspetto, in ogni tempo ed in ogni forma, il fatto che il Nord si immischi negli affari del Sud (ed a maggior ragione quando si tratta di un intervento violento, militare o politico) è un fatto negativo. Gli eserciti occidentali non porteranno mai pace, benessere o democrazia ai popoli di Asia, Africa ed America Latina. In futuro come da cinque secoli a questa parte potranno portare solo schiavitù, sfruttamento del loro lavoro e delle loro ricchezze, negazione dei loro diritti. E' compito delle forze progressiste dell'Ovest capire questo" (25).

Mentre un tempo ampi settori della sinistra solidarizzavano con i movimenti di liberazione, si preoccupavano dello sfruttamento dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo e dimostravano contro FMI e Banca Mondiale, oggi in Occidente si è sviluppata una cultura di stampo chauvinista che non ha origine dagli ambienti conservatori e nazionalisti, bensì dal centrosinistra liberale - dal luogo politico cioè in cui era situato il movimento pacifista. Sorprendentemente l'idea che la Germania sia una grande potenza, che cerca senza riguardi di perseguire il proprio interesse, è assolutamente scomparsa, anche in Germania - e nella stessa sinistra. Tanto quanto il concetto di imperialismo è passato di moda (innanzitutto in relazione alla società tedesca).

E così non sono stati nè gli incitamenti all'odio di Herr Reißmüller sulla FAZ nè i racconti dell'orrore del deputato CDU Stefan Schwarz a far sì che, dopo lo scoppio del conflitto in Jugoslavia, si proclamasse da ogni parte ad alta voce e per la strada la necessità dell'intervento occidentale contro i Serbi. Sono stati al contrario partiti come i Grünen [Verdi, ndt] e fogli liberali (di sinistra) come la TAZ, il Frankfurter Rundschau, Die Zeit, il francese Liberation e il britannico Guardian a diffondere un panico antiserbo tale da influenzare fino ad oggi la percezione del conflitto degli intellettuali occidentali. Frattanto il movimento pacifista e terzomondista gioca qui un ruolo non sottovalutabile, rendendo popolari gli interventi occidentali nei paesi del Tricontinente. Da questa parte è giunta la maggioranza delle proposte, ad es. quella di porre termine finalmente al conflitto jugoslavo attraverso un intervento (militare o meno). Purtroppo in questi ambienti l'antico slogan del tempo della I Guerra Mondiale

"il principale nemico si trova nel proprio paese" è finito nel dimenticatoio, e conseguentemente la protesta non è diretta contro lo chauvinismo occidentale di fronte agli altri popoli, nè contro l'intromissione del proprio Stato nelle faccende degli altri Stati sovrani. Al contrario, le campagne dell'opposizione antimilitarista sono dirette in primo luogo ad es. contro l'esportazione di armamenti, quindi contro la fornitura di armi a regimi considerati particolarmente terribili, e non contro il militarismo tedesco. Il messaggio lanciato da tali campagne può essere considerato a tutt'oggi uno solo: ci sono due categorie di Stati - quelli per i quali il possesso di armamenti è legittimo e senza problemi (l'Occidente), e quelli per i quali è interdetto (i paesi del cosiddetto Terzo Mondo) (26).

Un "movimento per la pace" che incita il proprio Stato ad immischiarsi nelle questioni di altri popoli non è un movimento per la pace. Questo deve essere chiarito assolutamente. E conseguentemente il vecchio slogan "combattere il nemico nel proprio paese" deve essere rimesso all'ordine del giorno dell'agenda politica della sinistra - contro qualsiasi forma di preparativo alla guerra, all'interno come all'estero, sia essa di tipo economico, politico, militare o ideologico.

Rispetto al conflitto in Jugoslavia, ciò significa concretamente schierarsi contro ogni tipo di intervento ed anzi chiederne la cessazione. Perchè, come ci ha detto Samir Amin, una intromissione dell'imperialismo non può mai portare nè pace, nè benessere nè democrazia (27). Questa deve essere la posizione di partenza inalienabile di un lavoro internazionalista ed antiimperialista, ed a partire da questa si possono discutere ulteriori rivendicazioni e prospettive politiche.

 

NOTE

1. Sui retroscena del conflitto Jugoslavo sia a livello politico che economico cfr. il contributo di Jochen Gester: Retroscena economici del conflitto jugoslavo, sui Marxistische Blätter 1-'95, ppgg. 8-17.

2. H.-P. Schwarz: Die Zentralmacht Europas - Deutschlands Rückkehr auf die Weltbühne [La potenza centrale d'Europa - Il ritorno della Germania sul proscenio mondiale]. Berlino 1994. Pag. 7.

3. H.-P. Schwarz, op. cit., pag. 8.

4. Citato dai Politische Berichte 19-'94, pag.3.

5. Cfr. il Frankfurter Rundschau del 13-9-1994, a pag. 1.

6. Cfr. Schwarz, op. cit., pag. 245.

7. Schwarz, op. cit., pag. 248.

8. Schwarz, op. cit., pag. 249.

9. Schwarz, op. cit., pag. 251.

10. Heleno Saña: Das Vierte Reich - Deutschlands später Sieg. Amburgo 1990. Pag. 108.

11. Der Spiegel n.18-'94, pag. 154. Queste considerazioni non sono nuove, bensì sono in continuità con la costruzione di una vasta area d'influenza durante il fascismo. Già nel 1941 Theo Suranyi-Unger aveva formulato riflessioni di questo tipo sulla Zeitschrift für die gesamte Staatswirtschaft - Rivista per l'economia statale globale: "I paesi subordinati potranno coprire non soltanto il loro fabbisogno (...) bensì anche quello del paese-guida, mentre quest'ultimo si dedicherà sempre più a quei rami dell'industria che richiedono manodopera altamente qualificata e processi produttivi particolarmente lunghi...". Citato da: Hunno Hochberger, Sull'intervento della RFT nella guerra civile jugoslava - Alcune riflessioni sull'espressione "europa tedesca". In: A. Meurer, H. Vollmer, H. Hochberger: Die Intervention der BRD in den jugoslawischen Bürgerkrieg. Hintergründe, Methoden, Ziele. GNN-Verlag. Colonia 1992. Pag. 33.

12. Hochberger, op. cit., pag. 30.

13. Cfr. Wolf-Dieter Gudopp: Auf dem Weg in den dritten Weltkrieg ? [Verso la terza guerra mondiale?] Verein Wissenschaft und Sozialismus e.V.- Francoforte 1993, pag.18.

14. Schwarz, op. cit., pag. 156.

 

15. Citato da: Hochberger, op. cit., pag. 31.

16. John Newhouse: Bonn, der Westen und die Auflösung Jugoslawiens. Das Versagen der Diplomatie - Chronik eines Skandals [Bonn, l'Occidente e il disfacimento della Jugoslavia. La sconfitta della diplomazia - cronaca di uno scandalo]. In: Blätter für deutsche und internationale Politik 10-'92, pag.1195.

17. Newhouse, op. cit., pag.1193.

18. Newhouse, op. cit., pag.1196.

19. Tutte le citazioni da: Arthur Heinrich: Wunderbare Wandlung. Die Nachkriegsdeutschen und der Bosnien-Einmarsch. Ein Frontbericht [Metamorfosi miracolosa. I tedeschi del dopoguerra e la marcia sulla Bosnia. Un reportage dal fronte]. In: Blätter für deutsche und internationale Politik 4-'93, pag.411.

20. Citato da: Heinrich, op. cit., pag. 413.

21. Citato da: Hochberger, op. cit., pag.32.

22. Hochberger, op. cit., pag. 33.

23. Hochberger, op. cit., pag. 42.

24. Gudopp, op. cit., pag. 3.

25. Samir Amin: Das Reich des Chaos - Der neue Vormarsch der Ersten Welt [L'impero del caos - la nuova avanzata del Primo Mondo]. VSA-Verlag. Amburgo 1992, pag. 18.

26. Cfr. Sabine Reul: Friedenslobby und politisch korrekter militarismus [Lobby pacifista e militarismo politically correct]. In: NOVO n.13, 11/12-1994,

ppgg. 35-37; Ernst Woit: Imperialistische Ziele und Strategien [Obiettivi e strategie imperialiste]. In: Marxistische Blätter 5-'94, ppgg. 55-59.

27. Fuori luogo è appellarsi ad una "razionalità del capitalismo", e sperare in una "politica socioeconomica di pace a livello globale", come fa Werner Ruf sui Marxistische Blätter 5-1994. Cfr. Rüdiger Göbel in: Prokla n.95, 24-6-'94, ppgg. 287-301.

 

tratto da: Jugoslawien-Bulletin 4-'95, raccolta di documentazione "contro le sanzioni, l'incitamento guerrafondaio e la politica tedesca da grande potenza". Per contatti, contributi e abbonamenti:

Jugoslawien-Bulletin c/o Friedensladen, Schillerstr. 28, 69115 Heidelberg (Germania)

 

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