CAPITOLO IV

 

LE INCHIESTE SULLE “FOIBE”

 

Sulle inchieste in corso per i fatti delle cosiddette “foibe” non c’è molta chiarezza, difatti l'inchiesta più “famosa”, cioè quella condotta dal P.M. romano Pititto riguarda, per competenza territoriale, solo i fatti avvenuti in Istria, cioè in territori che non fanno più parte dello Stato italiano, e non concerne minimamente le indagini relative alla zona di Trieste, per la quale è competente la magistratura triestina. Sono state aperte, da quanto ci consta, più inchieste sulle “foibe” triestine [1] (in linea di massima riguardanti il pozzo della miniera di Basovizza, perché, è bene ricordarlo, per i morti nelle altre foibe triestine i processi sono già stati a suo tempo celebrati e coloro che furono ritenuti i responsabili giudicati e condannati, con grande impiego di “propaganda” già a quel tempo). Ma queste inchieste sono state riunite nella più recente, iniziata dal P.M. triestino Giorgio Nicoli nel 1995 su denuncia dell’esponente dell’Unione degli Istriani Paolo Sardos Albertini; di essa si hanno solo notizie spezzettate e saltuarie (anche perché, trattandosi di inchiesta in corso è logico che non se ne parli troppo, al contrario di quanto fa Pititto), per cui non siamo in grado di sapere a che punto si trovino gli inquirenti. Sarebbe comunque auspicabile che dopo un periodo così lungo di indagini si giunga a tirare almeno in parte le fila delle ricerche e l’inchiesta si chiuda ufficialmente con un processo od un’archiviazione.

L’inchiesta di Pititto, invece, è tutt'altra cosa. Partita da una denuncia dell’avvocato Sinagra (noto alla cronaca per essere stato il legale di fiducia di Licio Gelli e asserito membro della loggia P2), si distinse subito perché il P.M., ancora prima di avere raccolto un numero consistente di indizi e testimonianze, partì subito in quarta preannunciando incriminazioni per “genocidio” contro un’ottantina di persone (facendo diversi nomi di possibili indagati, ai quali, peraltro, non vennero inviati i rituali avvisi di garanzia).

In effetti, più che un’inchiesta, quella di Pititto sembra una campagna stampa. Invece di condurre indagini riservate, come sarebbe d’uso, se ne esce di tanto in tanto con dichiarazioni tra il trionfalistico ed il truculento, fa pubblicare appelli sui giornali in cui chiede ai testimoni di farsi vivi, definisce «prove decisive» i testi di Papo e di Pirina e testimonianze come quella di padre Flaminio Rocchi (un francescano fanatico e militarista che dice di se stesso «sono strambo ed approfitto del saio che porto» )[2], il quale ha il coraggio di affermare: «Dopo l’8 settembre del 1943, le truppe jugoslave occuparono l’Istria, comprese le città di Trieste, Gorizia e Monfalcone. (...) Ebbe inizio una dura pulizia etnica contro gli italiani considerati come delle impurità etniche (...). In questo clima scomparvero dai 10 ai 12 mila civili italiani, uomini e donne, uccisi dai partigiani titini, molti dei quali infoibati, per il semplice fatto di essere italiani...»[3]. Cose, queste, che solo un completo ignorante in fatto di storia, può dare per buone, dato che dovrebbe appartenere alla cultura generale il fatto che in certe zone, dopo l’8 settembre 1943 ci fu sì un'invasione militare, ma non certo di jugoslavi quanto di tedeschi. Quanto alle dodicimila persone scomparse all’epoca: può essere una cifra realistica, ma chi le fece scomparire furono i nazifascisti e non i “titini”.

L’inchiesta di Pititto, condotta come una campagna stampa, fa seguito ad un’altra campagna stampa, quella iniziata più o meno nel 1992 da Marco Pirina con l’uscita del suo primo libro di revisionismo storico. Pirina venne allora avallato come “ricercatore storico” dalla stampa locale, si arrivò persino a definirlo il “Wiesenthal italiano” (paragone che ci fa orrore, sia sul piano storico e culturale che su quello umano).

Ma è anche interessante notare la differenza tra due articoli del “Piccolo” di Trieste relativi al terzo testo pubblicato da Pirina (“Scomparsi senza storia”), apparsi uno il 1° maggio 1994 e l’altro il 15 ottobre dello stesso anno. Nel primo di essi l’articolista (ma l’articolo non era firmato) relaziona della presentazione del libro presso la Lega Nazionale di Trieste e dice «...Pirina imposta il suo lavoro per suffragare una sua ben precisa convinzione politica, che non è sicuramente quella di chi in quegli anni fece una scelta di campo per i valori della libertà» Ed ancora: «Pirina usa tante piccole o grandi verità per assegnare le colpe solo ad una parte, quella “slavocomunista”, dimostrando di non tener conto della barbarie degli altri. Pirina trae quindi una visione tutt’altro che europeistica del presente» .Un’analisi del libro del tutto condivisibile, dunque. Però sei mesi dopo troviamo un altro articolo, firmato da Silvio Maranzana (che si occuperà anche in seguito di questi argomenti, spesso, purtroppo, con scarsa serietà professionale). In questo secondo articolo dal titolo “Un libro che mira a svelare le ‘tane’ dei torturatori titini”, si parla della presentazione “in anteprima” a Milano (ma non era già stato presentato a Trieste sei mesi prima? n.d.a.), del libro “Scomparsi...”. Il tono non è per nulla critico nei confronti di Pirina, come era stato l’articolo precedente, anzi. Dunque, in questi mesi qualcosa dev’essere successo, per far cambiare il tono: ma cosa? Niente paura, basta leggere avanti: «Nei loro confronti (dei «sospetti protagonisti di stragi ed esecuzioni», indicati da Pirina nel suo libro, n.d.a.) l’avvocato Augusto Sinagra avrebbe presentato alcuni mesi fa una denuncia alla procura di Roma in relazione al reato di strage. Si sarebbero resi responsabili di eccidi contro cittadini italiani nella zona di Fiume». Oh, ecco, qua si capisce tutto: in maggio la manovra non era ancora partita ed il “Piccolo” non sapeva ancora cosa stava bollendo in pentola.

All’inizio l’inchiesta di Roma fu assegnata al magistrato Gianfranco Mantelli, il quale dichiarò alla stampa che si sarebbe tenuto in contatto con il suo collega triestino Nicoli, il quale avrebbe dato disposizione alla DIGOS (come appare dallo stesso articolo) di trasmettere alla Procura della Repubblica di Roma copia degli atti riguardanti l'inchiesta da lui condotta. «Credo che lavoreremo insieme» affermò anche Mantelli. Il quale però operò anche una scelta che fu criticata all'epoca da diversi storici (di quelli veri, da Apih a Spazzali a Pirjevec: Pirina invece se ne dichiarò soddisfatto): decise di sequestrare i documenti relativi alle foibe conservati nell’archivio del Ministero degli Esteri. Asserì comunque Mantelli che «al momento non v'erano nomi di indagati».

Passò ancora un po’ di tempo e poi l’inchiesta passò nelle mani dell’allora sconosciuto P.M. Giuseppe Pititto: da quel momento la stampa diede notizie solo della sua inchiesta e non si parlò più di quella triestina di Nicoli. Anche l’atteggiamento di Pititto fu da subito diverso da quello di Mantelli: come s’è detto partì subito annunciando incriminazioni a destra e a manca.

Dal “Piccolo” del 24.11.1995, nel quale viene data la notizia che l’inchiesta sulle foibe è affidata ad un magistrato di Roma: «Pititto ha sulla propria scrivania il fascicolo relativo al dramma delle foibe solo da poche settimane. Lo ha ereditato dal collega Gianfrancesco Mantelli, trasferitosi al Ministero. E, per studiare come far procedere l’indagine, Pititto ha incontrato nei giorni scorsi l’avvocato Sinagra: tra l’altro il magistrato ha già annunciato di voler acquisire alcuni memoriali e di voler ascoltare padre Rocchi, uno dei personaggi più noti tra gli esuli». Ecco qua già le prime stranezze. Intanto non è poi proprio regolare che per «studiare come far procedere l’indagine» un magistrato si incontri con il denunciante: in teoria dovrebbe fare di testa propria usando collaboratori che non sono parte in causa. E poi, la prima persona che gli viene in mente di “ascoltare” non è uno storico: è quel padre Rocchi di cui abbiamo parlato prima, di cui tutto si può dire tranne che sia un testimone imparziale degli avvenimenti storici.

Ma nello stesso articolo troviamo questa affermazione di Pititto: «Il problema che mi trovo ora ad affrontare è tradurre un fatto storico in un fatto giudiziario». Orbene: è «solo da poche settimane» che ha sulla scrivania il fascicolo relativo alle foibe e già ha tratto le proprie conclusioni in merito? Non ha ancora sentito alcun testimone (difatti nello stesso articolo si riferisce che ha invitato «chiunque abbia ricordi precisi» a farsi avanti) e già ha capito tutta la «tragedia delle foibe», fatti sui quali neanche gli storici più seri sono ancora riusciti a fare chiarezza? Qua, o ci troviamo di fronte ad un magistrato particolarmente superficiale e per questo, quindi, non affidabile, o, peggio, abbiamo un magistrato che ha già le sue idee preconcette e non è quindi in grado di condurre un’inchiesta imparziale.

Il 17.2.1996 il “Piccolo” pubblica un’intervista (firmata da Pietro Spirito), a Pititto, il quale afferma (dopo tre soli mesi di indagini?!) di avere scoperto i colpevoli e di avere pronte le richieste di rinvio a giudizio. «E questi dovranno pagare» afferma «perche fatti simili non devono e non possono restare impuniti». Sì, però, ci chiediamo noi, quali fatti ? A domanda di Spirito: «Di quali fatti in particolare sono ritenute responsabili le persone che lei ha individuato?» Pititto risponde: «Tutti i fatti che attengono all’accusa di genocidio...». Genocidio? «Le vittime furono migliaia» asserisce poco dopo il magistrato. Quali documenti ha quindi studiato il nostro inquisitore? Non certo i testi che vi abbiamo indicato noi come fonti della nostra ricerca (nessuno storico serio parla di migliaia di infoibati); evidentemente le sue fonti sono altre, come vedremo in seguito seguendo le notizie stampa.

Nel maggio del 1996 il G.I.P. di Roma ha negato l’autorizzazione all’arresto di Ivan Motika e Oskar Piskulic, indicati da Pititto come «mandanti e carnefici degli infoibamenti». Come si vede, dall’ottantina di nomi di “infoibatori” preannunciati in febbraio s’è passati a due nomi soltanto.

Dalla requisitoria di Pititto pubblicata dal “Meridiano” sopra citato, troviamo anche i testimoni e le fonti su cui il magistrato si è basato per la sua inchiesta. A parte padre Rocchi troviamo delle altre nostre vecchie conoscenze: Luigi Papo, ad esempio, che parla di “400 italiani infoibati” (a Pisino, n.d.a.) ed afferma: «So che il responsabile dell’infoibamento di questi quattrocento italiani fu il Matika, per averlo sentito dire da amici e congiunti delle vittime». Oh, bene: una testimonianza “per sentito dire”; di solito non è che la magistratura tenga molto conto di questo tipo di testimonianze, soprattutto in caso di reati tanto gravi come l’uccisione di 400 persone...

Poi troviamo anche Claudio Schwarzenberg «sindaco del libero comune di Fiume in esilio», legato oggi ad Alleanza Nazionale, il quale afferma che «Piskulic fu il responsabile dell’insanguinamento di Fiume nell’anno 1945». Prove? No, solo affermazioni, non suffragate da prove. Illazioni, si dovrebbero chiamare. E gli altri testimoni, i parenti degli infoibati? «Il Matika era il capo» testimonia Alice Stefani, «Quando dico che il Matika era il capo di tutta la zona intendo dire che era il capo in tutta l’Istria». La Stefani aveva sedici anni all'epoca dei fatti e sostiene «non è che “si dicesse” da parte della gente che lo fosse. Lui era il capo di tutta la zona». Così Rosina Nessi. «Tutti dicevano che il capo era Motika».

Le altre testimonianze non è che siano molto diverse. Praticamente Pititto sostiene che visto che tutti dicevano che Motiva era il capo allora il capo era Motika perche tutti dicevano che lo era. Perfetto. Il cerchio si chiude.

Però, al di là delle voci del villaggio, c’è invece un’altra testimonianza che ci pare inquietante, ovverossia il rapporto dalla DIGOS di Trieste datato 22 febbraio 1993 (cioè diversi anni prima che l’inchiesta approdasse a Roma): «È inconfutabile comunque che della repressione delle forze partigiane titine rimasero vittime anche cittadini italiani di ogni ceto sociale (operai, impiegati, possidenti, commercianti, militari, ecc.), il cui cotnvolgimento politico o di militanza con il passato regime appare per lo meno poco credibile. Le cronache dell’epoca parlano di eccidi di massa, di vittime seviziate o torturate, di donne violentate».

Ora, sarà forse retaggio della nostra formazione culturale marxista, però a noi sembra “poco credibile” non tanto che «possidenti, commercianti e militari» (tralasciando, se vogliamo, impiegati ed operai, per quanto, come abbiamo visto, anche tra questi ne abbiamo trovati molti ben più che coinvolti), siano stati coinvolti con il passato regime quanto che NON lo siano stati. Altrimenti, come i possidenti avrebbero potuto mantenere i loro possedimenti, i commercianti mantenere i loro esercizi, i militari rimanere nei ranghi del passato regime? E poi c’è quella frasetta finale che cita le “cronache dell'epoca”. Già, ma chi le scrisse, le cronache dell’epoca ? Non vennero forse fuori dalla propaganda congiunta servizi segreti nazisti e X Mas, come abbiamo spiegato precedentemente?

In ogni caso, queste sono, in sintesi, le “prove” su cui si basa la requisitoria di Pititto per chiedere l’arresto di Piskulic e Motika. Va precisato che (almeno fino al momento in cui scriviamo) il G.I.P. di Roma ha deciso solo in merito a questa richiesta di arresto, non ha ancora deciso in merito ai rinvii a giudizio richiesti da Pititto, mentre l’udienza è stata fissata, dopo l’ennesimo rinvio, a luglio 1997. È nostro parere che, al momento in cui il G.I.P. si troverà a decidere sui rinvii a giudizio richiesti da Pititto, non potrebbe rinviare nessuno a giudizio sulla base di “prove”, testimonianze ed indizi talmente inconsistenti. Se dovesse decidere diversamente, ci sembrerebbe molto grave.

Ma non è questo il problema reale della questione, come già abbiamo detto, qua non si tratta tanto di una inchiesta quanto di una campagna stampa. Abbiamo assistito per mesi ad uno strombazzamento sui “crimini dei titini”, sulla “ferocia slava”, sulla “barbarie slavocomunista”, sull’”efferatezza dei partigiani che non è stata certo inferiore a quella dei nazisti”; abbiamo visto che il magistrato romano ha accreditato come prove del «genocidio di migliaia di italiani infoibati solo perche italiani» i testi di Papo e di Pirina. Dopo tutta questa canea, se anche il G.I.P. decidesse di non rinviare a giudizio nessuno, pensate che il “Piccolo” e giornali par suo titolerebbero a tutta pagina “Sgonfiata l’inchiesta sulle foibe. Le prove erano falsi storici inconsistenti”? Ci piacerebbe, ma non ci crediamo.

Scriveva lo scrittore cattolico Robert Merle: «Calunniare, insudiciare, ammazzare, è la tecnica del fascismo». Il processo al quale abbiamo assistito è proprio questo. Si sono calunniati ed insudiciati i componenti delle forze partigiane: s’è ammazzata la verità storica. Non è un caso, a parer nostro, che di tanto in tanto vengano alla luce degli strani personaggi, piccoli editori di provincia che hanno però grossi legami con finanziatori e coperture politiche che cercano di dare loro una parvenza di democrazia mentre le cose che pubblicano sono beceri testi di revisionismo storico. Questa descrizione, che si adatta al pordenonese Marco Pirina, può adattarsi anche al veneto Giovanni Ventura, che negli anni Sessanta s’era dedicato a stampare opuscoli antiserniti e nostalgici del fascismo, spacciandosi però per editore di sinistra; ed aveva goduto persino di “affidavit eccellenti” come la testimonianza di Tina Anselmi che aveva dichiarato al questore di Padova che in fondo Ventura era un “bravo ragazzo” e non poteva essere coinvolto nella strategia della tensione e nelle bombe di piazza Fontana. Anche Pirina per un certo periodo di tempo s’era travestito da “democratico” militando nella Lega Nord, che ha tanti difetti ma s’è sempre dichiarata, almeno a parole, antifascista. Anche Pirina ha coperture “eccellenti”, come Sinagra che l’ha nominato suo “consulente storico”.

Ai tempi di Ventura c’era chi creava tensione per portare una certa destra, quella più retriva, al governo; e per riuscire a farla andare al potere era necessario creare le basi per un colpo di stato, perché con libere elezioni non sarebbe mai stato possibile. Oggi, che questa destra è a pochi passi dall'area di governo, un golpe non è più necessario, le bombe non sono più opportune: oggi si tratta di rifare la Costituzione e per questo è necessario riscrivere la storia, delegittimare la Resistenza, parificare i repubblichini ai partigiani, “pacificare”.

Abbiamo assistito difatti in questi ultimi mesi a continui interventi di riabilitazione e legittimazione del fascismo e dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana, visti come “bravi ragazzi” che comunque hanno combattuto per la Patria. In questo contesto ben si inserisce la propaganda che parla dei «crimini dei partigiani titini», «assassini di italiani solo perche italiani», e che parifica ai crimini (reali) commessi dai nazifascisti i mai provati crimini dei partigiani italiani e jugoslavi. Non è un caso che dopo l’arresto ed il processo ad Erich Priebke le destre italiane abbiano iniziato a pretendere anche arresti e processi contro i presunti “infoibatori”; questo rientra in quel disegno di revisionismo storico tendente, a riabilitare i “vecchi” fascisti e legittimare quelli “nuovi”, quelli che non hanno mai fatto ammenda del loro passato né intendono farla; quelli che non hanno mai condannato l’ideologia razzista, xenofoba, nazionalista, imperialista, corporativista del fascismo; quelli che però si trovano oggi ad un passo dall’area di potere e sono ben intenzionati ad entrarci, ad ogni costo.

In questi mesi si sta discutendo di riformare la Costituzione italiana. Se si lascia passare il discorso di “pacificazione”, di riabilitazione del fascismo, vecchio o nuovo che sia (ed in questo, purtroppo, vediamo che una parte della sinistra italiana, in nome di un malinteso senso di democrazia, sta favorendo i disegni delle destre), la Costituzione italiana verrà riscritta togliendo da essa ogni discriminante antifascista e questo aprirà la strada a nuovi regimi di destra, anche estrema, con i rischi che ben possiamo immaginare.



[1] Una di queste inchieste partì dalla denuncia presentata nel 1989 dall’avvocato Bogdan Berdon, nella quale si chiedevano, tra l’altro, il dissotterramento dei cadaveri dalle foibe di Monrupino e di Basovizza e l’esame dei testimoni indicati, cioè persone che avevano a più riprese pubblicamente sostenuto la presenza di innocenti nelle foibe. Dell’evoluzione di questa inchiesta nulla è dato a tutt’oggi sapere.

[2] Intervista pubblicata sul “Piccolo” di Trieste il 4.5.1994.

[3] Dalla requisitoria di Pititto con cui si chiede al G.I.P. di Roma l’arresto di Ivan Motika e Oskar Piskulic, indicati come mandanti e carnefici delle foibe (richiesta rigettata dal G.I.P. Angelo Macchia), pubblicata sul “Meridiano di Trieste Oggi” dd. 13.7.96.