Qualche problemino di libertà dei media
(Thomas Fazi / MCC, June 2025)
DOWNLOAD: https://brussels.mcc.hu/uploads/default/0001/01/10af81f9f28a04dbcb2e9fb98bf28a7c9f16a07a.pdf
di Thomas Fazi, 6 Giugno 2025
(Dr Norman Lewis / MCC, May 2025)
(Dr Norman Lewis / MCC, May 2024)
DOWNLOAD: https://www.voltairenet.org/IMG/pdf/controlling_the_narrative_-_the_eu_s_attack_on_online_speech.pdf
Se la UE finanzia i media per sostenere la sua propaganda
9 Giugno 2025
Articoli di Gianandrea Gaiani, Thomas Fazi e Francesco Borgonovo
Contrastare disinformazione e fake-news russe o cinesi ma incassare fondi della Ue per sostenere la narrazione propagandistica della Commissione Europea. Lo studio “Brussel’s media machine”, realizzato da Thomas Fazi per il Mathias Corvinus Collegium, istituzione educativa privata e centro studi indipendente ungherese, sull’utilizzo dei fondi europei per finanziare agenzie di stampa, giornali e media in tutte le nazioni europee. inclusa l’Italia. è al tempo stesso uno scoop e una notizia prevedibile.
E’ uno scoop perché scoperchia con dati e nomi precisi il vaso dei finanziamenti con cui Commissione Ue e Parlamento europei comprano la macchina del consenso tra i popoli europei. Complice forse anche la crisi economica che attanaglia tutto il mondo dei media, in caduta libera di credibilità presso i sempre meno numerosi lettori, spettatori e inserzionisti.
Lo studio di Fazi ci svela però anche informazioni prevedibili, almeno per tutti coloro che hanno notato come da tempo l’informazione mainstream sia “talmente mainstream” da arrivare ad utilizzare spesso su molte testate testi fotocopia o simili e titoli quasi uguali, come se pubblicassero tutti i medesimi master messages, note di linguaggio, comunicati, contenuti e veline.
Caratteristica già evidente durante l’emergenza Covid (quando molti governi stanziarono ingenti somme a favore dei media, in Italia almeno 100 milioni, per sostenere le campagne governative a favore di confinamento e vaccinazioni di massa) e poi successivamente con la guerra in Ucraina.
Lo studio di Fazi, rigoroso e puntuale (e di cui troverete molti dettagli negli articoli sottostanti e nel testo integrale del rapporto), documenta come almeno un miliardo di euro delle tasse dei cittadini europei sia stato investito in dieci anni per finanziare il sostegno dei media alle politiche della Commissione e ai suoi messaggi-chiave.
Del resto a proposito di mainstream a pagamento va ricordata la campagna di Donald Trump contro US Aid, agenzia federale per gli interventi umanitari trasformata nel salvadanaio delle operazioni informative (Info Ops) e operazioni psicologiche (Psy Ops) con cui Dipartimento di Stato e CIA finanziavano oltre 600 testate e molti singoli giornalisti.
La lista non è stata ancora resa nota ma da quanto trapelato vi sarebbero anche testate italiane e il 97 per cento dei media ucraini, da cui si abbevera da oltre tre anni la stampa occidentale e che fino a ieri erano finanziati dai soldi dei contribuenti americani.
Non a caso, oggi che Trump ha sospeso gli stanziamenti a tutte le testate, inclusa Radio Liberty/Radio Free Europe (storica emittente e poi anche sito internet di propaganda statunitense rivolta “oltre cortina”) l’Alto commissario per la politica estera europea Kaja Kallas ha annunciato il 20 maggio che subentreranno fondi europei di emergenza per 5,5 milioni di euro definiti “un finanziamento di emergenza a breve termine, pensato per la rete di sicurezza del giornalismo indipendente“.
Termine curioso quest’ultimo, per un media finanziato fino a ieri dal Congresso e da altri organismi statunitensi.
Ora pagherà il “Pantalone europeo” ma non c’è nulla di cui scandalizzarci, specie in un’Italia in cui da sempre gran parte dei media godono direttamente o indirettamente di finanziamenti pubblici che, specie in tempi di vacche magre per l’informazione come quelli in cui viviamo, fanno spesso la differenza tra continuare ad esistere o chiudere.
Governi e informazione, in Europa e in Occidente, soffrono del resto dello stesso problema: il tracollo della credibilità.
Un po’ di trasparenza sarebbe quindi molto utile alla sempre più debole tenuta dei valori democratici in Europa, messi a dura prova negli ultimi tempi dalle stesse élites autoreferenziali che pagano i media con i nostri soldi. Il rapporto di Fazi ci induce al sospetto circa tutto quello che ci viene propinato dai media.
La prossima volta che leggeremo che gli ucraini stanno vincendo la guerra, che i russi vanno al fronte in motorino o a dorso di mulo e combattono coi badili (a questo proposito imperdibile l‘articolo di Bernard Henry-Levy su La Stampa di oggi) oppure che il riarmo europeo sarà un toccasana per tutti, dovremmo forse chiederci se si tratta di un articolo o di uno spot promozionale?
Su questi temi vale la pena ricordare alcuni passaggi del discorso del vicepresidente statunitense JD Vance che tante polemiche ha suscitato all’ultima edizione della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco.
“La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno.
È la ritirata dell’Europa da alcuni dei suoi valori fondamentali, valori condivisi con gli Stati Uniti. Mi ha colpito il fatto che un ex commissario europeo sia andato in televisione di recente e sia sembrato felice del fatto che il Governo rumeno avesse appena annullato un’intera elezione. Ha avvertito che se le cose non vanno come previsto, la stessa cosa potrebbe accadere anche in Germania.
Ora, queste dichiarazioni sprezzanti sono scioccanti per le orecchie americane. Per anni ci è stato detto che tutto ciò che finanziamo e sosteniamo è in nome dei nostri valori democratici condivisi. Tutto, dalla nostra politica sull’Ucraina alla censura digitale, è pubblicizzato come una difesa della democrazia. Ma quando vediamo le corti europee annullare le elezioni e alti funzionari minacciare di annullarne altre, dovremmo chiederci se stiamo mantenendo uno standard adeguatamente elevato. E dico “noi stessi” perché fondamentalmente credo che siamo nella stessa squadra. Dobbiamo fare di più che parlare di valori democratici. Dobbiamo viverli.
Guardo a Bruxelles, dove i commissari dell’UE avvertono i cittadini che intendono chiudere i social media in periodi di disordini civili, nel momento in cui individuano ciò che hanno giudicato essere “contenuto d’odio”. O a questo stesso Paese (la Germania -NdR), dove la polizia ha effettuato incursioni contro cittadini sospettati di aver pubblicato commenti anti-femministi online, come parte di “Combattere la misoginia su Internet: una giornata di azione”.
Guardo alla Svezia, dove due settimane fa il Governo ha condannato un attivista cristiano per aver partecipato ai roghi del Corano che hanno portato all’omicidio del suo amico. E come ha osservato in modo agghiacciante il giudice nel suo caso, le leggi svedesi che presumibilmente proteggono la libertà di espressione non concedono, di fatto, un lasciapassare per fare o dire qualsiasi cosa senza rischiare di offendere il gruppo che sostiene tale convinzione.
Ora, siamo al punto, ovviamente, in cui la situazione è peggiorata così tanto che, questo dicembre, la Romania ha annullato direttamente i risultati di un’elezione presidenziale sulla base dei deboli sospetti di un’agenzia di intelligence e dell’enorme pressione dei suoi vicini continentali. Ora, a quanto ho capito, l’argomento era che la disinformazione russa aveva infettato le elezioni rumene.
Ma chiederei ai miei amici europei di avere un po’ di prospettiva. Puoi credere che sia sbagliato che la Russia acquisti pubblicità sui social media per influenzare le tue elezioni. Certamente lo pensiamo. Puoi condannarlo anche sulla scena mondiale. Ma se la tua democrazia può essere distrutta con poche centinaia di dollari di pubblicità digitale da un Paese straniero, allora non era molto forte per cominciare.
Contrariamente a quanto potresti sentire un paio di montagne più in là, a Davos, i cittadini di tutte le nostre nazioni non si considerano generalmente animali istruiti o ingranaggi intercambiabili di un’economia globale. E non sorprende che non vogliano essere ignorati inesorabilmente dai loro leader.
Ed è compito della democrazia giudicare queste grandi questioni alle urne. Credo che ignorare le persone, ignorare le loro preoccupazioni o, peggio ancora, chiudere i media, chiudere le elezioni o escludere le persone dal processo politico, non protegga nulla. In effetti, è il modo più sicuro per distruggere la democrazia.
E parlare ed esprimere opinioni non è un’interferenza elettorale, anche quando le persone esprimono opinioni al di fuori del proprio Paese, e anche quando queste persone sono molto influenti. E credetemi, lo dico con tutto l’umorismo: se la democrazia americana può sopravvivere a 10 anni di rimproveri di Greta Thunberg, voi potete sopravvivere a qualche mese di Elon Musk.
Ma ciò che la democrazia tedesca, ciò a cui nessuna democrazia, americana, tedesca o europea, sopravviverà, è dire a milioni di elettori che i loro pensieri e preoccupazioni, le loro aspirazioni, le loro richieste di sollievo non sono valide o non sono degne di essere prese in considerazione. La democrazia si basa sul sacro principio che la voce del popolo conta. Non c’è spazio per i firewall. O si sostiene il principio o non lo si fa. Gli europei, il popolo, hanno una voce. I leader europei hanno una scelta. E credo fermamente che non dobbiamo avere paura del futuro.
Puoi accettare ciò che ti dice la tua gente, anche quando è sorprendente, anche quando non sei d’accordo. E se lo fai, puoi affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione sostiene ognuno di voi. E questa, per me, è la grande magia della democrazia. Non è in questi edifici in pietra o in splendidi hotel. Non è nemmeno nelle grandi istituzioni che abbiamo costruito insieme come società condivisa. Credere nella democrazia significa capire che ognuno dei nostri cittadini ha saggezza e ha una voce.
E se ci rifiutiamo di ascoltare quella voce, anche le nostre battaglie più vincenti garantiranno molto poco. Come disse una volta Papa Giovanni Paolo II, a mio avviso uno dei più straordinari campioni della democrazia in questo o in qualsiasi altro continente: “Non abbiate paura”. Non dovremmo avere paura della nostra gente, anche quando esprime opinioni che non sono d’accordo con la sua leadership”.
Gianandrea Gaiani
Foto: Munchen Security Conference
A questo link l’intervista di Francesco Borgonovo a Thomas Fazi a Tivù Verità.
Qui sotto riportiamo l’articolo di Thomas Fazi tradotto e ripreso dal web-magazine Krisis dal titolo “Come Bruxelles finanzia e orienta l’informazione europea” (articolo originale del 2 giugno in lingua inglese su www.thomasfazi.com)
Thomas Fazi ha analizzato il complesso sistema di sovvenzioni con cui le istituzioni europee sostengono agenzie di stampa, emittenti pubbliche e progetti giornalistici in tutta Europa. In un rapporto realizzato per MCC Brussels, un think tank ungherese, il saggista italo-inglese solleva interrogativi sulla trasparenza dei meccanismi di finanziamento, sulla neutralità degli obiettivi dichiarati e sul ruolo dell’Unione europea nel definire quella che viene considerata informazione «affidabile». Fazi ricostruisce l’impatto di questa rete di finanziamenti sull’ecosistema mediatico europeo e sulla capacità dei media di svolgere il loro ruolo di contropotere democratico.
In un nuovo rapporto esclusivo per MCC Brussels – «La macchina mediatica di Bruxelles: il finanziamento Ue ai media e la formazione del discorso pubblico» – rivelo l’esistenza di un vasto sistema, finora scarsamente esaminato, attraverso il quale l’Unione Europea eroga ogni anno quasi 80 milioni di euro a progetti mediatici in tutta Europa e oltre.
Nel rapporto sostengo che questo ingente finanziamento, spesso presentato come sostegno alla libertà dei media, serva in realtà frequentemente a promuovere narrazioni esplicitamente filo-europee e a marginalizzare le voci critiche, sollevando serie preoccupazioni sull’indipendenza editoriale e sull’integrità democratica.
Il documento sostiene che il potere economico dell’Ue crea una «relazione semi-strutturale» con i principali organi di informazione, in particolare emittenti pubbliche e agenzie di stampa, offuscando i confini tra giornalismo indipendente e comunicazione istituzionale – e compromettendo seriamente la capacità dei media di esercitare un controllo sul potere.
Risultati chiave ed esempi
Finanziamenti massicci e poco trasparenti: la Commissione europea e il Parlamento europeo distribuiscono congiuntamente quasi 80 milioni di euro l’anno a progetti mediatici. Si tratta di una stima prudente: il totale dell’ultimo decennio supera probabilmente il miliardo di euro. Questa cifra non include i finanziamenti indiretti – ad esempio, contratti pubblicitari o di comunicazione affidati ad agenzie di marketing che poi ridistribuiscono i fondi ai principali media.
Promozione di narrazioni filo-Ue: i programmi di finanziamento vengono spesso presentati con parole d’ordine come «lotta alla disinformazione» o «sostegno a una programmazione basata sui fatti», ma il rapporto fornisce prove che tali iniziative perseguono obiettivi strategici volti a influenzare il dibattito pubblico e promuovere l’agenda dell’Ue.
Molti progetti, ad esempio, promuovono esplicitamente narrazioni filo-europee, tra cui la «promozione dell’integrazione europea», la «demistificazione dell’Ue» e la «lotta ai movimenti estremisti ed euroscettici». Su temi geopoliticamente sensibili – in particolare il conflitto Russia-Ucraina – questi progetti incentivano finanziariamente i media ad allinearsi alle posizioni ufficiali Ue-Nato, restringendo ulteriormente lo spazio per il giornalismo indipendente.
Campagne di propaganda occulta: il programma Information Measures for the EU Cohesion Policy (Imreg) ha canalizzato circa 40 milioni di euro dal 2017 verso media e agenzie di stampa per produrre contenuti che evidenzino i «benefici» delle politiche Ue. Il rapporto evidenzia casi in cui tali finanziamenti non vengono dichiarati in modo trasparente, equivalendo di fatto a «marketing occulto» o «propaganda nascosta». Altri progetti mirano esplicitamente ad «aumentare la consapevolezza dei benefici» o a «contribuire a una migliore comprensione», rafforzando il «senso di appartenenza all’Ue» nei cittadini. Questi eufemismi celano, in sostanza, un tentativo calato dall’alto di costruire un demos europeo – una coscienza politica unitaria che, nelle attuali condizioni politiche e culturali, resta più un’aspirazione ideologica che una realtà democratica.
Le agenzie di stampa come custodi della narrazione: l’Ue stringe partnership strategiche con importanti agenzie di stampa come Ansa (Italia), Efe (Spagna) e Lusa (Portogallo) attraverso programmi come Imreg, assicurando che la comunicazione filo-Ue si diffonda capillarmente attraverso centinaia di testate che dipendono dai contenuti delle agenzie. Il progetto European Newsroom, finanziato dall’Ue con 1,7 milioni di euro e che riunisce 24 agenzie a Bruxelles, rappresenta di fatto un tentativo di standardizzare e allineare la narrazione sulle questioni europee.
Fact-checking e controllo del discorso: iniziative come l’European Digital Media Observatory (Edmo), finanziata con almeno 27 milioni di euro, coinvolgono agenzie e media in reti volte a «combattere la disinformazione». Il rapporto avverte che quando gli stessi soggetti che beneficiano dei fondi promozionali partecipano anche alla definizione della disinformazione, si corre il rischio che ciò diventi uno strumento per delimitare il discorso accettabile e bollare il dissenso come fake news.
Giornalismo investigativo rivolto all’esterno, mai all’interno: il rapporto analizza progetti di giornalismo investigativo finanziati dall’Ue, rilevando una tendenza a concentrarsi su Paesi extra-Ue come Russia o Kazakistan, con scarsa attenzione alle dinamiche interne dell’Unione, nonostante i numerosi scandali documentati.
La propaganda del Parlamento europeo: il Parlamento europeo, attraverso la Direzione generale della comunicazione, ha destinato quasi 30 milioni di euro dal 2020 a campagne mediatiche, compresi contenuti esplicitamente auto-promozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare l’efficacia nel raggiungere il pubblico target con messaggi relativi al lavoro del Parlamento europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento europeo». Questo dovrebbe essere interpretato come un tentativo di costruire legittimità democratica in assenza di un sostegno organico.
Conclusione
Le evidenze indicano che l’Ue investe sistematicamente per plasmare un ambiente mediatico «amico», volto a rafforzare la propria legittimità e i propri obiettivi politici, più che a sostenere una stampa libera. Il rapporto invoca una riflessione pubblica urgente e chiede che i legami istituzionali tra potere politico e giornalismo vengano scrutinati – e, infine, interrotti.
Qui sotto riportiamo l’articolo di Francesco Borgonovo pubblicato da La Verità il 5 giugno 2025 dal titolo “L’Ue foraggia giornali e TV perché incensino l’Europa”.
Non c’è dubbio che gran parte della stampa italiana, soprattutto quella di tendenza progressista e affine al pensiero prevalente, sia sinceramente europeista. Tuttavia qualche dubbio sulla buona fede dei media che quotidianamente celebrano le bellezze dell’Unione sorge quando si sfoglia il rapporto “Brussels’s media machine: EU media funding and the shaping of public discourse” (La macchina mediatica di Bruxelles) firmato da Thomas Fazi, ricercatore indipendente e saggista, e pubblicato dal Mathias Corvinus Collegium.
Leggendo la ricerca si apprende ad esempio che “la Commissione Europea e il Parlamento Europeo erogano collettivamente quasi 80 milioni di euro all’anno a progetti media. Questa è considerata una stima prudente, con un totale nell’ultimo decennio che probabilmente supera il miliardo di euro. Questa cifra non include i finanziamenti indiretti come i contratti pubblicitari, come i 132,82 milioni di euro assegnati ad Havas Media Group in vista delle elezioni del 2024”.
A partire dal 2017, la sola Commissione ha erogato circa 40 milioni di euro a organi di informazione (in particolare emittenti pubbliche), agenzie di stampa e agenzie di comunicazione in tutta Europa allo scopo di produrre “migliaia di articoli, servizi radiofonici e trasmissioni televisive volti a <sensibilizzare i cittadini sui benefici della politica di coesione” e a “promuovere e favorire una migliore comprensione del ruolo della politica di coesione nel sostenere tutte le regioni dell’UE”. L’UE ha speso in media tra 100.000 e 300.000 euro per ciascun progetto”.
Che cosa avvenga è piuttosto chiaro: dalle istituzioni europei arrivano fondi piuttosto ingenti che vanno a beneficio dei media che accettano di diffondere la narrazione europeista. Giornali e radio che, nei fatti, si prestano a una operazione propagandistica con il chiaro scopo di pubblicizzare non una organizzazione neutra, ma un governo europeo con obiettivi precisi.
Parliamo, per inciso, delle stesse istituzioni che una settimana sì e l’altra pure si sdegnano per le condizioni della libertà di stampa in questa o quella nazione, e nel mentre pagano giornalisti per portare avanti il loro punto di vista. Il bello è che, con la scusa di combattere le bufale altrui, la UE spinge le bufale sue.
“I programmi di finanziamento sono spesso inquadrati utilizzando parole d’ordine come “combattere la disinformazione” o “promuovere l’integrazione europea””, si legge nel testo di Fazio, “ma il rapporto dimostra che hanno chiari obiettivi strategici per plasmare il dibattito pubblico e promuovere l’agenda dell’UE.
Dal 2017, il programma Misure di informazione per la politica di coesione dell’UE (IMREG) ha erogato circa 40 milioni di euro a organi di stampa e agenzie di stampa per produrre contenuti che evidenziassero i <benefici> della politica dell’UE. Il rapporto evidenzia esempi in cui questi finanziamenti non vengono chiaramente divulgati, il che si traduce di fatto in marketing occulto o propaganda occulta”.
Il fatto è che non sempre gli articoli pubblicati grazie ai fondi europei vengono presentati come redazionali o pezzi pubblicitari: “Tra gli esempi si annoverano progetti con i quotidiani italiani Il Sole 24 Ore (290.000 euro assegnati, con articoli sull’impatto positivo dei fondi UE privi di una chiara informativa sul sito web) e La Repubblica (260.000 euro assegnati, con solo un piccolo logo UE sul banner del progetto)”.
È interessante notare che a beneficiare dei fondi non sono piccole realtà indipendenti che magari meriterebbero un sostegno pubblico utile a consolidarsi, a vantaggio del dibattito complesso. No, a incassare sono per lo più aziende di grosse dimensioni come Sole 24 Ore, Repubblica e soprattutto Ansa.
“L’Ansa è in assoluto quella che ha preso più soldi”, dice alla Verità Thomas Fazi. “Secondo i dati dell’Unione Europea l’Ansa negli ultimi 10 anni – la finestra di tempo che il sito del Financial Transparency System Ue ci permette di osservare – ha preso quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea, quindi non proprio bruscolini”.
Ovviamente l’Ansa è in ottima compagnia. L’Ue collabora con agenzie come EFE (Spagna) e Lusa (Portogallo), ed è piuttosto ovvio perché lo faccia: in questo modo i contenuti possono essere diffusi a pioggia su tutti gli altri media che si servono delle agenzie. “Il progetto European Newsroom, da 1,7 milioni di euro, che riunisce 24 agenzie di stampa a Bruxelles, è descritto come uno sforzo per standardizzare e allineare i messaggi sulle questioni europee”, si legge nel report.
Ovviamente non poteva mancare il finanziamento al presunto Fact checking: “Iniziative come l’Osservatorio europeo dei media digitali (EDMO), finanziato con almeno 27 milioni di euro, coinvolgono agenzie di stampa e media in reti per “combattere la disinformazione”.
Quando le entità coinvolte nei finanziamenti promozionali partecipano anche alla definizione della disinformazione, rischiano di diventare uno strumento per controllare i confini del discorso accettabile ed etichettare il dissenso come disinformazione”.
Controllare, indirizzare. Vale anche per il giornalismo investigativo. L’Ue finanzia inchieste riguardanti per lo più nazioni esterne alla comunità come la Russia, ma è decisamente più parca nel finanziare indagini che tocchino l’Europa.
A questo punto sorge una domanda: l’Ue premia pagando i media che si dimostrano più europeisti oppure sono i media a tifare Ue per prendere soldi? “Secondo me ci sono entrambe le cose”, ci dice Fazi. “È un sistema che si autoalimenta: è chiaro che i media che prendono i fondi europei tendenzialmente hanno già una posizione che è filo europeista.
Quindi ovviamente c’è una selezione a monte. Ma c’è anche un altro elemento da considerare: sapere che questi fondi ti potrebbero essere preclusi nel momento in cui tu prendessi delle posizioni critiche nei confronti dell’Unione Europea non fa che rafforzare il bias filo europeista dei giornali. È un cane che si morde la coda”.
Sborsa la Commissione, sborsa pure il Parlamento europeo. Quest’ultimo, “attraverso la Direzione generale della Comunicazione ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni”.
Tutte azioni apparentemente neutre, che dovrebbero andare a beneficio di una istituzione che ci vede tutti coinvolti. La realtà è che questi soldi servono a promuovere un progetto politico che prevede sempre maggiore integrazione europea e dunque sempre meno sovranità nazionale. Certo, i media citati non sopravvivono solo grazie alla UE, ci mancherebbe. Ma questi finanziamenti inquinano comunque la discussione pubblica. Ed è grottesco oltre che irritante ricordarsi che a influenzare surrettiziamente il dibattito sono gli stessi organismi che pretendono di dare a tutti lezioni di democrazia.
La machine médiatique de Bruxelles : Le financement des médias par l'UE et la formation du discours public
Un nouveau rapport met en lumière un vaste système, jusqu'ici peu scruté, par lequel l'Union européenne verse chaque année 80 millions d'euros à des projets médiatiques dans toute l'Europe et au-delà.
Thomas Fazi, 3 juin 2025,
https://www.thomasfazi.com/p/brusselss-media-machine-eu-mediaDans un nouveau rapport exclusif pour le MCC Brussels - Brussels's media machine : EU media funding and the shaping of public discourse - je révèle l'existence d'un vaste système, jusqu'ici peu étudié, par lequel l'Union européenne verse chaque année près de 80 millions d'euros à des projets médiatiques à travers l'Europe et au-delà.
J'y affirme que ce financement important, souvent présenté comme un soutien à la liberté des médias, sert en fait fréquemment à promouvoir des récits explicitement pro-UE et à marginaliser les voix critiques, ce qui soulève de sérieuses inquiétudes quant à l'indépendance éditoriale et à l'intégrité démocratique.
Le rapport affirme que l'influence financière de l'UE crée une « relation semi-structurelle » avec les principaux médias, en particulier les radiodiffuseurs publics et les agences de presse, brouillant les frontières entre le journalisme indépendant et la communication institutionnelle - et compromettant gravement la capacité des médias à demander des comptes au pouvoir.
Principales conclusions et exemples du rapport :
Un financement massif et peu contrôlé : la Commission européenne et le Parlement européen déboursent collectivement près de 80 millions d'euros par an pour des projets médiatiques. Il s'agit là d'une estimation prudente, le total de ces dix dernières années dépassant probablement le milliard d'euros. Ce chiffre ne tient pas compte des flux de financement indirects - par exemple, les contrats de publicité ou de communication attribués à des sociétés de marketing qui redistribuent ensuite les fonds aux principaux médias.
La promotion des narratifs pro-UE : les programmes de financement sont souvent décrits à l'aide d'expressions à la mode telles que « lutter contre la désinformation » ou « soutenir les programmes factuels », mais le rapport montre qu'ils ont des objectifs stratégiques clairs visant à façonner le débat public et à promouvoir l'agenda de l'UE. De nombreux projets, par exemple, promeuvent explicitement des narratifs pro-UE, notamment la « promotion de l'intégration européenne », la « démystification de l'UE » et la « lutte contre les mouvements nationaux extrémistes et eurosceptiques ». Sur des questions géopolitiques sensibles - notamment le conflit entre la Russie et l'Ukraine - ces projets favorisent un environnement dans lequel les médias sont financièrement incités à se faire l'écho des positions officielles de l'UE et de l'OTAN, ce qui réduit encore davantage l'espace pour un journalisme indépendant.
Des campagnes de propagande secrètes : le programme Mesures d'information pour la politique de cohésion de l'UE (IMREG) a acheminé environ 40 millions d'euros depuis 2017 aux médias et aux agences de presse pour produire du contenu mettant en évidence les « avantages » de la politique de l'UE. Le rapport met en évidence des exemples où ce financement n'est pas clairement divulgué, ce qui équivaut en fait à du « marketing discret » ou à de la « propagande secrète ». D'autres projets visent explicitement à « sensibiliser aux avantages » ou à « contribuer à une meilleure compréhension » et à renforcer le « sentiment d'appartenance à l'UE » des citoyens. Ces euphémismes masquent ce qui est, en fait, une tentative descendante de fabriquer un demos européen - une conscience politique unifiée qui, dans les conditions politiques et culturelles actuelles, reste plus une aspiration idéologique qu'une réalité démocratique.
Des agences de presse en tant que gardiennes du narratif : l'UE s'associe stratégiquement à de grandes agences de presse comme ANSA (Italie), EFE (Espagne) et Lusa (Portugal) par le biais de programmes comme IMREG, garantissant que les messages pro-UE se répercutent sur des centaines de médias qui s'appuient sur le contenu de l'agence. Le projet « European Newsroom », financé par l'UE à hauteur de 1,7 million d'euros et réunissant 24 agences de presse à Bruxelles, s'apparente à un effort de normalisation et d'harmonisation des messages sur les questions européennes.
« Fact-checking » et contrôle du discours : des initiatives telles que l'Observatoire européen des médias numériques (EDMO), financé à hauteur d'au moins 27 millions d'euros, impliquent les agences de presse et les médias dans des réseaux visant à “lutter contre la désinformation”. Le rapport met en garde contre le fait que lorsque des entités impliquées dans le financement promotionnel participent également à la définition de la désinformation, celle-ci risque de devenir un outil permettant de contrôler les limites du discours acceptable et de qualifier la dissidence de désinformation.
Un journalisme d'investigation tourné vers l'extérieur, mais jamais vers l'intérieur : le rapport examine les projets de journalisme d'investigation financés par l'UE et constate que la majeure partie de l'attention se porte sur des pays non membres de l'UE, tels que la Russie ou le Kazakhstan, avec un maigre examen de l’UE elle-même, malgré les nombreux scandales documentés au sein de l'Union.
La propre propagande du Parlement européen : le Parlement européen, par l'intermédiaire de sa direction générale de la communication, a alloué près de 30 millions d'euros depuis 2020 aux médias pour des campagnes, y compris des contenus explicitement auto promotionnels avant les élections. L'objectif est d'« augmenter la portée vers des publics ciblés de manière plus efficace avec des messages liés au travail du Parlement européen », en ajoutant une « légitimité aux campagnes du PE ». Il faut y voir une tentative de fabriquer de la légitimité démocratique en raison d'un manque de soutien organique.
Le rapport conclut que l'UE investit systématiquement dans la création d'un environnement médiatique « amical » qui renforce sa légitimité et ses objectifs politiques, plutôt que de simplement soutenir une presse libre. Il appelle à une prise de conscience publique urgente et à un examen minutieux des liens institutionnels entre le pouvoir politique et le journalisme - et, en fin de compte, à leur rupture.
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=3NWXuKejG4A
10 Giugno 2025 – Giornalista Rai per 35 anni – silenziato per aver tentato di contestualizzare prima la guerra tra Russia e Ucraina e poi la strage in Medio-Oriente – Marc Innaro si concede in un’intervista su Byoblu in cui ricostruisce il graduale silenziamento a cui è stato sottoposto prima come inviato da Mosca e poi dal Cairo. Il 26 febbraio 2022, durante la trasmissione Tg2 Post, Innaro ha osato mostrare l’allargamento della Nato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, per contribuire a spiegare le cause che spingevano la Russia a intervenire militarmente in Ucraina. Ne è seguita un’interrogazione del gruppo del Pd in commissione di Vigilanza Rai, con l’accusa di aver “confuso i fatti con le opinioni”. Come da lui stesso raccontato, da quel momento gli è stato impedito di svolgere il suo lavoro di corrispondente dalla capitale russa. Stesso copione presentatosi più tardi: quando dal Cairo ha tentato di contestualizzare il conflitto israelo-palestinese, respingendo la narrazione secondo cui tutto sarebbe iniziato dal 7 ottobre. “Francamente ne ricavi l’impressione, che secondo me è più che un’impressione, che secondo me è una certezza, che ci sia una regia, e che quindi gli ordini di scuderia partano non dalle testate dei singoli paesi, ma che ci sia qualcosa di molto più alto”
Innaro definisce l’attuale stato dell’informazione come una vera e propria “catastrofe“, in particolare per quanto riguarda la copertura del conflitto russo-ucraino e della crisi a Gaza. La sua analisi si concentra sulla disparità di trattamento riservata a eventi e attori coinvolti, evidenziando come la selettività delle notizie possa alterare la percezione pubblica e ostacolare una comprensione profonda degli scenari geopolitici.
Questa intervista intervista rappresenta una risorsa preziosa per chiunque desideri sviluppare una comprensione più critica e sfaccettata del panorama informativo globale, stimolando la riflessione sui meccanismi che modellano la nostra percezione della realtà internazionale.
<https://www.marx21.it/multimedia/marc-innaro-i-doppi-standard-nellinformazione-globale/>
L’ex corrispondente da Mosca Marc Innaro: “Imbavagliato dalla Rai con il pretesto di Putin”
di Daniela Ranieri
Giornalista ora in pensione, racconta le possibilità negate: dal colloquio al ministro Lavrov al reportage dal Donbass alla posizione di Mosca
Marc Innaro è stato corrispondente per la Rai dalla Russia dal 1994 al 2000 e poi dal 2014 al 2022, oltre che da Gerusalemme e dal Cairo, dove si trova oggi. La motivazione ufficiale dell’interruzione della corrispondenza da Mosca da parte della Rai fu la legge approvata dalla Duma, il Parlamento russo, che prevedeva l’arresto per chi “intenzionalmente” pubblicava notizie ritenute false dal Cremlino. Innaro, che osò l’inosabile spiegando agli italiani anche il punto di vista russo, contestualizzando l’invasione russa dell’Ucraina dentro la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina (e Nato) degli ultimi 30 anni, è stato naturalmente marchiato come propagandista putiniano dai nostri occhiuti questurini Nato-atlantisti.
Innaro, nel 2022 la Rai ha voluto proteggerti dall’arresto da parte di Putin.
Questa è la versione ufficiale. Fin dall’inizio dissi che quella legge valeva per i giornalisti russi, non certo per gli occidentali, che in Russia vivono e lavorano con visto giornalistico e accredito ufficiale che può essere revocato in qualsiasi momento. Feci fare una ricerca da parte di uno studio legale, una società mista russo-italiana, che dimostrò in maniera inoppugnabile che non correvamo alcun rischio. Cadde nel vuoto. Dopo un mese l’Ambasciata d’Italia mi chiamò per chiedermi se rispondesse al vero quello che c’era scritto nello studio. Evidentemente la richiesta era venuta dalla Rai che, non fidandosi, chiese di informarsi. Fu riaperto l’ufficio di Mosca, dal quale io mi rifiutavo di andar via in quanto capo della sede da un punto di vista giornalistico, ma anche amministrativo.
Perché sei andato via dalla Russia, quindi?
Man mano che gli spazi di manovra si restringevano ho chiesto di essere trasferito, non volevo essere pagato per essere costretto a non far nulla, non dai russi, ma dagli italiani.
Casualmente, pochi giorni prima avevi spiegato una cartina durante il Tg2 Post che rappresentava l’allargamento della Nato a Est, quel che Papa Francesco chiamò “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia”.
Se io devo fare il corrispondente, devo quindi “corrispondere” il modo in cui la vedono e la vivono quelli del Paese in cui mi trovo. La versione di Mosca era che la causa scatenante di quello che stava accadendo era stato l’allargamento graduale e inesorabile della Nato. Mi sono trovato in diretta una cartina della Nato nel ’91 e nel 2022, che non avevamo preparato: colsi al balzo l’occasione e dissi ‘lo vedete da queste due cartine: ditemi voi chi si è allargato’. Era evidente la dissonanza rispetto al racconto mainstream che veniva fatto in quelle ore in Italia.
Cosa ha comportato questo per la tua professione?
Ebbi due volte la possibilità di intervistare il ministro degli Esteri russo Lavrov: tutte e due le volte mi fu negato. Ottenni dal ministero della Difesa russo la possibilità di andare nel Donbass occupato (o liberato, dipende dai punti di vista), con l’esercito russo, come giornalista embedded: mi fu risposto dall’allora Ad della Rai Carlo Fuortes che la Rai non manda giornalisti emdedded con una delle parti in conflitto. Poi altri colleghi Rai sono andati embedded in Ucraina; Stefania Battistini andò embedded per il Tg1 nella regione di Kursk, in territorio russo, durante il tentativo di sfondamento da parte ucraina.
Il Parlamento europeo ha votato una risoluzione in cui sostiene il piano ReArm Eu della Von der Leyen con la motivazione che la Russia costituisce “la più profonda minaccia militare” all’integrità territoriale della Ue “dalla fine della Guerra Fredda.” Ci sono evidenze che Putin voglia invadere i Paesi Ue-Nato?
Io mangio pane e Russia da quando avevo 18 anni. Non ho mai sentito parlare di carri armati russi che dovrebbero arrivare a Lisbona. La Russia è un Paese di 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari, e solo 145 milioni di abitanti. Come si può ragionevolmente pensare che un Paese che a stento riesce a gestire uno spazio gigantesco e risorse naturali enormi possa auspicare di occupare pezzi di un continente di 500 milioni di abitanti? La stessa cosa vale per l’Ucraina. Il problema è la neutralità dell’Ucraina e il suo non-ingresso nella Nato. Putin lo disse già nel 2007, alla Conferenza per la Sicurezza in Europa a Monaco.
L’Alta rappresentante per la Politica estera Ue Kaja Kallas ha esortato i Paesi Ue a boicottare la festa russa del 9 maggio, 80° anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica contro la Germania nazista. Da dove viene questa russofobia?
È una malattia che per alcuni viene da un passato doloroso, ma alimentarla non aiuta a risolvere la situazione. Come non ci sogneremmo di sovrapporre la Germania del Terzo Reich con la Germania della cancelliera Merkel, così è assurdo sovrapporre l’Unione Sovietica con la Russia di oggi. Quello era uno Stato con un’ideologia, un piano quinquennale; la Russia di oggi è un Paese iper-capitalista.
Il presidente Mattarella ha implicitamente paragonato la Russia di oggi alla Germania del Terzo Reich.
Mi sembra una lettura assolutamente fuorviante. L’Unione Sovietica ha pagato un prezzo altissimo, 26 milioni di vittime, nella lotta contro il nazismo. Le sorti della Seconda guerra mondiale si sono invertite grazie alla strenua resistenza a Stalingrado e a Leningrado e alla battaglia di Kursk, la più grande battaglia di carri armati della storia. Se non ci fosse stata l’Unione Sovietica, l’Europa occidentale non sarebbe stata liberata dagli anglo-americani.
Rutte, Segretario della Nato, ha detto che “è necessario prolungare la guerra” altrimenti in Europa si “dovrà imparare a parlare russo”. Come può finire la guerra?
Dopo il fallimento voluto degli incontri in Turchia mediati da Erdogan, i russi sono per l’80% con Putin. Sono disposti ad andare fino in fondo nella rivendicazione della neutralità dell’Ucraina e della difesa dei diritti delle minoranze russofone. Più andiamo avanti, più diventa difficile tornare indietro. I 7/8 dell’umanità si stanno riorganizzando e noi siamo sempre più marginali.
Che speranza ha l’Europa?
Avremmo dovuto includere la Russia, creando le premesse per una nuova architettura di sicurezza all’interno dell’Europa. Abbiamo molto più in comune con i russi che con molti altri Paesi.