La narrazione tossica su Srebrenica
(da Strategic Culture Foundation. Traduzione in italiano a cura di JTMV, revisione di AM)
La dimostrata indifferenza delle autorità morali dell'Occidente collettivo di fronte alla catastrofe umanitaria di Gaza smentisce il loro atteggiamento moralistico e ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere sulla sincerità della loro finta contrizione per Srebrenica.
Con nauseante regolarità, nel mese di luglio di ogni anno, questa finta contrizione si manifesta in occasione dell'anniversario dell'operazione militare serba condotta nel luglio del 1995 per eliminare un'enclave ostile protetta dalle Nazioni Unite nelle retrovie del territorio serbo. Nei tre anni precedenti, l'enclave armata di Srebrenica aveva infatti servito da base per le incursioni nei villaggi serbi circostanti, provocando distruzioni massicce e l'uccisione di circa 3.000 civili serbi. Per la maggior parte di quel periodo, la città bosniaca orientale di Srebrenica era sotto l'egida diretta delle Nazioni Unite, con un battaglione canadese e successivamente olandese di stanza in loco.
Tecnicamente, il compito di queste unità straniere era quello di supervisionare un accordo di cessate il fuoco e di smilitarizzazione concluso tra le parti locali nell'aprile del 1992. Il ruolo effettivo del contingente dell'ONU a Srebrenica, sostenuto da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, era quello di garantire che l'offensiva dell'esercito serbo-bosniaco venisse fermata in cambio di un cessate il fuoco illusorio. (Le macchinazioni, che premono per un "cessate il fuoco" in Ucraina quando la parte russa è in netto vantaggio, presentano un'analogia impressionante). In realtà, le forze di Sarajevo a Srebrenica non sono state né sciolte né l'enclave è stata smilitarizzata, come richiesto dall'accordo firmato. Al contrario, le forze dell'ONU hanno tollerato la presenza illegale nella città di una divisione completamente armata di forze fedeli alle autorità di Sarajevo, stimata in circa 6.000 combattenti. Senza essere ostacolate dal battaglione dell'ONU, queste truppe hanno condotto incursioni letali e distruttive fuori dall'enclave "smilitarizzata" contro gli insediamenti serbi circostanti fino al giugno 1995, uccidendo civili e bruciando i loro villaggi, e immobilizzando un numero considerevole di truppe dell'esercito serbo.
Quando, all'inizio di luglio 1995, il comando serbo decise che ne aveva abbastanza e lanciò un'operazione militare per neutralizzare la minaccia rappresentata dalle truppe nemiche armate a Srebrenica, la campagna si concluse in meno di una settimana. Le forze serbe entrarono in città, ma trovarono Srebrenica abbandonata sia dai soldati che vi erano stati dispiegati sia dagli abitanti.
Come divenne presto chiaro, i soldati e i civili maschi adulti fedeli a Sarajevo, stimati fino a 12.000, si erano radunati nel vicino villaggio di Šušnjari. Da lì, in formazione militare, intrapresero una fuga armata attraverso 60 km di territorio in mano serba. Il loro obiettivo era raggiungere Tuzla, la zona più vicina sotto il controllo delle loro forze. I civili, tra cui donne, bambini e anziani, ammontavano a 20.000, ed erano invece concentrati nella base del battaglione olandese nel villaggio di Potočari, sempre nell'enclave ma a diversi chilometri di distanza. L'incurante abbandono da parte degli uomini armati di Srebrenica dei loro familiari e concittadini più vulnerabili avrebbe dovuto essere il primo segnale d'allarme che qualcosa di grave era in atto.
E così è stato. La conquista serba di Srebrenica non sarebbe stata solo un'altra operazione militare nella guerra civile bosniaca. In breve tempo fu trasformata in un evento emblematico dalle sinistre connotazioni legate al genocidio. Come ha scritto il compianto professor Edward Herman: “Srebrenica è stato il più grande trionfo della propaganda alla fine del ventesimo secolo". Fin dall'inizio della guerra civile in Bosnia, dal 1992 al 1995, i media dominanti avevano stigmatizzato la parte serba come il cattivo indiscusso, suggerendo che i serbi erano percepiti come i principali avversari geopolitici dell'Occidente nella regione. Ben presto, però, è diventato evidente che le accuse inventate su ciò che sarebbe accaduto a Srebrenica avrebbero simbolicamente innalzato questa rappresentazione già molto negativa a un livello completamente nuovo.
Dopo la caduta di Srebrenica nelle mani delle forze serbe l'11 luglio 1995 e l'esecuzione di un certo numero di prigionieri catturati dai serbi, la parola d'ordine che ha caratterizzato i discorsi successivi su Srebrenica nei media e nei circoli politici occidentali è diventata "genocidio". Con una rapidità sorprendente, che fa pensare a una pianificazione e a una preparazione preventiva, è stato predisposto un resoconto che persiste in gran parte ancora oggi. In esso si afferma che, dopo l'ingresso a Srebrenica, le forze serbe avrebbero ucciso a sangue freddo "8.000 uomini e ragazzi" catturati, commettendo non solo un crimine di guerra o un'atrocità che ci si sarebbe potuti ragionevolmente aspettare in un conflitto civile, ma un oltraggio qualitativamente molto più grande: il "primo genocidio in Europa dopo la seconda guerra mondiale".
Per dare credibilità a questa accusa straordinariamente audace, con l'acquiescenza del Consiglio di Sicurezza dell'ONU dove negli anni Novanta le tre potenze occidentali regnavano sovrane, e in barba alla Carta delle Nazioni Unite, che non prevede un organo giurisdizionale di questo tipo, è stato creato un Tribunale speciale con il compito di conferire un'efficacia giuridica definitiva alle accuse di Srebrenica e di ricomporre la storia locale in modo che la commissione del "genocidio" scaturisse naturalmente dal "contesto fattuale" che il Tribunale aveva il compito di stabilire.
Così è nato il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia (TPI) all'Aia. Si trattava di un tribunale illegale, istituito non per risolvere i fatti, ma per imprimere un timbro a conclusioni politiche già prestabilite.
La presunta matrice fattuale di Srebrenica è stata prima elaborata dai media occidentali e dalle dichiarazioni di personalità politiche di alto livello, per poi ricevere un imprimatur pseudo-giudiziario con il copia e incolla delle sentenze del Tribunale.
Nonostante il Tribunale dell'Aia fosse un'operazione completamente controllata, nel corso del procedimento sono emerse prove incompatibili con l'orientamento principale delle sentenze già programmate. I risultati delle esumazioni, condotte dagli esperti forensi della Procura dell'ICTY, hanno delineato un quadro completamente diverso rispetto alla versione ufficiale dei fatti.
L'esumazione di resti umani, effettuata sotto la supervisione del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia, ha registrato un totale di 3.568 "casi" e ha rivelato quanto segue:
- solo 442 corpi esumati hanno potuto essere classificati come indiscutibili vittime di esecuzioni, in quanto presentavano bende o legature;
- 627 corpi recavano ferite da schegge o altri frammenti metallici, il che fa pensare a una morte in combattimento piuttosto che a un'esecuzione;
- 505 corpi presentavano ferite da proiettile, il che potrebbe indicare una morte per esecuzione, ma anche una morte in battaglia;
- per 411 corpi non è stato possibile determinare la causa della loro morte;
- 583 casi presentavano solo parti di cadaveri e gli esperti forensi del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia hanno concluso che la causa della morte non poteva essere determinata nel 92,4% di questi casi.
Infine, per fare una stima il più possibile accurata del numero di corpi effettivi tra i 3.568 “casi”, gli analisti forensi hanno utilizzato un metodo che prevede la corrispondenza tra le ossa della coscia destra e sinistra (femori). Il risultato è stato un totale di 1.919 femori destri e 1.923 femori sinistri, il che significa che il numero totale di corpi la cui morte potrebbe essere stata causata non solo da un'esecuzione, ma anche da una serie di altre cause, è inferiore a 2.000, non avvicinandosi neanche lontanamente alle 8.000 vittime di esecuzioni sostenute dalla narrazione ufficiale di Srebrenica.
Ad un esame più attento, anche delle stesse prove del Tribunale, il bilancio delle vittime di Srebrenica per entrambe le parti etniche in guerra in Bosnia è all'incirca equivalente e in nessuno dei due casi rientra nella definizione di crimine della Convenzione sul Genocidio.
Lo storico israeliano dell'Olocausto e direttore del Centro Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff, ha sottolineato questo aspetto, affermando che "non tutti i crimini di guerra sono... un caso di genocidio e Srebrenica è un esempio classico, poiché le forze serbo-bosniache hanno risparmiato tutte le donne e i bambini. Se i serbi di Bosnia avessero voluto commettere un genocidio, avrebbero ucciso tutti i musulmani bosniaci riuniti a Srebrenica".
Facendo eco alle parole di Noam Chomsky ("Se Srebrenica è stato un genocidio allora dobbiamo inventarci un'altra parola per descrivere cosa è accaduto ad Auschwitz"), Zuroff ha sostenuto che etichettare erroneamente "Srebrenica come un caso di genocidio indebolirà ulteriormente ed eroderà il significato di un termine che continua a rappresentare un importante monito per l'umanità sui pericoli delle guerre e dei conflitti".
Di conseguenza, Zuroff rifiuta l'applicazione del termine "genocidio" a casi che non soddisfano i criteri della definizione originale di tale crimine. "Quello che è successo negli ultimi decenni", ha scritto sul Jerusalem Post, "è che le accuse di genocidio sono emerse come uno strumento politico da usare contro i nemici per ottenere guadagni geografici e/o finanziari, rivendicando territori perduti e/o risarcimenti per i danni subiti".
Zuroff ha ragione, almeno per quanto riguarda Srebrenica, dove il concetto di genocidio, deliberatamente distorto, è stato utilizzato come strumento politico per eccellenza.
Se si limita la discussione alle conseguenze tossiche dell'errata designazione di Srebrenica come genocidio all'ambito della politica estera, è sufficiente sottolineare che l'attuazione della famigerata dottrina della "Responsabilità di proteggere" (R2P) non ha fatto nulla per migliorare la condizione umana. Questo progetto criminale è stato razionalizzato dal duplice ritornello "mai più Srebrenica", lanciato da intellettuali pagliacci del calibro di Bernard-Henri Lévy (al minuto 4:54 del video). I suoi risultati pratici, tuttavia, sono stati a dir poco disastrosi. Sotto una facciata moralistica, la dottrina predatoria e lo slogan pomposo di Lévy hanno ispirato spietati interventi militari occidentali che hanno causato la distruzione di Paesi indipendenti e l'uccisione di milioni di loro abitanti innocenti. In tutti i casi in cui la R2P è stata invocata in riferimento a Srebrenica, il vero motivo dell'intervento non è mai stato l'alleviamento di una crisi umanitaria, ma il rovesciamento di un governo che aveva insistito troppo sul suo diritto alla sovranità. Il secondo motivo era altrettanto nefasto: occupare un Paese per privarlo delle sue risorse naturali.
La distruzione e la morte in regioni lontane dalla Bosnia. e non collegate ad essa, sono state l'amara eredità di Srebrenica.
=== ORIGINAL TEXT:
Srebrenica and its toxic legacy
By Stephen Karganovic
(source: Strategic Culture Foundation)
The demonstrable indifference of the collective West’s moral authorities to the humanitarian catastrophe in Gaza gives the lie to their moralistic posturing and tells us all that we need to know about the sincerity of their simulated concern over Srebrenica.
With nauseating regularity, in July of every year, that feigned concern manifests itself on the anniversary of the Serbian military operation conducted in July 1995 to eliminate a UN protected hostile enclave deep in the rear of Serbian territory. Over the preceding three years the armed enclave of Srebrenica served as the staging ground for raids on surrounding Serb villages which resulted in massive destruction and the killing of about 3,000 Serb civilians. For most of that time, the east Bosnian town of Srebrenica was under the direct auspices of the United Nations, with initially a Canadian and then a Dutch battalion stationed there.
Technically, the task of those foreign units was to oversee a cease-fire and demilitarisation agreement that had been concluded between the local parties in April 1992. The actual role of the UN contingent in Srebrenica, backed by a Security Council Resolution, was to make sure that the successful offensive of the Bosnian Serb army would be stopped in its tracks in return for an illusory cease fire. (Machinations pressuring for a “cease fire” in Ukraine when the Russian side has the clear advantage present a striking analogy.) In fact, Sarajevo forces in Srebrenica were neither disbanded nor was the enclave demilitarised, as the signed agreement required. Instead, UN forces turned a blind eye to the illegal presence in the town of a fully armed division of forces loyal to the Sarajevo authorities, estimated to number about 6,000 fighters. Unimpeded by the UN battalion, up until June 1995 those troops were conducting lethal and destructive forays out of the “demilitarised” enclave against surrounding Serbian settlements, killing civilians and burning their villages, whilst tying down a considerable number of Serbian army troops.
When in early July of 1995 the Serbian command decided that it had had enough and launched a military operation to neutralise the threat posed by armed enemy troops in Srebrenica, the campaign was over in less than a week. Serbian forces entered the town, but they found Srebrenica empty of both the soldiers who had been deployed there and the civilian inhabitants.
As it soon became clear, the soldiers and male adult civilians loyal to Sarajevo, estimated at up to 12,000, had assembled at the nearby village of Šušnjari. From there in full military formation they undertook an armed breakout across 60 km of Serbian held territory. Their objective was to reach Tuzla, the nearest area controlled by their forces. The civilians, consisting of women, children, and the elderly, numbering up to 20,000, were concentrated at the Dutch battalion base in the village of Potočari, also in the enclave but several miles away. The callous abandonment by the armed men of Srebrenica of their vulnerable relatives and fellow-citizens should have been the first warning sign that something very foul was afoot.
And indeed, it was. The Serb takeover of Srebrenica was not destined to be just another military operation in the Bosnian civil war. Before long, it was transformed into an emblematic event with the sinister connotations of genocide. The late Professor Edward Herman put it best when he wrote that Srebrenica was “the greatest triumph of propaganda at the close of the twentieth century.” From the beginning of the civil war in Bosnia, which lasted from 1992 to 1995, the dominant narrative spinners stigmatised the Serb side as the undisputed villain, suggesting that the Serbs were perceived as the collective West’s principal geopolitical adversaries in the region. It soon became evident that fabricated allegations of what supposedly had happened in Srebrenica would symbolically raise that already pejorative portrayal to an entirely new level.
After the fall of Srebrenica to Serbian forces on 11 July 1995 and the execution of a certain number of prisoners that the Serbs had captured, the watchword that marked subsequent discourse about Srebrenica in Western media and political circles became “genocide.” With amazing swiftness which suggests prior planning and preparation an account – which largely persists to the present day – was cobbled together. It alleged that in the aftermath of entering Srebrenica Serbian forces murdered in cold blood “8,000 men and boys” that they had captured, committing not merely a war crime or an atrocity expected to occur in most civil conflicts but a qualitatively far greater outrage: the “first genocide in Europe after the Second World War”.
In order to lend credibility to this extraordinarily bold charge, with the acquiescence of the UN Security Council, where in the 1990s the three Western powers reigned supreme, and in disregard of the UN Charter which makes no provision for such a court, a special Tribunal was created to put a seal of legal finality to Srebrenica allegations and to recompose local history so that commission of “genocide” would flow naturally from the “factual context” the Tribunal was tasked to establish.
That is how the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) at the Hague came into being. It was an illegal court set up not to sort out the facts but to rubber stamp preordained political conclusions dictated to it.
The alleged factual matrix of Srebrenica was elaborated first by collective West media outlets and in the statements of high-ranking political figures, only subsequently to be given a pseudo-judicial imprimatur by being copy/pasted into the Tribunal’s judgments.
Notwithstanding that the Hague Tribunal was a fully controlled operation, in the course of its proceedings evidence slipped through the cracks that was incompatible with the main thrust of its pre-programmed judgments. The results of exhumations, conducted by ICTY Prosecution forensic experts, of mass graves associated with execution victims projected a picture completely at variance with the official account.
The exhumation of human remains – performed under the supervision of the ICTY – recorded a total of 3,568 “cases” and it tells the following story:
- Only 442 exhumed bodies could be classified as indisputable execution victims, as they had either blindfolds or ligatures;
- 627 bodies had shrapnel or other metal fragment injuries, which points to death in combat rather than execution;
- 505 bodies had bullet injuries, which may indicate death by execution, but also death in battle;
- Cause of death could not be determined for 411 bodies;
- 583 of the "cases" presented only body fragments, and ICTY forensic experts concluded that cause of death could not be determined for 92.4% of them.
Finally, in order to make the most accurate possible estimate of the number of actual bodies among the 3,568 "cases", forensic analysts used a method by which left and right thigh bones (femurs) were matched. That gave a total of 1,919 right femurs and 1,923 left femurs, which means that the total number of bodies whose death may have resulted not only from execution but also from a variety of other causes was under 2,000, not coming even close to the 8,000 execution victims claimed by the official Srebrenica narrative.
On closer examination even of the Tribunal’s own evidence the Srebrenica death toll for both ethnic warring parties in Bosnia is roughly equivalent and in neither case does it fit the Genocide Convention’s definition of the crime.
Israeli Holocaust historian and director of the Simon Wiesenthal Centre, Efraim Zuroff, has pointed that out, asserting that “not every war crime is … a case of genocide, and Srebrenica is a classic example, since all the women and children were spared by the Bosnian Serb forces. If the Bosnian Serbs were intent on committing genocide, they would have murdered all the Bosnian Muslims gathered in Srebrenica.”
Echoing the words of Noam Chomsky (“If Srebrenica was genocide we must invent another word to describe what happened in Auschwitz”) Zuroff argued that mislabelling “Srebrenica as a case of genocide will further weaken and erode the significance of a term which still continues to serve as an important warning to humanity about the dangers of wars and conflicts.”
Accordingly, Zuroff rejects the application of the term “genocide” in instances which do not fulfil the criteria of the original definition of that crime. “What has happened in the past few decades,” he wrote in the Jerusalem Post, is that accusations of genocide have emerged as a political tool to be used against enemies to attain geographic and/or financial gains by claiming lost territory and/or reparations for damages incurred.”
Zuroff is spot on, at least as far as Srebrenica is concerned, where a deliberately distorted concept of genocide has been weaponised as a political tool par excellence.
Confining the discussion of the toxic consequences of misdesignating Srebrenica as genocide to the foreign policy domain, it suffices to point out that implementation of the infamous doctrine of the “Responsibility to Protect,” or R2P, has done nothing to improve the human condition. That criminal project was rationalised directly by the duplicitous refrain “never again Srebrenica,” launched by intellectual clowns of the ilk of Bernard-Henri Lévy (at 04.54 minutes into the video). Its practical results, however, have been nothing less than disastrous. Under a moralistic façade, the predatory doctrine and Levy’s pompous slogan have inspired ruthless Western military interventions, causing the destruction of independent countries and the killing of millions of their innocent inhabitants. In every instance where R2P was invoked with reference to Srebrenica the real motive for intervention was never alleviation of a humanitarian crisis but overthrowing a government which had insisted too vocally on its right to sovereignty. The secondary motive was always as nefarious as the first: to occupy a country in order to strip it of its natural resources.
Destruction and death in regions far away from Bosnia and unrelated to it have been Srebrenica’s bitter legacy.
=== 2 ===
Apice di narrazione tossica per il trentennale
Il commento della redazione di JUGOINFO
Nel corso degli ultimi 30 anni abbiamo reso noti, sul tema "Srebrenica", centinaia di documenti che sono tutti reperibili passando dalle pagine
https://www.cnj.it/home/it/component/tags/tag/srebrenica.html
https://www.cnj.it/documentazione/srebrenica.htm
Non è giunto tuttavia inaspettato l'assalto propagandistico del trentennale. Per esso, da un lato sono state bellamente ignorate tutte le obiezioni, le contestualizzazioni e i richiami ai dati fattuali contenuti nei documenti di cui sopra. Dall'altro, si è usato "Srebrenica" come "caso topico" e "assodato" da portare a controprova della necessità di usare il termine "genocidio" con riferimento allo sterminio in atto ai danni della popolazione palestinese di Gaza: questo benché mettere in fila una menzogna e una verità non fa due verità, anzi rischia di inficiare complessivamente la logica del discorso.
L'articolo di Stefan Karganović che pubblichiamo qui sopra risponde a una chiara esigenza di sintesi. Negli anni sono state fatte diverse sintesi (si vedano ad es. il libro Il Dossier nascosto del "genocidio" di Srebrenica e varie altre monografie citate nelle pagine di cui sopra), ma sembra non bastare mai. Perché? Un motivo è sicuramente nel fatto che la costruzione della "narrativa tossica" su Srebrenica è stata costante e "incrementale", con l'aggiunta continua di nuove "bombe" mediatiche a richiedere precisazioni, contestualizzazioni, demistificazioni, decostruzioni.
Guardando ad esempio alla propaganda dei giorni scorsi, l'impressione è che l' "investimento" più attuale sia stato fatto con la "Commissione Internazionale per le persone scomparse" che a Tuzla è incaricata della identificazione tramite il DNA. In Italia tutti gli articoli e servizi usciti su questo tema si assomigliano essendo basati sulla stessa velina de L'Espresso. Però a ben vedere, sono almeno dieci anni che sui media di tutto l'Occidente intervistano sempre quella stessa Dragana Vučetić, la quale già 9 anni fa lamentava di numerosi resti ossei che non corrispondevano ad alcun DNA del loro database, di DNA non pervenuti, di ossa sparpagliate, e che ancora oggi mancherebbero un migliaio di identificazioni per raggiungere il "numero" (si faccia una ricerchina in internet per credere). Dopo tutti questi anni, uno straccio di onestà giornalistica avrebbe indotto almeno a menzionare il fatto che il lavoro della suddetta "Commissione" è contestato dalla Repubblica Serba di Bosnia per mancanza di trasparenza e risultati incongruenti – quelli spiegati da Karganović non solo qui sopra ma già nel precedente Rethinking Srebrenica.
Sicuramente anche "Rethinking Srebrenica" meriterebbe la traduzione in lingua italiana. Così come sarebbe anche tempo di tentare una analisi statistica dei "caduti" elencati a Potočari – resti effettivamente presenti e "dispersi", caduti per fatti e in luoghi diversi da "Srebrenica", "match" con le identificazioni della "Commissione", sesso, età, eventuale ruolo militare, eccetera – un po' come è stato fatto egregiamente con i nominativi degli "infoibati". Il problema di fondo, però, rimarrà immutato: non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. E di fronte al chiaro interesse strategico di delegittimare la statualità serba di Bosnia e la leadership, se non anche la statualità, dei serbi di Serbia, nemmeno una ritrovata onestà intellettuale di giornalisti e commentatori potrà bastare a ricondurre il tutto alle sue giuste dimensioni e a restituire un clima di comprensione tra gli jugoslavi della Bosnia-Erzegovina.
