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COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA - ONLUS
ITALIJANSKA KOORDINACIJA ZA JUGOSLAVIJU

 
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RASSEGNA STAMPA PARZIALE

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Sabato 24 Aprile 1999

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Unica via bombardare senza pietà
Thomas Friedman

IN America si dice che il cammello è un cavallo ideato da un comitato.
Non è bello, ma fa quel che deve fare, soprattutto nel deserto. Allo
stesso modo, la guerra aerea della Nato contro la Jugoslavia è come una
strategia militare ideata da un'alleanza di 19 membri. Non è bella, ma
la sua debolezza può diventare forza.
Bombardare i serbi da un'altezza di 15 mila piedi è l'unica strategia
militare che tutti i 19 membri della Nato, il Congresso Usa ed i russi
possono tollerare oggi in Jugoslavia. La guerra aerea ha molti ovvi
difetti, ma anche una grande forza: la Nato può continuarla per molto,
molto tempo. E' bene che i serbi lo ricordino.
E' vero che la Nato non libererà il Kosovo dal cielo, ma è ancora
possibile, così, raggiungere i nostri obiettivi, costringere cioè
Milosevic a permettere, tacitamente o per via negoziale, il ritorno
degli albanesi in Kosovo, protetti da una forza di pace internazionale
che mantenga la tregua tra albanesi e serbi, e l'instaurazione
dell'autonomia della provincia.
Ma se l'unica forza della Nato sta nel poter continuare a bombardare
indefinitamente, allora bisogna trarre da questa capacità ogni
possibile vantaggio. Ci vuole una vera guerra aerea. L'idea che a
Belgrado la gente ascolti concerti rock, o che vada in gita la domenica
mentre i loro compatrioti "ripuliscono" il Kosovo, è insultante.
Bisognerebbe eleggere ad obiettivo ogni centrale elettrica, ogni
acquedotto, ponte, strada o fabbrica in qualche modo legata al
conflitto.
Piaccia o no, siamo in guerra con la nazione serba (i serbi certo già
ne sono convinti), e la posta in gioco deve essere molto chiara: per
ogni settimana in più di devastazioni nel Kosovo, getteremo il vostro
Paese dieci anni indietro polverizzandovi. Volete il 1950? Possiamo
darvi il 1950. Volete il 1389? Possiamo fare anche questo. Se
riusciremo a metterla così, Milosevic vacillerà.
Ma questa strategia fermerà la barbarie in Kosovo? No. La guerra per
evitare che gli albanesi venissero gettati fuori dal Kosovo è stata
persa nella prima settimana, quando la Nato ha bombardato i serbi senza
avere un'adeguata potenza aerea né terrestre per impedirlo, e senza
capire la capacità o le intenzioni di Milosevic. E' stato un errore
strategico che i kosovari hanno pagato caro.
Il problema ora è come rovesciare il risultato, senza che gli Usa e la
Nato si impelaghino tanto nei Balcani da vedere indebolita la propria
capacità di operare in qualsiasi altro posto, e da mettere a rischio la
loro coesione come mai prima. L'unica via è una guerra aerea senza
pietà.
E le truppe di terra? La Nato dovrebbe continuare a pianificare un
intervento di terra, come britannici e francesi chiedono a gran voce,
sia perché ciò potrebbe influenzare Milosevic e farlo vacillare prima
piuttosto che dopo, sia per introdurre un po' di realismo nel dibattito
in proposito. L'opinione pubblica e il Congresso Usa devono capire cosa
comporta una guerra di terra. Invadere il Kosovo significa tenerlo.
Guerra di terra probabilmente significa arrivare fino a Belgrado, e
fare di Albania e Macedonia dei protettorati americani.
Attenti, perché questi sono Stati deboli, quasi tribali, che possono
disfarsi nelle nostre mani. L'Albania è un non-Stato, in cui secondo la
polizia più della metà delle automobili circolanti sono state rubate
altrove in Europa. E' un Paese in cui tutti hanno un'arma a casa e dove
appena due anni fa l'intero sistema bancario era basato sul gioco delle
tre carte. Recentemente il Wall street journal ha citato un disoccupato
di Tirana, secondo cui "sarebbe meglio se Milosevic bombardasse qui,
così potremmo andare tutti in Italia e in Germania come rifugiati".
Questo è uno dei motivi per cui dovremmo mantenere una strategia che,
per ora, mantenga i nostri obiettivi senza finire per occupare tutti i
Balcani. Perché nulla affosserebbe il sostegno pubblico
all'internazionalismo americano quanto l'occupare il nido di vespe più
vecchio della storia.
Date una possibilità alla guerra. Vediamo quanti mesi di bombardamenti
occorrono prima di optare per qualche settimana di invasione che, se
vinceremo ci porteranno ad occupare i Balcani per anni. Facciamo del
Kosovo il Vietnam di Milosevic, non il nostro.

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L'altra faccia di questa guerra
FUORI DAL CORO

Paolo Guzzanti

NON m'intendo di faccende militari, ma mi ha colpito l'analisi di un
esperto inglese alla Bbc: "Al momento dello scontro di terra non
potremo contare sugli italiani: non sono preparati, meglio lasciarli
perdere. L'idea è di far avere per loro, e solo per loro, uno speciale
mandato umanitario dall'Onu in modo che possano fare quel che già
fanno: la Croce Rossa in uniforme militare. Ma la guerra vera, quella
ce la dovremo fare da soli senza gli italiani". Parole non
gratificanti, ma realistiche. Mi è capitato poi di ascoltare alcuni
esperti italiani di pianificazione militare, che mi hanno detto: "Ha
un'idea del numero dei soldati e miliziani serbi impegnati
nell'espulsione di un milione di persone, villaggio per villaggio,
casolare per casolare, selezionando chi deve vivere e chi deve morire?
Almeno cinquantamila. Dietro i quali funziona una pianificazione
perfetta, meticolosa e di lungo termine perché anche un massacro ha
bisogno di trasporti, rifornimenti, nascondigli sotterranei con
carburante, munizioni e ricambi di uomini e mezzi. Una operazione del
genere richiede almeno quattro mesi di preparazione e se si tiene conto
del fatto che la pulizia etnica era già in corso da circa un anno, è
facile dedurre che la fase finale della liquidazione albanese nel
Kosovo era già in fase operativa da dicembre". Azzardiamo allora uno
scenario che contenga questi elementi, più quelli che ci sono già noti,
e partendo dal momento in cui, un anno fa, i satelliti mostrarono ciò
che Milosevic aveva deciso di fare a partire dall'autunno del 1998,
convincendo Nato e americani che la guerra è inevitabile e anzi
necessaria. Ed ecco che, 9 ottobre 1998, si produce in Italia una crisi
di governo a freddo che espelle Rifondazione comunista, porta alla
guida del governo l'ultimo segretario del Pci-Pds e prepara le
condizioni per spedire nell'entusiasimo generale (europeo, prima ancora
che italiano) Romano Prodi a Bruxelles. Il regista di questa operazione
politica è uno stratega di nome Cossiga che sostituisce i voti
dell'estrema sinistra con un pacchetto strappato alla destra. Risultato
pratico: l'Italia, indispensabile base di lancio dell'attacco, diventa
un'oasi al riparo da turbolenze capaci di compromettere le operazioni
militari. D'Alema sale a Palazzo Chigi, entra nella parte e alza la
bandiera di guerra: nessun nemico a sinistra, salvo un contenibile
mugugno, ma con la porta del dialogo sempre aperta.
Nel frattempo Cossiga porta a termine missioni nei Paesi Baschi o nella
tenda di Gheddafi, in perfetta autonomia, ma di cui puntualmente
riferisce al governo. Ogni possibile risorsa diversiva utile a
Milosevic nell'area occidentale è sedata. E Gheddafi come un agnellino
consegna alle corti internazionali i due libici accusati della strage
di Lockerbie. Il suo nome viene definitivamente cancellato dall'albo
dei cattivi e quando Milosevic gli invia una disperata richiesta di
aiuto, il colonnello si gira dall'altra parte. L'Italia si comporta
realmente come se avesse avuto la garanzia che non dovrà prestare altro
contributo che le sue piste di decollo. I suoi aerei fanno solo da
scorta. Le sue truppe ricevono crescenti compiti umanitari: piantano
tende, cuociono pane, preparano soccorsi. Il cliché è rispettato:
italiani, brava gente. Il quadro politico interno frattanto è
stabilizzato: dopo molti anni, una legislatura rischia di morire di
morte naturale mentre l'opposizione di sinistra gode di un margine di
manovra che le consente di ottenere tutti i distinguo che vuole in
materia di partecipazione militare italiana. Quella che nessun alleato
si aspetta. Dite se non calza a pennello.

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 10

Napolitano critica la Ue, Cofferati: tocca all' Onu

TENSIONE A SINISTRA "C' È SPAZIO PER LA PACE" CRESCE IL GRUPPO DEI 170
FIRMATARI CONTRO L' INTERVENTO DI TERRA IN KOSOVO. PER DILIBERTO E
MUSSI CI SONO SPIRAGLI I VERDI CHIEDONO DI ANDARE A VEDERE L' OFFERTA
DI MILOSEVIC
GUERRA NEI BALCANI

ROMA - Nel Transatlantico di Montecitorio, affollato nonostante il
venerdì per il voto di fiducia sulle quote latte, nei settori del
centrosinistra non si parla d' altro. Dopo i colloqui fra Milosevic e
Cernomyrdin, si intravvedono barlumi di tregua. "Se sarà confermata
questa disponibilità", commenta il ministro comunista della Giustizia,
Oliviero Diliberto, "si apre più di uno spiraglio sul quale lavorare
per ottenere immediatamente una tregua e poi la pace". Fabio Mussi è d'
accordo: "Forse si sta muovendo qualcosa che spero possa essere
raccolta, perfezionata e rilanciata dal vertice di Washington". Certo,
cossuttiani, Verdi e Prc hanno una gran voglia di accelerare: il
segnale che abbiamo tanto aspettato, eccolo qua. "Ora", scandisce Ramon
Mantovani, "ci sono tutte le condizioni per interrompere i
bombardamenti e avviare una nuova trattativa". "L' iniziativa della
Russia non va assolutamente lasciata cadere", gli fa eco Marco Rizzo. E
mentre il ministro verde Edo Ronchi torna a ripetere che in caso di
intervento di terra gli ambientalisti (che ieri hanno protestato anche
in aula, votando il decreto sulle quote latte innalzando palette con su
scritto "pace") aprirebbero una crisi di governo, Luigi Manconi non ha
dubbi: respingere l' offerta di Milosevic senza andare a vedere,
equivarrebbe a puntare dritti alla guerra totale. "Chiedo a D' Alema",
dice il portavoce dei Verdi, "di battersi con determinazione all'
interno dell' Alleanza perché non prevalga una posizione oltranzista".
Anche perché, aggiunge, non sono solo i Verdi a rivolgere questa
richiesta al premier, ma un gruppone di parlamentari trasversale al
centrosinistra che si va ingrossando di ora in ora. Ai 170 fra deputati
e senatori che l' altro giorno hanno sottoscritto un
documento-ultimatum contro l' intervento di terra nel Kosovo, ieri
hanno continuato ad aggiungersene altri: Mauro, Siniscalchi, De Simone,
Cesetti, Occhionero. Contro l' intervento militare in Jugoslavia fa
sentire la sua voce anche il responsabile organizzativo dei Ds, Franco
Passuello. "Non si poteva rimanere indifferenti dinanzi all' uso
barbarico della forza", spiega, intervistato da Aprile. "Ma l'
intervento, così com' è stato concretamente realizzato, rappresenta un
uso "grave" della forza. E chi ha a cuore la costruzione di atti che
costituiscano la pace, chiede subito di bloccare l' intervento dei
bombardieri, il dispiegarsi di una logica di guerra che non porterà a
nulla di positivo". Mentre Giorgio Napolitano punta il dito contro i
ritardi dell' Europa e della Nato, all' iniziativa di D' Alema, che ha
incoraggiato Kofi Annan a intraprendere una forte azione politica,
arriva il pieno appoggio di Sergio Cofferati. Il segretario generale
della Cgil mette però in guardia dai rischi di un intervento di terra,
"che radicalizzerebbe un conflitto destinato ad allargarsi".

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 1
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

ANNIVERSARIO CON I MISSILI

WASHINGTON FIGLIA di un magnifico passato ma insieme madre di un futuro
ancora informe, quella Nato che per mezzo secolo ha garantito anche la
libertà di odiarla e la prosperità dell' Europa occidentale, si scopre
aggrappata a un tiranno di provincia per dare un senso al proprio
presente. Unità, determinazione di vincere, rifiuto di ogni "manovra
diversiva" di Milosevic, devozione a ideali di moralità e di democrazia
e forse qualche segno di flessibilità sono gli impegni sottoscritti
ieri in quella che doveva essere la celebrazione dei cinquant' anni
della grande signora in blu nata proprio a Washington ed è diventata
invece un sobrio, triste consiglio di guerra. CONTINUEREMO a
bombardare", hanno detto i capi di governo stappando l' amaro champagne
serbo, dobbiamo "vincere" e spazzare via l' "ultimo tiranno" europeo
del XX secolo, dice Clinton ed è ovvio, banale dire che la Nato non
possa permettere a uno Slobodan Milosevic di fare quello che Stalin,
Kruscev, Breznev non riuscirono a fare: sconfiggerla politicamente. Ma
proprio qui, in questo assoluto imperativo di vittoria sta la tremenda
scommessa che queste 19 nazioni hanno fatto con sé stesse e con i loro
50 anni di storia: la chiave del futuro dell' Alleanza è nelle mani di
Milosevic. Il senso e l' importanza di questo summit, che la guerra
sulla ex Jugoslavia ha avuto almeno il merito di strappare alle
americanate hollywoodiane che incombevano su di esso, sono racchiusi in
questa trappola di ferro che la Nato ha costruito per sé stessa e dalla
quale adesso deve a ogni costo uscire, unita, vittoriosa e soprattutto
coerente con la moralità che predica. Non ci sono dubbi che la signora
della Guerra Fredda si sia trovata a questo appuntamento in una
posizione difficile. Nessuno aveva previsto che la guerra avrebbe
allungato la sua ombra sulle bandiere della celebrazione (ma quante
guerre sono cominciate con l' illusione e la promessa che sarebbero
state "brevi" ?). I registi del compleanno non avevano calcolato che
discorsini e marcette si sarebbero accavallate sugli schermi del mondo
con le rovine della centrale TV di Belgrado, nelle quali la brutale
eloquenza della guerra contraddice la retorica della pace. E meno di
tutti il regista della crisi, Bill Clinton, avrebbe mai immaginato di
scoprirsi, lui eletto presidente "americano per l' America", trascinato
come il fondatore della Nato, Harry Truman, su un fronte di guerra che
sta ben oltre gli oceani e ben oltre la sua esperienza e preparazione.
Poiché i meriti acquisiti in passato non sono mai garanzia di successi
futuri, non più di quanto festeggiare un cinquantesimo compleanno ci
garantisca altri 50 anni di vita, né gli Stati Uniti, né la Nato hanno
la certezza di "vincere" questa guerra. E il profumo del dubbio
aleggiava evidentissimo ieri, nella eccessiva e preoccupante insistenza
sull' unità di tutti, nella promessa di vincere a ogni costo, nella
scelta di non dibattere apertamente, e dunque di non decidere, la
questione cruciale del possibile attacco di terra per liberare il
Kosovo. Soprattutto si notava l' imbarazzo storico, quasi genetico, di
un' organizzazione che non è stata costruita per fare la guerra, ma per
evitarla. E che ha sempre definito le sue "vittorie" in termini di
guerre non combattute. La Nato non sa "fare la guerra" e lo si è visto
in questo mese di bombardamenti spesso molto maldestri. Sa impedirla.
In mezzo secolo di esistenza, l' Alleanza non aveva mai dovuto sparare
un colpo, né concepire altro che strategie di difesa e di contenimento.
Mentre le armate sovietiche o i loro ausiliari locali dovevano
periodicamente sparare su tedeschi orientali, polacchi, ungheresi,
cechi per mantenerli in riga, la Nato incassava i dividendi degli
inevitabili errori sovietici. L' immenso vantaggio strategico del gioco
in difesa, il chiarissimo ruolo di scudo (soltanto gli agit prop del
Cominform poterono sostenere che la Nato sognasse una nuova Operazione
Barbarossa) sono assenti nell' attacco alla Serbia. Errori gravissimi
di guerra psicologica come l' attacco a una stazione TV o azioni vuote
come il bombardamento della villa presidenziale deserta cadono
stridenti come unghiate sopra una lavagna, nelle ore in cui si dovrebbe
celebrare la compiuta "missione di pace". Per questo i 19 governi
riuniti qui in una Washington ridotta a campo fortificato, hanno
cominciato a ridefinire al ribasso ieri che cosa costituisca
"vittoria". Non vorremmo leggere troppo nei comunicati e nelle
dichiarazioni e vedere "spiragli" di luce dove è soltanto buio. Ma ci
sono sfumature, nei documenti di questo consiglio di guerra che fanno
pensare. Dicono che i bombardamenti potrebbero cessare quando
"cominciasse il ritiro serbo dal Kosovo", dunque non a ritiro avvenuto.
La forza di controllo potrebbe entrare per gradi e comunque sotto le
bandiere dell' Onu, non della Nato. Il ritorno dei profughi, unica
condizione sacra e non negoziabile, dovrebbe anch' esso soltanto
"cominciare" e il negoziato per la sistemazione futura del Kosovo deve
"riprendere", non concludersi. I piani per l' attacco a terra restano
allo studio, ma non hanno ancora ricevuto il via libera del consiglio
Nato dove Clinton è il più deciso a evitarlo, sapendo bene che
sarebbero soprattutto i suoi soldati a morire per Pristina. Forse
leggiamo troppo, in queste sfumature. Forse non è vero che Milosevic
cominci a dare segni di cedimento, come i russi credevano di avere
capito, ingannando anche Cernomyrdin. Ma il fatto che Clinton abbia
evitato ieri di costruire un' altra scatola di ferro dentro la quale
chiudere la Nato - l' attacco terrestre - è un segno che lui e i
diciotto alleati degli Stati Uniti sanno che la "vittoria" può essere
definita in mille modi anche senza aspettare la capitolazione del
nemico. E la magnifica signora della Guerra Fredda che ha protetto la
nostra libera esistenza per 50 anni ha capito che non può suicidarsi
per un tiranno di provincia che si fece grande ordinando di sparare
sulle donne e i bambini nel mercato di Sarajevo. Milosevic non vale una
Nato.

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la Repubblica - Domenica, 25 aprile 1999 - pagina 1
di GIORGIO BOCCA

LE LACRIME DEI PACIFISTI

IL senatore Cossutta, cresciuto nella propaganda pacifista al servizio
dell' Unione Sovietica, ha proposto agli intellettuali italiani di
prender su un ricambio di biancheria e partire per Belgrado, i ricchi
magari sull' Orient Express, per offrirsi come scudi umani contro l'
aggressione Nato. In pratica rischiare la vita per difendere Slobodan
Milosevic che sarà un combattente per la pace ma usa per le pulizie
etniche della Bosnia e ora del Kosovo le milizie di Arkan definite le
tigri per la loro capacità di non distinguere fra uomini, donne, vecchi
e bambini. PER principio di equità avrebbe potuto proporre un' altra
destinazione, qualche villaggio del Kosovo o la capitale Pristina
appena bruciata per fermare anche lì qualcosa di poco pacifico, la
deportazione di centinaia di migliaia di persone. Questo pacifismo
inteso come campagna propagandistica, spiega molti aspetti ambigui di
questa guerra: non solo quella che si combatte in Serbia ma anche
quella che divide la pubblica opinione italiana. Qualcuno ha osservato
che le guerre di questo tempo non sono più paragonabili all' ultima
mondiale che fu una guerra per la vita e per la morte, per la
sopravvivenza della umana civiltà, insomma una guerra che fu combattuta
fino all' ultimo uomo e all' ultimo fucile attorno al bunker di Hitler.
No questa guerra è un' altra cosa come quelle che ogni tanto si
accendono e poi spariscono nel tormentato pianeta: insieme militari e
politiche, fatte, come quella del Golfo, per abbattere il dittatore
Saddam Hussein, ma anche, a guerra vinta, per risparmiarlo come
cuscinetto rispetto alla minaccia dell' integralismo iraniano. Sempre
distinguendo i poveracci di cui fare carne da macello, dai nuovi
signori, quasi una riedizione delle guerre medievali in cui i poveracci
venivano messi ai remi o nelle galere mentre i cavalieri e i re erano
subitamente riscattati con moneta sonante. Nelle guerre totali mondiali
per la sopravvivenza ogni intelligenza con il nemico, ogni strappo alla
legge marziale veniva duramente punito a volte con la morte, adesso in
occasione di questa drole de guerre, il fatto che il Parlamento
italiano, il governo italiano facciano parte di un' alleanza i cui
membri hanno concordemente deciso la campagna contro la Serbia, non
impedisce ai nostri pacifisti, autentici od opportunisti che siano, di
andare a Belgrado alla corte del tiranno. Come se una buona parte della
nostra pubblica opinione non sapesse bene che cosa è una guerra e la
confondesse con una specie di gioco, spesso feroce, ma sempre attento
ai rispetti che si devono alle persone "importanti", alle professioni
importanti come l' informazione televisiva. In una guerra diciamo
normale si entra in campo all' unico scopo di vincerla, e di
conseguenza vengono considerati come obiettivi principali le armi e le
difese più forti del nemico. Qui no, per tutti coloro che si sono
sdegnati e hanno protestato contro l' attacco alla televisione di Stato
serba essa non è, come è evidente, una delle armi più forti di
Milosevic, non è lo strumento di propaganda e di menzogna che ha
sistematicamente ignorato la pulizia etnica, fatto dei carnefici delle
vittime, infiammato, ingigantito il sentimento nazional-etnico, il
complesso di Davide contro Golia che agli occhi dei serbi e della loro
passione nazionalista potranno anche sembrare ammirevoli ma che a chi
ha deciso di risolvere la partita con le armi sono inequivocabilmente
ostili. Si dice da molti conoscitori della Serbia e di Milosevic che l'
errore principale della Nato è stato di sottovalutare l' avversario, di
non sapere fin dove può spingersi il suo gioco. Una controprova è il
modo con cui l' informazione nostra e di altri paesi Nato ha accolto le
manifestazioni patriottiche dei giovani, dei cittadini che sventolando
bandiere nazionali si tenevano per mano sui ponti, esempio di quegli
scudi umani a cui il senatore Cossutta vorrebbe destinare i nostri
intellettuali. Ebbene c' erano due modi di reagire a quelle immagini,
quello del pacifismo che scambia questa guerra per un gioco: ma guarda
che coraggiosi, guarda che bravi. E quello di chi, avendo conosciuto
altre guerre e altre dittature, è inorridito vedendo che uso di un
sentimento sincero e generoso abbia potuto fare un autocrate, un uso
che neppure Hitler, neppure Stalin fecero né a Berlino né a
Stalingrado, forse perché sapevano molto bene che la guerra non è un
gioco e che mandare o lasciar andare dei cittadini inermi a difesa di
obiettivi militari è complicità in strage. L'episodio della televisione
bombardata e degli sdegni e delle proteste corporative è un' altra
prova di quanto le guerre totali per la sopravvivenza fossero diverse
da queste che possono sembrare e forse sono anche disfida politica o
gioco. La pretesa cioè dei nuovi mezzi informatici e telematici
dominanti di essere in qualche modo al di sopra delle parti quando è
evidente che ci stanno dentro fino al collo e che vengono usati dalle
opposte propagande. Il povero Remondino corrispondente forzato da
Belgrado, quella fotografia tessera che di lui appare sugli schermi
mentre spiega "vorrei dire ma non posso", fa il pari con i
corrispondenti americani a Bagdad. E sostenere che anche questa è
informazione equivale a scambiare un uomo libero con un ostaggio.

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la Repubblica - Domenica, 25 aprile 1999 - pagina 8
di CARLO BRAMBILLA

"Non facciamo del pacifismo a senso unico. Milosevic? Non è Hitler ma
gli somiglia"
L' EX PARTIGIANA ANSELMI "QUESTA GUERRA È GIUSTA" L'INTERVISTA

MILANO - "L' azione del governo? Decisamente positiva. Abbiamo fatto
tanto rispetto ad altri paesi più ricchi di noi. E abbiamo fatto bene a
farlo perché questi sono i nostri vicini di casa. E poi la nostra
azione militare mi pare sia accompagnata da una ricerca continua e
sincera di vie che possano portare a una pacificazione". Appoggia D'
Alema senza mezze misure la staffetta partigiana Tina Anselmi, a 17
anni nella brigata Cesare Battisti, ai piedi del Monte Grappa, oggi a
Milano per celebrare questo 25 aprile di guerra. Non pochi la
vedrebbero con favore alla più alta carica dello Stato. E la salutano
simpaticamente "Tina for president". Lei lascia correre. E torna,
preoccupata, a parlare della ex Jugoslavia. Giusto anche bombardare la
televisione di Belgrado, provocando morti e feriti tra i civili,
giornalisti, tecnici televisivi? "Non ho elementi sufficienti per
entrare nell valutazioni delle strategie e delle tattiche militari.
Quello che mi sento di dire è che questa gestione militare non basta.
La pacificazione non può essere solo il risultato di un' azione
militare. Devono concorrere vari elementi. Occorre cercare una via
politica attraverso tutte le aperture possibili. Stare nella Nato ma
non cessare mai di verificare tutti gli spiragli possibili per la
pace". Senza lasciarsi andare al pacifismo, come fanno anche certi
cattolici? "Io vorrei che chiunque invochi la pace lo faccia e la
cerchi sapendo quali sono le responsabilità. E non facendo del
pacifismo a senso unico. A volte mi pare non si faccia una valutazione
seria delle vere cause che hanno portato a questa guerra. La principale
delle quali è l' odio etnico, la pulizia etnica. Se non aggrediamo le
cause vere della guerra non usciremo mai da questo inferno". Milosevic
come Hitler. Per lei che ha partecipato alla Resistenza il paragone è
accettabile? "Per certi aspetti può essere una forzatura. Però non
dimentichiamoci che in quel paese stanno avvenendo eccidi in nome di
una cultura razzista. E la natura diabolica del nazismo sta nell' avere
programmato la morte degli handicappati, dei malati mentali, degli
zingari e degli ebrei. Dobbiamo riflettere. Quando c' è il razzismo
come elemento dominante, come giustificazione di eccidi, il paragone
con Hitler non è tutto da gettare. Ripensiamo a quell' epoca. Io
presiedo la commissione per la restituzione dei beni agli ebrei in
seguito alle leggi razziali. Allora c' era la spoliazione dell'
individuo al quale si sequestravano lo spazzolino da denti, i calzini,
senza nessuna ragione. Oggi si vuole spazzare via un' altra etnia". Chi
è il maggiore responsabile della crisi balcanica? "è una crisi che ha
radici lontane, che risalgono alla fine dell' impero austro-ungarico.
C' è stato un periodo in cui questi paesi hanno vissuto in un regime di
dittatura. E la dittatura ha in parte impedito che vedessimo in tempo
utile che cosa stava accadendo all' interno di quell'area. Tito aveva
in qualche modo gestito i contrasti tra i gruppi etnici concedendo
forme autonome di organizzazione politica e sociale. Ma con la sua
morte questo sistema non ha retto. La crisi del comunismo ha trovato
questi paesi impreparati a conservare la loro identità". Quello che
avrebbe dovuto essere un intervento umanitario per aiutare le
popolazioni del Kosovo si è rapidamente trasformato in guerra a tutto
campo. A questo punto quali sono le vie d' uscita? "Questa è una guerra
vera e propria. è inutile nasconderselo. La stiamo vivendo e soffrendo
tutti. Ma non sappiamo come venirne fuori. Anche perché mentre i paesi
democratici giocano con le carte scoperte, le dittature sono
imprevedibili. Cosa voglia veramente Milosevic, quale strategia
persegua, quali finalità politiche si prefigga, non lo sappiamo. Sono
due anni che questo signore prende in giro l'Onu, prende in giro le
conferenze internazionali e rende difficile individuare le
responsabilità. In questi anni il suo comportamento non è certo stato
leale verso quei paesi che pure cercavano una soluzione pacifica".

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la Repubblica - Lunedì, 26 aprile 1999 - pagina 1
di MIRIAM MAFAI

I MEGAFONI DEL REGIME
SEGUE A PAGINA 18

NORBERTO Bobbio ha pronunciato ieri, in un' intervista all'Unità, la
parola indicibile, ricorrendo al termine "guerra santa o crociata" per
definire quella che la Nato sta conducendo contro la Serbia e che fu
inizialmente giustificata come "ingerenza umanitaria". Ho l'impressione
che Bobbio adotti quel termine con una sorta di tremore nella voce e
nell' intelligenza. Le guerre sante, le crociate, hanno fatto versare
nel passato tanto sangue, come ebbe a dire uno storico famoso, da far
girare per secoli tutti i mulini d' Europa. La "guerra santa" non
conosce regole né pietà, prevede l' annientamento del nemico, non salva
né prigionieri né bambini. è la guerra assoluta, del bene contro il
male, dei credenti contro gli eretici, che non consente interrogativi,
dubbi o incertezze. NESSUNO di noi può augurarsi o pensare che ci sia
qualcosa del genere nel nostro futuro. Mi chiedo quindi se, adottando
non a caso questo termine, il filosofo torinese non abbia tentato di
metterci in guardia dal pericolo, invitandoci a rimettere a fuoco, con
maggiore lucidità di pensiero, gli obiettivi, gli scopi, gli strumenti
della guerra nel suo inevitabile farsi sempre più spietata, guerra
totale. Il bombardamento della Televisione di Belgrado con il suo
seguito di morti, non ancora tutti estratti dalle macerie, a me sembra
già il segno di questa escalation. Non perché, come qualcuno ha detto
polemicamente, la vita dei giornalisti o degli operatori sia più
importante di quella dei profughi in fuga (in quel caso si trattò da
parte della Nato di un "tragico errore" subito riconosciuto), ma perché
con quel bombardamento non si volevano solo impedire le trasmissioni di
propaganda del regime di Milosevic, quanto piuttosto mandare a tutta la
popolazione un messaggio da "guerra santa": da oggi in poi il nostro
obiettivo non sono più ponti, strade, officine, infrastrutture
produttive e militari, ma anche voi, ognuno di voi. è possibile che
questa minaccia acceleri la crisi del regime. Bisognerebbe per questo
saperne di più non solo sui rapporti tra Milosevic e gli alti gradi
dell' esercito, ma anche sulle forze democratiche di opposizione che
solo pochi anni fa sembravano molto attive e vivaci e vennero poi
ridotte al silenzio anche in virtù della indifferenza e della mancata
solidarietà dell' Occidente. Soltanto ieri, finalmente, un gruppo di
intellettuali e uomini di cultura di Belgrado è riuscito a far sentire
la sua voce, chiedendo insieme la sospensione dei bombardamenti e il
ritorno dei profughi nel Kosovo. è una prima crepa visibile nel
compatto, torvo consenso che Milosevic è riuscito a creare intorno alla
sua politica, di cui sarebbe sbagliato non tener conto. La Serbia
sembra, oggi, un paese malato, intossicato dall' esasperato
nazionalismo sul quale Milosevic ha costruito un potere che,
paradossalmente, è andato rafforzandosi, nel corso degli ultimi nove
anni, attraverso una serie di aggressioni e guerre dalle quali pure il
dittatore è uscito sconfitto, nonostante l' inaudita ferocia delle sue
bande che, dopo aver ucciso torturato violentato stuprato, dopo aver
messo a ferro e fuoco Vukovar, bombardato Dubrovnik e raso al suolo
Sebreniza, sono oggi all' opera nel Kosovo. Un nazionalismo che sembra
nutrirsi, anche a livello popolare, del rancore per le sconfitte e di
volontà di rivincita. Durante la Seconda Guerra Mondiale vivevo a
Genova, città particolarmente presa di mira dagli aerei alleati, e
dunque ho passato tutta la mia adolescenza sotto i bombardamenti, tra
l' urlo delle sirene e la corsa nei rifugi. Grazie a quei bombardamenti
e alla sconfitta del fascismo e del nazismo ho goduto, come tutti in
Europa, di una lunghissima pace e di un crescente benessere. Ma ricordo
ancora l' entusiasmo con cui la maggioranza degli italiani salutarono
la nostra entrata in guerra nel 1940, sicuri di vincerla in pochi mesi
se non in poche settimane. Abbiamo conosciuto anche noi italiani, pur
se in misura meno grave di altri, i meccanismi perversi che presiedono
alla ubriacatura nazionalistica, le deformazioni della ragione che
provoca e, infine, la lentezza dei processi che ne consentono il
superamento. Le trasmissioni di Radio Londra ebbero grande parte nel
promuovere questi processi di distacco dal regime, anche perché non
adottarono mai toni da guerra santa, distinguendo sempre (forse al di
là di quanto pensavano davvero gli ambienti ufficiali inglesi) le
responsabilità di Mussolini e del suo regime da quelle degli italiani.
C' era in questa scelta una buona dose di intento propagandistico, ma
la buona propaganda è comunque sempre necessaria per vincere una
guerra. E, soprattutto, per preparare il dopoguerra. Ora, entrando nel
secondo mese del conflitto e mentre si prepara, contro la Serbia, un
blocco totale dei rifornimenti energetici, è giusto chiederci se la
Nato pensa, alla fine, di trattare con lo stesso Milosevic o con i suoi
eventuali successori. La prima soluzione, pensabile se, come qualcuno
aveva immaginato, Milosevic avesse acceduto alla trattativa dopo i
primi bombardamenti, sembra improponibile dopo le più recenti
dichiarazioni di Clinton e Blair, con le quali si propone di portarlo,
come criminale di guerra, di fronte al Tribunale dell' Aja. Resta
allora la seconda ipotesi, quella di lavorare nella prospettiva di un
suo rovesciamento e cambiamento di leadership a Belgrado. Una
prospettiva non facile, ma che rischia di diventare impossibile se i
serbi si convinceranno che contro di loro si sta conducendo, da parte
della Nato, una "crociata, o guerra santa".

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la Repubblica - Lunedì, 26 aprile 1999 - pagina 11

Scalfaro: "Ripetiamo no a violenza e sterminio"

VIOLANTE: MILOSEVIC COME MUSSOLINI "ANCHE GLI ALLEATI BOMBARDAVANO. MA
IL RESPONSABILE ERA UNO SOLO". FINI: "E' UNA OPINIONE RISPETTABILE"

ROMA - Verso le vittime civili Slobodan Milosevic ha le stesse
responsabilità che a suo tempo ebbe Benito Mussolini. Il paragone è del
presidente della Camera Luciano Violante, intervenuto ieri a Bari alle
celebrazioni per l' anniversario della Liberazione. Secondo Violante,
infatti, "ci sono state vittime innocenti nei bombardamenti su
Belgrado, come ci sono state vittime innocenti nei bombardamenti
alleati su centinaia di città italiane alla fine della seconda guerra
mondiale: chi era responsabile per quelle morti innocenti, ieri, era
Mussolini; oggi è Milosevic". Le parole del presidente della Camera
sono state immediatamente commentate da Gianfranco Fini. Il leader di
An in un primo momento si è limitato a dire che quella di Violante è
una "rispettabile opinione". Incalzato dalle domande Fini ha però
aggiunto: "è evidente che Milosevic ha delle responsabilità, è evidente
che Mussolini decise la guerra, mi sembra molto semplice la
considerazione. Nessuno può pensare - ha aggiunto il leader di An - che
le guerre siano fenomeni da affrontare in letizia, sono sempre momenti
tragici. Però - ha concluso - le responsabilità di Milosevic sono
davvero evidenti a tutti". Di pace e guerra ieri ha parlato anche il
presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che ha deposto corone
all' Altare della patria e alle Fosse Ardeatine. "In nome della
libertà, ripetiamo il "no" alla violenza, alla intolleranza, allo
sterminio etnico, il più brutale e incivile che il mondo conosca",
scrive il presidente nel messaggio inviato a Tino Casali, presidente
del Comitato promotore delle celebrazioni dell' anniversario della
Liberazione. Scalfaro ricorda che questo anniversario del 25 aprile
"trova l' Italia impegnata con i Paesi della Nato, in una preoccupante
guerra". "Ma ripetiamo anche - aggiunge il capo dello Stato - la nostra
inestinguibile volontà di pace per mettere fine alle infinite
sofferenze dei perseguitati e dei profughi. Con questa speranza
rivolgiamo l' augurio più bello alla nostra Italia libera e
democratica". Manifestazioni si sono svolte in molte città italiane. A
Napoli il sindaco Bassolino da deposto corone di fiori nelle piazze che
videro la rivolta della città ai nazifascisti. Analoghe cerimonie si
sono svolte a Palermo, a Genova e in altri capoluoghi. A Roma il
sindaco Rutelli ha consegnato medaglie ai rappresentanti della comunità
ebraica e delle associazioni della Resistenza.

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la Repubblica - Lunedì, 26 aprile 1999 - pagina 12
di MARIO PIRANI

LINEA DI CONFINE
GUERRA, PERCHÉ ORA? E SE NON ORA, QUANDO?
Risposta ai pacifisti su pulizia etnica e Shoah

I PACIFISTI di sinistra si avvalgono, almeno, di buoni sentimenti. I
pacifisti di destra, per contro, inalberano il dichiarato cinismo della
realpolitik: massacri e carneficine ci sono sempre stati da che mondo è
mondo, e tutt' oggi, anche lontano dal Kosovo, si son compiute
nefandezze impunite. Perché allora farsi trascinare in un' impresa
tanto pericolosa? Fra i divulgatori di questa sponda si distingue, per
dovizia di argomenti, Pierluigi Battista che fruisce sulla Stampa di un
suo quotidiano "Taccuino pacifista". Era, quindi, un destino segnato
che un "guerrafondaio" come il sottoscritto fosse destinato a cadere
sotto i suoi strali. Per l' occasione Battista mi contrappone allo
scrittore israeliano, David Grossman, che aveva riaffermato l' unicità
della Shoah anche in comparazione ai crimini etnici attribuiti a
Milosevic. Il corsivista della Stampa aggiunge che "la propensione
comparativa esplosa nelle argomentazioni interventiste... appare come
una risorsa psicologica cruciale per giustificare... l' eccezionale
carico di indignazione cresciuto attorno a crimini ignorati o
misconosciuti in altre parti del mondo... Perché proprio adesso? E
perché proprio qui ?... L' argomento etico che conferisce un' urgenza
ideale e morale in un intervento militar-umanitario... non può che
rispondere che qui e adesso l' orrore è più orrore di altri orrori, che
qualcosa di intollerabile abbia reso indilazionabile un fare qualcosa,
qui e ora, per mettere fine al massacro... perché c' è un nuovo Hitler,
risponde, infatti, Mario Pirani... e se c' è un nuovo Hitler ogni altra
sofferenza viene ridimensionata o ricondotta a necessario prezzo da
pagare per liberare il mondo dalla nuova incarnazione del Male". Cito
Battista anche perché non è il solo a forzare, per meglio combatterla,
l' equazione: Milosevic=Hitler. Lucio Caracciolo, ad esempio, nell'
editoriale del supplemento di Limes, dedicato all' Italia in guerra, se
la prende con il cancelliere tedesco, Schroeder, perché avrebbe
definito come un "genocidio" quel che avviene in Kosovo. E segue,
puntuale come uno slogan generalizzato, l' ormai scontata forzatura:
"Il Kosovo come Auschwitz... la perdita di controllo delle categorie
semantiche è purtroppo il sintomo della nostra bancarotta strategica".
Sarebbe più proficuo, per capirci anche fra chi esprime posizioni
divergenti, che i contestatori dell' intervento della Nato non
stravolgessero le tesi altrui. Infatti né il sottoscritto, né altri
commentatori, né, a quanto almeno mi risulta, il cancelliere Schroeder
hanno affermato che Milosevic è il nuovo Hitler o, tantomeno, che il
Kosovo è Auschwitz. Il discorso è un po' diverso e, così, anche il
richiamo alla storia passata. Esso parte da un giudizio sulla "pulizia
etnica", vista come finalità e non come effetto della guerra che,
direttamente o per interposta persona, a partire dal 1991 e non dall'
ultimo mese, i dirigenti di Belgrado hanno condotto, perseguendo l'
obbiettivo di creare una Grande Serbia, etnicamente e religiosamente
omogenea. Questa "pulizia" è stata attuata non per distruggere in
maniera scientifica e totale le altre componenti etniche (per questo è
sbagliato parlare di Auschwitz), ma per farle fuggire, attraverso il
terrore, i bombardamenti, gli stupri, i massacri e le deportazioni di
massa, dalle regioni che i serbi, pur essendo spesso in minoranza, come
nel Kosovo o in Bosnia, rivendicano come storicamente proprie. Si
tratta quindi di una "soluzione finale" e di un crimine contro l'
umanità: come tale richiama il Genocidio, pur non essendo la stessa
cosa. O anche le grandi migrazioni coatte sperimentate dai regimi
staliniani. Anche il parallelismo con Hitler è assai meno schematico di
quanto raccontano i pacifisti di destra e di sinistra. Soprattutto
perché Milosevic non possiede le potenzialità espansive e
destabilizzanti del Terzo Reich né le alleanze che permisero al Fuhrer
di scatenare la guerra mondiale. Il paragone è invece un altro. Con
Milosevic, come con Hitler, le democrazie hanno rinviato fino all'
estremo il loro intervento, hanno ceduto ripetutamente, hanno lasciato
che applicasse per anni una politica di "pulizia etnica" opponendogli
risoluzioni delle Nazioni Unite e spedizioni disarmate. Le illusioni
diplomatiche, le connivenze, il timore di non raggiungere il consenso
ha rallentato ogni efficace reazione. Fino a un mese fa. E adesso vi è
chi dice: "Perché ora?". Eppure la risposta è nota e la ripropose Primo
Levi: "E se non ora, quando?" (dalle Massime dei Padri, Cap.I, Mishnà 14).

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Altri articoli segnalati / Weitere Artikeln zu lesen:

Lutz, Dieter S.: „Krieg nach Gefühl“ - Manipulation: Neue Zweifel am Nato-Einsatz im Kosovo
Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15.12.2000



SUL BOMBARDAMENTO DELLA RTS
E SUL VIDEO " SEDÌCI PERSONE"




Sabato 24 Aprile 1999

UN BRUTTO SEGNALE

Lietta Tornabuoni

E CCO, l'hanno trovato, il sistema contro la disinformazione: ammazzare
i giornalisti e i tecnici televisivi.
I morti e i feriti nel bombardamento della sede della Tv di Belgrado
non sono soltanto un'altra infamia di questa guerra (perché i morti
ammazzati sono morti chiunque li abbia eliminati, non esiste un morto
meno morto di un altro). Sono anche un segno. Finora la Nato, magari
ipocritamente, definiva le uccisioni di civili un errore, un equivoco,
una fatalità, un tragico sbaglio che si sarebbe badato a non ripetere e
per il quale ci si diceva addolorati, si chiedeva scusa. Stavolta, no.
Stavolta le uccisioni sono volontarie, mirate, non comportano alcun
rammarico ma la soddisfazione d'avere danneggiato un "nido di
menzogne": come se dire eventualmente bugie o fare propaganda potesse
essere considerato un crimine degno della pena capitale.
L'azione è più grave non certo perché la morte di gente della
televisione sia più importante e offensiva di quella, mettiamo, dei
settantacinque profughi uccisi dai bombardamenti sul mezzo di trasporto
usato per fuggire dalla guerra: ma per l'atto volontario, per
l'arroganza di chi si crede depositario del giusto e dell'ingiusto, del
bene e del male.


Gelo tra D'Alema e Dini
Il premier critica le riserve del ministro

Augusto Minzolini
inviato a WASHINGTON

Di prima mattina, a poco più di un'ora dall'inizio della conferenza
della Nato, arriva l'ennesimo distinguo del ministro degli esteri
Lamberto Dini dall'operato dell'Alleanza. Questa volta si tratta del
bombardamento della tv serba. Mentre a qualche metro di distanza
Massimo D'Alema appena uscito dall'Hotel St.Regis di Washington si
infila nell'automobile per arrivare in tempo alla cerimonia di
apertura, Dini resta indietro e si concede alla stampa per sparare
contro l'azione degli aerei Nato: "Non me ne parlate. E'
terribile...Disapprovo... Non credo neppure che fosse nei piani la
faccenda della Tv. A mia conoscenza non era nei programmi alleati. Se
d'ora in avanti saranno colpiti anche obiettivi non militari? C'è
questo rischio ma non è automatico. Quindi la cosa va discussa
attentamente. Non scherziamo...".
Ci risiamo. Scoppia il solito caso italiano che movimenta ogni vertice
internazionale dall'inizio della guerra nel Kosovo. L'uscita di
Lambertow si trasforma in un fulmine nel cielo di Washington. Gli
americani non nascondono la propria irritazione. La Nato idem. "Era
tutto stranoto", dice secco il segretario generale della Nato, Solana.
"La Tv - fa presente il portavoce della Nato, Jaimie Shea - è più
pericolosa dell'esercito serbo. La stessa opposizione serba l'ha sempre
considerata il vero bastione del potere di Milosevic". Il ministro
degli esteri inglese Robin Cook è ancora più duro. "Ci sono antenne e
antenne. Ci sono antenne che fanno propaganda e antenne che danno
notizie". Dini, di rimando, fa sapere che i francesi la pensano come
lui, se non peggio. Gli uomini del ministro degli esteri lo giurano, ma
quelli di Chirac rimangono zitti, non parlano.
E la delegazione italiana? Il ministro della difesa, Carlo
Scognamiglio, non ci pensa due volte a schierarsi con la Nato.
"L'interpretazione data dai comandi dell'Alleanza - spiega - è che la
propaganda è un elemento importante nella conduzione dell'azione
militare e, quindi, deve essere inclusa negli obiettivi".
Rimane D'Alema. Le dichiarazioni del ministro degli Esteri
costituiscono un'altra gatta da pelare per il premier. E pensare che
una volta era Dini l'amerikano del governo. Adesso, invece, è il
premier post-comunista a dover calmare le ire di Washington e di
Bruxelles. E non è la prima volta: sarà, come dice qualcuno, che il
nostro ministro degli Esteri ha un debole per i consigli di Giulio
Andreotti; sarà, come dicono altri, che questo atteggiamento di
comprensione verso Belgrado potrebbe assicurargli i voti di Cossutta e
di Bertinotti nella corsa per il Quirinale. Sta di fatto che da qualche
tempo il ministro occidentale più tenero nei confronti di Milosevic è
proprio lui.
E D'Alema deve garantire per lui di fronte agli Alleati. Ai suoi
collaboratori il premier dà le istruzioni del caso per salvare capra e
cavoli: da una parte osserva "è un giudizio emotivo, può capitare",
dall'altra bisogna tenere conto degli interventi che sono necessari
"per disarticolare un potere autoritario come quello di Milosevic".
Insomma, il premier fa quel che può per circoscrivere il "problema". Ha
ben altro in testa: dalla tribuna deve sottolineare la necessità di uno
stretto rapporto tra la Nato e l'Onu, e di un maggior ruolo dell'Unione
Europea nell'Alleanza. Ma la vicenda rischia di lasciare strascichi.
Per cui nella conferenza stampa di fine seduta il premier decide di
tirare le orecchie al ministro degli Esteri in pubblico.
La scena è di quelle che lasciano il segno. D'Alema sulla tribunetta
del salone. Dini seduto in prima fila. Il premier parla ai giornalisti,
ma le parole non sono scelte a caso e sembrano avere come destinatario
proprio il ministro. "Quando ci si trova in una situazione di questo
tipo - scandisce D'Alema - il compito dei politici è quello di porre
dei vincoli di un'azione militare e non quello di discutere ogni
singolo obiettivo. E' del tutto improprio".
Il capo del governo va avanti, il ministro degli esteri ascolta
imbarazzato. "Certo noi - continua - abbiamo ancora oggi raccomandato
la necessità di ridurre al massimo le vittime civili. Anche una è
troppo. La Nato farà di tutto per evitarlo, ma dalla parte di Milosevic
non mi sembra che ci sia la stessa preoccupazione. Comunque, ripeto,
non si può commentare ogni giorno dove cade una bomba. Eppoi ricordo
che in quel paese un gionalista libero è stato assassinato nel portone
di casa sua e questo riduce di molto la mia indignazione per il
bombardamento della tv di Milosevic".
Le dichiarazioni del presidente del consiglio sono una vera e propria
presa di distanza dal ministro degli Esteri. Dini mastica amaro. Ce
l'ha con tutti quelli che lo hanno attaccato, soprattutto con gli
inglesi. Così quando il premier ricorda il contingente italiano
impegnato nella guera del Kosovo, il ministro degli Esteri si lascia
scappare un commento a mezza bocca: "Il nostro impegno è maggiore di
quello di Blair". Ed ancora, quando a D'Alema viene chiesto se
Milosevic deve essere processato dal tribunale dell'Aia, Dini si lascia
sfuggire un sonoro: "...E le prove?".
La conferenza stampa del premier finisce con il ministro degli Esteri
che trattiene a malapena il disappunto. "Due settimane fa - si sfoga
con qualche cronista - avevamo posto il nostro veto nel consiglio
atlantico sul bombardamento della tv serba. Per questo ho avuto quella
reazione istantanea. Non mi parlate degli inglesi... Sono gli apripista
degli americani. Avete visto la reazione dell'opione pubblica italiana?
Io sono nel giusto".
D'Alema non lo sente. Prima di lasciare la sala della conferenza, però,
si rivolge ad un cronista e scuotendo la testa sospira: "Che
faticaccia!":

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 10

Remondino: allora bisognerebbe bombardare tv in tutto il mondo
"GENTE CHE LAVORAVA ALTRO CHE MILITARI"

INTERVISTA/1

MILANO (a.dip) - Ennio Remondino, inviato Rai a Belgrado. Sandro Curzi
dice che lei è stato avvertito sei ore prima del bombardamento alla
sede della tv. "La realtà è molto diversa. Qui, con il passaparola tra
colleghi, è da qualche giorno che sappiamo che certi obiettivi stavano
entrando sotto tiro. Diciamo che da qualche giorno sapevamo che
dovevano trattenerci il meno possibile in quel palazzo, soprattutto di
sera e di notte". Come ha vissuto quelle ore? "Con angoscia fortissima,
ho visto morire in modo atroce persone con cui ho lavorato. Quella che
fossero una sorta di soldati di Milosevic è un' orribile sciocchezza.
In quel palazzo lavora un sacco di gente che lavora e basta, per
vivere, per mangiare, E tanti di loro sono invece morti, è terribile,
altro che storie. Ed è tutto sbagliato". Perché? "Perché in quel luogo
non c' erano potenti, al massimo c' erano dei loro servitori. E ai
servitori si tirano le uova marce, non i missili". Che è successo nelle
ore successive, tra di voi? "Ci siamo riuniti, tutti giornalisti e
operatori delle tv straniere, eravamo cento, centocinquanta, siamo
andati in un albergo dove abbiamo incontrato rappresentanti della tv di
Belgrado. Uno di noi, un tedesco, ha letto un messaggio di solidarietà.
Abbiamo osservato un minuto di silenzio per i morti, una cosa semplice,
commovente". Ma quella tv, si dice, non era libera, era uno strumento
di guerra. "Con questa logica bisognerebbe dichiarare guerra a mezzo
mondo e bombardare sedi televisive a ripetizione. Chi giudica? Chi è il
tribunale mondiale della verità? Esiste? No che non esiste. E alla tv
turca che esalta la condanna a morte di Ocalan che dobbiamo fare?".
Qual è il punto? "Il punto è che, non si può negarlo, questo regime
vive sulla propaganda. Se le forze del bene, chiamiamole così, danno
appigli all' avversario, tutto diventa più difficile, è successo con il
treno, è successo qui con la tv". Lei sta parlando liberamente in
questo momento? "Sì, me ne infischio se ascoltano. E poi di chi
parliamo? Quelli con cui ho lavorato a lungo, perfino quelli che mi
requisivano le cassette per controllarle, non li immagini come una
banda di scherani aggressivi. Sono, e alcuni purtroppo erano, anche
persone gentili, che aiutavano, con slanci generosi verso il nostro
lavoro. E noi, in teoria, eravamo e siamo quelli degli aggressori".

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 2
dal nostro inviato GIANLUCA LUZI

Dini: "è terribile". D' Alema: "Non mi indigno"

L' ATTACCO ALLA TELEVISIONE DIVIDE IL GOVERNO ITALIANO IL MINISTRO
DEGLI ESTERI AVEVA CONTESTATO LA LEGITTIMITÀ DELL'AZIONE. IL PREMIER LO
HA CORRETTO, INVITANDOLO AL SILENZIO: "NON SI PUÒ DISCUTERE OGNI
SINGOLO OBIETTIVO" GUERRA NEI BALCANI

WASHINGTON - "Quando ci si trova in una situazione di questo tipo il
compito dei politici è di stabilire dei vincoli, dei limiti all' azione
militare, non può essere quello di discutere ogni singolo obiettivo
dell' azione". Massimo D' Alema risponde alle domande dei giornalisti,
innanzitutto a quelle sul bombardamento Nato della tv serba. In prima
fila, ad ascoltarlo c' è il ministro degli Esteri Lamberto Dini che
qualche ora prima aveva condannato senza mezzi termini il raid aereo.
Sembravano le dichiarazioni del ministro di un paese avversario della
Nato: "Terribile. Non me ne parlate. Disapprovo", una condanna senza
appello dell' attacco emessa di buona mattina. D' Alema invece non
condanna, né prende le distanze da quella azione militare decisa dai
comandi Nato. Anzi, la giustifica pienamente e difende il criterio con
cui l' alleanza sta conducendo i bombardamenti. E quindi smentisce la
reazione presa dal suo ministro degli Esteri. "Anche questa mattina
abbiamo raccomandato con molta fermezza che le azioni siano studiate
con l' obiettivo di ridurre al massimo la possibilità di colpire
vittime civili. Questo è il vincolo al quale i militari della Nato si
sono attenuti, perché bombardamenti di questa intensità certamente
hanno prodotto un numero di vittime civili...". Contenuto, vorrebbe
dire D' Alema che aggiunge per spiegare meglio il suo pensiero: "Anche
una vittima è troppo, ma considerando che si tratta di una guerra,
certamente il numero è piuttosto limitato rispetto alle dimensioni
dell' attacco aereo. Il che è testimonianza che da parte della Nato non
solo non c' è la volontà di colpire i civili, ma al contrario c' è una
grande e scrupolosa attenzione a non colpirli. E vorrei dire anche una
trasparenza: quando accadono degli incidenti, questi vengono ammessi,
dichiarati, documentati. Io credo che così debbano comportarsi le forze
armate dei paesi democratici". Non così invece si comporta il
presidente serbo. "Non ho ancora visto Milosevic dire: ci siamo
sbagliati ed effettivamente abbiamo ammazzato migliaia di persone e
adesso vi facciamo vedere le prove". Quindi il bombardamento degli
impianti tv non è da condannare: "Non credo che possiamo ogni giorno
commentare. I mezzi di informazione sono importanti, però non possiamo
dimenticare che quello è un paese dove un giornalista libero lo hanno
assassinato nel portone di casa sua". Dini invece di buon mattino aveva
messo profondamente in dubbio la legittimità dell' attacco alleato:
"Non credo che fosse neppure nei piani. Il bombardamento della
televisione, a mia conoscenza, non era nei programmi". Anche il
ministro della Difesa Scognamiglio, come D'Alema, ha usato parole e
toni diversi da quelli di Dini. Scognamiglio, infatti, ha citato il
giudizio dei militari dell' alleanza secondo cui gli impianti
televisivi sono un obiettivo legittimo perché usati da Milosevic come
strumento di propaganda di guerra. "Ho ascoltato le interpretazioni che
sono state date dai comandi Nato, i quali giudicano che la propaganda
costituisce un elemento importante nella conduzione dell' azione di
guerra e quindi possa essere incluso fra gli obiettivi della fase
attuale".

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 2
dal nostro inviato VANNA VANNUCCINI

Morti e feriti, negli studi lavoravano 70 persone

UN MISSILE SPEGNE LA TV SERBA COLPITA LA VOCE DEL REGIME, MA L'
EMITTENTE RIESCE A RIPRENDERE LE TRASMISSIONI. ATTACCO NOTTURNO SULLA
CITTÀ DI NIS UN RAID ANNUNCIATO: MARTEDÌ LA CNN AVEVA TRASLOCATO

BELGRADO - "Erano appena suonate le 2 quando ho sentito una tremenda
esplosione. Ho capito subito che avevano colpito la televisione. Abito
qui vicino e sono scesa di corsa a vedere". La signora bionda con gli
occhi celesti rossi di lacrime e di fumo che si aggira stranita per la
via Tarkovska lavora alla tivù serba come archivista da vent' anni.
Sono le 3 del mattino e l' edificio a quattro piani che era il cuore
della tivù serba, il cosiddetto "broadcast" o centro di controllo, non
esiste più. Un missile laser comandato l' ha schiacciato dall' alto,
preciso come un colpo di maglio. Di notte alla tivù serba lavorano due
studi, In tutto a quell'ora si trovavano nell' edificio una settantina
di persone. Giornalisti, tecnici con il cartellino della tivù serba
(Rts) al bavero della giacca sono venuti a cercare notizie dei
colleghi. C' è chi telefona sul portatile: "Jelena e Aca sono vivi. Ma
Darko non ce l' ha fatta. Stava al "master" e lì non è rimasto più
nulla". Nemmeno Branko ce l' ha fatta. Aveva 23 anni ed era diventato
amico dei tecnici di Canale5 che ogni sera consegnavano a lui la
cassetta da trasmettere in Italia. Mentre le ruspe continuano a
scavare, il bilancio dei morti rimarrà sconosciuto per tutta la
giornata. Dieci, secondo la stima del direttore generale della Rts
Dragoljuv Milanovic che riferisce anche di 17 dispersi. Vittime
innocenti, doppiamente vittime: della Nato che voleva dimostrare a
Milosevic che non ci sono "santuari" invalicabili; e di Milosevic che
non ha permesso l' evacuazione della televisione di Stato, nonostante
fosse un bersaglio annunciato. La Cnn che aveva un suo ufficio nel
palazzo, aveva fatto i bagagli già martedì. E la stessa sera, il
ministro Goran Matic, aveva portato (senza avvertirli) i giornalisti
stranieri a portare la loro solidarietà ai colleghi nel mirino della
Nato. Tra le macerie del palazzo della tivù, al buio, le squadre di
soccorso cercano di estrarre i corpi dalle macerie. Dicono che si
sentono dei lamenti e dei colpi, come se qualcuno bussasse. Si diffonde
un odore acre, il fumo da nero diventa blu e la polizia manda via
tutti: c' è pericolo di avvelenamento. è giorno ormai e per la strada
si è riunita una folla. Vicino alla sede della tivù c' è la chiesa di
San Marco. Tra la chiesa e la televisione un teatro per bambini e una
minuscola chiesina russa. Il teatro è semidistrutto, la chiesina
leggermente danneggiata. "A Clinton dovrebbero dare il Premio Nobel per
un' invenzione senza precedenti: le bombe umanitarie" dice lo scrittore
Dusan Kovacevic, autore del romanzo da cui Kusturica ha tratto il suo
film "Underground". "La follia che aveva sconvolto la Jugoslavia ha ora
raggiunto l' Occidente" dice Kovacevic. "Questa - prosegue - è la
continuazione della Seconda guerra mondiale dopo una breve pausa. E
speriamo che tra qualche anno non ci troveremo in cantine
antiatomiche". Esattamente sei ore dopo questo orrore, la televisione
serba riprendeva a trasmettere regolarmente. Evidentemente era pronto
un piano di emergenza. "Colpiremo il cervello della propaganda di
Milosevic" aveva annunciato un portavoce della Nato. I primi raid della
notte scorsa hanno invece colpito Nis, la seconda città della Serbia.
Almeno 15 missili Nato hanno raggiunto il centro a 220 chilometri a sud
di Belgrado. L' agenzia ufficiale Tanjug dice che un ragazzo di 17 anni
è morto.

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 2

SOLANA: "UN' AZIONE LEGITTIMA ERA IL MEGAFONO DEL REGIME" JAMIE SHEA:
"LA RTS È UNO STRUMENTO DI GUERRA, FA PARTE DELLA MACCHINA DI
PROPAGANDA JUGOSLAVA" LA NATO

WASHINGTON (m.r.) - "Abbiamo dimostrato che non c' è asilo, non c' è
riparo per gli strumenti che creano le condizioni attraverso cui il
regime di Milosevic attua la sua campagna di repressione". All'
indomani del bombardamento della sede della televisione jugoslava, la
Nato ha difeso con forza la decisione di attaccare un bersaglio che
molti considerano non militare, ma civile. Per il segretario generale
Javier Solana è un "obiettivo legittimo". Che rientra tra quelli "già
inseriti nella lista dei bersagli da prendere di mira per le sue
implicazioni militari". Non si tratta di una nuova fase della campagna
aerea, ha spiegato Solana, sottolineando che "gli attacchi stanno dando
dei risultati" e per questo "saranno intensificati fino alla vittoria".
L' obiettivo, dice il portavoce dell' alleanza, è "azzoppare gli
strumenti fondamentali del regime". "Nessun elemento del sistema di
potere di Milosevic può essere immune" rincara George Robertson, il
ministro della Difesa britannico. I dubbi sull' attacco alla torre nel
centro di Belgrado vengono respinti con determinazione. Nella campagna
aerea in corso, spiegano gli uomini dell' alleanza, la strategia corre
lungo due direttrici: martellare le truppe jugoslave impegnate nella
pulizia etnica del Kosovo, da una parte, colpire "i centri del sistema
nervoso della Jugoslavia" dall' altra. E la decisione di bombardare Rts
parte dalla convinzione che la tv pubblica faccia parte, a pieno
titolo, di questi centri. "Rts - spiega con foga Jamie Shea - è uno
strumento di guerra, fa parte della macchina bellica jugoslava". Non da
oggi: da quando, dice, nel 1991 chiamava i croati ustascia. Da questo
punto di vista, la tv serba "ha tanta responsabilità quanto l' esercito
regolare jugoslavo nel creare il clima politico che ha portato alla
violenza di massa nel Kosovo". Sua la responsabilità di una sistematica
campagna di "istigazione al nazionalismo", che ha creato le premesse
psicologiche per la sistematica ricerca della pulizia etnica, in Bosnia
prima, nel Kosovo poi. Nessuna sorpresa, dunque, secondo gli uomini
della Nato. Il bombardamento della tv viene presentato come la logica
conseguenza di una strategia di crescente pressione su Milosevic, in
una linea coerente con il bombardamento del quartier generale del suo
partito e, poi, di una delle sue abitazioni a Belgrado: ambedue,
secondo lo spionaggio occidentale, ospitavano, in realtà, bunker e
centri di comunicazione, cruciali nell' organizzazione della
repressione politica e militare. In realtà, gli uomini della Nato
sorvolano, oggi, sul fatto che, quando la decisione di inquadrare nel
mirino la televisione fu annunciata, si manifestarono subito, da parte
europea (francesi e italiani in testa) dubbi e perplessità. Tanto che
la decisione sembrava accantonata. Averla riproposta, giudicano alcuni
analisti, può essere il risultato della maggiore autonomia di decisione
che, negli ultimi giorni, soprattutto su pressione americana, è stata
concessa al generale Clark e al vertice militare, nella scelta degli
obiettivi.

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 1
dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI

Morti e feriti, Dini protesta ma D' Alema lo smentisce

BOMBE SULLA TV DI BELGRADO SCONTRO NEL GOVERNO AL VERTICE NATO. GIÀ
FALLITA LA MEDIAZIONE RUSSA. SOLANA: "INTENSIFICHIAMO GLI ATTACCHI"

BELGRADO ALLE due e venti dell' altra notte la guerra virtuale messa in
scena dalla tv del regime ha incrociato la guerra reale. E il prim'
attore della rappresentazione serba, Slobodan Milosevic, è stato
oscurato dal protagonista dell' attacco occidentale, il missile. Prima
che il razzo lo dissolvesse all' improvviso in un effetto-pioggia,
Milosevic aveva consegnato ai telespettatori alcuni giudizi contenuti
in un' intervista trasmessa tre volte dall' inizio del pomeriggio, in
sintesi o per intero. Sono in corso due conflitti, aveva detto il
presidente jugoslavo: l' uno militare e l' altro mediatico. L' ALTRA
notte le due guerre si sono sovrapposte, come forse era nel destino di
un conflitto specialissimo in cui la Nato non combatte per espugnare un
territorio, ma un regime. Ora l' Alleanza atlantica tenta di vincere la
guerra mediatica con mezzi militari. Distrugge tv e ripetitori nella
prospettiva di invadere l'etere del nemico, come in altri tempi un
esercito avrebbe cannoneggiato una fortezza per avere accesso a un'
area strategica. Ma una fortezza e una televisione non sono la stessa
cosa. La trasposizione della guerra classica nella guerra mediatica ha
un prezzo. E solleva questioni che non andrebbero affrontate solo in un
consesso di generali o nei consigli di guerra di qualche cancelleria.
Prima che il missile trasformasse il palazzo bianco in tomba e rovina,
avevamo parlato con operatori e giornalisti. Nervosi, insicuri. La
settimana scorsa un ammiraglio britannico aveva annunciato che la loro
televisione, la Rts, da quel momento figurava nella lista dei "bersagli
autorizzati". Per questa ragione: aveva calunniato l' Alleanza
atlantica attribuendole la strage di una famiglia jugoslava, i genitori
e tre bambini, uccisi da un missile a Pristina. Così motivato, il
bombardamento promesso suonava come una vendetta privata dell'
aviazione occidentale. Poche ore dopo la Nato aveva onestamente ammesso
l' errore di Pristina, sulle prime negato. Ma il destino della Rts era
rimasto nel vago. Fin quando, negli ultimi giorni e con vari segnali,
il Pentagono aveva di fatto preannunciato l' attacco. Questo doveva
essere chiaro anche al regime. La direzione della Rts non ha voluto
sospendere le trasmissioni notturne e ha obbligato giornalisti e
tecnici al rispetto dei turni. Chi per patriottismo, chi perché
comandato, tutti hanno atteso un attacco altamente probabile. Tutti
tranne la direzione politica: come sempre il regime immola altri, i
sottoposti, nella sua guerra suicida. Ma è innocente, la Nato?
Francamente non si capisce perché un' aviazione quasi onnipotente non
si prenda qualche rischio e preavverta il nemico, quando è il caso.
Poiché non ci vuole molto per intuire che nella lista dei "bersagli
autorizzati" dopo la Rts venga il palazzo di Politika, tv e giornali, a
Bruxelles prendano nota: per non uccidere basta telefonare al numero
0038111-3221836 con qualche minuto d' anticipo. Altrimenti si potrebbe
sospettare che il Comando occidentale ritenga utile spandere un po' di
terrore tra i civili. Se questo calcolo facesse parte dell'alta
strategia, allora dovremmo chiederci se la "guerra giusta" sia tale
anche quando viola la congruenza etica tra mezzi e fini. La Nato ha
spiegato l'attacco alla Rts con una verità incontrovertibile: la tv
statale aiuta Milosevic a mantenere la presa sulla Serbia. Neppure i
giornalisti della Rts negano che la loro televisione sia un cardine del
regime, ovvero del dispotismo sempre meno soffuso e mimetico praticato
da Milosevic. Lo è per mandato istituzionale. E per selezione del
personale. Le redazioni sono state formate, e deformate, attraverso
purghe successive. A cavallo tra gli Ottanta e i Novanta vennero
espulsi gli jugoslavisti che rifiutavano la linea gran-serba del primo
Milosevic, e in seguito chiunque negasse la propria adesione al regime.
Così a Belgrado la Rts è anche nota come "la Bastiglia", la prigione
della verità, la fortezza di Slobodan I, il sovrano che apre
regolarmente ogni telegiornale. Per senso di colpa o per stalinismo
mentale, chi governa la Bastiglia detesta, ricambiato, la stampa
libera. Uno dei capi-redattori plaudiva alla "normalizzazione" di B92,
l' ultima radio indipendente: "Sono pagati dagli americani", mentiva.
Questi capetti si sono calati l' elmetto in testa e ogni sera
allestiscono la guerra virtuale richiesta dal regime: la Nato
"genocida" che vuole sterminare i serbi, il nuovo Terzo Reich, Adolfo
Clinton, le mirabolanti imprese della contraerea serba che falcidia l'
aviazione nemica. Mai un dubbio su ciò che avviene in Kosovo. Mai un
accenno alla volontà occidentale di risolvere la guerra estromettendo
Milosevic. Eppure non è un capataz della menzogna oculata il
quarantenne Slobodan Stetanic, guardia notturna del palazzo del gruppo
editoriale Politika, ora obbligato dal regime a rischiare la morte per
non perdere il lavoro. Non lo è, ma è costretto a pensare come lo
fosse: "Siamo così nudi di fronte alla Nato che in queste ore mi sono
chiesto se non mi convenisse spezzarmi un braccio per saltare il turno
di domani". Secondo il regime, la Nato vuole infiltrare con
trasmissioni occidentali gli spazi di etere conquistati al nemico.
Ammesso che tecnicamente sia possibile, la Nato potrebbe instaurare un
"pluralismo di guerra" con i suoi notiziari, e raggiungere la
popolazione con il messaggio finora bloccato dalle tv serbe: abbattete
Milosevic e la guerra finirà. Ma se questa fosse l'intenzione, gli
occidentali avrebbero tanto più il dovere di raccontare la verità, a se
stessi e ai serbi. La menzogna è la specialità della Rts, ma non abita
solo quel palazzo. La popolazione serba diffida delle tv occidentali
anche con qualche motivo: troppo spesso hanno sentito il portavoce del
Pentagono riciclare le panzane della guerriglia albanese, sempre con
quel tono glaciale e onirico in cui non si avverte l' ombra di una
passione civile. La rassegnazione che leggevamo l' altra notte sulle
facce della gente, intorno al palazzo che bruciava con fiamme violette,
diceva che ormai i più hanno capito l' inevitabilità della sconfitta.
Ma questa guerra mediatico-militare è anche la battaglia per l' anima
della Serbia. E gli occidentali non la vinceranno se accorceranno la
distanza etica che li divide dal nemico.

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 1
di FURIO COLOMBO

QUANDO I RAID COLPISCONO LA PROPAGANDA
LA POLEMICA

BOMBE e missili della Nato hanno centrato e distrutto la televisione di
Belgrado. L' opinione del mondo si divide fra coloro che provano orrore
e scandalo per la distruzione di uno strumento di informazione, e
coloro che dicono: non fa differenza, l' importante è piegare
Milosevic. Condivido il dolore per le vittime, ma non lo scandalo. Chi
ha seguito la "serata Santoro" con la partecipazione straordinaria di
agenti, viceministri, ministri e nessuna (nessuna) voce fuori dal giro
stretto e intimo del presidente serbo, comprese le testimonianze
"spontanee", sa che non stiamo parlando di informazione ma di una
macchina di propaganda. LA STESSA che ha provveduto a punire Lucia
Annunziata per essersi mossa con dignità, la stessa che provvede ogni
giorno a tenere sotto sorveglianza i giornalisti stranieri rimasti in
Jugoslavia. Però sono sorpreso. Dal punto di vista di chi conduce una
guerra che ha preso l' impegno di essere rapida, implacabile,
chirurgica, rigorosamente militare, l' obiettivo centrato è inutile. L'
allarme, perciò, a parte il costo delle vite umane, che è sempre un
orrore, è un segnale strano. La alleanza più potente del mondo doveva
occuparsi dei palinsesti e delle telecamere della famiglia Milosevic?
Non sto domandando se non c' era niente di meglio da colpire. Sarebbe
una domanda da dottor Stranamore, e chi mi legge sa che non posso
provare alcun entusiasmo per una guerra, anche se vedo ragioni (salvare
i kosovari dallo sterminio) che condivido. Mi sto però domandando se
puntare le risorse immense di un raid ad alta tecnologia, ad altissimo
costo, con grande rischio umano, sugli studi e gli impianti di una
televisione non tradisca disorientamento e incertezza sul che fare.
Intendo dire: un grande colpo di forza contro niente che conta per fare
la pace o finire la guerra, e neppure per mitigare o piegare o ridurre
il rischio. Per spiegarmi propongo un esempio rovesciato. Un Milosevic
adeguatamente potente distrugge i centri di trasmissione della
televisione americana. Bel colpo. Una democrazia dipende intensamente
dal dialogo con la propria informazione. I cittadini di una dittatura,
come ricordano coloro che hanno vissuto sotto il fascismo hanno con le
fonti di informazioni un rapporto completamente diverso. I credenti
cementano la loro fede ciecamente e nel vuoto. Gli oppositori non
contano mai e in niente sulla rete ufficiale delle notizie. Sanno che
sono false e inutili. Ci dicono che i serbi sono un blocco cementato
dalla comune credenza di nazione, di razza, di storia. è evidente che
non è vero. Esseri umani, anche all' interno di legami comuni, hanno
umori, giudizi e pensieri diversi. Negarlo è una affermazione razzista.
Resta però il fatto che una guerra alta, lontana, incomunicabile,
blocca le infinite diversità degli esseri umani in una rete che tiene
tutti schiacciati su ciò che accade lì, sul posto, ogni giorno, ogni
notte. In queste condizioni è frivolo abbattere la centrale televisiva,
perché persino gli adoratori di Milosevic devono avere sempre saputo
che le loro notizie erano solo una voce convenzionale e ufficiale.
Quanto a coloro che non hanno mai avuto fiducia nel loro dittatore,
erano senza parola prima e sono senza parola adesso. L' osservazione
che sto facendo ha poco valore per coloro che antagonizzano comunque la
guerra, o perché respingono qualunque guerra o perché questa guerra
sembra loro troppo "americana", dimenticando che è stata europea l'
iniziativa di invocare la presenza americana per bloccare la mattanza
dei cittadini inermi del Kosovo. Ma è più importante per coloro che si
sono domandati seriamente se un progetto militare di questo tipo
potesse davvero portare - in fretta e con poche vittime - a uno stato
di coesistenza meno sanguinoso, meno persecutorio, scardinando l'
ossessivo richiamo alla razza che ha già abbastanza offeso la coscienza
di questo continente in questo secolo. è in quest' ambito che si sente
allarme e disagio. Bombardare la televisione? Ma allora che ne è stato
delle colonne di carri armati, dei quartieri generali delle armate
serbe, dei gangli del controllo militare del paese, della nervatura di
resistenza fisica (fisica, non propagandistica) del regime? Se tutto è
già finito in cenere sotto le bombe e i missili, allora non è il caso
di occuparsi degli studi televisivi. Sarebbe come puntare ai quadri e
soprammobili di casa Milosevic, dopo avergli scoperchiato la villa. Se
invece qualcuno ha pensato che era necessario colpire la televisione,
in base a quale consuntivo di azioni militari già compiute è giunto a
diramare quell' ordine? è difficile allontanarsi dal pensiero che l'
azione militare, promessa come "perfetta" anche per superare le
obiezioni dei tanti politicamente convinti ma non persuasi dello
strumento guerra, non sia stata, fino a questo punto affatto perfetta.
Ma "questo punto" sono trenta giorni di azioni senza sosta su uno
spazio molto piccolo, con un potere di urto e di danno molto grande.
Ecco che cosa mi sento di dire a chi ha progettato l' azione
distruttiva contro gli impianti della televisione serba. Provoca un'
impressione di decisione estrema, e questo fatto contrasta
drasticamente con tutte le argomentazioni che sostengono la strategia
militare che i più potenti paesi del mondo stanno seguendo. Dunque lo
stato d' ansia, dopo questo evento, non riguarda tanto l' oltraggio
alla libertà di informazione, che in questo caso non c' era. Riguarda
il senso di probabile inutilità di una simile iniziativa in un paese in
cui niente è libero. Ma, proprio per questo, si era detto, quello che
conta è smantellare la forza militare che stringe tutto in una morsa.
Se simili azioni non essenziali e non efficaci diventano simbolo dell'
intervento, sarà difficile far salire il consenso, anche fra coloro che
non hanno mai dimenticato il punto chiave: la salvezza degli abitanti
del Kosovo dallo sterminio.

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 10

Ferrara: spiace per le vittime, ma faceva solo propaganda
"MA QUELL' ANTENNA ERA COME UN' ARMA"

INTERVISTA/2

MILANO (a.dip) - Giuliano Ferrara, l' attacco alla tv serba come svolta
di questa guerra? "No, come il proseguimento naturale di quanto fatto
finora". Come aver bombardato un carro armato? "Beh no, come aver
bombardato un ponte, un mezzo di comunicazione, comunque". Senza alcun
dubbio? "Ma non scherziamo. Una tv senza libertà di informazione e d'
espressione è uno strumento di guerra, né più né meno". E le proteste
dei giornalisti? "Pura ipocrisia. Io sento un peso orribile da questa
guerra, vorrei con tutto il cuore che finisse qui, l' evento della
scorsa notte, in sé, è terribile ed epocale, non ci piove: è la
distruzione della tv centrale di una grande capitale europea. Ma qui ci
fermiamo, il signor Milosevic è l' unico responsabile". E così? "E così
arriva questa devastante cultura della mediazione infinita, una
mediazione da magliari che non porta a nulla. E dall' altra parte c' è
Milosevic che procede e aspetta che altri gli tolgano le castagne dal
fuoco, che si facciano prendere dai dubbi, che si dividano. Con un solo
risultato". Quale? "Ma è ovvio, che tutto si incrudelisce, che gli
attacchi si fanno più pesanti, che gli obiettivi da colpire si fanno
sempre più ambiziosi. E di fronte a qualunque vero progetto di
negoziato, Milosevic si tira indietro e dice: fate voi, bombardate. La
Nato non ha nessuna, dico nessun' altra alternativa, e tutto diventa
terribilmente ovvio e conseguente". Si parla di un attacco inutile, che
non favorisce certo la maggiore libertà di informazione. "Spiacente, è
stato tutto fuorché un attacco inutile". Chi lo spiega ai giornalisti
serbi? "Insomma, il primo atto bellico di Milosevic è stato quello di
cacciare le tv straniere. Vuol dire che la questione dell' informazione
televisiva sulla guerra non era una questione, era la questione. L'
informazione serba è uno strumento di guerra, uno dei principali". Non
è troppo calato in una dimensione di conflitto a tutti i costi? "Io? Io
sono sempre stato e sono tuttora un leale sostenitore di chi vuole un
negoziato vero. Il negoziato è fallito, la colpa è di Milosevic.
Insisto, vedere la tv colpita fa impressione, è ovvio. Ma questi sono i
primi conflitti ad altissimo contenuto tecnologico a cui assistiamo,
dobbiamo abituarci a riconsiderarne i modi, e gli obiettivi". Ma questi
missili hanno fatto male a Milosevic? "Gli hanno fatto malissimo".

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la Repubblica - Sabato, 24 aprile 1999 - pagina 10
di ANTONIO DIPOLLINA

Insorgono i giornalisti per l' attacco alla tv serba

I MISSILI DELLA DISCORDIA PROTESTA LA FNSI, MESSAGGIO DI SOLIDARIETÀ DI
SANTORO. POCHE LE VOCI A FAVORE DELLE BOMBE

MILANO - I missili sulla tv serba uccidono, polverizzano e rilanciano
al massimo grado le polemiche all' esterno. Cade un simbolo, quello dei
canali informativi attaccati senza pietà e dubbio alcuno, e la guerra
che divide, divide ancora più di prima. Si indignano in molti, con
furore, altri dicono che questa è la guerra. Quei colleghi morti del
palazzo di via Aberdareva, in piena Belgrado, sono "vittime civili e
incolpevoli" per Michele Santoro che insieme a tutta Moby Dick invia
subito un messaggio di solidarietà ai giornalisti della tv belgradese,
un ennesimo passaggio della devastante storia giornalistica che lo ha
coinvolto insieme a molti altri nell' ultimo periodo. Si infuria Sandro
Curzi, direttore di Liberazione, che parla di "crimine di guerra
premeditato contro i civili", sottolineando la distruzione della
storica agenzia di notizie Tanjug ("Da sempre libera") e chiedendo una
condanna severa. Preoccupata e indignata è la Federazione nazionale
della stampa, il sindacato dei giornalisti: "La strage ha coinvolto
anche vittime innocenti, la Nato ha voluto distruggere e uccidere senza
creare minimamente le condizioni per informare correttamente la
popolazione serba". Un comunicato che si conclude con la richiesta di
cessare immediatamente qualunque altro attacco alle sedi e
installazioni degli organi di informazione. L' attacco Nato è
"sconvolgente" per il sottosegretario alle comunicazioni Vincenzo Vita,
che ricordando le "obiettive responsabilità del governo serbo"
ribadisce che "l' informazione è un bene primario e non può essere
messo in discussione". "Un' azione stolta", l' attacco Nato, per il
responsabile Ds per l' informazione Giuseppe Giulietti: "L' effetto
paradossale è quello di ricompattare tutti i serbi intorno al regime di
Milosevic". E il rischio per chi sta di qua, dice Giulietti, aumenta:
il rischio di invelenire tutto e tutti: "Si sta creando un clima in cui
qualsiasi posizione critica rischia di essere assimilata a un non
meglio identificato partito serbo, o a una sorta di pacifismo da utili
idioti". Si dividono, intanto, anche i direttori dei telegiornali.
Sarcastico Enrico Mentana del Tg5: "Brava Nato, bel colpo. Adesso,
mentre la tv serba continuerà a trasmettere, per i nostri inviati a
Belgrado sarà sempre più difficile darci le notizie. Tra noi
giornalisti ci si può dividere sulla guerra in corso, ma un' azione di
questo genere danneggia l' informazione tutta". Qual è il risultato
finale? "Che l' informazione sul conflitto - spiega Mentana - ormai la
possono fare solo la Nato e Milosevic. Chi è in mezzo, rimane muto e
indifeso. Bel risultato". Non capisce il senso di tutto questo, è
sconvolto dalla notizia Emilio Fede, "l' informazione non dev' essere
mai colpita, è sempre garanzia di libertà - si lancia spericolato il
direttore del Tg4 - Spero ancora che sia stato un errore, altrimenti è
stata una stupida iniziativa". Si stupisce dello stupore altrui Paolo
Liguori, direttore di Studio Aperto: "Erano più accettabili le bombe
sulle fabbriche che hanno ucciso gli operai? - si chiede -la vita dei
giornalisti vale forse il doppio di quella degli altri?". Liguori apre
il fronte di coloro che non vedono nulla di strano o inatteso nel
bombardamento alla Rts. E il punto ruota intorno a una questione. L'
Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai, sta da questa parte: "è
inaccettabile che si considerino i mezzi di informazione alla stregua
di basi militari, la libertà di informazione non si ripristina con le
bombe sulle sedi dell' informazione". E invece, secondo Vittorio
Feltri, direttore del Borghese, il punto è proprio lì: "La tv serba
produceva e produce cose utili militarmente: ho visto il vice di
Milosevic parlare alla sua tv e descrivere i profughi in fila come se
fossero gli iscritti a una marcia non competitiva. La tv serba è stata
usata come un mezzo di guerra e di propaganda bellica, come tale, è un
obiettivo militare. Indignarsi su questo bombardamento è fuori luogo:
il problema è non fare la guerra, non le vittime tra i giornalisti. Io
sono angosciato - prosegue Feltri - per tutti i morti di questa guerra,
sono morti operai, commercianti, geometri: ecco, se muore un geometra
mi spiace di più che se muore un giornalista, perché i geometri mi
stanno simpatici". Fermo restando che, secondo Feltri, il sindacato dei
giornalisti farebbe bene a occuparsi d' altro ("della libertà di stampa
in Italia, per esempio") e che questa, come conferma laconico Francesco
Storace, "purtroppo è la guerra". Ma "l' informazione è un valore da
non coinvolgere", dice il presidente della Rai Roberto Zaccaria. "La
guerra non crea mai zone franche - aggiunge però Roberto Morrione,
direttore di Rai News 24 - e oggi più che mai difficile valutare queste
zone franche. Dispiace che ci siano giornalisti vittime, ma nella
guerra ci sono morti innocenti da tutte le parti. Per Paolo Ruffini,
direttore del Giornale radio Rai, invece non sempre la stampa è libera,
ma non si recupera la libertà bombardando.

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la Repubblica - Domenica, 25 aprile 1999 - pagina 4
dal nostro inviato VANNA VANNUCCINI

Belgrado, il bilancio del raid Nato contro la Rts è di dieci morti.

Lo squillo di un cellulare aveva riacceso la speranza La
radiotelevisione di stato ha ripreso a mandare in onda regolarmente i
suoi programmi
TRA LE MACERIE DELLA TV SERBA ALLA RICERCA DEI SEPOLTI VIVI I BULLDOZER
NON HANNO ANCORA SOLLEVATO DUE PESANTISSIME LASTRE DI CEMENTO CHE
SCHIACCIANO IL SEMINTERRATO IL REPORTAGE

BELGRADO - Alle 17.10 suona l' allarme e i lavori si bloccano. Gli
operai fermano i bulldozer e si allontanano lanciando qualche battuta:
"L' assassino torna sempre sul luogo del delitto". La polizia invita la
folla, che è venuta a depositare fiori e candele, ad andare nei rifugi
antiaerei. E siccome i rifugi non ci sono, tutti finiscono per
ritrovarsi poco lontano sulla strada alle spalle della televisione
bombardata, ad aspettare il segnale del cessato allarme. Da due giorni
si scava tra le macerie dell' edificio a quattro piani che era il cuore
della radio televisione serba, centrata alle 2.06 di venerdì (gli
orologi sono rimasti fermi a quell' ora) da un missile della Nato. Ma
sinora non sono stati estratti altri corpi, né ritrovate persone vive.
Eppure si sa che nel seminterrato, dove c' era tra l' altro la mensa
aziendale dovrebbero esservi state, nel momento in cui è arrivato il
missile, una quindicina di persone. Ieri si era parlato di diciotto o
venti. Ma alcuni impiegati della televisione che erano stati messi
nell' elenco dei dispersi hanno fatto sapere di essere rimasti a casa
giovedì notte. La direzione della Rts aveva minacciato il licenziamento
a chi si fosse rifiutato di fare patriotticamente il turno di notte, il
più pericoloso, in un edificio il cui bombardamento si aspettava da
giorni. Ma alcuni erano riusciti a farsi cambiare turno e altri
semplicemente si erano dati malati. I lavori procedono con enormi
difficoltà. I bulldozer hanno rimosso macerie e lamiere accartocciate
ma non sono ancora riusciti a sollevare due lastre di cemento che
pesano tonnellate e schiacciano il seminterrato. "Lì sotto non c' è più
nessuno vivo", dice il capo della squadra dei soccorritori mentre
aspetta di riprendere il lavoro. "Quando l' edificio è crollato la
temperatura è salita a livelli insopportabili e si sono sprigionati gas
velenosi. Impossibile che qualcuno sia sopravvissuto". Ieri era stato
detto che i soccorritori avevano sentito gemiti e colpi provenienti
dall' interno, e in mattinata un segnale telefonico, forse di un
telefonino semiscarico, aveva acceso qualche speranza. La voce di una
telefonata giunta quasi dall' oltretomba si è diffusa nelle prime ore
di ieri: conferme non ce ne sono, ma un collega che stazionava dinanzi
alle macerie da un giorno e mezzo ha detto di sapere chi sono i sepolti
vivi. Si tratterebbe di Ksenia, una montatrice, e di un tecnico del
suono di cui non sa dire il nome. Il bilancio comunque resta quello di
venerdì. All' obitorio ci sono dieci corpi, di otto si sa nome e
cognome, due non sono stati ancora identificati. E all' ospedale sono
rimasti quattro feriti gravi dei diciotti che vi erano stati portati
all' alba di venerdì. "Quando troviamo un oggetto - dice ancora il
caposquadra - per esempio una giacca o un documento, verifichiamo prima
se non appartenga a morti o feriti già conosciuti e poi continuiamo a
scavare in quel punto per vedere se troviamo altri corpi. Ma sinora
senza risultati". Sono venute almeno quattromila persone a deporre in
silenzio fiori e ad accendere le candele. Si erano riuniti a
mezzogiorno in piazza della Repubblica, come accadeva due anni fa per
le manifestazioni di protesta contro il regime. Anche allora i
manifestanti sfilavano davanti alla sede della tivù che chiamavano "la
Bastiglia" e ogni sera le davano l' assalto con lanci di uova e sassi.
La tivù serba allora come oggi mandava in onda discorsi patriottici e
storie edificanti di eroi serbi. La presa della Bastiglia non riuscì
allora agli studenti né è riuscita oggi alla Nato. La radio-televisione
serba da ieri mattina manda di nuovo regolarmente in onda i suoi
programmi. "Forse se la tivù fosse stata colpita come primo obiettivo
il primo giorno dei bombardamenti la gente avrebbe capito il messaggio.
Ora è troppo tardi", dice uno dei capi degli studenti di allora. La
folla è silenziosa e sconcertata. Per cordoglio verso le vittime ieri è
stato cancellato anche il concerto di protesta che da quando sono
cominciati i bombardamenti è l' unico rumore che risuona, ogni giorno a
mezzogiorno, in una Belgrado priva di suoni, depressa, dove la gente
cammina senza parlare e senza ridere anche se con un passo deciso come
se dovesse andare verso una meta particolare. Ma si capisce subito che
quella meta non c' è. Davanti a un albergo del centro è fermo l'
autobus di un' agenzia privata che ha gli uffici nell' albergo. Domani
mattina alle 8.30, come ogni mattina, quell' autobus trasporterà fuori
città o fuori del paese le persone che lasciano la capitale. Sono donne
e bambini. Gli uomini, difensori della patria, sono obbligati a
restare. Ieri, Alaister Campbell, portavoce del primo ministro
britannico Tony Blair, ha riferito che diversi generali jugoslavi in
congedo sono stati posti agli arresti. Il loro numero, ha detto, è "a
due cifre" e fra essi figura anche l' ex capo di stato maggiore dell'
esercito, destituito poco prima dell' inizio dei bombardamenti aerei
della Nato. Una sorta di dissidenza militare al regime, e che Milosevic
ha immediatamente neutralizzato per evitare che potesse allargarsi. La
notizia è stata riportata al portavoce della Nato, Jamie Shea, che ha
detto di non disporre al momento di elementi di conferma. "In
Jugoslavia ci sono molti generali in congedo", ha dichiarato, perchè
così vuole il presidente Slobodan Milosevic. Questi non sembra avere
molta fiducia in loro. Mi chiedo se essi abbiamo molta fiducia in lui".




SEDÌCI PERSONE
Le parole negate del bombardamento della TV di Belgrado


di Corrado Veneziano
edito in DVD con il libro:
“Se dici guerra umanitaria", a cura di Corrado Veneziano e Domenico Gallo,
Besa ed., 2005

Info: Ufficio stampa: Daniela Binello - tel/fax 06 3208348           
email blusole.db @flashnet. it  
http://www.sedicipersone.it

Oppure: Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari
via Abbrescia 97, 70121 BARI.         most.za.beograd @libero. it




http://www.sedicipersone.it/Premessa.htm

LA PREMESSA

La notte del 23 aprile 1999, la Nato bombardò gli studi della televisione nazionale di Belgrado, uccidendo sedici persone. Interno al più generale progetto di azzeramento delle gerarchie - e del regime - serbo, l'attacco fu preceduto e seguìto da altre incursioni: una guerra che ha goduto della attiva collaborazione militare italiana, e dell'utilizzo delle basi logistiche statunitensi presenti nel nostro territorio.
Se durante lo svolgimento del conflitto (per esempio col bombardamento di colonne di profughi o dell'ambasciata cinese), la Nato parlò di "effetti collaterali", accennando a scuse più o meno formali o a errori di valutazione, in questo caso la troupe televisiva fu interpretata come "figura militare da contrastare nell'atto della sua funzione di guerra".
Ciò che accadde in quella circostanza vale la pena di essere ripreso e problematizzato. E' la prima volta che la stampa viene del tutto proposta come braccio armato di un regime, ed è il primo caso in cui la morte di una omogenea unità professionale (per l'appunto una troupe televisiva) non abbia sollevato le proteste in altri Stati di analoghe o contigue associazioni di categoria.
A nulla sono servite le cause intentate dai parenti delle vittime, né il richiamo a precise disposizioni del diritto internazionale, che parlano di liceità di un attacco militare solo nei confronti di obiettivi e di forze militari o di persone al seguito delle forze armate (è il caso dei piloti).
La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo alla quale inizialmente è stata denunciata l'azione, ha risposto che essa non può accettare un ricorso vòlto a far valere la responsabilità degli Stati membri per un fatto extraterritoriale La Corte di Cassazione italiana, coinvolta anch'essa nel giudizio, ha sentenziato che "la scelta di una modalità di conduzione delle ostilità rientra tra gli atti del Governo" aggiungendo che tali costituiscono espressione di una funzione politica che "per sua natura è tale da non potersi configurare, in rapporto a essa, una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui si manifesta assumano o non assumano un determinato contenuto".
Quindi la Corte ha dichiarato che i Trattati internazionali sui Diritti dell'Uomo non attribuiscono diritti a nessuno, poiché le leggi che vi hanno dato applicazione nel nostro ordinamento "non contengono norme espresse che consentono alle persone offese di chiedere allo Stato riparazione dei danni loro dovuti dalla violazione delle norme internazionali". La Cassazione, da un lato dichiara astratte e non determinanti le leggi internazionali, dall'altro rivendica il principio della legittimità assoluta delle azioni belliche decise dal Governo italiano.
La stampa è qui probabilmente intesa e proposta come accompagnamento ideale di una forza militare, e come tale repressa e combattuta.
Il gioco degli automatismi - così innescato - potrebbe portare a derive ancor più tragiche e deliranti. Gli slittamenti progressivi del terrore permetterebbero la sovrapposizione di giornalisti televisivi (e giornalisti radio, operatori e cameramen, truccatori, etc.) con quella di insegnanti e docenti universitari, educatori e commentatori, e poi artisti, pubblicitari, traduttori, doppiatori, financo antennisti. L'intero universo della comunicazione potrebbe essere, in questa prospettiva, annullato e falcidiato, giacché succube di un potere che - pur se eletto democraticamente - viene valutato come dittatoriale e totalitario.
Il lavoro che qui si propone vuole aprire una discussione partendo da questo circoscritto avvenimento: valutando differenze e analogie interne al lavoro della comunicazione e della stampa, problematizzando il concetto di libertà di pensiero e di divulgazione, denunciando ogni coinvolgimento dello Stato italiano in avventure belliche di ogni segno e colore.
C'è un pensiero diffuso, in psicoanalisi, che vede, nelle operazioni di chi commette atti di repressione, una irrisolta proiezione personale: colui che censura un atto d'amore, secondo questa logica, ha forse contraddizioni in ambito sessuale; se rimprovera troppo spesso i bambini, ha probabilmente vissuto in modo infelice la sua infanzia. E se uno Stato uccide una troupe giornalistica, forse i suoi rappresentanti sono inconsciamente convinti che essa possa – debba - essere assoldata e servire con coerenza le istanze che il potere di quello Stato comunque le richiede.
C'è un luogo comune, in linguistica, che interpreta l'afasia come uno dei segnali di anticipazione dell'atrofia, e poi della paralisi, relazionale e argomentativa. Non vorremmo che la totale assenza di analisi e discussione - nel corso di questi quattro anni - su quel tragico avvenimento fosse una spia pericolosa di una profonda regressione, ideale e politica, nella quale siamo avvolti.

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BELGRADO, 23 APRILE 1999
di Riccardo Noury

Alle due e sei minuti del 23 aprile 1999 il palazzo della tv nazionale di Belgrado Rts, la Radio Televizija Srbije, viene colpito dai missili Cruise della Nato: 16 persone che stavano lavorando all’interno dello stabile vengono uccise. Si tratta di una giornalista, tecnici dell’audio e cameramen. Un errore fatale? No. Si sapeva, infatti, che l’edificio situato sulla via Aberdareva era stato incluso fra gli obiettivi di quelle operazioni di guerra in quanto la tv nazionale era considerata il megafono della propaganda di Slobodan Milosevic e, come conseguenza, i giornalisti e i dipendenti erano ritenuti "voci e braccia armate" radiotelevisivi di quel governo.
Il documentario di Corrado Veneziano pone al centro della riflessione, in occasione del quarto anniversario dell’accaduto, una domanda centrale: i chiarimenti dati allora, come oggi, da alcune istituzioni e organismi internazionali esauriscono per sempre l’argomento? Oggi, il palazzo della tv nazionale serba è stato ricostruito attorno a quello sventrato, le cui macerie sono ancora chiaramente visibili a testimoniare la tragedia. Una lapide, in lingua serba, ricorda i sedici nomi di quelle "Sedìcipersone".
Il filmato mostra sedici inviati, conduttori e operatori della Rai mentre commentano quell’atto di guerra, e contiene interviste ad altrettanti giornalisti serbi e ad alcuni parenti delle vittime. Le immagini girate fra le macerie della tv serba, pochi minuti dopo l’attacco, completano la visione. Sono le immagini di un massacro, mentre la voce di Paola Ricci ci ricorda i princìpi della libertà di stampa e dei diritti umani, tratti dalle convenzioni internazionali.

Sedìcipersone
Le parole negate del bombardamento della Tv di Belgrado
un documentario ideato e diretto da Corrado Veneziano
con la consulenza giuridica di Domenico Gallo
Per informazioni: www.sedicipersone.it

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http://www.amnesty.it/notiziario/03_04/parole2.php3
Amnesty International: NOTIZIARIO MENSILE, Aprile 2003

23 Apr 03
   
cronaca di un massacro annunciato
   
Bisogna restare svegli la notte. È passato, all'alba (trascurato e pigiato in una porzione dello schermo di rai sat) il documentario di Veneziano, sedìcipersone: ricostruzione del bombardamento nato ai danni della rts. ne ho già scritto con dovizia di particolari: “il 23 aprile del ’99, al suo trentesimo giorno di guerra contro la federazione jugoslava, l’alleanza atlantica bombarda la sede della televisione di stato rts: il palazzo di ulica abardareva –come dire viale mazzini- è colpito dal primo cruise alle due del mattino, mentre programmisti, tecnici ed impiegati sono al lavoro. moriranno in sedici. è la cronaca di un massacro annunciato, che lascia in eredità un precedente spaventoso. già un’ansa dell’otto di aprile ‘99 riportava da Bruxelles il sinistro annuncio rivolto a Milosevic dai vertici nato: se non verrà interrotta la propaganda antiamericana in onda sulla rts, le installazioni della televisione jugoslava verranno considerate legittimo obiettivo militare. dalla censura al diritto di strage il passo è più breve di quel che si creda*.
Il documentario di Veneziano è semplice, privo di orpelli: si apre con un battito cardiaco e come un battito cardiaco è essenziale. le immagini sono quelle, per chi avesse fegato possono essere più esplicite le fotografie delle autopsie delle vittime, che si trovano (solo per individui dallo stomaco forte) qui e qui. le parole scelte da Veneziano sono indispensabili e niente affatto sottointese, quanto le immagini:
“ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
(dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, articolo 19).
“la popolazione civile e le persone civili godranno di una protezione generale contro i pericoli derivanti da operazioni militari. allo scopo di rendere effettiva tale protezione, saranno osservate, in ogni circostanza, le seguenti regole, le quali si aggiungono alle altre regole del diritto internazionale applicabile. sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi. sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile. le persone civili godranno della protezione concessa dalla presente sezione, salvo che esse partecipino direttamente alle ostilità e per la durata di detta partecipazione. sono vietati gli attacchi indiscriminati. con l'espressione attacchi indiscriminati si intendono: a) quelli che non sono diretti contro un obiettivo militare determinato; b) quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento che non possono essere diretti contro un obiettivo militare determinato; o c) quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento i cui effetti non possono essere limitati, come prescrive il presente protocollo, e che sono, di conseguenza, in ciascuno di tali casi, atti a colpire indistintamente obiettivi militari e persone civili o beni di carattere civile. saranno considerati indiscriminati, fra gli altri, i seguenti tipi di attacchi: a) gli attacchi mediante bombardamento, quali che siano i metodi e i mezzi impiegati, che trattino come obiettivo militare unico un certo numero di obiettivi militari chiaramente distanziati e distinti, situati in una città, un paese, un villaggio o in qualsiasi altra zona che contenga una concentrazione analoga di persone civili o di beni di carattere civile; b) gli attacchi dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti fra la popolazione civile, danni ai beni di carattere civile, o una combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto. sono vietati gli attacchi diretti a titolo di rappresaglia contro la popolazione civile o le persone civili. la popolazione civile comprende tutte le persone civili”.
(convenzione di Ginevra, primo protocollo aggiuntivo).
Veneziano dà voce ai giornalisti, quelli italiani –a cominciare da Remondino, osservatore coraggioso dei 78 giorni di aggressione alla serbia nel ’99- e quelli serbi; le parole si sovrappongono fra il desiderio di testimonianza e la richiesta di giustizia, fra l’angoscia di chi ha perduto amici e colleghi allo smarrimento di chi comprende che le ‘nuove guerre’ non contemplano più l’inviolabilità dei civili. parole chiare, essenziali, dure. anche quelle del briefing nato che, motivando il bombardamento della rts del 23 aprile ’99, spiegò: “in nessuno dei casi è stata riscontrata l’intenzionalità di produrre vittime, al di là della logica militare”.
più chiaro di così, credetemi, si muore. e a morire furono in sedici.
"hanno mantenuto la promessa più idiota: hanno centrato il palazzo della tv di Belgrado. una sorta di contro-informazione militare: invece che lanciare volantini, hanno lanciato un missile. una strage via etere, nel nome del primato della propaganda di chi ha più armi e più armate. la propaganda del nemico è un'offesa alla civiltà liberale, la propaganda occidentale che è la verità che cammina. la censura e l'autocensura che alitano sulla rai sono un tocco di "professionalità": la censura imposta da Milosevic alle sue emittenti è un crimine contro l'umanità. siamo all'apoteosi della "mitologia del nemico": che ha solo torti e delitti, che va sfiancato e pure ammutolito, sconfitto militarmente e spogliato delle proprie (giuste o sbagliate) ragioni. noi siamo Abele e lui Caino, punto e basta: ma era poi Abele quello che uccideva? anche la bibbia sarà riscritta alla luce della sapienza dei generali". (nichi vendola, liberazione, il giorno dopo la strage)

*quando il nemico è il media, babsi jones per clorofilla, registrazione free alla sezione ‘speciali’





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