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James Petras

Separatismo e costruzione dell'Impero nel XXI Secolo
Separatism and Empire Building in the 21st Century

May 2008
source: http://groups.yahoo.com/group/shamireaders/messages
http://www.resistenze.org/sito/te/pe/im/peim8g15-003466.htm



www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 15-07-08 - n. 236

traduzione per www.resistenze.org di BF
 
Separatismo e costruzione dell’impero nel secolo XXI
 
di James Petras
 
24/06/2008
 
Introduzione. Il contesto storico
 
Nella storia moderna, il ‘divide et impera’ è stato l’ingrediente essenziale che ha permesso che i paesi europei, relativamente piccoli e poveri di risorse, conquistassero nazioni molto più grandi e popolose, e più ricche di risorse naturali. Si dice che per ogni ufficiale britannico in India, ci fossero cinquanta sikh, gurka, musulmani e indù. La conquista europea dell'Africa e dell’Asia fu comandata da ufficiali bianchi, combattuta da soldati neri, ambrati e gialli, affinché il capitale bianco potesse sfruttare i suoi lavoratori e quelli di colore. Le differenze regionali, etniche, religiose, settarie, tribali, comunitarie ed altre, furono politicizzate e sfruttate in modo da permettere agli eserciti imperiali la conquista dei popoli guerrieri. Negli ultimi decenni, i grandi promotori della strategia del ‘divide et impera’ nel mondo sono diventati i costruttori dell'impero statunitense. Negli anni ‘70, la Cia smise di promuovere le dubbie virtù del capitalismo e della democrazia e, finanziandole e dirigendole, passò a legarsi con le élite religiose, etniche e regionali che si opponevano ai regimi nazionali indipendenti od ostili all’edificazione dell’impero statunitense nel mondo.
 
La chiave della costruzione imperiale per via militare degli Stati Uniti segue due principi: l'invasione militare diretta e la fomentazione di movimenti separatisti che possano portare allo scontro militare.
 
La costruzione imperiale nel XXI secolo ci mostra la pratica estesa di entrambi i principi in Iraq, Afghanistan, Iran, Libano, Cina (Tíbet), Bolivia, Ecuador, Venezuela, Somalia, Sudan, Birmania e Palestina. Cioè, in ogni paese nel quale gli Stati Uniti non riescono ad instaurare un governo clientelare stabile ricorrono a finanziare e promuovere organizzazioni e leader separatisti che utilizzano pretesti etnici, religiosi e regionali per rovesciare il governo costituito
 
Coerentemente ai principi tradizionali della costruzione imperiale, Washington appoggia solamente i separatisti nei paesi che si rifiutano di sottomettersi al suo dominio imperiale, mentre si oppone ai separatisti che offrono resistenza all'impero ed i suoi alleati. Quindi, gli ideologi imperialisti non sono ipocriti né utilizzano un doppio standard (come sono accusati di fare dai loro critici di sinistra) ma mantengono pubblicamente il principio di preferenza imperiale come criterio di valutazione per i movimenti separatisti, nel concedere o negare il loro appoggio. Invece, molti presunti critici progressisti dell'impero fanno dichiarazioni universali a favore del diritto di autodeterminazione e lo applicano perfino ai gruppi separatisti più irranciditi e reazionari sostenuti dall'impero, con risultati catastrofici. Le nazioni indipendenti e i popoli che si oppongono ai gruppi separatisti appoggiati dagli Usa, vengono bombardati fino alla distruzione e sono additati come criminali di guerra. Le persone che vivono nel ‘nuovo stato’ e si oppongono ai separatisti vengono uccise o costrette all'esilio. I ‘paesi liberati’ subiscono la tirannia e l'impoverimento indotto dai separatisti appoggiati dagli Stati Uniti, e molti per la loro sopravvivenza economica si vedono costretti ad emigrare in altri paesi.
 
Nessuno, o quasi, dei critici progressisti dell'URSS che appoggiavano l’indipendenza delle sue repubbliche, ha finora espresso pubblicamente qualche ripensamento e tantomeno ha fatto delle riflessioni autocritiche, anche di fronte a decenni di catastrofi socioeconomiche e politiche negli stati secessionisti. Tuttavia, oggi questi stessi progressisti continuano a predicare grandi principi morali a quelli che contestano e respingono alcuni movimenti separatisti perché sono originati e crescono nell’intento di estendere l'impero statunitense.
 
In queste ultime decadi, il successo di Washington nella cooptazione dei così detti ‘progressisti liberali’ in appoggio ai movimenti separatisti, pronti a diventare clienti dell’imperialismo, è stato notevole e le conseguenze per i diritti umani nefaste.
 
I principali gruppi sostenuti dai progressisti europei e statunitensi sono i seguenti:
 
1. I fondamentalisti bosniaci, appoggiati dagli Usa, neofascisti croati e terroristi albano-kosovari, col risultato delle pulizie etniche e della conversione dei loro stati, prima sovrani, in basi militari Usa, in regimi clientelari e in disastri economici, distruggendo totalmente il welfare multinazionale iugoslavo.
 
2. I fondamentalisti islamici afgani, appoggiati dagli Usa, che hanno distrutto il regime politico afgano, laico e riformista, promotore dell'uguaglianza della donna e di importanti campagne anti-feudali che coinvolgevano sia uomini sia donne, di una riforma agraria generale e di ampi programmi sanitari ed educativi. Come risultato dei successi militari Usa/tribal-islamici, milioni di persone risultano morte, sfollate ed espropriate, mente i signori della guerra tribali, medievali, fanatici anticomunisti, hanno distrutto l'unità del paese.
 
3. L'invasione dell'Iraq da parte degli Usa, che ha distrutto uno stato nazionale moderno e il sistema socioeconomico laico ed avanzato di quel paese. Durante l'occupazione, l'appoggio degli Usa a movimenti religiosi e tribali, clan e movimenti etnici separatisti ha condotto all'espulsione di più del 90% della sua moderna classe scientifica e professionale ed al massacro di più di un milione di iracheni… tutto in nome della sostituzione di un regime repressivo e, soprattutto, della distruzione di un stato che si opponeva all'oppressione israeliana della Palestina.
 
È evidente che l'intervento militare statunitense promuove il separatismo come mezzo per instaurare una base di appoggio regionale. Il separatismo facilita la creazione di governi fantoccio minoritari e ha funzione di contrasto verso i paesi vicini che si oppongono alle spoliazioni dell'impero. Nel caso dell'Iraq, il separatismo curdo appoggiato dagli Usa ha preceduto la campagna di isolamento di un avversario, la creazione di coalizioni internazionali per premere e debilitare il governo centrale. Washington evidenzia come ‘atrocità dei regimi’ i casi di diritti umani, per alimentare campagne di propaganda globali. Più recentemente, ciò è diventato evidente nelle proteste teocratiche tibetane finanziate dagli Stati Uniti contro la Cina.
 
I separatisti sono sostenuti come truppe da usare per potenziali colpi terroristici, per attaccare settori economici strategici e provvedere informazioni, reali o fabbricate, come nel caso dei curdi e di altri gruppi di minoranza etnica rispetto all'Iran.
 
Perché il separatismo?
 
Gli imperialisti non ricorrono necessariamente ai gruppi separatisti, specialmente quando hanno clienti a livello nazionale che controllano lo stato. È solo quando il loro potere è limitato a gruppi, territorialmente o etnicamente concentrati, che i loro servizi segreti ricorrono a promuovere i movimenti ‘separatisti’. Gli Stati Uniti appoggiano il movimento separatista in un processo graduale, cominciando dal fare appello all'esigenza di una maggiore autonomia e decentramento, mosse tattiche essenziali per acquisire una base di potere politico locale, accumulare risorse economiche, contrastare gruppi anti-separatisti e minoranze etniche o religiose e politiche locali legate al Governo centrale (come la repressione delle comunità cristiane nell’Iraq settentrionale, represse dai separatisti curdi per i loro annosi legami con il Partito Centrale Baath, o i rom del Kosovo, espulsi e uccisi dagli albano-kosovari a causa del loro appoggio al sistema federale iugoslavo)
 
 Il tentativo di usurpare forzosamente le risorse nazionali e l’estromissione degli alleati locali del governo centrale dà luogo a scontri e conflitti con il potere legittimo del governo centrale. È a questo punto che l'appoggio esterno (imperialista) diventa cruciale per mobilitare i mass media a denunciare la repressione di ‘pacifici movimenti nazionali’, ‘che esercitano semplicemente il diritto all'autodeterminazione’. Una volta che la macchina imperiale propagandistica dei mezzi di comunicazione di massa tocca la nobile retorica dell'autodeterminazione e dell'autonomia, la decentralizzazione e l'autogoverno, la grande maggioranza delle Ong finanziate da Usa ed Europa si uniscono in coro ad attaccare gli sforzi del Governo per mantenere stabile un stato-nazione unificato.
 
In nome della ‘diversità’ e di uno ‘stato multietnico’, le Ong di obbedienza occidentale provvedono un supporto ideologico ai separatisti filo-imperialisti. Quando i separatisti hanno successo, arrivando ad assassinare e realizzare pulizie delle minoranze etniche e religiose legate al governo centrale precedente, le Ong stanno stranamente zitte o sono perfino complici nel giustificare i massacri come ‘reazioni eccessive alla precedente repressione’. La macchina propagandistica occidentale arriva a celebrare l'espulsione da parte dello stato separatista di centinaia di migliaia di persone, come avvenne nel caso dei serbi rom del Kosovo e della regione croata della Krajina con titoli come: "I serbi in fuga: se lo meritano", accompagnati da foto di truppe della Nato che sorvegliano il trasloco di famiglie indigenti dai loro paesi e città atavici verso squallidi campi nella Serbia bombardata. I politici occidentali trionfanti hanno biascicato devozioni sui massacri di civili serbi da parte del Kla; per esempio l'ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, (Verdi) disse: "Comprendo il vostro dolore (a quelli del Kla), ma non dovreste lanciare granate a bambini (serbi) in età scolare"
 
Il passaggio da ‘autonomia’ all’interno di uno stato federale ad uno ‘stato indipendente’, si basa sull'aiuto fornito ed amministrato dallo stato imperialista alla regione autonoma, che consolida con ciò la sua esistenza ‘de facto’ come stato indipendente. Questo è successo chiaramente nel Kurdistan, passato dal 1991 ad oggi, da no-fly-zone dell'Iraq settentrionale a regione autonoma.
 
Il medesimo principio di autodeterminazione rivendicato dagli Usa e dai loro clienti separatisti è negato ad altre minoranze dello stesso territorio- mentre la propaganda mediatica statunitense fa riferimento ad essi come ‘agenti’o cavalli di Troia del Governo centrale.
 
Rafforzato dall'aiuto esterno imperiale, e dalle relazioni imprenditoriali con le imprese transnazionali Usa e Ue, appoggiato da forze di polizia locali paramilitari e quasi-militari (come pure da bande organizzate criminali), il regime autonomo dichiara la sua indipendenza, ed è riconosciuto poco dopo dai suoi padroni imperiali. Dopo l'indipendenza, il regime separatista offre concessioni territoriali ed installazioni per la costruzione di basi militari agli Usa. Il modello imperiale gode di privilegi di investimento, compromettendo seriamente la sovranità nazionale.
 
L'esercito di Ong locali ed internazionali raramente formula qualche obiezione a questo processo di incorporazione dell'entità separatista nell'Impero, neanche quando è lo stesso popolo liberato ad opporsi. Nella maggioranza dei casi il grado di ‘governance locale’ e di libertà di azione del regime ‘indipendente’ è minore di quanto lo fosse quando era una regione autonoma o federale nel precedente stato unitario nazionale. Spesso i regimi separatisti fanno parte di movimenti irredentisti legati a controparti in altri stati. Quando movimenti irredentistici trasversali transnazionali sfidano gli stati vicini che sono anch’essi obiettivo dei costruttori dell’impero statunitensi, servono come piattaforme per gli attacchi militari di bassa intensità statunitensi e per le attività terroristiche delle Forze Speciali.
 
Per esempio, quasi tutte le organizzazioni separatiste curde hanno elaborato una mappa di ‘Grande Kurdistan’ che copre un terzo della zona sud-orientale della Turchia, l’Iraq settentrionale, un quarto dell'Iran, parti della Siria e di ogni altro posto dove si possa trovare un'enclave curda. I reparti speciali statunitensi operano al fianco dei separatisti curdi terrorizzando le popolazioni iraniane in nome dell'autodeterminazione, e gruppi di curdi, con forte appoggio militare statunitense, hanno occupato e governano l'Iraq settentrionale e forniscono truppe mercenarie peshmerga per massacrare la popolazione arabo-irachena nelle città e nei paesi delle regioni centrali, occidentali e meridionali che si oppongono all'occupazione americana. Questi gruppi hanno iniziato la rimozione forzata dei popoli non curdi (arabi, cristiano-caldei, turcomanni, etc.) dal così detto Kurdistan iracheno confiscando loro case, poderi ed esercizi commerciali. I separatisti curdi appoggiati dagli Usa hanno creato conflitti col vicino Governo turco, e Washington, mentre cerca di tenersi i suoi clienti curdi per utilizzarli in Iraq, Iran e Siria evita di inimicarsi questo suo alleato strategico della Nato: la Turchia. Tuttavia gli attivisti separatisti turco-curdi del PKK hanno lodato gli Usa per quello che qualificano ‘colonialismo progressista’, per lo smantellamento effettivo dell'Iraq e per la formazione delle fondamenta di un stato curdo.
 
La decisione degli Usa di collaborare con l'esercito turco, o per lo meno di tollerare i suoi attacchi militari contro certe zone occupate dai separatisti curdi del PKK con sede in Iraq, fa parte della loro politica globale di dare priorità alle alleanze imperiali strategiche ed ai loro alleati contro qualunque movimento separatista che li minacci. Pertanto, mentre gli Usa appoggiano i separatisti kosovari contro la Serbia, si oppongono ai separatisti dell’Abkhazia che lottano contro il loro governo clientelare della Repubblica della Georgia. Gli Usa, mentre appoggiano i separatisti ceceni contro il governo di Mosca, si oppongono ai separatisti baschi e catalani nella loro lotta contro la Spagna, alleata di Washington nella Nato. Mentre Washington ha finanziato con larghezza i separatisti boliviani guidati dagli oligarchi di Santa Cruz contro il governo centrale di La Paz, appoggia la politica del governo cileno di repressione delle richieste degli indigeni Mapuche di diritto alla terra e alle risorse nel centro-sud del Cile.
 
È evidente che l’autodeterminazione e l’indipendenza non sono principi universali che definiscono la politica estera statunitense, né lo sono mai stati, come testimoniano le guerre degli Stati Uniti contro le nazioni indiane, i negrieri secessionisti meridionali e le invasioni ricorrenti di stati indipendenti latinoamericani, asiatici ed africani. Ciò che conta nella politica degli Usa è se un movimento separatista, i suoi leader e i suoi programmi siano funzionali o no alla costruzione dell'impero. Tuttavia la domanda inversa è sollevata di rado dai così detti progressisti di sinistra o antimperialisti: il movimento separatista o indipendentista debilita l'impero e consolida le forze antimperialiste o no? Se accettiamo che la questione determinante sia la sconfitta della macchina per ammazzare milioni di persone chiamata imperialismo statunitense, allora è legittimo valutare ed appoggiare determinati movimenti indipendentisti, come respingerne altri. Non c'è niente di più ipocrita o meno conveniente di sollevare alti principi nel prendere queste decisioni politiche. È noto che Hitler giustificò l'invasione della Cecoslovacchia in difesa dei separatisti dei Sudeti, e che una serie di presidenti statunitensi hanno motivato la spartizione dell'Iraq in nome della difesa dei curdi, o sunniti, o sciiti, o di chiunque siano i leader tribali che si prestano alla costruzione dell’impero degli Usa. Ciò che definisce la politica antimperialista non sono i principi astratti di autodeterminazione, bensì la definizione esatta dei riferimenti specifici.
 
Ad esempio, oggi in Bolivia, in nome dell'autodeterminazione e dell'autonomia, un'oligarchia di destra razzista, padrona del settore dell'esportazione agricola, si sta impadronendo del controllo della regione più fertile e ricca in risorse energetiche, che comprende il 75% delle risorse naturali del paese, espellendo e brutalizzando gli indigeni impoveriti nel processo. Bisogna domandarsi su quale base il movimento di sinistra o antimperialista possa opporsi a ciò, se non perché il contenuto di classe, di razza e di nazione di queste rivendicazioni è antitetico ad un principio più importante: la sovranità popolare basata sui principi democratici di potere della maggioranza e di eguale accesso alla ricchezza pubblica.
 
Separatismo in America Latina: Bolivia, Venezuela ed Ecuador
 
In questi ultimi anni, in America Latina i candidati sostenuti dagli Usa hanno vinto e perso le elezioni nazionali. È chiaro che gli Stai Uniti hanno mantenuto l'egemonia sulle élite al governo in Messico, Colombia, America Centrale, Perù, Cile, Uruguay ed in alcuni stati insulari dei Caraibi. Negli stati dove l'elettorato ha sostenuto gli oppositori della dominazione statunitense, come Venezuela, Ecuador, Bolivia e Nicaragua, l'influenza di Washington si appoggia su funzionari eletti a livello regionale, provinciale e locale. È prematuro affermare, come dichiara il Council for Foreign Relations, che l'egemonia statunitense in America Latina sia cosa del passato. Basta leggere i documenti economici e politici che registrano i crescenti vincoli economici e militari tra Washington ed il regime di Calderon in Messico, i regimi di García in Perù, Bachelet in Cile ed Uribe in Colombia per registrare il fatto che l'egemonia statunitense prevale ancora in importanti regioni dell'America Latina.
 
Se guardiamo oltre il livello governativo nazionale, perfino in stati non egemonizzati dagli Usa, l'influenza statunitense è tuttavia un fattore potente nel condizionare il comportamento politico della facoltosa ala destra del business, delle élite politiche finanziarie e regionali in Venezuela, Ecuador, Bolivia ed Argentina. Dalla fine di maggio del 2008, i movimenti regionalistici sostenuti dagli Usa sono stati all'offensiva, instaurando ‘de facto’ un regime secessionista a Santa Cruz, in Bolivia. In Argentina, le élite dell'agro-business hanno organizzato una serrata della produzione e della distribuzione su scala nazionale, appoggiate dalle grandi confederazioni industriali, finanziarie e commerciali, contro un'imposta sull'esportazione promossa dal governo di centro-sinistra di Cristina Kirchner. In Colombia, gli Usa stanno negoziando con il presidente paramilitare Álvaro Uribe la collocazione di una base militare alla frontiera con lo stato venezuelano ricco di petrolio di Zulia, che sembra avere l'unico governatore in carica opposto a Chávez, uno strenuo difensore dell'autonomia o della secessione. In Ecuador, il sindaco di Guayaquil, appoggiato dai media di destra e dagli screditati partiti politici tradizionali, ha proposto ‘l'autonomia’ dal Governo centrale del presidente Rafael Correa.
 
Il processo di smembramento nazionale guidato dall'impero è molto diseguale, a causa del diverso grado dei rapporti di forza politici tra il Governo centrale ed i secessionisti regionali. I secessionisti boliviani di destra sono quelli più avanzati, essendo arrivati ad organizzare e vincere un referendum, dichiarandosi un'unità governativa indipendente con il potere di riscuotere tasse, formulare la politica economica estera e creare una propria forza di polizia.
 
Il successo secessionista di Santa Cruz è dovuto all'incapacità politica e alla totale incompetenza del regime di Evo Morales e del suo vicepresidente Álvaro García Linera che, promuovendo l'autonomia per le molte ‘nazioni’ indio impoverite (indianismo), hanno finito con il favorire che gli oligarchi razzisti bianchi cogliessero l'opportunità di stabilire la loro propria base di potere separatista. Man mano che i separatisti ottenevano il controllo della popolazione locale, procedevano ad intimorire gli indios e i sindacalisti favorevoli al governo di Evo Morales, a sabotare violentemente l'Assemblea Costituzionale e respingere la Costituzione, strappando continuamente concessioni al debole e conciliatorio governo centrale di Morales. I separatisti, mentre liquidavano la Costituzione e ponevano il loro controllo sui principali mezzi di produzione e sull’esportazione, si presero altre 5 province, formando un arco geografico di sei province, più l'influenza su altre due, nel tentativo di degradare il Governo nazionale. Il regime ‘indianista’ di Morales-García Linera, composto in gran parte di ex impiegati meticci di Ong finanziati dall'estero, non ha mai usato il suo potere costituzionale formale né il monopolio legittimo della forza per fare eseguire l'ordine costituzionale e per dichiarare fuori legge e perseguitare le violazioni dell'integrità nazionale da parte dei secessionisti ed il loro rifiuto dell'ordine democratico.
 
Morales non ha mai mobilitato il paese, la maggioranza delle organizzazioni popolari della società civile, e non è nemmeno ricorso all'esercito per sconfiggere i secessionisti. Ha invece continuato a fare impotenti appelli al dialogo, e compromessi nei quali le sue concessioni all'autogoverno dell'oligarchia ha solamente confermato la loro guida del potere regionale. Come caso esemplare di mancanza di governance di fronte ad una minaccia reazionaria separatista alla nazione, il governo di Morales-García Linera rappresenta un deplorevole fallimento nel difendere la sovranità popolare e l'integrità della nazione.
 
Le lezioni boliviane di mancanza di governance devono servire da severo monito a Chávez in Venezuela e a Correa in Ecuador: a meno che non agiscano con tutta la forza della costituzione per frenare i movimenti separatisti in embrione, prima che ottengano una base di potere, dovranno affrontare anche loro la rovina dei loro paesi. La minaccia più grande è in Venezuela, dove i militari statunitensi e colombiani hanno costruito basi nella frontiera con lo stato limitrofo venezuelano di Zulia, infiltrando reparti d’assalto e forze paramilitari nella provincia, e considerano il possesso di questa provincia ricca in petrolio come una testa di ponte per privare lo stato venezuelano delle sue rimesse vitali provenienti dal petrolio e destabilizzare il governo centrale.
 
Oggi i movimenti separatisti promossi in America Latina dagli Usa sono attivi per lo meno in tre paesi. In Bolivia, l’arco di province di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija, hanno indetto con successo referenda provinciali per ‘l’autonomia’, che qui è il termine utilizzato per secessione. Il 4 maggio del 2008 i separatisti di Santa Cruz hanno avuto successo: con una partecipazione di quasi il 50% degli elettori censiti, hanno ottenuto l’80% di voti favorevoli. Il 15 maggio, l'elite politico-imprenditoriale di destra ha annunciato la formazione di ministeri per il commercio esterno e la sicurezza interna, assumendo così i poteri effettivi di un stato secessionista. Il governo degli Stati Uniti, rappresentato dall'ambasciatore Goldberg, ha fornito appoggio finanziario e politico alle organizzazioni ‘civili’ secessioniste di destra, attraverso 125 milioni $ di aiuto ai loro programmi gestiti dall’Aid, e decine di milioni di $ del programma anti-droga, ed attraverso il Ned (National Endowment for Democracy) ha finanziato le Ong favorevoli alla secessione. Nelle riunioni dell'Organizzazione degli Stati Americani ed in altre riunioni regionali, gli Usa si sono rifiutati di condannare i movimenti separatisti.
 
A causa della completa incompetenza e mancanza di guida politica nazionale del presidente Evo Morales e del suo vicepresidente Álvaro García Linera, lo stato boliviano si sta disintegrando in una serie di cantoni autonomi, perché già diversi altri governatorati provinciali cercano di usurpare il potere politico e gestirsi le loro risorse economiche. Fin dall'inizio, il regime Morales-García Linera firmò diversi patti politici, adottò una serie di politiche ed approvò una quantità di concessioni alle élite oligarchiche di Santa Cruz, che permisero loro di ricostruire efficacemente la loro naturale base politica di potere, di sabotare un'assemblea costituzionale eletta e minare decisamente l'autorità del Governo centrale. Il successo della destra si è prodotto in meno di due anni e mezzo, fatto particolarmente sorprendente, se si tiene in conto che nel 2005 il paese visse un'importante insurrezione popolare che depose un presidente di destra, mentre milioni di lavoratori, minatori, contadini ed indios si impadronivano delle strade. È dovuto all'assoluto malgoverno di Morales e García Linera se il paese è passato tanto rapidamente e decisamente da un stato di potere insurrezionale popolare ad un paese frammentato e diviso, nel quale un'elite agro-finanziaria separatista si è impadronita del controllo dell’80% delle risorse produttive del paese, mentre il Governo centrale solleva flebili proteste.
 
Il successo della classe dirigente regionale secessionista boliviana ha incoraggiato ‘movimenti autonomisti’ simili, guidati dal sindaco di Guayaquil (Ecuador) e dal governatore di Zulia (Venezuela). In altre parole, la sconfitta politica, costruita dagli Stati Uniti, del governo di Morales e García Linera in Bolivia, ha portato il movimento autonomista ad associarsi con gli oligarchi in Ecuador e Venezuela per ripetere l'esperienza di Santa Cruz in un processo di “separatismo contro-rivoluzionario permanente”.
 
Il separatismo e l'ex URSS
 
La sconfitta del comunismo nell'URSS ha avuto poco a che vedere con quello che l'ex responsabile della sicurezza nazionale statunitense Zbigniew Brzezinski qualificò come una "bancarotta del sistema a causa della corsa al riarmo." Fino alla fine nell’URSS, le condizioni di vita sono rimaste relativamente stabili, i programmi di welfare hanno continuato a funzionare a livelli quasi ottimali ed i programmi scientifici e culturali a ricevere una parte cospicua della spesa pubblica. Invece le elite che hanno governato dopo il sistema comunista non hanno corrisposto alla propaganda statunitense sulle virtù del libero mercato e della democrazia, come proclamavano i presidenti Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton: lo prova in modo evidente il fatto che quando hanno preso il potere hanno imposto un sistema politico ed economico né democratico né basato sulla competizione del mercato. Questi nuovi governi su base-etnica si sono rivelati simili a monarchie dispotiche, predatrici e nepotiste che hanno regalato (con le privatizzazioni) ad un pugno di oligarchi e monopoli stranieri la pubblica ricchezza accumulata durante i precedenti 70 anni di lavoro collettivo e di investimenti.
 
La principale forza ideologica che spinge l’attuale politica separatista è la politica di identità etnica, fomentata e finanziata dagli organismi di intelligence e propaganda degli Usa. La politica di identità etnica che ha rimpiazzato il comunismo, è basata su vincoli verticali tra le elite e le masse. Le nuove elite governano per mezzo di un nepotismo di tipo clánico-famigliar-religioso-mafioso, finanziato e spinto con la rapina e la privatizzazione della ricchezza pubblica creata sotto il Comunismo. Una volta al potere, le nuove élite politiche ‘privatizzano’ la ricchezza pubblica trasformandola in ricchezza familiare e convertono se stessi ed i loro complici, in una classe governante oligarchica. In non pochi casi, i vincoli etnici tra le élite e i sottoposti si dissolvono davanti al declino delle condizioni di vita, le disuguaglianze profonde di classe, i brogli elettorali e la repressione dello stato.
 
In tutti gli stati dell'ex URSS, l'unica rivendicazione delle nuove classi dirigenti in materia di legittimità sociale si basa sull'appartenenza ad un'identità etnica comune. Hanno rispolverato simboli medievali e monarchici del lontano passato, tirando fuori dell'armadio monarchi assolutisti, gerarchie religiose parassitarie, signori della guerra pre-capitalisti, imperatori sanguinari e bandiere nazionali dei giorni del feudalesimo proprietario terriero per forgiare una storia ed un'identità comuni con le masse appena ‘liberate’. Il ripetuto ricorso ai simboli reazionari del passato è del tutto appropriato: le attuali politiche di dispotismo, la rapina e i culti della personalità hanno assonanze con i guerrieri ‘storici’ del passato, i signori e le pratiche feudali.
 
Man mano che i nuovi despoti post-URSS perdono il loro lustro etnico in seguito alla pubblica disillusione generata dal rapace saccheggio nazionale e straniero della ricchezza nazionale, i leader ricorrono sistematicamente alla forza.
 
Il maggior successo della strategia statunitense di promozione del separatismo è stata la distruzione dell'URSS, non la promozione di democrazie capitaliste indipendenti vitali. Washington è riuscita nell'esacerbazione di conflitti etnici tra i russi e le restanti nazionalità, incoraggiando alcuni capi comunisti locali a separarsi dall'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ed a formare stati indipendenti nei quali i nuovi governanti potessero spartirsi la cassa del tesoro locale con i loro nuovi soci occidentali. Gli sforzi di destabilizzazione realizzati dagli Usa nei paesi comunisti, specialmente dopo gli anni ‘70 non si è misurata su un miglior standard di vita, maggior crescita industriale o su programmi di welfare più generosi. La propaganda occidentale si è concentrata invece sulla solidarietà etnica, un tema che spezza la solidarietà di classe e la lealtà allo stato e all'ideologia comunista, e ha rafforzato alcune elite filo-occidentali, specialmente tra i ‘pubblici intellettuali’ e i capi comunisti convertitisi in ‘salvatori della patria’.
 
Il punto chiave della strategia occidentale è stato soprattutto fare a pezzi l'URSS per mezzo di movimenti separatisti, senza riguardo se questi fossero formati da fondamentalisti religiosi fanatici, gangster politici, economisti liberali formati in Occidente o signori della guerra con aspirazioni ambiziose. L’unica cosa che importava era che inalberassero il bandiera separatista dell'autodeterminazione. In seguito, nel periodo post-sovietico, le nuovi elite filo-capitaliste al potere furono elevate al rango di membri Nato e stati satelliti.
 
Le politiche di Washington nel periodo post-separatista seguirono un processo in due tappe: nella prima fase, predominò l'appoggio indifferenziato a chiunque patrocinasse la disintegrazione dell'URSS; nella seconda fase, gli Stati Uniti cercarono di promuovere la fazione più favorevole alla Nato ed al libero mercato, attraverso le così dette ‘rivoluzioni colorate’, in Georgia e in Ucraina. Il separatismo fu considerato come un passo preliminare verso una tappa successiva di subordinazione all'impero statunitense. La nozione di stati indipendenti è virtualmente inesistente per i costruttori di questo impero. Nel migliore dei casi esiste come tappa transitoria da una costellazione di poteri al nuovo impero diretto dagli Usa.
 
Nel periodo seguente la disintegrazione dell'URSS, i successivi tentativi di Washington di reclutare nuove élite filo-capitaliste e di creare stati satelliti, ebbero un relativo successo. Alcuni paesi aprirono le loro economie ad uno sfruttamento sfrenato specialmente delle loro risorse energetiche. Altri, offrirono collocazioni per basi militari. In molti casi, i governanti locali cercarono di fare affari con le potenze mondiali mentre accrescevano le loro fortune private con il saccheggio.
 
Nessuna delle repubbliche ex sovietiche è arrivata a sviluppare un stato democratico indipendente che permetta di recuperare i livelli di vita che la rispettiva popolazione possedeva ai tempi sovietici. Alcuni governi sono diventati dittature teocratiche, nelle quali i notabili religiosi ed i dittatori si appoggiano mutuamente. Altri si sono convertiti in turpi dittature a base familiare. Nessuno di essi ha mantenuto la rete di previdenza sociale o i sistemi educativi di elevata qualità dell'era sovietica. Tutti i regimi post-sovietici hanno magnificato le disuguaglianze sociali e moltiplicato la quantità di imprese a carattere mafioso. I delitti violenti sono cresciuti geometricamente, fomentando l'insicurezza del cittadino.
 
Il successo del separatismo indotto dagli Usa, nella maggioranza dei casi, ha creato grandi opportunità per la rapina occidentale ed asiatica di materie prime, specialmente di risorse petrolifere. L'esperienza dei ‘nuovi stati indipendenti’, nel migliore dei casi, è stata un'illusione transitoria, mentre le elite governanti o passavano direttamente nella sfera di influenza occidentale o diventavano un mero paravento della profonda subordinazione strutturale ai circuiti di esportazione di materie prime e finanziari dominati dall’Occidente.
 
Dopo il crollo dell'URSS, gli stati occidentali si allearono con le repubbliche che più rispondevano ai loro interessi. In alcuni casi firmarono accordi con i loro governanti per stabilire basi militari, riempiendo a tal fine di prestiti le tasche del dittatore di turno. In altri casi, si assicurarono un accesso privilegiato alle risorse economiche per mezzo di imprese miste. In altri, ignorarono semplicemente agli stati con meno risorse e li lasciarono cadere in miseria e nel dispotismo.
 
Separatismo: Europa dell’est, Balcani e paesi baltici
 
L'aspetto più sorprendente della disintegrazione del blocco sovietico fu la rapidità e la sollecitudine con le quali i paesi passarono dal Patto di Varsavia alla Nato, e dal dominio politico sovietico al controllo economico di Usa e Ue in quasi tutti i settori economici importanti. Il passaggio da una forma di subordinazione politica, economica e militare ad un'altra sottolinea la natura transitoria dell'indipendenza politica, la superficialità del suo significato operativo e la spettacolare ipocrisia della nuova classe dominante- che denunciava allegramente la dominazione sovietica mentre consegnava al capitale occidentale la maggior parte dei settori economici, e destinava una parte del suo territorio alla basi Nato, fornendo contemporaneamente battaglioni di soldati mercenari per combattere nelle guerre imperiali statunitensi in una quantità assai maggiore a qualunque altra registrata durante il periodo sovietico.
 
Il separatismo in queste aree è stata un'ideologia utile per debilitare la coalizione egemone avversaria, tanto più in quanto incorporava i suoi membri in una coalizione di costruzione imperialista più virulenta ed aggressiva.
 
Iugoslavia e Kosovo: separatismo forzato
 
Il successo nella disintegrazione dell'URSS e dell'alleanza del Patto di Varsavia incoraggiò gli Usa e l'Ue a distruggere la Iugoslavia, l'ultimo paese rimasto indipendente fuori dal loro controllo nell’Europa Occidentale. Lo smantellamento della Iugoslavia fu iniziato dalla Germania dopo la sua annessione della Germania Orientale e la demolizione della sua economia. In seguito si estese nelle repubbliche di Slovenia e Croazia. Gli Usa, ultimi arrivati nella divisione dei Balcani, si concentrarono in Bosnia, Macedonia e Kosovo. Mentre la Germania estendeva la conquista per via economica, gli Usa, fedeli alla loro missione militarista, ricorrevano alla guerra in alleanza con noti gangsters terroristici albano-kosovari, organizzati nella formazione paramilitare Kla (Kosovo Liberation Army). Sotto la leadership di Bernard Kouchner, le forze della Nato facilitarono la pulizia etnica, l'assassinio e la sparizione di decine di migliaia di serbi, rom e dissidenti albano-kosovari non separatisti.
 
La distruzione della Iugoslavia è completa: la restante Repubblica della Serbia, colpita ripetutamente e divisa, è ora alla mercè degli Usa e dei loro alleati europei. Dal 2008 è risultata eletta una coalizione appoggiata dall'Ue e dagli Usa, favorevole alla Nato, e gli ultimi resti dalla Iugoslavia e della sua eredità storica di socialismo autonomo sono cancellati.
 
Conseguenze del separatismo nell'URSS, nell’Europa Orientale e nei Balcani
 
In tutte le regioni nelle quali ha trionfato il separatismo sponsorizzato e finanziato dagli Usa, le condizioni di vita sono precipitate, si è prodotto un massiccio saccheggio delle risorse pubbliche in nome della privatizzazione, e si sono raggiunti livelli di corruzione politica senza precedenti. Una cifra vicina ad un terzo della popolazione è emigrata nell’Europa Occidentale ed in Nord America, fuggendo dalla fame, dall'insicurezza personale (crimine), dalla disoccupazione e da un futuro incerto.
 
Politicamente, il tasso straordinario di gangsterismo e di crimini ha portato gli imprenditori che svolgevano attività legittime a pagare somme esorbitanti di estorsione, mentre una nuova classe di delinquenti riconvertiti in impresari si faceva carico dell'economia e firmava dubbi accordi di investimento e joint venture con imprese transnazionali dell'Ue, degli Usa e dell’Asia.
 
I paesi ex sovietici ricchi in risorse energetiche dell'Asia del centro-sud sono passati sotto il potere di dittatori opulenti, che hanno accumulato fortune di miliardi di dollari nel processo di smantellamento delle preesistenti norme ugualitarie, sanità generalizzata, istituzioni scientifiche e culturali. Le istituzioni religiose hanno acquisito un potere superiore alle associazioni scientifiche e professionali e, contro queste, hanno annullano i progressi educativi dei precedenti settanta anni. La logica del separatismo si è estesa dalle repubbliche a livello sub-nazionale, in un processo in cui i signori della guerra e i capi etnici rivaleggiano nella creazione di una loro propria entità autonoma, col risultato di guerre sanguinose, nuovi episodi di pulizie etniche e nuovo flusso di rifugiati delle zone in conflitto.
 
Le promesse degli Usa riguardo i benefici che il separatismo avrebbe apportato alle diverse popolazioni non si sono minimamente realizzate. Nel migliore dei casi l’esigua elite governante con i suoi soci hanno mietuto ricchezza, potere e privilegio a spese della grande maggioranza. Qualsiasi fossero le iniziali soddisfazioni simboliche che la popolazione delle classi inferiori ha potuto provare durante la sua effimera indipendenza, la nuova bandiera ed il potere religioso restaurato sono stati erosi dalla paralizzante povertà e dalle violente lotte interne per il potere che hanno perturbato le loro vite. La verità è che milioni di persone sono fuggite dai loro stati da poco indipendenti e hanno preferito trasformarsi in rifugiati e cittadini di seconda classe in paesi stranieri.
 
Conclusione
 
La maggiore mancanza delle Ong pseudo-progressiste e liberali nella loro difesa dell'autonomia, della decentralizzazione e dell'autodeterminazione, consiste nel fatto che questi concetti astratti eludono la fondamentale domanda storica e la concreta questione politica: verso quale classe, razza o blocco politico si sta spostando il potere? Per più di un secolo negli Usa, la bandiera dei proprietari terrieri del Sud, razzisti, di destra, che governavano con la forza ed il terrore sui neri poveri era un ‘Diritto dello Stato’, ovvero la supremazia della legge e dell'ordine locale sull'autorità del governo federale e della costituzione nazionale. La lotta tra i federali contro i diritti degli stati è avvenuta tra un'oligarchia sudista reazionaria ed una diffusa coalizione civica progressista del nord formata dai lavoratori e dalla classe media.
 
C'è una fondamentale necessità di demistificare la nozione di autonomia, esaminando le classi che la richiedono, le conseguenze della decentralizzazione del potere nei termini della distribuzione di potere, di ricchezza e di potere decisionale popolare, nonché guardando chi sono i benefattori esterni di un cambiamento dallo stato nazionale alle elite di potere locali e regionali. Invece il modo indiscriminato con cui alcuni libertari abbracciano ogni richiesta di autodeterminazione ha condotto ad alcuni dei più atroci crimini dei secoli XX e XXI. In molti casi i movimenti separatisti hanno fomentato o si sono prodotti in guerre imperialiste sanguinarie, come avvenne seguendo l’annessionismo nazista, le invasioni statunitensi dell'Iraq e dell’Afghanistan, l’invasione israeliana del Libano e la distruzione della Palestina.
 
Per chiarire il senso di termini come autonomia, decentralizzazione ed autodeterminazione, ed ottenere che queste devoluzioni di potere si muovano nella direzione storica progressista, è essenziale porsi alcune domande preventive: questi cambiamenti politici, favoriscono il potere ed il controllo della maggioranza dei lavoratori e dei contadini sui mezzi di produzione? Portano ad un maggiore potere popolare nello stato e nei processi elettorali o rafforzano invece i clienti demagoghi che difendono degli interessi dell'impero, per il quale la disintegrazione di un stato costituito porta all'incorporazione dei frammenti etnici in un impero folle e distruttivo?
 




Introduction: The Historical Context

          Throughout modern imperial history, ‘Divide and Conquer’ has been the essential ingredient in allowing relatively small and resource-poor European countries to conquer nations vastly larger in size and populations and richer in natural resources.  It is said that for every British officer in India, there were fifty Sikhs, Gurkhas, Muslims and Hindus in the British Colonial Army.  The European conquest of Africa and Asia was directed by white officers, fought by black, brown and yellow soldiers so that white capital could exploit colored workers and peasants.  Regional, ethnic, religious, clan, tribal, community, village and other differences were politicized and exploited allowing imperial armies to conquer warring peoples.  In recent decades, the US empire builders have become the grand masters of ‘divide and conquer’ strategies throughout the world.  By the 1970’s, the CIA made a turn from promoting the dubious virtues of capitalism and democracy, to linking up with, financing and directing, religious, ethnic and regional elites against national regimes, independent or hostile to US world empire building.

            The key to US military empire building follows two principles: direct military invasions and fomenting separatist movements, which can lead to military confrontation.

            Twenty-first century empire building has seen the extended practice of both principles in Iraq, Afghanistan, Iran, Lebanon, China (Tibet), Bolivia, Ecuador, Venezuela, Somalia, Sudan, Burma and Palestine – any country in which the US cannot secure a stable client regime, it resorts to financing and promoting separatist organizations and leaders using ethnic, religious and regional pretexts.

            Consistent with traditional empire building principles, Washington only supports separatists in countries that refuse to submit to imperial domination and opposes separatists who resist the empire and its allies.  In other words, imperial ideologues are neither ‘hypocrites’ nor resort to ‘double standards’ (as they are accused by liberal critics) – they publicly uphold the ‘Empire first’ principle as their defining criteria for evaluating separatist movements and granting or denying support. In contrast, many seemingly progressive critics of empire make universal statements in favor of the ‘right to self-determination’ and even extend it to the most rancid, reactionary, imperial-sponsored ‘separatist groups’ with catastrophic results.  Independent nations and their people, who oppose US-backed separatists, are bombed to oblivion and charged with ‘war crimes’.  People, who oppose the separatists and who reside in the ‘new state’, are killed or driven into exile.  The ‘liberated people’ suffer from the tyranny and impoverishment induced by the US-backed separatists and many are forced to immigrate to other countries for economic survival.

            Few if any of the progressive critics of the USSR and supporters of the separatist republics have ever publicly expressed second thoughts, let alone engaged in self-critical reflections, even in the face of decades long socio-economic and political catastrophes in the secessionist states.  Yet it was and is the case that these self-same progressives today, who continue to preach high moral principles to those who question and reject some separatist movements because they originate and grow out of efforts to extend the US empire.

            Washington’s success in co-opting so-called progressive liberals in support of separatist movements soon to be new imperial clients in recent decades is long and the consequences for human rights are ugly.

            Most European and US progressives supported the following:

   1.      US-backed Bosnian fundamentalists, Croatian neo-fascists and Kosova-Albanian terrorists, leading to ethnic cleansing and the conversion of their once sovereign states into US military bases, client regimes and economic basket cases – totally destroying the multinational Yugoslavian welfare state.

   2.      The US funded and armed overseas Afghan Islamic fundamentalists who destroyed a secular, reformist, gender-equal Afghan regime, carrying out vast anti-feudal campaigns involving both men and women, a comprehensive agrarian reform and constructing extensive health and educational programs.  As a result of US-Islamic tribal military successes, millions were killed, displaced and dispossessed and fanatical medieval anti-Communist tribal warlords destroyed the unity of the country.

   3.      The US invasion destroyed Iraq’s modern, secular, nationalist state and advanced socio-economic system.  During the occupation, US backing of rival religious, tribal, clan and ethnic separatist movements and regimes led to the expulsion of over 90% of its modern scientific and professional class and the killing of over 1 million Iraqis... all in the name of ousting a repressive regime and above all in destroying a state opposed to Israeli oppression of Palestinians.

          Clearly US military intervention promotes separatism as a means of establishing a regional ‘base of support’.  Separatism facilitates setting up a minority puppet regime and works to counter neighboring countries opposed to the depredations of empire.  In the case of Iraq, US-backed Kurdish separatism preceded the imperial campaign to isolate an adversary, create international coalitions to pressure and weaken the central government.  Washington highlights regime atrocities as human rights cases to feed global propaganda campaigns.  More recently this is evident in the US-financed ‘Tibetan’ theocratic protests at China.

          Separatists are backed as potential terrorist shock troops in attacking strategic economic sectors and providing real or fabricated ‘intelligence’ as is the case in Iran among the Kurds and other ethnic minority groups.


Why Separatism?

          Empire builders do not always resort to separatist groups, especially when they have clients at the national levels in control of the state.  It is only when their power is limited to groups, territorially or ethnically concentrated, that the intelligence operatives resort to and promote ‘separatist’ movements.  US backed separatist movements follow a step-by-step process, beginning with calls for ‘greater autonomy’ and ‘decentralization’, essentially tactical moves to gain a local political power base, accumulate economic revenues, repress anti-separatist groups and local ethnic/religious, political minorities with ties to the central government (as in the oppression of the Christian communities in northern Iraq repressed by the Kurdish separatists for their long ties with the Central Baath Party or the Roma of Kosova expelled and killed by the Kosova Albanians because of their support of the Yugoslav federal system).  The attempt to forcibly usurp local resources and the ousting of local allies of the central government results in confrontations and conflict with the legitimate power of the central government.  It is at this point that external (imperial) support is crucial in mobilizing the mass media to denounce repression of ‘peaceful national movements’ merely ‘exercising their right to self-determination’.  Once the imperial mass media propaganda machine touches the noble rhetoric of ‘self-determination’ and ‘autonomy’, ‘decentralization’ and ‘home rule’, the great majority of US and European funded NGO’s jump on board, selectively attacking the government’s effort to maintain a stable unified nation-state.  In the name of ‘diversity’ and a ‘pluri-ethnic state’, the Western-bankrolled NGO’s provide a moralist ideological cover to the pro-imperialist separatists.  When the separatists succeed and murder and ethnically cleanse the ethnic and religious minorities linked to the former central state, the NGO’s are remarkably silent or even complicit in justifying the massacres as ‘understandable over-reaction to previous repression’.  The propaganda machine of the West, even gloats over the separatist state expulsion of hundreds of thousands of ethnic minorities – as in the case of the Serbs and Roma from Kosova and the Krijina region of Croatia... with headlines blasting – “Serbs on the Run: Serves Them Right!’ followed by photos of NATO troops overseeing the ‘transfer’ of destitute families from their ancestral villages and towns to squalid camps in a bombed out Serbia.  And the triumphant Western politicians mouthing pieties at the massacres of Serb civilians by the KLA, as when former German Foreign Minister "Joschka" Fischer (Green Party) mourned, “I understand your (the KLA’s) pain, but you shouldn’t throw grenades at (ethnic Serb) school children.”

          The shift from ‘autonomy’ within a federal state to an ‘independent state’ is based on the aid channeled and administered by the imperial state to the ‘autonomous region’, thus strengthening its ‘de facto’ existence as a separate state.  This has clearly occurred in the Kurdish run northern Iraq ‘no fly zone’ and now ‘autonomous region’ from 1991 to the present.

          The same principle of self-determination demanded by the US and its separatist client is denied to ‘minorities’ within the realm.  Instead, the US propaganda media refer to them as ‘agents’ or ‘trojan horses’ of the central government.

          Strengthened by imperial ‘foreign aid’, and business links with US and EU MNCs, backed by local para-military and quasi-military police forces (as well as organized criminal gangs), the autonomous regime declares its ‘independence’.  Shortly thereafter it is recognized by its imperial patrons.  After ‘independence’, the separatist regime grants territorial concessions and building sites for US military bases.  Investment privileges are granted to the imperial patron, severely compromising ‘national’ sovereignty.

          The army of local and international NGO’s rarely raise any objections to this process of incorporating the separatist entity into the empire, even when the ‘liberated’ people object.  In most cases the degree of ‘local governance’ and freedom of action of the ‘independent’ regime is less than it was when it was an autonomous or federal region in the previous unified nationalist state.

          Not infrequently ‘separatist’ regimes are part of irredentist movements linked to counterparts in other states.  When cross national irredentist movements challenge neighboring states which are also targets of the US empire builders, they serve as launching pads for US low intensity military assaults and Special Forces terrorist activities.

          For example, almost all of the Kurdish separatist organizations draw a map of ‘Greater Kurdistan’ which covers a third of Southeastern Turkey, Northern Iraq, a quarter of Iran, parts of Syria and wherever else they can find a Kurdish enclave.  US commandos operate along side Kurdish separatists terrorizing Iranian villages (in the name of self-determination; Kurds with powerful US military backing have seized and govern Northern Iraq and provide mercenary Peshmerga troops to massacre Iraqi Arab civilian in cities and towns resisting the US occupation in Central, Western and Southern regions.  They have engaged in the forced displacement of non-Kurds (including Arabs, Chaldean Christians, Turkman and others) from so-called Iraqi Kurdistan and the confiscation of their homes, businesses and farms.   US-backed Kurdish separatists have created conflicts with the neighboring Turkish government, as Washington tries to retain its Kurdish clients for their utility in Iraq, Iran and Syria without alienating its strategic NATO client, Turkey.  Nevertheless Turkish-Kurdish separatist activists in the PKK have lauded the US for, what they term, ‘progressive colonialism’ in effectively dismembering Iraq and forming the basis for a Kurdish state.

          The US decision to collaborate with the Turkish military, or at least tolerate its military attacks on certain sectors of the Iraq-based Kurdish separatists, the PKK, is part of its global policy of prioritizing strategic imperial alliances and allies over and against any separatist movement which threatens them.  Hence, while the US supports the Kosova separatists against Serbia, it opposes the separatists in Abkhazia fighting against its client in the Republic of Georgia.  While the US supported Chechen separatist against the Moscow government, it opposes Basque and Catalan separatists in their struggle against Washington’s NATO ally, Spain.  While Washington has been bankrolling the Bolivian separatists headed by the oligarchs of Santa Cruz against the central government in La Paz, it supports the Chilean government’s repression of the Mapuche Indian claims to land and resources in south-central Chile.

          Clearly ‘self-determination’ and ‘independence’ are not the universal defining principle in US foreign policy, nor has it ever been, as witness the US wars against Indian nations, secessionist southern slaveholders and yearly invasions of independent Latin American, Asian and African states.  What guides US policy is the question of whether a separatist movement, its leaders and program furthers empire building or not?  The inverse question however is infrequently raised by so-called progressives, leftists or self-described anti-imperialists:  Does the separatist or independence movement weaken the empire and strengthen anti-imperialist forces or not?  If we accept that the over-riding issue is defeating the multi-million killing machine called US imperialism, then it is legitimate to evaluate and support, as well as reject, some independence movements and not others. There is nothing ‘hypocritical’ or ‘inconvenient’ in raising higher principles in making these political choices.  Clearly Hitler justified the invasion of Czechoslovakia in the name of defending Sudetenland separatists; just like a series of US Presidents have justified the partition of Iraq in the name of defending the Kurds, or Sunnis or Shia or whatever tribal leaders lend themselves to US empire building.

          What defines anti-imperialist politics is not abstract principles about ‘self-determination’ but defining exactly who is the ‘self’ – in other words, what political forces linked to what international power configuration are making what political claim for what political purpose.  If, as in Bolivia today, a rightwing racist, agro-business oligarchy seizes control of the most fertile and energy rich region, containing 75% of the country’s natural resources, in the name of ‘self-determination’ and autonomy, expelling and brutalizing impoverished Indians in the process – on what basis can the left or anti-imperialist movement oppose it, if not because the class, race and national content of that claim is antithetical to an even more important principle – popular sovereignty based on the democratic principles of majority rule and equal access to public wealth?


Separatism in Latin America:  Bolivia, Venezuela and Ecuador

          In recent years the US backed candidates have won and lost national election in Latin America.  Clearly the US has retained hegemony over the governing elites in Mexico, Colombia, Central America, Peru, Chile, Uruguay and some of the Caribbean island states.  In states where the electorate has backed opponents of US dominance, such as Venezuela, Ecuador, Bolivia and Nicaragua, Washington’s influence is dependent on regional, provincial and locally elected officials.  It is premature to state, as the Council for Foreign Relations claims, that ‘US hegemony in Latin America is a thing of the past.’  One only has to read the economic and political record of the close and growing military and economic ties between Washington and the Calderon regime in Mexico, the Garcia regime in Peru, Bachelet in Chile and Uribe in Colombia to register the fact that US hegemony still prevails in important regions of Latin America.  If we look beyond the national governmental level, even in the non-hegemonized states, US influence still is a potent factor shaping the political behavior of powerful right-wing business, financial and regional political elites in Venezuela, Ecuador, Bolivia and Argentina.  By the end of May 2008, US backed regionalist movements were on the offensive, establishing a de facto secessionist regime in Santa Cruz in Bolivia.  In Argentina, the agro-business elite has organized a successful nationwide production and distribution lockout, backed by the big industrial, financial and commercial confederations, against an export tax promoted by the ‘center-left’ Kirchner government.  In Colombia, the US is negotiating with the paramilitary President Uribe over the site of a military base on the frontier with Venezuela’s oil rich state of Zulia, which happens to be ruled by the only anti-Chavez governor in power, a strong promoter of ‘autonomy’ or secession.  In Ecuador, the Mayor of Guayaquil, backed by the right wing mass media and the discredited traditional political parties have proposed ‘autonomy’ from the central government of President Rafael Correa.  The process of imperial driven nation dismemberment is very uneven because of the different degrees of political power relations between the central government and the regional secessionists.  The right wing secessionists in Bolivia have advanced the furthest – actually organizing and winning a referendum and declaring themselves an independent governing unit with the power to collect taxes, formulate foreign economic policy and create its own police force.

            The success of the Santa Cruz secessionist is due to the political incapacity and total incompetence of the Evo Morales-Garcia Linera regime which promoted ‘autonomy’ for the scores of impoverished Indian ‘nations’ (or indianismo)  and ended up laying the groundwork for the white racist oligarchs to seize the opportunity to establish their own ‘separatist’ power base.  As the separatist gained control over the local population, they intimidated the ‘indians’ and trade union supporters of the Morales regime, violently sabotaged the constitutional assembly, rejected the constitution, while constantly extracting concession for the flaccid and conciliatory central government of the Evo Morales.  While the separatists trashed the constitution and used their control over the major means of production and exports to recruit five other provinces, forming a geographic arc of six provinces, and influence in two others in their drive to degrade the national government.  The Morales-Garcia Linera ‘indianista’ regime, largely made up of mestizos formerly employed in NGOs funded from abroad, never used its formal constitutional power and monopoly of legitimate force to enforce constitutional order and outlaw and prosecute the secessionists’ violation of national integrity and rejection of the democratic order.

            Morales never mobilized the country, the majority of popular organizations in civil society, or even called on the military to put down the secessionists.  Instead he continued to make impotent appeals for ‘dialog’, for compromises in which his concessions to oligarch self-rule only confirmed their drive for regional power.  As a case study of failed governance, in the face of a reactionary separatist threat to the nation, the Morales-Garcia Linera regime represents an abject failure to defend popular sovereignty and the integrity of the nation.

            The lessons of failed governance in Bolivia stand as a grim reminder to Chavez in Venezuela and Correa in Ecuador:  Unless they act with full force of the constitution to crush the embryonic separatist movements before they gain a power base, they will also face the break-up of their countries.  The biggest threat is in Venezuela, where the US and Colombian militaries have built bases on the frontier bordering the Venezuelan state of Zulia, infiltrated commandos and paramilitary forces into the province, and see the takeover of the oil-rich province as a beach-head to deprive the central government of its vital oil revenues and destabilize the central government.

            Several years into a Washington-backed and financed separatist movement in Bolivia, a few progressive academics and pundits have taken notice and published critical commentaries.  Unfortunately these articles lack any explanatory context, and offer little understanding of how Latin American ‘separatism’ fits into long-term, large-scale US empire building strategy over the past quarter of  a century.

            Today the US-promoted separatist movements in Latin American are actively being pursued in at least three Latin American counties.  In Bolivia, the ‘media luna’ or ‘half-moon’ provinces of Santa Cruz, Beni, Pando and Tarija have successfully convoked provincial ‘referendums’ for ‘autonomy’ – code word for secession.  On May 4, 2008 the separatists in Santa Cruz succeeded, securing a voter turnout of nearly 50% and winning 80% of the vote.  On May 15, the right-wing big business political elite announced the formation of ministries of foreign trade and internal security, assuming the effective powers of a secession state.  The US government led by Ambassador Goldberg, provided financial and political support for the right-wing secessionist ‘civic’ organizations through its $125 million dollar aid programs via AID, its tens of millions of dollar ‘anti-drug’ program, and through the NED (National Endowment for Democracy) funded pro-separatist NGOs.  At meetings of the Organization of American States and other regional meetings the US refused to condemn the separatist movements.

            Because of the total incompetence and lack of national political leadership of President Evo Morales and his Vice President Garcia Linera, the Bolivian State is splintering into a series of ‘autonomous’ cantons, as several other provincial governments seek to usurp political power and take over economic resources.  From the very beginning, the Morales-Garcia regime signed off on a number of political pacts, adopted a whole series of policies and approved a number of concessions to the oligarchic elites in Santa Cruz, which enabled them to effectively re-build their natural political power base, sabotage an elected Constitutional Assembly and effectively undermine the authority of the central government.  Right-wing success took less than 2 ½ years, which is especially amazing considering that in 2005, the country witnessed a major popular uprising which ousted a right-wing president, when millions of workers, miners, peasants and Indians dominated the streets.  It is a tribute to the absolute misgovernment of the Morales-Garcia regime, that the country could move so quickly and decisively from a state of insurrectionary popular power to a fragmented and divided country in which a separatist agro-financial elite seizes control of 80% of the productive resources of the country... while the elected central government meekly protests.

            The success of the secessionist regional ruling class in Bolivia has encouraged similar ‘autonomy movements’ in Ecuador and Venezuela, led by the mayor of Guayaquil (Ecuador) and Governor of Zulia (Venezuela).  In other words, the US-engineered political debacle of the Morales-Garcia regime in Bolivia has led it to team up with oligarchs in Ecuador and Venezuela to repeat the Santa Cruz experience... in a process of “permanent counter-revolutionary separatism.”


Separatism and the Ex-USSR

          The defeat of Communism in the USSR had little to do with the ‘arms race bankrupting the system’, as former US National Security Adviser Zbigniew Brzyenski has claimed.  Up to the end, living standards were relatively stable and welfare programs continued to operate at near optimal levels and scientific and cultural programs retained substantial state expenditures.  The ruling elites who replaced the communist system did not respond to US propaganda about the virtues of ‘free markets and democracy’, as Presidents Ronald Reagan, George H.W. Bush and Bill Clinton claimed:  The proof is evident in the political and economic systems, which they imposed upon taking power and which were neither democratic nor based on competitive markets.  These new ethnic-based regimes resembled despotic, predatory, nepotistic monarhies handing over (‘privatizing’) the public wealth accumulated over the previous 70 years of collective labor and public investment to a handful of oligarchs and foreign monopolies.

            The principle ideological driving force for the current policy of ‘separatism’ is ethnic identity politics, which is fostered and financed by US intelligence and propaganda agencies.  Ethnic identity politics, which replaced communism, is based on vertical links between the elite and the masses.  The new elites rule through clan-family-religious-gang based nepotism, funded and driven through pillage and privatization of public wealth created under Communism.  Once in power, the new political elites ‘privatized’ public wealth into family riches and converted themselves and their cronies into an oligarchic ruling class.  In most cases the ethnic ties between elites and subjects dissolved in the face of the decline of living standards, the deep class inequalities, the crooked vote counts and state repression.

            In all of the ex-USSR states, the new ruling classes only claim to mass legitimacy was based on appeals to sharing a common ethnic identity.  They trotted out medieval and royalist symbols from the remote past, dredging up absolutist monarchs, parasitical religious hierarchies, pre-capitalist  war lords, bloody emperors and ‘national’ flags from the days of feudal landlords to forge a common history and identity with the ‘newly liberated’ masses.  The repeated appeal to past reactionary symbols was entirely appropriate:  The contemporary policies of despotism, pillage and personality cults resonated with past ‘historic’ warriors, feudal lords and practices.

            As the new post-USSR despots lost their ethnic luster as a consequence of public disillusion with local and foreign predatory pillage of the national wealth, the leaders resorted to systematic force.

            The principle success of the US strategy of promoting separatism was in destroying the USSR – not in promoting viable independent capitalist democracies.  Washington succeeded in exacerbating ethnic conflicts between Russians and other nationalities, by encouraging local communist bosses to split from the Union of Soviet Socialist Republics and to form ‘independent states’ where the new rulers could share the booty of the local treasury with new Western partners.  The US de-stabilization efforts in the Communist countries, especially after the 1970’s did not compete over living standards, greater industrial growth or over more generous welfare programs.  Rather, Western propaganda focused on ethnic solidarity, the one issue that undercut class solidarity and loyalty to the communist state and ideology and strengthened pro-Western elites, especially among ‘public intellectuals’ and recycled Communist bosses-turned ‘nationalist saviors.’

            The key point of Western strategy was to first and foremost break-up the USSR via separatist movements no matter if they were fanatical religious fundamentalists, gangster-politicians, Western-trained liberal economists or ambitious upwardly mobile warlords.  All that mattered was that they carried the Western separatist banner of ‘self-determination’.  Subsequently, in the ‘post Soviet period’, the new pro-capitalist ruling elites were recruited to NATO and client state status.

            Washington’s post-separatism politics followed a two-step process:  In the first phase there was an undifferentiated support for anyone advocating the break-up of the USSR.  In the second phase, the US sought to push the most pliable pro-NATO, free market liberals among the lot – the so-called ‘color revolutionaries’, in Georgia and the Ukraine.  Separatism was seen as a preliminary step toward an ‘advanced’ stage of re-subordination to the US Empire.  The notion of ‘independent states’ is virtually non-existent for US empire builders.  At best it exists as a transitional stage from one power constellation to a new US-centered empire.

            In the period following the break-up of the USSR, Washington’s subsequent attempts to recruit the new ruling elites to pro-capitalist, client-status was relatively successful.  Some countries opened their economies to unregulated exploitation especially of energy resources.  Others offered sites for military bases.  In many cases local rulers sought to bargain among world powers while enhancing their own private fortune-through-pillage.

            None of the ex-Soviet Republics evolved into secular independent democratic republics capable of recovering the living standards, which their people possessed during the Soviet times.  Some rulers became theocratic despots where religious notables and dictators mutually supported each other.  Others evolved into ugly family-based dictatorships.  None of them retained the Soviet era social safety net or high quality educational systems.  All the post-Soviet regimes magnified the social inequalities and multiplied the number of criminal-run enterprises.  Violent crime grew geometrically increasing citizen insecurity. 

            The success of US-induced ‘separatism’ did create, in most cases, enormous opportunities for Western and Asian pillage of raw materials, especially petroleum resources.  The experience of ‘newly independent states’ was, at best, a transitory illusion, as the ruling elite either passed directly into the orbit of Western sphere of influence or became a ‘fig leaf’ for deep structural subordination to Western-dominated circuits of commodity exports and finance.

            Out of the break-up of the USSR, Western states allied with those republics where it suited their interests. In some cases they signed agreements with rulers to establish military base lining the pockets of a dictator through loans.  In other cases they secured privileged access to economic resources by forming joint ventures.  In others they simply ignored a poorly endowed regime and let it wallow in misery and despotism.


Separatism:  Eastern Europe, Balkans and the Baltic Countries

          The most striking aspect of the break-up of the Soviet bloc was the rapidity and thoroughness with which the countries passed from the Warsaw Pact to NATO, from Soviet political rule to US/EU economic control over almost all of their major economic sectors.  The conversion from one form of political economic and military subordination to another highlights the transitory nature of political independence, the superficiality of its operational meaning and the spectacular hypocrisy of the new ruling elite who blithely denounced ‘Soviet domination’ while turning over most economic sectors to Western capital, large tracts of territory for NATO bases and providing mercenary military battalions to fight in US imperial wars to a far greater degree than was ever the case during Soviet times.

          Separatism in these areas was an ideology to weaken an adversarial hegemonic coalition, all the better to reincorporate its members in a more virulent and aggressive empire building coalition.

Yugoslavia and Kosova:  Forced Separatism

          The successful breakup of the USSR and the Warsaw Pact alliance encouraged the US and EU to destroy Yugoslavia, the last remaining independent country outside of US-EU control in West Europe.  The break-up of Yugoslavia was initiated by Germany following its annexation and demolition of East Germany’s economy.  Subsequently it expanded into the Slovenian and Croatian republics.  The US, a relative latecomer in the carving up of the Balkans, targeted Bosnia, Macedonia and Kosova.  While Germany expanded via economic conquest, the US, true to its militarist mission, resorted to war in alliance with recognized terrorist Kosova Albanian gangsters organized in the paramilitary KLA.  Under the leadership of French Zionist Bernard Kouchner, the NATO forces facilitated the ethnic purging, assassination and disappearances of tens of thousands of Serbs, Roma and dissident non-separatist Kosova Albanians.

          The destruction of Yugoslavia is complete:  the remaining fractured and battered Serb Republic was now at the mercy of US and its European allies.  By 2008 a EU-US backed pro-NATO coalition was elected and the last remnants of ‘Yugoslavia’ and its historical legacy of self-managed socialism was obliterated.

Consequences of ‘Separatism’ in USSR. East Europe and the Balkans

            In every region where US sponsored and financed separatism succeeded, living standards plunged, massive pillage of public resources in the name of privatization took place, political corruption reached unprecedented levels.  Anywhere between a quarter to a third of the population fled to Western Europe and North America because of hunger, personal insecurity (crime), unemployment and a dubious future.

            Politically, gangsterism and extraordinary murder rates drove legitimate businesses to pay exorbitant extorsion payments, as a ‘new class’ of gangsters-turned-businessmen took over the economy and signed dubious investment agreements and joint ventures with EU, US and Asian MNCs.

            Energy-rich ex-Soviet countries in south central Asia were ruled by opulent dictators who accumulated billion dollar fortunes in the course of demolishing egalitarian norms, extensive health, and scientific and cultural institutions.  Religious institutions gained power over and against scientific and professional associations, reversing educational progress of the previous seventy years.  The logic of separatism spread from the republics to the sub-national level as rival local war lords and ethnic chiefs attempted to carve out their ‘autonomous’ entity, leading to bloody wars, new rounds of ethnic purges and new refugees fleeing the contested areas.

            The US promises of benefits via ‘separatism’ made to the diverse populations were not in the least fulfilled.  At best a small ruling elite and their cronies reaped enormous wealth, power and privilege at the expense of the great majority.  Whatever the initial symbolic gratifications, which the underlying population may have experienced from their short-lived independence, new flag and restored religious power was eroded by the grinding poverty and violent internal power struggles that disrupted their lives.  The truth of the matter is that millions of people fled from ‘their’ newly ‘independent’ states, preferring to become refugees and second-class citizens in foreign states.


Conclusion

          The major fallacy of seemingly progressive liberals and NGOs in their advocacy of ‘autonomy’, ‘decentralization’ and ‘self-determination’ is that these abstract concepts beg the fundamental concrete historical and substantive political question – to what classes, race, political blocs is power being transferred?  For over a century in the US the banner of the racist right-wing Southern plantation owners ruling by force and terror over the majority of poor blacks was ‘States Rights’ – the supremacy of local law and order over the authority of the federal government and the national constitution.  The fight between federal versus states rights was between a reactionary Southern oligarchy and a broader based progressive Northern urban coalition of workers and the middle class.

           There is a fundamental need to demystify the notion of ‘autonomy’ by examining the classes which demand it, the consequences of devolving power in terms of the distribution of power, wealth and popular power and the external benefactors of a shift from the national state to regional local power elites.

           Likewise, the mindless embrace by some libertarians of each and every claim for ‘self-determination’ has led to some of the most heinous crimes of the 20-21st centuries – in many cases separatist movements have encouraged or been products of bloody imperialist wars, as was the case in the lead up to and following Nazi annexations, the US invasion of Iraq and Afghanistan and the savage Israeli invasion of Lebanon and breakup of Palestine.

           To make sense of ‘autonomy’, ‘decentralization’ and ‘self-determination’ and to ensure that these devolutions of power move in progressive historic direction, it is essential to pose the prior questions: Do these political changes advance the power and control of the majority of workers and peasants over the means of production?  Does it lead to greater popular power in the state and electoral process or does it strengthen demagogic clients advancing the interests of the empire, in which the breakup of an established state leads to the incorporation of the ethnic fragments into a vicious and destructive empire?




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