Abbiamo raccolto alcuni dei rarissimi - eppure a nostro parere
ottimi - contributi apparsi in Italia durante e dopo la
aggressione della NATO contro la RF di Jugoslavia del 1999
che interpretano "fuori dalle righe" la fase storica di
ripresa bellica e di involuzione culturale (le due cose vanno
a braccetto) che stiamo passando.
Sono testi di intellettuali che stigmatizzano l'atteggiamento
accomodante, servile, ipocrita, omertoso, talvolta persino
guerrafondaio di altri intellettuali (la grande maggioranza,
purtroppo) nei confronti della contemporanea deriva
neocolonialista ed imperialista del nostro paese.

Gli autori sono marxisti di varia estrazione; i loro
"bersagli" polemici sono ex-marxisti, ex-comunisti, persone di
ex-sinistra oggi del tutto interne all'establishment o che
mostrano comunque di aver dismesso certe chiavi di interpretazione
del reale.

Iniziamo la serie con la prefazione al libro "Il rovescio
internazionale", un instant-book uscito per Odradek mentre ancora
piovevano bombe "umanitarie".
La prefazione, scritta dall'editore Claudio Del Bello, viene da noi
divisa in due parti.

---

IL ROVESCIO INTERNAZIONALE
(Odradek Editore, Roma 1999)

Introduzione


"Durante la guerra che il potere esecutivo dispiega la sua
più minacciosa energia... e il popolo dimentica le deliberazioni
che riguardano essenzialmente i suoi diritti civili e politici."

Maximilien Robespierre, 1791

Chiudiamo questo libro il 15 giugno, all'indomani della firma di un
accordo "di pace" che ripropone la trappola di Rambouillet,
quell'accordo
sotto cui nessuno - per riprendere la questione posta da Luciana
Castellina
su il manifesto - "avrebbe posto la propria firma". Pare dunque che la
guerra sia finita. Dopo i bombardamenti a tappeto riprenderanno a
lavorare
ai fianchi la Federazione jugoslava. I serbi si sono rivelati impotenti
a
fermare gli attacchi aerei. Ma hanno dimostrato una capacità di
resistenza
che ha sconsigliato i comandi Nato dal procedere disinvoltamente alla
fase
degli attacchi di terra, là dove la tecnologia superiore non garantisce
l'esenzione dalle perdite umane. I serbi si sono confermati così un
popolo
duro. Preferiranno logorarlo. Non è finita. Il dato importante - quasi
un
briciolo di speranza - è che la Nato non ha vinto. Gli obiettivi che si
era
data - occupazione del Kosovo a parte - sono in gran parte non
raggiunti.
Per poter firmare un accordo è stato necessario riportare in vita il
cadavere dell'Onu, riconoscere un ruolo a una Russia uscita
destabilizzata
al massimo e più antioccidentale che mai da 78 giorni di bombardamenti
su
un popolo slavo. È stato poi necessario riconoscere un ruolo alla Cina
dopo
averne bombardato intenzionalmente l'ambasciata, perché lo si intendesse
come un avvertimento per il futuro. È stato necessario porre termine
alla
guerra, infine, perché la tanto sbandierata unità dell'Alleanza era sul
punto di implodere tra governi europei sotto stress elettorale e una
moneta
unica affondata il giorno dopo il varo ufficiale (e dopo anni di
sacrifici
per raggiungere i mitici "parametri di Maastricht"). All'unicità del
comando militare non ha corrisposto l'unicità del comando politico;
quanto
all'economico, tocca dire, è proprio il terreno della massima
divaricazione
tra interessi europei e statunitensi, ben rappresentato dalla
divaricazione
delle monete relative.
Abbiamo preparato il materiale di questo libro considerando gli
sviluppi della guerra, e il suo esito quale che fosse, in larga misura
ininfluenti ai fini della sua comprensione.
Già dopo un mese era possibile registrare gli elementi di novità,
marcare
le modificazioni irreversibili nelle relazioni internazionali, e nella
coscienza dei più.
Usciamo quindi per cogliere questi elementi e sottoporli alla
riflessione, alla critica, al dibattito. Odradek del resto non è un
intellettuale da salotto buono. Non ha perciò bisogno di attendere che
gli
eventi si siano conclusi per poter calibrare una linea interpretativa,

sente la necessità di rispettare compatibilità con i pensieri correnti e
corrivi. Anzi. Raccoglie riflessioni prodotte a partire da background
teorici, filosofici - ideologici, se la parola non suonasse blasfema
oggi,
quando l'ideologia conformista trionfa quasi senza resistenze - diversi
tra
loro ma accomunati da una radicalità di critica. L'insieme compone un
quadro incompleto, forse, ma già ricco di punti di vista tali da
restituire
la struttura fondamentale del senso della guerra contro l'ex Jugoslavia.

0. Prologo

Diciamo subito che la fine non sarà interessante quanto
l'inizio. Quel che questa guerra ha già distrutto è qualcosa che
marcherà
il prossimo futuro. Questa guerra è la matrice delle prossime: vicine
nel
tempo, nello spazio, nel livello di coinvolgimento di questo
disorientato
paese.
Pubblichiamo intanto per sottolineare un punto: questa è una guerra e va
chiamata con questo nome. Non esiste nessun altro nome che possa
sostituire
la sospensione della politica e del diritto, quali che siano i rovesci -
direbbe quel Robespierre che abbiamo voluto citare - che l'hanno
determinata. Non sono legittime "approssimazioni" (conflitto, per
esempio)
né metafore tranquillizzanti (azione di polizia internazionale, meno di
qualunque altra). Le novità dirompenti che introduce sono di rilevanza
storica assoluta. Proprio per questo merita di essere chiamata con il
suo
nome molto più di quelle che l'hanno preceduta nell'ultimo ventennio. È
la
guerra che spazza via il moderno concetto di Stato. È la guerra che
sostituisce ai diritti del cittadino i più vaghi - o più elementari -
diritti umani. È la guerra che vanifica ogni ipotesi di ordine
internazionale costruito consensualmente, e che sostituisce con l'ordine
imposto da una forza che molti si sono affrettati a definire
"imperiale".
Cioè, mentre è chiaro ciò che è stato frantumato, non lo è per nulla ciò
che dovrebbe sostituirlo.
Usciamo differenzialmente rispetto ai tanti che hanno scritto o
scriveranno di questa guerra per dire sostanzialmente «avevo visto
giusto!», ovvero per ribadire o riproporre analisi già ammannite e
clamorosamente smentite dai fatti. E anche rispetto ai tanti che ne
attendono la fine per poter dire «che la politica riprende il posto di
comando», ovvero per ratificare i risultati acquistiti sul campo, senza
altra spiegazione.
Del resto sappiamo bene che anche dopo cinquant'anni, o dopo ottanta, si
può benissimo continuare a non trovare accordo sul secolo delle guerre
mondiali, su ciascuna guerra, neppure sulla valutazione da dare ai
documenti d'archivio. Anche se bisognerebbe ricordare che
l'archiviazione
della memoria è funzione precipua dello Stato-nazione, ovvero della
figura
che questa guerra ha distrutto definitivamente. Quali archivi
conterranno
l'innominabile di questa guerra? La Nato ha archivi? E, soprattutto, chi
disporrà delle chiavi d'accesso? A quale storico le consegneranno?
Esisteranno più gli storici? E quali saranno gli istituti preposti alla
loro formazione?
Un instant book autentico, dunque, non una fotografia affrettata e
sfocata
di un evento appena trascorso. Un instant book che, presupponendo
l'informazione diffusa, cerca di rilevarne i momenti più cospicui di
mistificazione.

1. Sostanza e accidente

Ogni tanto una guerra. Per esempio questa.
Ogni volta a interrogarsi come fosse la prima, a indignarsi, a stupirsi,
come se la precedente aveva da essere l'ultima. Non si capisce per quale
garanzia.
Benché siano movimenti tellurici, preparati, provocati - e per lo più
dichiarati - ci si interroga sul modo di prevederli come se fossero
terremoti, lamentando intanto la stupidità, la malvagità, la follia, il
complotto, o l'insensatezza, come capita sempre più spesso di sentire,
quando non addirittura l'impreparazione (per via del fatto che non è
finita
così presto, contrariamente alle tronfie previsioni della vigilia:
«quindici giorni», per Madeleine Albright).
È il terzo conflitto in Jugoslavia, ennesimo in Europa orientale,
portato,
con ogni evidenza, del collasso dell'URSS ma anche della penetrazione
europea verso est, dell'unificazione europea oltre che del protagonismo
militare degli Usa.
Altro che pace perpetua. S'intravvedono le condizioni di una guerra
permanente, dopo questa rilegittimazione dei conflitti armati, delle
aggressioni unilaterali. Dopo il l989 le guerre si sono moltiplicate,
affinando - generalizzandolo, inflazionandolo - il principio della
guerra
come prosecuzione della politica, finendo col mettere in mora sia la
politica che il diritto, mostrando come ogni conflitto contenga il
principio "colpiscine uno per educarne cento". O, come più d'uno
sospetta,
visto il soggetto trainante di questa guerra, "colpiscine cento per
educarne uno".
La guerra è lo spostamento della lotta di classe, la sua sospensione e,
molto spesso, la sua narcosi. Ma quello che è avvenuto è uno
sconvolgimento
epocale, una catastrofe antropologica propiziata dalla frantumazione di
qualsiasi regola e che, in quanto tale, ha attraversato le società e le
culture sollecitando le coscienze a disporsi secondo le indicazioni del
più
formidabile apparato di guerra mediatica mai messo in campo.
Già, perché se la guerra è sempre stata luogo privilegiato della
propaganda, cioè dello scontro di opposte falsificazioni, questa ha
perfezionato e in qualche modo sancito il ruolo di contrappunto e di
ricapitolazione giornaliera dell'universo mediatico e della
rappresentazione virtuale.
Non è "sostanza", non è "accidente" quindi, concludono i tanti don
Ferrante, questa guerra non esiste. «Non chiamiamola guerra!», ha
ammonito
quotidianamente Sofri su tutti i giornali, di governo e d'opposizione,
di
ultradestra e di centrosinistra. D'altra parte i teorici della politica,
o
dell'autonomia del politico, giocoforza tacciono o dicono delle
banalità,
in attesa di poter liberare di nuovo la parola sull'arte del possibile.
nei
tre mesi in cui c'è stata la necessità, hanno preso tempo.
Non c'è nessun compiacimento da parte nostra nei confronti di questa
loro
impasse; anzi, si vorrebbe che i fini dicitori non si mortificassero per
questo. Potrebbero intanto analizzarla nei suoi aspetti "innovativi" e
ultimativi.
Già perché intanto questa non è una guerra come le altre; giunge alla
fine
di un processo costellato da una recrudescenza del ricorso alle armi, si
diceva. È una guerra che la Nato - e persino Veltroni l'ha capito! -
intende come un precedente, un punto di non ritorno, la fondazione di un
altro ordine mondiale, o quanto meno la messa a punto di un modello da
riproporre in ogni angolo del mondo a insindacabile giudizio della
comunità
occidentale (come ognuno ha potuto vedere, in realtà, dei soli Stati
uniti), unica titolare dell'uso legittimo della forza per imposizione
dei
diritti umani. Dove la forza e il suo titolare sono certi; i diritti, e
gli
autorizzati a esigerli, molto meno.

2. L'evento

La regione balcanica è stata attraversata da una serie
di conflitti e da una guerra. Il conflitto che ha opposto e oppone la
Federazione jugoslava e l'Uck è quello paradigmatico
dell'incompatibilità
tra centralismo e autodeterminazione. Decine di altri conflitti della
stessa natura insanguinano il mondo, spesso coinvolgendo popoli di
dimensioni enormemente superiori a quelle kosovare. Ma una guerra è
stata
decisa e attuata dalla Nato contro la Federazione delle Repubbliche
Jugoslave, Stato sovrano che si è trovato quindi a essere oggetto di
un'aggressione.
Una parte non irrilevante - per peso politico ed egemonia culturale -
degli intellettuali riformisti europei ha espresso consenso alla Nato
perché ritiene di poter ottenere, attraverso l'intervento militare
antiserbo, un'ingerenza cosiddetta umanitaria che fermi o limiti «le
indicibili sofferenze kosovare», e questo ben prima che quelle
sofferenze
diventassero sempre più indicibili per via del catastrofico "intervento
umanitario".
Sono, in tutta evidenza, argomentazioni sbagliate nell'unico senso in
cui
un'argomentazione può essere radicalmente sbagliata: rispetto
all'obiettivo
che si è data.
Qui si trascureranno infatti valutazioni di parte, che sono numerose,
pluriverse e definitive. Non è invece trascurabile il dato politico che
questo consenso descrive. Depurato da tutte le incrostazioni
opportunistiche, da esso si ricava l'impressione di una sostanziale
autenticità di pensiero, con tutti i corollari emotivi del caso.
Emerge dunque che una parte significativa, e forse maggioritaria, delle
"sinistre" europee - non i ceti politici di governo, ovvio, ma i loro
"compagni di strada" e la loro base elettorale di massa - è convinta o
convincibile che laddove sia cruentemente leso il principio
dell'autodeterminazione o della coesistenza, sia legittimo il ricorso
alla
forza militare di un ente superiore o immediatamente superiore, in
questo
caso l'Alleanza atlantica.
Pensiamo sia giusto raccogliere la sfida di questa logica, che è viziata
quanto seduttiva. Fa infatti ricorso a un argomento che, non a caso, si
implementa con successo nella "sinistra": la necessità di un approccio
militante - "militante dei diritti umani" - a una questione geopolitica.
Si
tratta, non neghiamolo, di un antico retaggio internazionalista che
pretende di travolgere mosse, pedine e scacchiere (per questo dà
fastidio a
Sergio Romano, sovranista della destra liberale tradizionale) in nome di
una generica ma suggestiva "battaglia per la vita".
Messa in questi termini, che sono metastorici e metapolitici, si tratta
di
un'allocuzione conclusa in sé, e perciò invincibile.
Ma sembra avere una debolezza intrinseca, che deflagra solo quando
l'operetta morale viene fatta calare nella storia e nella politica.
Ovvero
quando si riesca a provocare un dibattito.
Che significa: avere a disposizione dati e narrazioni non addomesticati;
verificare e poi diffondere notizie circa il conflitto etnico;
demistificare la natura dell'interesse euroamericano nei Balcani;
colpire e
affondare la retorica della "polizia internazionale", che è
semplicemente
il riflesso sovranazionale di ciò che, all'interno dei singoli stati, ma
con un arbitrio ben maggiore, rappresenta la delega alla magistratura e
l'accettazione del monopolio statale della violenza.
Il tutto al prezzo di una reintroduzione del razzismo, malamente
camuffato
da."etnicismo". Predicare la necessità di un Kosovo indipendente, come
loro
fanno, non è meno "etnicista" dell'anacronismo di una Grande Serbia. I
personaggi alla Cohn Bendit si troveranno anche in compagnia dei fautori
della Grande Albania, e francamente tutto quello che si può dire è che
se
lo meritano.
Davvero: hanno dalla loro la potenza economica, la forza militare, una
propaganda in grado di accendere, sussumere e dirottare l'emotività
pubblica, oltre che di essere metro e misura del contemporaneo. Eppure,
il
tempo non gioca a loro favore: persino la stampa confindustriale
italiana o
straniera non potrà omettere qualche servizio, spurio ma emblematico, in
grado di ridimensionare la portata della "pulizia etnica serba" e di
ridisegnare la mappa degli orrori in un contesto di guerra civile tra
bande
rivali. Sulle cifre, infine, ci conforti imperituro il ricordo di
Timisoara.

3. Perché questo libro

Organizzare un libro istantaneo e farlo
uscire prima che gli esiti si siano stabilizzati vuol dire che questo
libro
- onestà intellettuale degli autori! - vuole essere una considerazione
sul
tema della guerra, in situazione, candidandosi a essere il vademecum per
quella futura.
Questo libro, d'altra parte, non può sostituire l'unico strumento utile
e
decisivo rappresentato da una cronologia ragionata degli ultimi 15 anni.
Ma
più che di controinformazione - per paradossale che possa sembrare di
fronte al muro di disinformazione che si è levato tra noi e la guerra -
crediamo che ci sia più bisogno di controdeduzioni concettuali, che
occorra
rilevare la fallacia sistematica delle giustificazioni e anche delle
comode
dicotomie offerte ("né con la Nato, né con Milosevic") e loro varianti
("lei è favorevole o contrario?") ricostruendo concettualmente i
processi.
Rilevare quelle modificazioni nel sentire comune (dalla svalutazione del
proporzionale, all'assuefazione alla "tolleranza zero") che
costituiscono
la trasformazione più notevole e preparatoria all'accettazione di uno
stato
di guerra, perpetua e illegale quanto non dichiarata.
Ci disponiamo allora a rilevare gli elementi più cospicui, risultato di
una sorta di bradisismo semantico, che hanno funzionato da detonatore
nelle
coscienze.
Una catastrofica e repentina inversione figura/sfondo - propiziata dai
media, e da chi se no? - che ha portato in primo piano neoformazioni
quali
"pulizia etnica", "ingerenza umanitaria" ("catastrofe umanitaria" merita
un
discorso a parte), "diritti umani", "etnia" ed "etnicità" scaraventando
sullo sfondo "diritto internazionale", "sovranità degli Stati", "diritti
di
cittadinanza", "multiculturalismo" e perché no?, "sviluppo".
C'è molto da dire su questa guerra e sui suoi primati da Guinness, e
molto
è stato detto: che è la più ingiusta (perché condanna alla pena capitale
le
popolazioni civili, preservando i militari), la più illegale (anche se
condotta per motivi umanitari, e forse proprio per questo), la più
sporca
per via del fatto che colpisce indiscriminatamente, la più pericolosa
per
l'ambiente, la più catastrofica nei confronti dei diritti acquisiti, dei
livelli d'integrazione raggiunti, per gli scenari angosciosi che vanno
oltre la morte e le distruzioni materiali, per via delle convivenze
compromesse ben oltre la sua fine.
E che a fronte di questa enormità non c'è stata s
ollevazione popolare, scarsa essendo stata la reazione dei cittadini,
degli
studenti, degli ambientalisti, dei cattolici, dei pacifisti, dei
lavoratori
e dei loro sindacati, delle donne, come se, appunto, la guerra, la sua
stessa possibilità, sia stata rimossa senza essere sostituita, peraltro,
da
una cultura della pace, o quanto meno da una ragionata interdizione.
Per non parlare della destra di questo paese. In oltre due mesi e mezzo,
la destra all'opposizione non ha prodotto un solo documento, un solo
manifesto sulla guerra.
E più in generale, per quanto riguarda l'Europa, anche la sinistra
antagonista (quella non influenzata dalla sinistra al governo, come in
Francia e in Germania), oltre ai Verdi, ha chiesto l'intervento di
terra.
Perché?
Si tratta di adesione a progetti di ricomposizione etnica perseguiti
contro la sovranità degli Stati nonostante comportino l'affossamento
dell'Onu, l'anarchia totale nelle relazioni internazionali, la
regionalizzazione delle decisioni (sorta di deregulation giuridica: chi
potrà chiedere a chicchessia - India, Cina, Pakistan, ecc - di
rinunciare
all'atomica?) e, soprattutto la svalutazione di ogni progetto di
convivenza
e di integrazione tra culture diverse.
Ma è sugli elementi di novità che vogliamo soffermarci, per marcare i
punti di non ritorno, le modificazioni irreversibili nelle relazioni e
nella coscienza, in tutti e in ciascuno.
L'elemento di novità non è certamente la reazione sentimentale degli
intellettuali alla guerra - italiani in testa - ma lo stupore di
qualcuno
nei confronti del loro generale mettersi l'elmetto, l'accettazione dello
stato di necessità, lo studiarsi di trovare una parte nel teatrino.
Non è un elemento di novità il richiamo antico, il servilismo mai
seppellito. Da sempre gli intellettuali si sono messi l'elmetto
studiandosi
di trovare le ragioni delle guerre dichiarate dalla borghesia, di
renderle
accettabili; hanno giustificato anche le guerre coloniali perché
portavano
la civiltà! E ora, anche ora, eccoli lì a portare il loro contributo, a
scrivere il loro compitino pescando nelle loro cassette, nei loro
cataloghi
di retorica di pronta consultazione.

4. La parola

Dopotutto la guerra non è che una parola. O
innanzitutto. Come mostrano di credere i bravi giornalisti che,
Zingarelli
o Devoto-Oli alla mano, cercano di orientarsi per iniziare il loro
pezzullo. Come ogni parola, "guerra" può essere sottoposta al catalogo
dei
trattamenti e delle manipolazioni della retorica. Tema di un gioco
linguistico collettivo. Un gioco elusivo o consolatorio. Di qui la
valanga
di contraddizioni in termini, di ossimori ("contingente necessità"),
metafore ("varco aperto nel sacro recinto della sovranità nazionale"),
eufemismi (soprattutto: "danni collaterali"), equilibrismi lirici
("scommessa arbitraria sulla legittimità futura"), truismi, fino alle
tautologie alla D'Alema ("la guerra è la guerra", cioè, "gli affari sono
affari").E non sono mancati riferimenti all'attualità, fino agli omaggi
alla "teoria del caos".
Il messaggio è che questa guerra è strana, imperscrutabile, nuova. Forse
è
altro. Quale divario tra le sicurezze arroganti di ieri e l'imbarazzo di
oggi. Tutti a testimoniare di saper di non sapere, una volta scartate le
spiegazioni convenzionali come "ciarpame marxista" e "realpolitik".
"Non chiamiamola guerra!". In fondo le parole non sono che stipulazioni
tra parlanti. Basta mettersi d'accordo. Ma l'accordo non viene.
Sembrano mettersi d'accordo sulla circostanza che è l'assenza di regole
a
prendere il sopravvento, e quindi ecco balenare l'idea della "scommessa
sul
futuro", della creatività, del cambio di paradigma (che è quasi una
rivoluzione, sia pure solo semantica).
Ma oltre alla formidabile produzione di retorica, rimane la possibilità
di
cogliere le riflessioni, le contorsioni e le convulsioni nella
coscienza;
di apprezzare gli aggiustamenti e gli spostamenti progressivi che l'uso
combinato di immagini, propaganda e allocuzioni di maîtres à penser
stanno
producendo sull'intellettualità di massa, su quell'insieme plastico per
cui
è finalmente lecito parlare di "general intellect".
Un "intelletto" leggero, esercitatosi ultimamente nei movimenti del
"politically correct", cioè nella sottrazione sistematica di senso.
"Intelletto" selezionato con cura nelle redazioni dei giornali, nelle
televisioni, nelle case editrici e in quel che rimane dell'università;
"intelletto" secondo cui il massimo della professionalità intellettuale
consiste nel non avere opinioni divergenti.

5. Intorno alle cause

Le cause individuate dal pensiero "critico"
della guerra sono qui elencate un po' alla rinfusa. Tutte egualmente
"vere"
e manchevoli allo stesso tempo. Il travaglio di ricondurre l'ignoto al
noto
avviene anche nella sinistra non omologata, e forte risulta la
tentazione
di considerare quella contro la Jugoslavia "una guerra come le altre".
- Il tradizionale "imperialismo Usa" con le sue strategie geopolitiche
globali, il ruolo del complesso militar-industriale, i nuovi compiti
offensivi affidati alla Nato (espansione verso l'Est per recuperare e
integrare la fascia degli "ex paesi cuscinetto" e isolare e ridurre le
eventuali velleità di una futura "potenza slava" a centralità russa, una
volta che le economie capitaliste di questi paesi si siano stabilizzate
e
abbiano avviato dei cicli espansivi); l'idea di fare della Nato
addirittura
un organismo a vocazione globale alternativo all'Onu per sottrarsi
definitivamente ai veti vincolanti dei paesi componenti il Consiglio
permanente di sicurezza.
- Il progetto di "difesa europea" (una Nato senza Usa) concorrenziale, e
su una lunga prospettiva rivale, della Nato con gli Usa, che
attribuirebbe
nell'immediato un maggiore protagonismo internazionale all'Unione
europea,
non solo commerciale ma anche politico-militare e dunque di imperialismo
per il momento regionale. Queste tensioni, causa di attriti e frizioni,
traversano la Nato attuale e la condotta "militarmente insensata" (a
detta
di numerosi ex militari ed esperti di strategia francesi, inglesi e
americani) di questa guerra. L'Europa (la Germania che si gusta il
piacere
della rivincita, la Gran Bretagna e la Francia) non ha subìto questa
guerra
ma l'ha voluta almeno quanto gli Usa.
- Il "panpenalismo internazionale". Si tratta di una ideologia autonoma,
nel senso che non è emanazione di uno Stato particolare, che poggia però
su
una rete burocratica di strutture amministrative internazionali
("Tribunale
internazionale contro i crimini di guerra e i crimini contro
l'umanità"),
su alcune grosse Ong, su un personale di giuristi dei diritti dell'uomo,
esperti di diritto internazionale, ex sessantottini riciclati nel
giustizialismo del diritto d'ingerenza umanitario, seguaci del ius
cogens,
che ha diramazioni nei singoli governi essenzialmente europei.
Allargando
su scala internazionale il paradigma emergenzialista, costoro si
presentano
come gli interpreti genuini di una presunta "società civile
internazionale"
trasversale agli Stati sovrani. Gli Usa fanno un uso puramente
pretestuoso
dell'ideologia panpenalista, lì dove vi trovano una convenienza
congiunturale, pur non essendo panpenalisti strutturalmente. Sono
l'unico
paese a non aver aderito al "Tribunale internazionale", diffidano e
detestano un organismo transnazionale che si potrebbe rivelare una
variabile incontrollabile e che rischierebbe di mettere in questione la
sovranità della loro politica internazionale che risponde a dei puri
criterii di "realismo politico" (tutela dei proprii interessi di ogni
ordine e grado con tutti i mezzi leciti e illeciti possibili attualmente
esistenti e da inventare). I panpenalisti, a loro volta, non sopportano
gli
Usa; ma non perché considerino questo paese un violatore sistematico di
accordi e convenzioni internazionali, oltre che responsabile di infiniti
crimini di guerra e contro l'umanità. La loro è una
ostilità/fascinazione.
Si sentono rifiutati (da qui l'ostilità) da una grande potenza militare
che
potrebbe essere l'invincibile braccio armato (da qui il fascino) della
loro
giustiziauniversale "quotata a Wall Street" (come sostiene Scalzone).
- La variabile panpenalista si interseca e in parte si sovrappone con
una
seconda variabile, quella della "sinistra di governo", detta anche
"sinistra mondiale", quella del caminetto di Clinton. Una parte del
personale politico della generazione del '68 gestisce oggi le leve
mondiali
della politica: Clinton (il figlio dei fiori), Blair, Schroeder, Jospin,
D'Alema (che tirava molotov) e Solana (che faceva la guerra ai Pershing
e
ai Cruise). Gli effetti sinistri di questa sinistra sono stati il
rifiuto
cinico di affrontare la questione kurda, la prima guerra europea contro
un
paese che non aveva dichiarato guerra a nessuno Stato (ma a un popolo),
l'apertura continua di focolai che rischiano di incendiare l'intera
regione
dei Balcani. Nullaggine diplomatica e insulsaggine militare di una
guerra
aerea: un errore di supponenza che nessuna "destra realista" avrebbe mai
commesso. Doppiopesismo sfacciato nell'evocazione dell'argomento della
violazione dei diritti umani. Infine panpenalismo, cioè il giudiziario
come
regolatore dei rapporti internazionali. Ma non il diritto. Proprio come
in
Italia.
Cause, come si vede, certamente importanti e rintracciabili nei fatti.
Così come quelle sui "corridoi" di passaggio del greggio caucasico,
caspico
o mediorientale; sulle aree di influenza di questo e quel paese su
qualcun
altro.
Ma nessuna appare esaustiva. Né da sola, né tutte assieme riescono a
spiegare il senso di questa guerra.
Che, ci sembra, può essere intesa nella sua interezza solo come momento
di
decisione. La posta in gioco è fin dall'inizio politica. Ovvero:chi
comanda
oggi nel mondo. Non un organismo consensuale, ma una macchina da guerra
totale. Per questo la Nato non si era data altra opzione se non quella
del
prevalere a ogni costo. Fuori e contro ogni altro organismo, fosse
questo
l'Onu, il G8 o qualsiasi altra cosa. Fuori e contro l'Europa, in primo
luogo, unica aggregazione economica a livello mondiale potenzialmente in
grado di competere con il nordamerica sul piano dell'egemonia
capitalistica. L'Europa che aveva scelto un senso di marcia opposto
rispetto alle fondazioni di comunità "potenti": prima l'integrazione
monetaria e la libera circolazione delle merci, poi quella politica e,
infine, in un lontano futuro, quella militare. Senso di marcia su cui ha
sùbito incontrato - contromano - il tir impazzito degli Usa unica
iperpotenza militar-tecnologica, ritrovandosi così a essere entusiastica
autrice del proprio fallimento come "alternativa capitalistica". Il
vassallaggio europeo può essere tutto ritrovato nelle parole con cui
Massimo D'Alema enfatizza «l'accresciuta considerazione internazionale
dell'Italia»: un "alleato" prima sempre oscillante e tentato
dall'autonomia
che ora diventa servo zelante ed entusiasta.

(1/2, continua)


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