Nuovi articoli di Claudia Cernigoi 

1) IL PARTITO COMUNISTA NEL CLN TRIESTINO (giugno 2012)
2) CERIMONIE PER I POLIZIOTTI “INFOIBATI” (19 giugno)
3) DA BUTTIGNON A SPADARO: I MAZZINIANI DEL VENTUNESIMO SECOLO (luglio 2012)

Claudia Cernigoi cura il periodico triestino La Nuova Alabardahttp://www.nuovaalabarda.org/


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IL PARTITO COMUNISTA NEL CLN TRIESTINO

Nella propaganda nazionalista spacciata per informazione storica rispetto alle tematiche del confine orientale, uno dei concetti più ricorrenti è quello del Partito Comunista che non volle fare parte del CLN triestino in quanto si era schierato sulle posizioni jugoslave.
Così ad esempio leggiamo nel sito del Comune di Trieste:
“Il CLN a Trieste era costituito dal Partito Liberale, dalla Democrazia Cristiana, dal Partito d’Azione e dal Partito Socialista ma, a differenza di quelli operanti nell’Italia settentrionale, non poteva più contare sulla presenza dei comunisti in quanto costoro si erano orientati fin dall’autunno del 1944 sulle posizioni filojugoslave. Il CLN di Trieste era drammaticamente isolato dal CLN Alta Italia e i suoi appelli erano caduti nel vuoto in quanto per lo stesso CLN Alta Italia era chiaro che le truppe jugoslave dovevano essere considerate forze alleate alle quali non poteva essere opposta alcuna resistenza, restando come obiettivo prioritario la neutralizzazione delle truppe tedesche presenti in città e nel territorio circostante”.
(http://www.retecivica.trieste.it/triestecultura/new/musei/foiba_basovizza/default.asp?pagina=foibe_3)
Ma anche lo storico Roberto Spazzali scrive:
“nell’autunno 1944 con l’uscita del Partito comunista dal CLN di Trieste (unico caso del panorama resistenziale italiano)” (http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=168&arg=16&red=4).
È quindi il caso di fare un po’ di chiarezza tramite dei documenti che possono spiegarci la situazione.
Il CLN triestino, abbiamo letto nella prima citazione, era isolato dal CLNAI, ma per un motivo ben chiaro e logico: il CLNAI, in quanto organo di governo dell’Italia antifascista riconosciuto dagli Alleati, aveva (giustamente) invitato il CLN triestino a collaborare con il Fronte di liberazione facente riferimento alla Jugoslavia di Tito, governo riconosciuto dalle nazioni alleate.
Pertanto il CLN di Trieste, se voleva avere un riconoscimento internazionale dalla compagine antinazifascista, doveva giocoforza collaborare con l’Esercito di liberazione jugoslavo e (a Trieste) con il Fronte di Liberazione – Osvobodilna Fronta sloveno.
La politica del CLNAI era stata fatta propria anche dal Partito comunista giuliano, e per questo motivo, nell’ottobre del 1944, un delegato comunista, il musicista Giuseppe (Pino) Gustincich, cercò un contatto con il CLN giuliano. Leggiamo ora, come informazione da fonte sicuramente non “slavo comunista”, quanto scrisse don Edoardo Marzari, presidente e tesoriere del CLN giuliano, rappresentante della Democrazia cristiana.
“... in settembre (1944, ndr) mi si presentò a Trieste un certo Pino Gustincich, dicendo di essere stato designato a rappresentare i comunisti però non solo italiani ma anche sloveni. Gli risposi che il CLN era italiano e che non era ammissibile una rappresentanza slava in seno ad esso, esistendo già per gli slavi un loro proprio organo. Egli replicò che le direttive erano state cambiate e che solo a quella condizione il PC poteva far parte del CLN. Risposi che allora il posto del PC sarebbe stato vacante e così di fatto avvenne in seguito e ogni cosa si svolse fino alla liberazione e oltre senza la partecipazione del PCI” (“I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco, Udine 1960, p. 30).
Cioè, stando alle affermazioni di don Marzari, non è stato il Partito comunista triestino a non voler entrare nel CLN giuliano, ma il CLN giuliano a rifiutare, dopo avere disatteso le direttive del CLNAI, l’adesione del Partito comunista.
Chissà come mai gli storici accademici non hanno mai preso in considerazione queste affermazioni di don Marzari...

Giugno 2012


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CERIMONIE PER I POLIZIOTTI “INFOIBATI”



Sul “Piccolo” del 19 giugno leggiamo che il ministro della difesa austriaco, Norbert Darabos, ha deciso di togliere dall’elenco dei caduti di tutte le guerre conservati nella cripta della Burgtor di Vienna i nomi dei criminali nazisti. Ciò perché era invalso l’uso, da parte di nostalgici neonazisti, di approfittare di questo monumento per dare vita a manifestazioni apologetiche filonaziste.

Questa notizia segue di pochi giorni quella della cerimonia avvenuta nel famedio della Questura di Trieste il 12 giugno scorso, dove, su iniziativa dell’Unione degli istriani guidata da Massimiliano Lacota, è stata posta, alla presenza tra gli altri del questore Padulano, una corona “in memoria dei caduti della Polizia sequestrati ed infoibati”.

A questo punto è necessario fare alcune precisazioni storiche. Nel maggio 1945 la Polizia triestina, essendo forza armata, ed essendo la nostra città annessa al Reich germanico, era sottoposta direttamente al governo di Hitler, ed i suoi membri, per la maggior parte volontari, erano quindi militi nazisti, o, se vogliamo riconoscere loro delle attenuanti, quantomeno dei collaborazionisti.

Nell’elenco di “infoibati” (cioè degli scomparsi nel maggio 1945 e presumibilmente arrestati dagli Jugoslavi) presente nel famedio della Questura di Trieste vi sono molti nomi di agenti e funzionari di polizia che erano in forza presso l’Ispettorato Speciale di PS, la cosiddetta famigerata “banda Collotti” (dal nome del commissario Gaetano Collotti che era a capo della squadra operativa), corpo di repressione i cui dirigenti ed agenti si macchiarono di crimini efferati nei confronti dei prigionieri, torture e violenze carnali, arresti arbitrari e sequestri di persona, esecuzioni sommarie. Dei nomi presenti sulla lapide furono identificati in modo circostanziato come torturatori Mario Fabian (operò durante il rastrellamento di Boršt – S. Antonio in Bosco con la “macchina elettrica”), Alessio Mignacca (fece abortire una donna picchiandola, ed uccise almeno tre persone che tentavano la fuga), Bruno Luciani e Francesco Giuffrida.

Così come a Vienna il ministro Darabos ha deciso di giudicare “inaccettabile” l’atteggiamento di tolleranza nei confronti di coloro che onoravano nazisti “con il pretesto che erano riferiti a caduti in guerra”, quindi “persone degne di essere ricordate comunque al di là delle connotazioni ideologiche”, pensiamo sarebbe opportuno che anche in Italia si distinguesse tra le vittime e coloro che prima di diventare vittime erano stati carnefici.

 

Claudia Cernigoi

19 giugno 2012.



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DA BUTTIGNON A SPADARO: I MAZZINIANI DEL VENTUNESIMO SECOLO.

“Gli italiani dell’Adriatico orientale” è l’ennesima raccolta di articoli coordinata da Stelio Spadaro in collaborazione con l’AVL (Associazione Volontari della Libertà, gli ex partigiani “bianchi” o “fazzoletti verdi” collegati con la Osoppo), dopo “La cultura civile della Venezia Giulia: un\'antologia 1905-2005. Voci di intellettuali giuliani al Paese (LEG, 2008) e, con Patrick Karlsen, “L\'altra questione di Trieste” (LEG, 2006).
La peculiarità di questo ultimo lavoro è che è stato presentato in forma ufficiale il 18/6/12 dal Comune di Trieste (nella persona del sindaco Roberto Cosolini, PD) con la partecipazione del deputato Roberto Menia (FL, già AN e prima MSI). Ciò naturalmente ci ha incuriosito ed abbiamo preso visione (ancorché rapida per motivi di tempo) del libro, prima di andare a sentire la presentazione.
In effetti, a prima vista si tratta di una serie di interventi di carattere storico dei quali non si era sentito finora troppo la mancanza, tesi in genere a dimostrare la necessità di un sentimento di identità italiano nelle popolazioni “dell’Adriatico orientale”. Ora, come ha detto giustamente Spadaro nella presentazione del libro, non sempre l’identità corrisponde ad un “dato biologico” ma si tratta piuttosto di una “scelta personale”: di conseguenza è perfettamente comprensibile come il portatore di un cognome non italiano (ad esempio uno slavo, come Menia) decida di essere italiano anche se di suo non lo sarebbe, e di conseguenza, per dimostrare la propria italianità innaturale perché auto-indotta ha bisogno di ribadirla continuamente, a differenza di chi è italiano di suo e non necessita di ricordarlo a sé ed agli altri.
Che non si tratti di un testo scientifico ma di un libro di propaganda risulta dall’intervento del collaboratore di Spadaro, lo storico dell’arte Lorenzo Nuovo: “non è un libro di storia”, ha detto ma “un’adesione militante” ai valori che Fabio Forti porta avanti da anni, cioè un “patriottismo democratico” e valori “repubblicani”. D’altra parte anche Spadaro ha sostenuto che il lavoro sarebbe stato presentato meglio dal rappresentante dell’AVL Forti, che sembra quindi essere l’eminenza grigia ispiratrice di questo progetto politico-editoriale. Parliamo dunque di Fabio Forti,, classe 1927, che fu (citiamo quanto pubblicamente asserito dall’interessato in più occasioni) per un periodo mobilitato nel Sonderauftrag Pöll (leggiamo nel libro di R. Spazzali, “Sotto la Todt”, LEG 1995, che il “Sonderauftrag Pöll” sorto dalla “necessità di costituire una linea difensiva dallo Stelvio al Quarnero” fu, secondo la testimonianza del Gauleiter Rainer, che si assunse la responsabilità dell’iniziativa e designò come proprio sostituto il comandante della SS Globotschnig, resa al Tribunale della IV Armata di Lubiana solo “un nome sotto cui si nascondeva un’azione militare” per la quale furono mobilitati trecento dirigenti politici dalla Carinzia, che assieme ai capi delle SS chiesero la collaborazione di prefetti e podestà, dove furono questi ultimi ad eseguire la mobilitazione della manodopera in seguito ad un’ordinanza di Rainer ); poi, sarebbe entrato nella Guardia civica (ciò è confermato nel libro \"La Guardia Civica di Trieste\" edito dal Centro Studi Guardia Civica nel 1994) ma non da Spazzali che inquadra Forti nella Pöll fino al 30/4/45) ed “automaticamente” inserito nella Brigata Venezia Giulia del CVL.
Questa Brigata, dipendente dalla Divisione Rossetti, era in collegamento con la Brigata friulana Osoppo, con il SIM e con la missione inglese a Udine comandata da Nicholson; il suo primo comandante fu Giuliano Dell’Antonio Guidi, già capitano degli alpini, ufficiale di collegamento con la Osoppo, nonché uno dei referenti per chi “in seno alla Guardia Civica ed alla X Mas” si aggregava al CLN portando con sé le armi (nel “Diario storico della Divisione Rossetti”, Archivio IRSMLT n. 1156). Il suo vice era Ernesto Carra e al momento dell’insurrezione Carra faceva parte del “triumvirato militare” designato per la direzione del Comando di piazza del CVL, assieme ad Antonio Fonda Savio ed Ercole Miani. Sia Dell’Antonio sia Carra si trovano nell’elenco dei “gladiatori” pubblicato dalla stampa nel 1991 (“La notte dei gladiatori”, curato da Scarso e Coglitore, Calusca 1992) e nel dopoguerra Carra fu anche uno dei referenti delle “armi per Trieste italiana”. Renzo Di Ragogna (uno di coloro che parteciparono alle esercitazioni delle squadre armate triestine) disse di essere stato contattato da Carra nel 1947 per riunioni nelle quali venivano istruiti all’uso di armi e sulle tecniche di guerriglia. Nel 1953 Carra lo “informava che bisognava creare vari depositi di armamento, bene celati e nascosti da impiegarsi in caso di necessità dettata dall’invasione di Trieste da parte delle truppe jugoslave”, Di Ragogna si occupò di costruire 6 nascondigli. Dopo la scoperta dei depositi, nel 1954, Di Ragogna ritenne di dover andare via da Trieste e Carra si offrì di organizzargli “l’esfiltrazione”, ma Di Ragogna preferì agire da solo. 
Anche Fonda Savio e Miani appaiono tra gli organizzatori delle squadre: da una testimonianza di Galliano Fogar, nel 1954 Fonda Savio sarebbe stato il referente per una Organizzazione di difesa antijugoslava, mentre Ercole Miani avrebbe avuto il compito di organizzare i gruppi d’azione armati (i dati sulle “squadre” sono tratti dall’istruttoria su Argo 16, Proc. pen. n. 318/87 A G.I. del Procuratore Carlo Mastelloni di Venezia).
Dopo Dell’Antonio (che trovandosi in missione presso il Battaglione “Alma Vivoda” nel momento in cui questo fu attaccato dai nazisti sarebbe stato da loro arrestato, ma rilasciato e poi si sarebbe nascosto a Milano), dai documenti appare che il comandante della Brigata fu Romano Meneghello, anche se Forti afferma che al comando vi sarebbe stato un non meglio identificato “maresciallo dei CC che apparteneva alla resistenza da sempre” (cioè da quando?). Un altro appartenente alla Venezia Giulia, Giuseppe Ferrara, ha affermato che aveva giurato il 16/1/45 “con tre dita” (nel filmato “Quel 30 aprile del 1945”, AVL 2005); nei ruolini di essa troviamo nomi degni di interesse, da Carlo Fabricci (fu per anni segretario della UIL, il suo nome è negli elenchi della P2), a Giuseppe Ferfoglia (già nella X Mas, uno degli irredentisti armati sotto il GMA), a Mario Cividin (nel dopoguerra titolare di una delle più importanti imprese edili triestine, processato per corruzione ed assolto); ma soprattutto compaiono i nomi di tre agenti dell’Ispettorato Speciale di PS che risultano arrestati dalle autorità jugoslave nel maggio ‘45: Gaetano Milano e Francesco Giuffrida, incarcerati a Lubiana e presumibilmente fucilati e Giuseppe Scionti, che risulta invece disperso.
Alla Brigata, leggiamo, “si affiancarono all’atto dell’insurrezione molti elementi della cittadinanza non inquadrati nelle formazioni clandestine del CLN, che vennero armati e forniti di bracciali. Tali elementi non sono compresi nei nostri ruolini” (nel citato “Diario storico della Divisione Rossetti”).
Può essere questo il motivo per cui il nome di Forti non appare nei “ruolini” ufficiali del CVL. La Venezia Giulia si ricostituì poi nel maggio 1945 in funzione antijugoslava, agli ordini di Redento Romano: alcuni membri della Brigata (tra cui Romano Meneghello, Mario Cumo, Giuseppe Stancampiano, Armido Bastianini, Luigi Tricarico, Antonio Franceschi, Stelio Fiabetti, Cesare Buscemi) furono arrestati dalle autorità jugoslave intorno al 23 maggio e condotti a Lubiana, dove presumibilmente subirono un processo; Arturo Bergera scrisse che Meneghello, Cumo, Stancampiano ed altri “si erano proposti di difendere l’italianità di Trieste dall’invadenza slava”. (Arturo Bergera ed il capitano di corvetta Luigi Podestà, membri di una missione del SIM, furono arrestati dagli Jugoslavi per essersi appropriati dei fondi della Marina militare all’arrivo dell’esercito jugoslavo. La relazione Bergera si trova in Archivio IRSMLT 866). E può essere questo lo stesso motivo per cui anche Forti sarebbe stato ricercato dagli Jugoslavi, che però non riuscirono ad arrestarlo in quanto avevano un indirizzo sbagliato, almeno stando a quanto lo stesso Forti ha affermato nel filmato citato prima.
Fin qui alcuni appunti storici. Vediamo ora come Fabio Forti ha illustrato il suo pensiero storico e politico, in svariate occasioni:
“siamo scomparsi nel nulla per 55 anni poi un presidente repubblica (Ciampi, ndr) ha voluto che tornassimo alla luce per scrivere la storia mancante al confine orientale d\'Italia (27/2/08);
“il nostro CLN è stato l’unico in Italia che rimase in clandestinità fino al 1954, anzi nel nostro spirito, siamo ancora oggi in clandestinità” (15/10/04);
“la resistenza a Trieste non era solo quella dei partigiani di Tito, che era più facile perché fatta nei boschi, la nostra era più difficile, eravamo in città dove eravamo controllati da tutti (21/6/07).
Ed ancora relativamente ai fatti storici Forti sostiene che “nell\'ottobre 1944 i comunisti abbandonarono il CLN e messi alle dipendenze dell\'OF sloveno” (7/7/09), quando fu invece il CLN giuliano a non voler ottemperare (al contrario del Partito comunista) alle direttive del CLNAI di collaborare con l’OF e con gli Jugoslavi (alleati); e fu lo stesso don Marzari ad impedire al rappresentante comunista Pino Gustincich di partecipare alle riunioni del CLN affermando che se il PC voleva rappresentare sia gli italiani che gli sloveni locali non c’era posto per esso nel CLN giuliano (si veda a questo proposito l\'articolo di don Marzari ne \"I cattolici triestini nella Resistenza\", Del Bianco 1960, p. 30).
Inoltre Forti ha anche affermato che “trenta volontari del CVL” sarebbero stati “infoibati”, ma “ne mancano duecento all’appello”, e che “non esistono più” né la Venezia Giulia né l’Istria, nomi che sarebbero stati “cancellati dalle carte geografiche” (?), mentre deriverebbero “dalla Decima Regio dell’imperatore Augusto”, e la loro cancellazione significa la “cancellazione di tutta la nostra cultura”. 
Questo il pensiero di Forti a cui Spadaro e Nuovo hanno aderito: del resto lo stesso Spadaro rivendica di essere stato sempre un convinto seguace degli “ideali mazziniani”: fu con la sua segreteria che la sede dei DS fu dedicata a Carlo Schiffrer e che esponenti sindacali della UIL (sindacato che prosegue il filone culturale e politico del Corpo Volontari della Libertà “fino allora emarginati dalla sinistra”, come affermò il 16/12/09 il futuro sindaco di Trieste presentando il libro autobiografico di Spadaro, \"L\'ultimo colpo di bora\", LEG 2009) entrarono per la prima volta nei DS. Ci risulta comunque oscuro il motivo per cui il professore Spadaro, se è sempre stato “mazziniano”, si sia iscritto al Partito comunista quando in Italia esisteva un Partito repubblicano a disposizione di chi professava ideali mazziniani. Va invece spiegato perché la UIL triestina (guidata per anni dal piduista Fabricci) fu emarginata dalla “sinistra”: secondo la descrizione dell’allora segretario Luca Visentini (le citazioni che seguono sono tratte da un intervento del sindacalista il 15/10/04), essa sarebbe stata il legittimo erede di quei Sindacati giuliani nati dal CLN triestino, costituiti in alternativa ai Sindacati unici, i quali avevano un atteggiamento anticapitalistico e quindi estraneo alla Camera del Lavoro che invece negoziava i diritti; ma che inoltre “facevano politica e non sindacato”, dato che indicevano scioperi per Trieste jugoslava. Visentini ha poi aggiunto, forse poco coerentemente, che la UIL indisse uno sciopero generale nel 1952, quando iniziarono le manifestazioni per Trieste italiana ed indisse quelle del 1953 (i morti in queste occasioni furono diversi, ricordiamo). Inoltre nel dopoguerra la UIL “iscrisse ex fascisti in funzione antijugoslava”, e verso la comunità slovena vi fu “una chiusura non etnica ma politica”. 
Senza commentare queste affermazioni, diciamo invece che ci ha colpito la coincidenza temporale di un’altra iniziativa di riscoperta del pensiero mazziniano, svoltasi solo un paio di settimane prima (6/6/12), organizzata dall’associazione “Strade d’Europa” (che pubblica la testata web “Stato e potenza”, dal titolo di un testo del comunitarista russo Zivganov). Moderata dal portavoce Lorenzo Salimbeni (già esponente della “Riva destra” di Azione giovani, del Direttivo della Lega Nazionale, collaboratore della rivista “Eurasia” del nazimaoista co-fondatore di Ordine nuovo Claudio Mutti), figlio del docente Fulvio Salimbeni, il cui assistente, Ivan Buttignon, è stato uno dei relatori ed ha dissertato sul mazzinianesimo come idea primigenia della sinistra in Italia, non marxista né socialista, spiritualista e non materialista, nazionalista e non internazionalista, solidale ma non collettivista. Secondo Buttignon sia il comunismo sia il capitalismo si sviluppano in uno sfruttamento dell’uomo sull’uomo, richiamandosi alla teoria di Massimo Fini che l’industrialismo è una moneta con due facce, da una parte il capitalismo e dall’altra il comunismo. Fini è il fondatore del Movimento Zero cui hanno aderito svariati esponenti di destra, l’ora defunto Paolo Signorelli (altro fondatore di Ordine nuovo, esponente del Fronte nazionale di Borghese, ideologo di Costruiamo l’azione, di Lotta popolare e di Terza posizione); Alain de Benoist; l’ex golpista mancato con Borghese Alberto Mariantoni; l’ex parlamentare di AN Antonio Serena (espulso dal partito dopo che aveva fatto girare in aula un appello di solidarietà a Priebke). Qui una parte del manifesto costitutivo:
“Levate la testa, gente. Non lasciatevi portare al macello docili come buoi, belanti come pecore, ciechi come struzzi che han ficcato la testa nella sabbia. In fondo non si tratta che di riportare al centro di Noi stessi l’uomo, relegando economia e tecnologia al ruolo marginale che loro compete. Chi condivide in tutto o in parte lo spirito del Manifesto lo firmi. Chi vuole collaborare anche all’azione politica, nei modi che preferisce e gli sono più congeniali, sarà l’arcibenvenuto. Abbiamo bisogno di forze fresche, vogliose, determinate, di uomini e donne stufi di vivere male nel migliore dei mondi possibili e di farsi prendere in giro. Forza ragazzi: si passa all\'azione”.
Buttignon, autore di “Compagno Duce” (Hobby and Work 2009), ha partecipato ad un convegno indetto da CasaPound Brescia “Linea Rossa su Sfondo Nero: Il Fascismo di Sinistra da Sorel a Salò” assieme a Simone Di Stefano, vice responsabile nazionale di CPI ed a Mirko Bortolusso del PD veneziano; ma è anche collaboratore dell’Accademia Ricerche Sociali di Trieste, il cui fondatore è Massimo Panzini, già capo di gabinetto del sindaco di Trieste Roberto Di Piazza, ed oggi sostenitore del sindaco di centrosinistra Roberto Cosolini. Altro relatore del convegno avrebbe dovuto essere Marco Costa, espulso da Rifondazione dopo avere pubblicato un libro sul “nazionalcomunismo” di Ceausescu per le edizioni All’insegna del veltro di Mutti. 
Di Mazzini scrive Wikipedia che “la sua influenza sulla prima fase del movimento operaio fu per questo molto importante ed anche il fascismo, in particolare la sua corrente repubblicana e socializzatrice, si ispirerà al pensiero economico mazziniano come Terza Via tra il modello capitalista e quello marxista”: si comprende quindi come tale teoria possa andare bene ai seguaci del “comunitarismo” di Jean Thiriart, come i Mutti ed i Signorelli, ed ai rossobruni che si riconoscono nelle varie pubblicazioni prima citate, ma è più difficile capire perché eserciti un tale fascino su esponenti del vecchio PCI come Stelio Spadaro.

luglio 2012