(Sullo stesso tema si vedano i materiali raccolti alla pagina: https://www.cnj.it/documentazione/karadzic.htm )


Radovan Karadzic condannato a 40 anni di carcere

di Pacifico Scamardella, 3 Aprile 2016

Nel 17mo anniversario dell’aggressione NATO alla Jugoslavia, una condanna che sa di giustizia coloniale.                                                                 


Il Tribunale dell’Aja, costituito con la risoluzione numero 827 del 25 maggio 1993, ha condannato il 24 marzo scorso Radovan Karadzic (età 70 anni) a 40 anni di carcere per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e per aver avuto un ruolo sostanziale nel “genocidio”, dei mussulmani di Bosnia (il “massacro di Srebrenica” e “l’accerchiamento di Sarajevo”), dopo un processo che ebbe inizio nell’ottobre 2009.

La sentenza accerterebbe le responsabilità dell’imputato nel genocidio avvenuto nella piccola città Bosniaca di Srebrenica, ove, secondo le stesse ricostruzioni del tribunale, furono uccisi i maschi di “robusta costituzione” mussulmani, implicando serie conseguenze nella procreazione della popolazione, che ne avrebbe potuto comportare l’estinzione. Il tutto anche se donne e bambini furono risparmiate. Inutile dire che ciò è semplicemente ridicolo. Ammettendo che i fatti, così come descritti dal TPI, siano successi davvero, è possibile dar loro la definizione di genocidio? Considerando il fatto che molti degli uomini mussulmani che furono uccisi a Srebrenica non erano nemmeno originari del luogo, come può un atto di guerra essere definito genocidio?[1]

Non entrerò nel merito del procedimento specifico, in quest’occasione vorrei solamente esprimere alcune riflessioni su chi giudica e su come si possono istituire tribunali ad hoc, in piena violazione del diritto internazionale.

Con risoluzione 827 del 25 maggio 1993, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite da vita, operando nell’ambito dei poteri attribuitegli dal capitolo VII della Carta dell’Onu, al “Tribunale penale internazionale per perseguire i responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell’ex Jugoslavia dal 1991”. Un Tribunale ad hoc che violerebbe i principi del giudice naturale. Trattasi di organo sussidiario del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tuttavia non è soggetto all’autorità o al controllo del Consiglio per tutto ciò che riguarda l’esercizio delle loro funzioni giudiziarie. Il Tribunale è composto da civili e non vi siede personale militare e sono formati da tre organi fondamentali: corte, procuratore, cancelleria. L’organo giudicante si compone di due camere di primo grado per ciascuno dei due tribunali, formate ognuna da tre giudici e da una camera d’appello, formata da cinque giudici. La decisione di istituire tale Tribunale, è stato fatta a seguito di numerose iniziative politiche e militari, ove la comunità internazionale è intervenuta all’interno delle questioni jugoslave.

Il grimaldello giuridico che giustificherebbe l’istituzione del TPI sarebbe il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, interpretato in senso molto largo, cioè allargando il potere del Consiglio di istituire organi giuridici, mentre fino ad allora era stato usato solo per implicare gli Stati ad azioni collettive implicanti o meno l’uso della forza.

Sicuramente, una simile estensione dei poteri del Consiglio di Sicurezza non era originariamente prevista dagli estensori dello Statuto dell’Onu. Gli Statuti dei tribunali internazionali ad hoc indicano tra i crimini da perseguire, quelli già presi in considerazione dai Trattati internazionali in materia e catalogano espressamente i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (ratione materiae) e fissano espressamente la competenza dei Tribunali  stessi nei confronti di persone fisiche (ratione personae) che abbiano commesso crimini in periodi definiti di tempo (ratione temporis). La risoluzione con la quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite istituisce il Tribunale speciale per l’ex Jugoslavia afferma il principio secondo il quale il ricorso alla giustizia internazionale è mezzo imprescindibile per ottenere il ristabilimento della pace e della sicurezza. Tuttavia sulla base di questo principio ogni volta che dovesse ripresentarsi una situazione di conflitto e la conseguente commissione di crimini di diritto internazionale, le Nazioni Unite dovrebbero istituire un Tribunale ad hoc per portare i responsabili davanti alla giustizia. Questo non avviene però sempre e regolarmente; infatti, la limitatezza dell’area geografica rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza ha ravvisato la necessità di istituire i Tribunali a fronte delle numerose altre aree del mondo in cui si sono manifestate gravi violazioni del diritto umanitario, solleva il problema di una giustizia selettiva che risponde, secondo gran parte della dottrina, a esigenze politiche più che giuridiche. I tribunali ad hoc non sono, dal punto di vista giuridico, una soluzione ottimale per garantire la punizione di fatti di rilevanza penale, perché si tratta di una giustizia ex post facto, istituita cioè dopo la commissione dei fatti. La giustizia internazionale penale non può essere costruita attraverso eccezioni al principio di “irretroattività della legge penale”. Per poter ritenere un soggetto penalmente responsabile occorre che egli sappia non solo che esiste una norma che sancisce un certo comportamento, ma anche che esiste un giudice incaricato di applicarla. Alla giustizia internazionale parzialmente a posteriori è per questo preferibile l’istituzione di un Tribunale penale internazionale permanente. Caso vuole che i principali sponsor del TPI, gli Stati Uniti, siano allo stesso tempo coloro che hanno boicottato la Corte Penale Internazionale, istituita successivamente con lo Statuto di Roma nel 1998.

Tornando al capitolo VII della Carta dell’Onu, in nessuno dei suoi articoli, in effetti, si da potere al Consiglio di Sicurezza di istituire dei Tribunali come misura per contrastare la violazione della pace, o minaccia della pace, o aggressione. Il Consiglio si è insomma autoinvestito di un potere legislativo che non gli compete, sfruttando il proprio potere vincolante per porre gli Stati di fronte all’obbligo di accettare il fatto compiuto.  La questione fu sollevata subito dalla difesa di Dusko Tadic, che sollevava questioni di legittimità del Tribunale. Senza ripercorrere tutta la vicenda giudiziaria, ricordiamo in breve la sentenza del giurista italiano Antonio Cassese, presidente della Camera di secondo grado, che con sentenza del 02 ottobre 1995[2], stabilisce che il Tribunale afferma la propria competenza ad esercitare il controllo di legittimità sulle decisioni del Consiglio, motivandolo con l’esigenza di salvaguardare la stessa natura giurisdizionale del potere del quale è stato investito, non sussistendo nell’ordinamento internazionale alcun altro organo giudiziario in grado di farlo. In questo modo il Tribunale caratterizza nettamente gli organi giurisdizionali internazionali rispetto a quelli nazionali, descrivendoli come organi che, non essendo ancora inquadrati in un sistema giudiziario organizzato e unificato, sono “auto-sussistenti” e quindi giudici di se stessi”. Si è cioè realizzato il paradosso di affidare il controllo dell’atto di un organo (quello del C.d.S. che istituiva il tribunale), ad un organo istituito attraverso quello stesso atto.[3]

In base al diritto internazionale consolidato in norme consuetudinarie o da convenzioni vincolanti, lo Stato impegnato nel conflitto con un altro Stato (o altro ente di fatto) cui appartengono gli autori dei crimini di diritto internazionale, può sottoporre questi a giudizio e quindi eseguire l’eventuale condanna, durante il conflitto stesso. Come garanzia opera la reciprocità, anche se vi sono palesi rischi di parzialità[4]. Ma si può dire la stessa cosa del TPI?

Il contesto nel quale il Tribunale penale internazionale per i crimini in ex Jugoslavia (TPI) sta operando, è caratterizzato da un assoluto e totale capovolgimento del diritto internazionale. Istituendo tale Tribunale prescindendo dalla sovranità e dal consenso degli Stati coinvolti, il Consiglio di sicurezza ha commesso un abuso dei propri poteri, violando i principi base del patto associativo regolato dalla Carta delle Nazioni Unite, nonché il principio della sovranità degli Stati, e dell’uguaglianza fra loro (“I Membri [delle Nazioni Unite] devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”- art. 2 Carta dell’ONU). Ciò che colpisce di più dell’iniziativa del Consiglio di Sicurezza, è il fatto che l’istituzione del tribunale, e il conferimento di un potere giurisdizionale non vengono rimessi ad un accordo interstatale. Altro invece si deve dire se l’istituzione del tribunale avviene solo sulla base della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, e quindi sulla base di una decisione che coinvolgerebbe solo alcuni Stati, ad esclusione di quelli direttamente coinvolti, poiché in questo caso si verrebbe a creare la situazione di una decisione autoritaria nei confronti degli Stati esclusi (la risoluzione è stata cioè adottata dai soli 15 membri del Consiglio e non coinvolge gli Stati direttamente coinvolti). Gli Stati più direttamente coinvolti nel processo ad individui autori di crimini internazionali sono normalmente quelli che hanno la disponibilità dell’imputato, sui mezzi d’indagine, e maggiori possibilità di attuazione della condanna, in forza del rapporto organico o di cittadinanza che li lega agli imputati o alle vittime. Si tratta dunque dello Stato di cui è organo o cittadino l’autore del fatto, di cui è cittadina la vittima o nel cui territorio il fatto è stato commesso. Cardine delle Nazioni Unite è la sovranità statale, che può essere limitata se e solo se vi è previo accordo tra le parti. Altrimenti si violerebbe la sovranità indipendenza degli Stati, che sta alla base del principio di non ingerenza negli affari interni.  Inoltre lo stesso CdS (Consiglio di Sicurezza), non può oltrepassare gli specifici attributi che la Carta dell’Onu le da (art 24 della Carta). Ma questo pilastro è stato distrutto. Si passa dalla forza del diritto, al diritto della forza. In capo al CDS non vi è alcun Jus Puniendi (diritto a giudicare o condannare qualcuno), che è prerogativa del diritto dello Stato Sovrano. Nel sistema delle Nazioni Unite l'accettazione di obblighi internazionali da parte degli Stati è espressamente vincolato al rispetto dei dettati costituzionali interni. E questo è un principio fondamentale, come ha affermato un grande studioso austriaco di diritto internazionale, Alfred Verdross: l'ONU non ha sovranità direttamente sugli individui.[5] In quest'ambito bisogna rispettare la sovranità degli Stati, cosicché la diretta azione dell'Onu sugli individui, senza passare attraverso la struttura legislativa dello Stato, è esclusa. Quest’aspetto è essenziale, è uno dei motivi per cui un'iniziativa come il TPI è da respingere come totalmente illegale.

Tuttavia, a giustificazione di quanto fatto, spesso si fa un parallelismo col Tribunale di Norimberga, che però appare fuori luogo. Quel tribunale si giustificava col fatto che i crimini commessi dai nazisti fossero assolutamente unici e giuridicamente venne fondato sul fatto che lo stato tedesco si era totalmente estinto, per cui i poteri sovrani venivano esercitati in Germania dalle quattro potenze occupanti. Le basi del giudizio di Norimberga, e del giudizio di Tokyo degli altri processi instaurati dalle potenze vincitrici avevano una certa solidità, in quanto fondate sull’antica consuetudine della punizione dei criminali di guerra nemici, e i loro Statuti erano emanazione delle potenze occupanti. Inoltre la punizione dei crimini contro l’umanità commessi dal Giappone e dall’Asse era stata ripetutamente preannunciata come ineludibile almeno dal 1941 ed era diventata vincolante e precisa con la Dichiarazione di Mosca del 1943. L’apparente retroattività delle norme fu giustificata con l’argomento che si trattava -almeno per i crimini di guerra e contro l’umanità-di fatti già previsti in ogni paese civile come delitto. Altra differenza consiste nel fatto che in base all’art. 6 del Tribunale per l’ex Jugoslavia, la competenza si limita alle persone fisiche. Ciò esclude non solo la materia dei crimini degli Stati, ma altresì la competenza sulle persone giuridiche e sulle associazioni che era invece sancita invece dagli art. 9 e 10 dello Statuto di Norimberga e dall’art. 5 dello Statuto di Tokyo. Altro pilastro su cui fanno leva i “partigiani” della presunta giustizia internazionale targata NATO, è la cosiddetta Universalità della giurisdizione penale degli Stati per i crimini allarmanti, di particolare efferatezza: il concetto consiste nell’ affermare che quei crimini siano sempre e comunque da perseguire da ciascuno Stato. Tuttavia ciò potrebbe avvenire se e solo se si ha una soglia di collegamento con lo Stato che pretenda di giudicare tramite norme consuetudinarie o di trattato. Il lettore si immagini altrimenti la babele di giurisdizioni concorrenti, almeno in un mondo dove tutti gli Stati siano tutti uguali. I partigiani della presunta giustizia internazionale che vede come madrina una donna chiamata Albright (che in una conferenza stampa giustificava la morte di mezzo milione di bambini iracheni causati dall’embargo contro la repubblica dell’Iraq) però, sanno benissimo come vanno le cose nel mondo reale. Costoro, in maniera alquanto pudica, sottintendono che l’universalità potrebbe sussistere solo grazie alla presenza di Stati un po’ più uguali degli altri. Chi sono questi Stati? Naturalmente quelli che si autoproclamano civili, ovvero quelli occidentali, vale a dire quelli che predicano democrazia e libero mercato per la gioia immensa dei popoli del terzo mondo.

Si potrebbe rammentare che le Convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto bellico prevedono, per gli Stati parti, una obbligatoria universalità di giurisdizione per i crimini di guerra: ciò però solo davanti ai giudici dei contraenti. Non è prevista l’istituzione di un tribunale internazionale. In quest’ultimo caso si avrebbe una sorta di giudice speciale che giudicherebbe secondo i criteri del Diritto Penale del Nemico, con buona pace della presunzione di innocenza. Il regolamento dello stesso tribunale è una vera delizia per tutti i nostalgici della Santa Inquisizione. Il tribunale appare sia un corpo legislativo sia giuridico. I giudici scrivono le regole della Procedura e possono altresì fare emendamenti. La regola numero 6 inoltre precisa che il Presidente può apportare variazioni di sua iniziativa e ratificarle via fax ad altri giudici.  In poche parole, costoro applicano le leggi che loro stessi scrivono! Quest' assenza di separazione della funzione dalla funzione legislativa da anche la possibilità ai giudici di interpretare le norme come meglio credono senza che ci sia sorta di controllo alcuno. Così si impedisce alla difesa ogni possibilità di poter contestare l'interpretazione, anche nel caso in cui l'interpretazione stessa dovesse   risultare non corretta. Inoltre, il procuratore ha la possibilità di proporre emendamenti alla procedura. In questo tribunale manca totalmente il concetto di doppio grado di giudizio, poiché i membri della prima istanza in un giudizio possono essere gli stessi nella seconda in un altro giudizio, si intuisce facilmente che per quieto vivere, non si contrasteranno mai. Inoltre, non vi è nemmeno un giudice per le indagini preliminari che investighi sulle accuse. Si fa uso di testimoni anonimi, senza che la difesa possa realmente confrontarsi con costoro (l'articolo 75 del Rules of Procedure and Evidece stabilisce l'opportunità per il TPI di tener nascosta l'identità del testimone, anche grazie l'uso di tecnologia che ne alterino il suono della voce durante il dibattimento, nonché negare la possibilità ala controparte di controinterrogarli. Altro principio che impedisce un confronto ad armi pari tra accusa e difesa), può rifiutarsi di ascoltare gli avvocati della difesa, può detenere i sospettati per 90 giorni prima di formulare le imputazioni. Inoltre l’art. 53 del regolamento indica la possibilità per il tribunale di non far conoscere all’imputato il perché viene processato, tenendo gli elementi a suo carico nascosti. Questo è semplicemente inaccettabile.

L'articolo 94 al paragrafo A del Rule of Procedure Evidence introduce il principio del fatto notorio. Lo scrivente ritiene tale scelta un vero e proprio azzardo, se non una provocazione, poiché nei fatti di Jugoslavia il ruolo dei media, e delle loro menzogne, ha fatto la parte del leone.  A questo proposito si consideri l’eccellente lavoro di agenzie di comunicazione come Ruder&Finn Global Public Affaire, Hill&Knowlton, Saachi&Saachi, McCann&Erickson et Walter Thompson (queste ultime collaborano spesso con la CIA) è riuscito a creare l’immagine di vittime da un lato e di carnefici dall’altro, e a minimizzare l’orrore della guerra con la formulazione di slogan come “guerra umanitaria”, “azione di polizia internazionale”, “danni collaterali”. L’agenzia di comunicazione impiega una tecnica operativa, spesso mortale, tendente a piazzare il governo cliente in posizione vantaggiosa agli occhi del mondo. Gli schemi sono ripetitivi. Una campagna di martellamento diffamatorio viene lanciata nella stampa, dove una serie di rivelazioni ignobili sul comportamento della parte avversa crea un pregiudizio negativo che si ancorerà profondamente nell’inconscio collettivo. Un esempio: l’immagine del musulmano scheletrico dietro il filo spinato è rimasta istituzionale per rappresentare i nuovi nazisti. In realtà si trattava di un campo di rifugiati a Tiernopolje nella Bosnia serba, dove la gente era libera dei suoi movimenti. Infatti, l'équipe della televisione britannica ITN, che ha fatto lo scoopsi trovava dietro il filo spinato e aveva piazzato gli uomini intorno al luogo cintato dove stava per proteggere il suo materiale dai furti.

James Harff, all’epoca direttore della Ruder Finn Global Public Affairs, in un'intervista con il giornalista francese Jacques Merlino, riportata nel suo libro (Les vérités yougoslaves ne sont pas toutes bonnes à dire), parlando dei clienti nell’ex Jugoslavia, della strategia e dei successi raggiunti, diceva: "Fra il 2 e il 5 agosto 1992, il New York Newsday é uscito con la notizia dei campi. Abbiamo afferrato la cosa al volo e immediatamente abbiamo messo in contatto tre grandi organizzazioni ebraiche: B'nai B'rith Anti-Defamation League, American Committee e American Jewish Congress (...) l'entrata in gioco delle organizzazioni ebraiche a fianco dei bosniaci fu uno straordinario colpo di poker. Allo stesso tempo abbiamo potuto nell'opinione pubblica far coincidere serbi con nazisti (...) Il nostro lavoro non é di verificare l'informazione (...) Il nostro mestiere é di disseminare le informazioni, farle circolare il più velocemente possibile per ottenere che le tesi favorevoli alla nostra causa siano le prime ad uscire (...) Quando un’informazione é buona per noi, dobbiamo ancorarla subito nell'opinione pubblica. Perché sappiamo molto bene che é la prima notizia che conta. Le smentite non hanno alcuna efficacia (...) Siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo pagati per fare della morale. E anche quando questa fosse messa in discussione, avremmo la coscienza tranquilla. Poiché, se lei intende provare che i serbi sono delle povere vittime, vada avanti, si troverà solo (...)".

Alcune violazioni concrete le vogliamo ricordare esplicitamente: il caso Djukic, il 30 gennaio 1996 venne rapito da truppe musulmane durante un viaggio di cui erano state messe a conoscenza le truppe IFOR della Bosnia centrale, e che poi fu trasferito All'Aia tramite Sarajevo, benchè non ci fosse nemmeno l'ombra di un mandato d'arresto all'epoca. Djukic, malato di cancro, non fu ritenuto degno di essere curato, per cui morì il 18 maggio 1996. Sempre per negligenza del Tribunale, Milan Kovacevic nella sua cella All'Aia, muore di crisi cardiaca[6]. Il 5 gennaio 2006, soldati italiani delle truppe Eurofor stanziate in Bosnia, al momento dell'arresto di Dragomir Abazovic, uccidono la moglie Rada, inventandosi che La povera Rada avesse tentato un'improbabile difesa armata di Kalashnikov.

 Peccato però, che nessun soldato risultò ferito, e lei risulta uccisa con un solo proiettile.
Il 5 marzo 2006 si "suicida" Milan Babic, presidente della Krajna nel 1991 fino al 1995. Egli si era consegnato spontaneamente al tribunale.
Infine l'11 marzo 2006 muore Milosevic … che fu arrestato ed estradato a seguito di un mandato della canadese Louise Arbour, pubblica accusa al Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, che ha emesso il mandato di cattura per Milosevic sulla base di documenti ricevuti il giorno prima da una delle due parti in causa, il governo degli Stati Uniti.

Invece il generale croato Tihomir Blaskic affrontò il processo in una lussuosa villa protetto dalle sue guardie del corpo.

Il TPI non prevede nel suo Statuto forme di risarcimento per ingiusta detenzione. Anche qui si nota un netto contrasto con quanto dice l'articolo 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici al comma 5 dice: “Chiunque è stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo”.

 

La giustizia di un Tribunale ad Hoc, è dunque quella di una parte in causa contro l’altra: l’esatto contrario della giustizia imparziale. Il TPI è uno strumento politico, anzi di guerra, nelle mani della NATO contro l’ex classe dirigente della Jugoslavia dell’epoca. Lo stesso Jamie Shea, portavoce Nato durante i bombardamenti sulla Jugoslavia, ammise che gli stessi paesi Nato sono i finanziatori del Tribunale.[7] A questi si aggiungono il National Endowment for Democracy, l’Open Society e la Rockefeller family Associates, già note per il loro “disinteressato” appoggio a rivoluzioni colorate ed a improbabili primavere in giro per il mondo.


[1] Sulla ricostruzione dei fatti e sulle incongruenze delle accuse formulate dai giudici del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia rimandiamo a: Goran Jesilic Uomini e non uomini Zambon; AAVV Il dossier nascosto del genocidio di Srebrenica, La città del Sole. Inoltre segnalo gli articoli di Diana Johnstone http://www.counterpunch.org/2016/03/30/international-injustice-the-conviction-of-radovan-karadzic/ e di Nicola Bizzi http://press.russianews.it/press/finalmente-emerge-la-verita-su-srebrenica-i-civili-non-furono-uccisi-dai-serbi-ma-dagli-stessi-musulmani-bosniaci-per-ordine-di-bill-clinton/

[2] Prosecutor vs Dusko Tadic case no IT-94-1-AR72

[3] Carlo Magnani, Il diritto dell’impero: tra ingerenza umanitaria e tribunali internazionali, La città del Sole Napoli 2001 p.16

[4] Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Napoli 2005 p.16 e ss.

[5] Citato da Aldo Bernardini durante la Conferenza tenutasi All’Aja il 26 Febbraio 2005 a cura dell’ ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milosevic “The Hague Proceedings against Slobodan Milosevic: Emergine Issues in International Law” scaricabile presso il sito www.icdsm.org

[6] per approfondimenti vedere l’articolo di Jurgen Elsasser reperibile dal sito www.jungewelt.de/2006/03-13/003.php

[7] Andrea Martocchia Diritto e… rovescio internazionale nel caso Jugoslavo 11 Aprile 2015 apparso su www.marx21.it