“LE MENTI DEL DOPPIO STATO”. UNA RECENSIONE.

di CLAUDIA CERNIGOI
venerdì 25 settembre 2020
Abbiamo in altre occasioni stigmatizzato come il giornalista Giovanni Fasanella sia uso a scrivere testi nei quali, partendo da documentazione dei servizi angloamericani che descrivono una marea di attività eversive anticomuniste a fronte di una organizzazione difensiva delle sinistre, riesce a trasmettere il messaggio che i veri nemici della democrazia che si stava formando in Italia non erano i nostalgici del fascio arruolati dagli Stati Uniti per frenare il comunismo, ma i comunisti, dai quali era necessario difendersi anche in preventivo, cioè pur in assenza di qualsivoglia azione illegale da parte loro. Del resto Fasanella ha a lungo collaborato con l’ex presidente della Commissione stragi, il diessino Giovanni Pellegrino che nel 1997 aveva rilasciato un’intervista al mensile (espressione della cosiddetta destra sociale) Area nella quale diceva che «una volta chiarite le foibe si riuscirà a capire la storia interna del paese: perché gli uomini della destra radicale e i partigiani bianchi si sono uniti in gruppi clandestini anticomunisti».
In quest’ultimo lavoro (“Le menti del doppio stato”, scritto con Mario J. Cereghino, edito da Chiarelettere), i limiti e le pecche del modo di fare informazione di Fasanella emergono forse ancora più chiaramente che nei testi che lo hanno preceduto (fatto salvo forse il suo peggiore prodotto, “Terrore a Nordest” scritto con Monica Zornetta, che raccoglie una tale sequela di falsità che riteniamo dovrebbe essere tolto dal mercato ai sensi dell’art. 656 del Codice Penale, quello che punisce la diffusione di «notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico».
Gli autori esordiscono con questo curioso preambolo: «questo libro (…) non è un trattato di storia ma un’inchiesta giornalistica. Con tutti i limiti del genere (…) ma anche, si spera, con tutta la libertà».
Una libertà che però non dovrebbe arrivare fino al punto da ignorare le più basilari regole di deontologia professionale, come la verifica delle fonti e dell’attendibilità delle medesime, come intendiamo spiegare nelle pagine che seguono.
In seguito alla collaborazione con il “cacciatore di documenti” Mario Cereghino, che ha raccolto, con un lavoro pluriennale e degno di tutto rispetto, negli archivi britannici e statunitensi una mole considerevole di documentazione, Fasanella ha iniziato un nuovo filone del suo lavoro dopo i libri-intervista scritti con Pellegrino, l’ex brigatista Alberto Franceschini, il giudice Rosario Priore, per citare solo i più importanti. Dopo “Il golpe inglese” del 2011, anche in questo testo vengono presentati documenti tratti dagli archivi dei Servizi segreti britannici, dai quali documenti (per lo più informative, va detto subito) sono estratte frasi o concetti descrittivi della situazione italiana dagli ultimi mesi di guerra in poi. Avevamo già visto Cereghino fare lo stesso tipo di lavoro assieme al purtroppo prematuramente scomparso ricercatore siciliano Giuseppe Casarrubea, il quale però aveva uno stile di lavoro diverso rispetto a quello di Fasanella, Casarrubea non si limitava a stralciare frasi dall’uno o dall’altro rapporto pubblicandole acriticamente, ma cercava di dare ai contenuti delle informative una contestualizzazione analitica ed un inquadramento storico basato anche su altre fonti.
Nel “Le menti del doppio stato” questo lavoro analitico manca, ma non solo: gli autori sembrano accogliere senza riserve il contenuto delle varie “informative” prese in considerazione. Va ricordato (lo abbiamo più volte ribadito) che una “informativa” è nulla più di una relazione che funzionari dei Servizi inviano ai superiori su quanto comunicato da una fonte, generalmente anonima o con un nome in codice (nei documenti citati nel libro non si trova quasi mai il nome – neppure quello in codice – dell’informatore), che a sua volta riferisce di quanto è venuto a conoscere. Tali informazioni, se non vengono suffragate da altra documentazione valida non possono essere considerate documenti definitivi, ancorché “ufficiali” (termine questo molto caro a chi pensa di fare ricostruzione storica in tale modo, anche se non intende scrivere un “trattato di storia” ma solo una “inchiesta giornalistica”). Ed il grosso difetto di questo libro è proprio che quanto appare nei documenti citati viene preso per verità rilevata pur in assenza della ben che minima opera di ricerca di conferma o smentita di quanto riportato.
Le “bufale” contenute in queste trecento pagine sono tante e tali che non possiamo, per motivi di spazio approfondire la smentita di tutte. Iniziamo da un capitolo centrale, quello che riguarda vicende delle nostre terre, che sono quelle che meglio conosciamo e che si intitola “Lo sconfinamento francojugoslavo e la scommessa anglotitina sul caos”.
Tralasciando la seconda parte del titolo, che ci è francamente oscura, diciamo innanzitutto che, se la lingua italiana non è cambiata da quando noi abbiamo frequentato le scuole elementari a quando è stato scritto questo libro, sconfinamento francojugoslavo significa che francesi e jugoslavi hanno sconfinato assieme da qualche parte. Leggendo il capitolo però si vede che gli autori parlano di due “sconfinamenti” diversi, francesi ad ovest e jugoslavi ad est. In realtà parlare di sconfinamento nel caso in cui un esercito belligerante occupa militarmente uno stato nel corso di una guerra e nel rispetto degli accordi alleati è un po’ scorretto: gli statunitensi sono “sconfinati” in Sicilia nell’estate del 1943? Lo sbarco in Normandia è stato uno “sconfinamento” britannico in Francia? Noi diremmo di no. Inoltre, per quanto riguarda l’est, di quale confine si parla? Del confine di Rapallo? Del confine esteso alla “provincia di Lubiana” dopo l’aggressione nazifascista del 1941? In ogni caso sarebbe una imprecisione, perché il confine italiano all’epoca era arretrato al Veneto, dato che dopo l’8 settembre 1943 il territorio già italiano del Friuli, la Venezia Giulia, l’Istria, Fiume e l’occupata “provincia di Lubiana” era stato praticamente annesso dal Reich con la denominazione di Adriatisches Küstenland e confinava ad est con la Croazia occupata, che faceva però ancora parte della Jugoslavia. Di conseguenza il territorio che viene presentato come oggetto di sconfinamento jugoslavo non faceva più parte dell’Italia (neppure della Repubblica di Salò): per quanto strano possa sembrare, l’Esercito jugoslavo aveva di fatto occupato un pezzo di Germania.
Leggiamo l’incipit del capitolo: a Trieste «sventolava minaccioso il vessillo blu, bianco e rosso con la stella a cinque punte al centro», e poi «i partigiani comunisti jugoslavi (…) imposero la loro legge. Brutale, sanguinaria, vendicativa»; ed ancora (poco più sotto) «i nuovi padroni non riconobbero il CLN come legittimo rappresentante della comunità antifascista e organo del governo provvisorio. Imposero il coprifuoco, il passaggio all’ora legale (…) consentirono al loro famigerato Servizio segreto, l’OZNA, di imperversare ovunque con terribile efficacia: omicidi, sequestri di persona, esecuzioni sommarie e migliaia di cadaveri gettati nelle foibe della Venezia Giulia, dell’Istria, della Carnia e della Dalmazia»; infine «comportamenti così brutali, accompagnati da processi di slavizzazione forzata, resero ancora più evidenti le intenzioni di Tito di annettersi un’area vastissima sino al fiume Tagliamento ed anche oltre».
A questo punto non possiamo fare a meno di osservare alcuni minuti di silenzio per la morte violenta della cultura e della conoscenza storica, barbaramente assassinate in queste poche righe che non ci saremmo stupiti di leggere nel Candido degli anni ’50, ma che scritte da un giornalista formatosi all’Unità danno davvero da pensare (e non bene).
Chissà perché, ci domandiamo, i vessilli degli altri sono “minacciosi”, così come sono “famigerati” i servizi segreti altrui (mai una volta che nel libro si legga della “famigerata” CIA, o del “minaccioso” vessillo col tricolore italiano ed il simbolo dei Savoia, che pure hanno commesso molti più crimini, in pace ed in guerra, che non l’OZNA e la Jugoslavia di Tito). Ma vediamo di dirimere un paio di cose.
Gli Jugoslavi non riconobbero il CLN come legittimo rappresentante degli antifascisti perché il CLN era uscito dal CLNAI in quanto non aveva voluto conformarsi alle direttive emanate (conformi a quelle del legittimo governo italiano) che prevedevano la collaborazione con la resistenza jugoslava, ed il suo presidente, don Marzari, aveva addirittura impedito al Partito Comunista (che invece col CLNAI aveva mantenuto i rapporti) di fare parte del CLN giuliano. Il coprifuoco c’era già da prima (quando gli Jugoslavi arrivarono a Trieste era in corso una guerra mondiale, anche se ogni tanto sembra che gli autori di questo libro se ne dimentichino) e fu confermato anche nelle zone liberate dagli angloamericani (a Trieste rimase in vigore fino a novembre 1945, ben dopo che gli Jugoslavi avevano lasciato la città all’amministrazione angloamericana). Non vi fu un passaggio all’ora legale, ma venne ripristinata l’ora solare (il 3 aprile precedente l’amministrazione nazista della città aveva proclamato “l’ora estiva”, con lo spostamento delle lancette avanti di un’ora): considerando che Trieste ha lo stesso fuso orario di Belgrado, i “titini” non avevano alcun bisogno di inventarsi un’ora legale per uniformare l’orario delle due città.
Gli autori non considerano inoltre che gli Jugoslavi erano “alleati”, sullo stesso piano di Gran Bretagna, URSS e USA, come tali avevano il diritto ed il dovere di insediare un proprio governo provvisorio ed i CVL locali dovevano consegnare loro le armi, esattamente come negli altri territori dove erano arrivati gli altri alleati.
Dell’asserito “imperversare” dell’OZNA abbiamo già detto più volte, qui ribadiamo soltanto che fu grazie al controllo dell’OZNA che a Trieste e a Gorizia non si ebbero quelle giustizie sommarie come nel resto del Nord Italia, perché chi veniva arrestato dalle formazioni regolari non fu liquidato sbrigativamente, e le vendette personali furono molto limitate. Aggiungiamo che nelle foibe non finirono “migliaia di cadaveri” ed in Carnia (dove gli Jugoslavi non arrivarono, peraltro) non vi sono “foibe”, come pure non ve ne sono in Dalmazia (del resto se in bibliografia sul tema viene indicato il libro di Gianni Oliva, si comprende come gli autori non siano in grado di scrivere coerentemente in merito). Ed infine, se per “slavizzazione forzata” si intendono il ripristino dei cognomi sloveni e croati italianizzati, questi sì forzatamente, nei venti anni precedenti e la riapertura di scuole di madrelingua per i bambini e ragazzi non italiani, evidentemente chi ha scritto un tanto ha delle gravi carenze di fondo nella propria preparazione storica. E non vale premettere che si intende scrivere solo un’inchiesta giornalistica, perché scrivere cose sbagliate solo perché non ci si è presi la briga di studiare almeno i “fondamentali”, non è accettabile.
Ed infine, per quanto riguarda le “intenzioni” di Tito di annettersi «un’area vastissima sino al fiume Tagliamento e oltre», viene da chiedersi: ma che informative hanno letto gli autori, quelle dei servizi della Decima Mas? Ebbene, probabilmente sì, perché più avanti viene citato l’agente britannico Piave, al secolo Cino Boccazzi, che cercò un collegamento tra la Decima Mas di Borghese e le brigate Osoppo, le cui informative (che non vengono citate in questo libro ma sono di pubblico dominio) sono zeppe di menzogne come queste, prive di alcun fondamento di verità, il cui unico scopo è di gettare discredito sul movimento di liberazione jugoslavo, rendendolo inviso agli alleati britannici. Le informative di agenti italiani al servizio dei britannici (come gli agenti inquadrati nella Rete Nemo, alla quale abbiamo dedicato uno studio specifico scaricabile qui: http://www.diecifebbraio.info/2013/06/alla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2/) sono piene di notizie false e calunniose sulla Resistenza comunista ed internazionalista, e spesso tali informazioni appaiono chiaramente inattendibili per chi conosce i fatti come realmente si svolsero: ed è questo il motivo per cui non si può accettare come verità inoppugnabili ciò che appare nelle informative, che richiedono, appunto, una verifica alla luce degli altri elementi storici, noti o meno noti.
Troviamo altre letture errate di fatti storici, ad esempio quando si parla dell’organizzazione partigiana Otto di Genova, che non fu, come sostengono gli autori, organizzata come «specchietto per le allodole» dall’agente triplogiochista Luca Ostèria, né fu il nucleo da cui nacque la Franchi di Edgardo Sogno; mentre il Terzo Fronte poi citato non fu neppure una organizzazione, ma una mera invenzione dello stesso Ostèria, ed i Tigrotti descritti come il suo braccio armato non esistevano, erano anch’essi un’invenzione creata per confondere e depistare i servizi inglesi. Gli autori dicono di essersi basati per queste descrizioni sui documenti dei servizi britannici, e questa è la plateale dimostrazione di come sia necessario leggere anche qualcosa d’altro oltre alle “informative”, perché la storia della Otto organizzata dal medico comunista Ottorino Balduzzi, è bene ricostruita da Franco Fucci nel suo “Spie per la libertà”, e dallo stesso Sogno; così come non corrisponde al vero che Sogno ed Ostèria fecero evadere «diversi prigionieri detenuti dai tedeschi», tantomeno il dirigente della Resistenza Ferruccio Parri; Sogno tentò un colpo di mano per liberarlo ma fallì e rimase egli stesso nelle mani dei nazisti. Per amore di aneddotica citiamo quanto lo stesso Ostèria dichiarò a Fucci (e si trova nel libro citato sopra): «Sogno (…) era un mitomane al quale, quando ebbe la bella pensata di tentare la liberazione di Parri (…) bisognava tirare giù i calzoni e dare una bella sculacciata».
Nell’insieme, per quanto riguarda il periodo della Resistenza, nel libro viene fatto un grosso minestrone in cui si parla delle missioni alleate che cercavano contatti con la Decima e degli agenti del Reich che cercavano contatti con gli angloamericani, tutte vicende che andrebbero contestualizzate nell’ambito dell’operazione Sunrise per la resa separata, della quale però non viene fatto il minimo cenno: probabilmente perché nelle informative non se ne parla. Sembra in effetti che i due autori non abbiano inteso andare al di là di quanto scritto nella documentazione dei servizi, nonostante sulle vicende controverse della guerra di liberazione in Italia e del ruolo dei vari servizi segreti che vi operarono, vi sia una letteratura piuttosto corposa, all’interno della quale consiglieremmo agli autori di questo libro di leggere almeno “L’altra resistenza” di Peter Tompkins, che fu agente dell’OSS nel nostro Paese e descrisse in modo molto lucido e con un’ammirevole onestà intellettuale la situazione del tempo.
Prima di approfondire altri argomenti, facciamo qualche breve appunto: il “conte rosso” Loredan si chiamava Pietro e non Jacopo; a pilotare l’aereo che portò in Spagna il generale Mario Roatta, sottraendolo alla giustizia italiana, fu l’agente del sevizio segreto detto l’Anello Adalberto Titta (ciò risulta da indagini giudiziarie basate su una serie di documenti e testimonianze sul ruolo di quel servizio rimasto segreto – nel senso di totalmente sconosciuto – fino alla fine degli anni ’90) e non il massone esoterico Giuseppe Cambareri; leggere che il comandante dei Gamma della Decima Mas, Eugenio Wolk, era considerato “filorusso a causa delle sue origini ucraine”, fa cadere le braccia, dato che il collaborazionismo ucraino con il nazismo era animato non solo da motivazioni ideologiche, anticomuniste, ma anche per il nazionalismo ucraino che vedeva nei russi degli invasori; sorvoliamo infine (perché richiederebbero uno studio apposito) sulle diffamazioni contro Cino Moscatelli, accusato di avere lavorato per organizzare, assieme ad altri dirigenti del PCI come Pietro Secchia, un’insurrezione armata nel dopoguerra, il Moscatelli che viene ad un certo punto liquidato sbrigativamente come l’«irrequieto sindaco di Novara» che sarebbe stato «influenzato dalla sua amante Maria» con la quale aveva trascorso l’infanzia nella Venezia Giulia (detta così sembra che i due sarebbero stati amanti fin dall’infanzia, ma probabilmente il richiamo alla Venezia Giulia era necessario per creare una suggestione di collegamento con gli “slavocomunisti”).
Del gossip viene fatto anche sulla figura del dirigente comunista Vittorio Vidali, sul quale si fantastica che avrebbe cercato di eliminare il segretario del suo Partito, Palmiro Togliatti, in un modo talmente subdolo da sfiorare il ridicolo: aveva omesso di provvedere a coprire il palco da cui Togliatti doveva assistere alla manifestazione del Primo maggio 1955 a Trieste, ed il leader comunista, già cagionevole per i postumi dell’attentato fascista subìto nel 1948 e l’incidente stradale (ipotizzato come altro attentato in questo libro) del 1950, al momento di parlare si era sentito male, a causa di un colpo di sole degenerato in congestione venosa. Non volendo fare torto all’intelligenza di un uomo come Vidali, oltre a non vedere alcun motivo per cui avrebbe dovuto eliminare il suo segretario nazionale, pensiamo che se avesse veramente voluto eliminare qualcuno avrebbe scelto un metodo più sicuro. E, non paghi di avere gettato questo sospetto sulla figura di Vidali, gli autori insistono spiegando che su lui «pesava il sospetto» di avere organizzato l’attentato a Trotsky (sospetto smentito in più occasioni, peraltro) e di «avere persino architettato l’uccisione della sua giovane compagna di vita» Tina Modotti. Al di là del fatto che non è corretto gettare “sospetti” di questo tipo qua e là senza approfondire la questione, senza dire che le prove sono inesistenti, vorremmo evidenziare il linguaggio usato per definire Tina Modotti: “giovane compagna”. Termini che creano la suggestione che si trattasse di una ragazza inesperta molto più giovane dell’uomo con cui conviveva da anni, mentre la realtà è ben diversa: quando morì (per infarto, detto per inciso) Tina Modotti aveva 44 anni, due più di Vidali, ed inoltre era una militante comunista di lunga data che dopo essere stata espulsa dal Messico aveva lavorato come agente sovietica in Germania, in Spagna durante la guerra civile ed infine a Mosca.
Proseguiamo con altre suggestioni contenute in questo libro. Sulla questione dell’attentato di via Rasella e della successiva rappresaglia delle Fosse Ardeatine, leggiamo che «si è insinuato che (l’attentato di via Rasella, n.d.r.) fosse stato organizzato dal PCI clandestino al solo scopo di sbarazzarsi della concorrenza alla sua sinistra», in quanto furono fucilati tutti i dirigenti, fatti prigionieri tempo prima, dell’organizzazione Bandiera Rossa che aveva posizioni più radicali rispetto al PCI. Al di là dell’infamia di tale sospetto, non suffragato da alcuna prova, resta comunque il dubbio di come gli attentatori avrebbero potuto prevedere quali prigionieri i nazisti avrebbero prelevato dalle carceri per poi fucilarli.. E se il vuoto di Bandiera Rossa sarebbe poi stato riempito, con un’opera di infiltrazione, da uomini agli ordini dell’esoterista Giuseppe Cambareri e dell’ambiguo generale Roberto Bencivenga (col quale il PCI era in forte polemica per le sue posizioni attendiste nei confronti dei fascisti), quale guadagno ne avrebbe avuto il Partito comunista?
Passando al dopoguerra, leggiamo che «a partire dal maggio 1945 il Triveneto fu investito da un’impressionante ondata di violenza». A parte che ciò non fu, quale situazione si era vissuta invece, secondo gli autori, fino a quel momento? Una situazione idilliaca di pace? Non era in corso una guerra mondiale? Tre quarti del Triveneto (definizione assurda, peraltro) erano stati annessi al Reich, c’erano stati bombardamenti, rastrellamenti, deportazioni, arresti e torture, fucilazioni, ma secondo gli autori sembrerebbe che prima della Liberazione fosse tutto tranquillo (detto per inciso, questo è un vecchio cavallo di battaglia dei fascisti nostalgici del vecchio regime, sostenere che fino all’arrivo dei partigiani non c’era alcun problema, nonostante guerra e nazifascismo).
L’unico esempio che viene citato è quello dell’eccidio di Schio: il 6 luglio 1945 54 prigionieri fascisti furono eliminati sbrigativamente da alcuni partigiani (tra i quali anche alcuni infiltrati), sull’identità dei quali poi si sono sbizzarriti i redattori delle informative, come quella in cui si legge che una «fonte assolutamente degna di fede» (peraltro non identificata) avrebbe detto che l’assalto era stato programmato da «emissari croati dell’Ozna». Cosa ci facessero a Schio, in provincia di Vicenza (un po’ fuori sede?) emissari croati dell’OZNA nel luglio 1945 non viene detto (pretendiamo troppo) ma forse una spiegazione ci può venire da questa breve rassegna stampa..
Il titolo apparso il 6/11/45 sul quotidiano Italia Nuova: «cinque dei massacratori di Schio si sono rifugiati nell’OZNA», diventa in dicembre, sul Secolo XIX «l’assalto compiuto a Schio fu dovuto all’azione di emissari croati dell’OZNA». In pratica, i partigiani veneti accusati per l’eccidio di Schio e rifugiati in Jugoslavia, diventano “emissari croati dell’OZNA”. Notevole salto logico, che avrebbe dovuto essere evidenziato in una lettura critica dei fatti, che naturalmente non è stata fatta.
Sarebbe troppo lungo analizzare tutte le informative citate che segnalano in modo allarmistico una presunta attività eversiva comunista dopo la fine della guerra: la presenza di «nuovi GAP» nel Nord Italia; una «quinta colonna partigiana del PCI» che sarebbe stata «pronta a scatenare la rivoluzione in tutto il Nord, il primo passo verso l’unione tra una repubblica popolare nell’Italia settentrionale e la Jugoslavia comunista»; addirittura «l’OZNA e le sue troike seminavano morte e terrore in mezza Italia». Fa riflettere che chi ha preso atto di queste informative non sia stato colto da nessun dubbio sulla loro attendibilità, considerando che, anche se un’attività del genere (pur in assenza di conferme reali) vi fosse stata, alla fine non è accaduto nulla, nessuna insurrezione, nessuna strategia terroristica. Già ci sembra difficile credere che l’OZNA potesse seminare terrore in mezza Italia, ma se un tanto fosse accaduto, qualcuno se ne sarebbe pure accorto, no? Le cronache dei giornali ne avrebbero parlato, gli storiografi lo avrebbero rilevato, ma non risulta che nel periodo vi siano stati eventi terroristici, provocati da “slavocomunisti” o semplicemente comunisti. Inoltre, nonostante gli autori pubblichino documentazione da cui risultano chiare le manovre di infiltrazione (fasciste o comunque anticomuniste) nella Resistenza prima e nelle organizzazioni comuniste poi, azioni provocatorie di per sé, ma finalizzate anche al compimento di atti che suscitassero discredito sui comunisti, alla fine tutto ciò viene liquidato in «commistioni tra rossi e neri», come se i “rossi” fossero stati consapevoli e concordi nel farsi infiltrare da agenti provocatori.
In sintesi, in questo libro vengono denunciate una quantità di intenzioni o possibilità eversive dei comunisti e degli jugoslavi in Italia, progetti che però non ebbero alcuna concretizzazione, mentre dalle stesse pagine emerge invece la concreta attività terroristica antidemocratica di fascisti e monarchici, pagati dagli industriali e sorretti dallo “stato parallelo” in cui operavano i servizi italiani e soprattutto l’Arma dei Carabinieri che avrebbe fornito supporti logistici ai nostalgici del vecchio regime, gruppi eversivi che si opponevano alla nuova Italia che stava sorgendo dopo la Resistenza e la sconfitta del nazifascismo. Attività queste messe in luce dal puntiglioso lavoro di ricerca condotto già nei primi anni 2000 da Casarrubea, anche in collaborazione con lo storico Nicola Tranfaglia, del quale lavoro l’allora coautore Cereghino ora collaboratore di Fasanella, sembra non avere conservato alcuna memoria, se firma un libro nel quale vengono capovolte e mistificate le risultanze storiche dei suoi precedenti lavori..
Abbiamo qui evidenziato, e smentito, solo una minima parte delle bufale contenute in questo libro, e la mole di questa (peraltro non del tutto completa) smentita ci può dare la misura del danno che possono fare pubblicazioni considerate “divulgative” come questa, indirizzata al grande pubblico, e che viene presentata nell’ambito del festival del giornalismo di Ronchi “LeAli delle notizie” come un “libro leale”. I lettori non approfondiranno certo gli argomenti citati nel libro, non si premureranno di andare a verificare se quanto scritto ha fondamenti di verità o no (del resto, perché dovrebbero? è dovere di chi scrive presentare un prodotto coerente e veritiero, per non trarre in inganno il lettore con false informazioni); ed in questo modo la falsificazione della storia, il cui scopo è sostanzialmente quello di creare una convinzione politica anticomunista, continuerà a progredire.
Ed è infine piuttosto grave il fatto che la maggior parte delle informazioni trasmesse siano fornite a livello di “suggestione”, buttate là con due battute, tanto per instillare un dubbio: e si sa bene che per smentire una falsa accusa di due parole, la difesa deve avvalersi di pagine di risposte documentate, non può liquidare il tutto dicendo semplicemente che si tratta di menzogne, perché per la menzogna non è richiesto l’onere della prova, mentre per ripristinare la verità sì.