Qualche precisazione sui "democratici" statunitensi
 
1) Il token del ticket. La coppia Joe Biden-Kamala Harris
2) FLASHBACK 2014: I denti degli oligarchi. Il caso Biden
 
 
 
 
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Il token del ticket
La coppia Joe Biden-Kamala Harris

di Piotr
9.1.2021
 

Il Congresso ha dunque certificato la vittoria di Joe Biden che il 20 di questo mese, dopo il giuramento, sarà in office assieme alla sua vice, Kamala Harris.

Il ticket Biden-Harris mi preoccupa e non poco.

Joe Biden dopo una lunghissima carriera spesa ad appoggiare ogni tipo di aggressione imperialistica americana è felicemente approdato alla senile che si sta vivendo con tratti inquietanti. Che abbia con sé una valigetta con la quale poter far scoppiare l'olocausto nucleare è pensiero agghiacciante. Per consolarmi mi ripeto che la storia della valigetta e del “comandante supremo” non sta esattamente come ce la raccontano e che se i generali non vogliono far scoppiare una guerra nucleare il capo della Casa Bianca non può farci nulla.

Kamala Harris è una donna piena di sé che non si capisce a che titolo sia stata scelta come vice presidente, a meno di rivolgersi alla categoria di “token person”, una figura tipica del politicamente corretto.

Come mi spiegò il grande economista statunitense Michael Hudson mentre stavo traducendo la sua autobiografia, un “token” è una sorta di ornamento formale nelle apparizioni pubbliche degli uomini politici negli USA e mi spiegò che “un politico ha sempre dietro si sé un token Nero o Ispanico quando parla”.

La prima funzione della Harris sembra dunque, così d'acchito, essere quella di un tokennon-bianco, un token non-uomo, un token, insomma, della “diversità” condensata.

Il suo non essere né bianca né maschio è sottolineato costantemente, fino al punto, non propriamente esatto ma diffuso, di descriverla come una “black” tout-court, così come Barack Obama era descritto come “afroamericano”, cosa, quest'ultima, del tutto scorretta.

In realtà la madre della Harris era indiana mentre il padre, Donald J. Harris, è un afro-giamaicano. Ma se tutto sommato possiamo ammettere la descrizione della Harris come donna “black”, se non altro perché lei stessa così si definisce in pubblico e così sembra percepirsi, vedremo che l'auto-identificazione razziale non coincide per forza con un'identificazione sociale.

Date le ascendenze materne, possiamo avanzare l'ipotesi che Kamala Harris sarà usata come token anche per perfezionare l'alleanza tra Usa e India, indispensabile per il contenimento anti-cinese, anti-russo e anti-iraniano che caratterizzerà la prossima amministrazione come e ancor più di quella uscente.

Utilizzare Kamala Harris come “token person” è stata indubbiamente una buona mossa da parte dei Dem, e fa presumere che la politica della nuova amministrazione sarà in gran parte giocata proprio sul lato ideologico, per nascondere la probabile recrudescenza delle vecchie aggressioni, la messa in opera di quelle nuove e, soprattutto, l'incapacità-impossibilità-nolontà di affrontare i problemi di massa statunitensi. Secondo i neo-liberal-con, l'1% ricco deve diventare ancora più ricco, perché al di là dell'avidità, dell'ingordigia e della mancanza di sentimenti reali di solidarietà ed equità (di ipocriti ne hanno un campionario intero), è l'unico modo che concepiscono perché non salti per aria la baracca, perché non crolli tutto con un boato assordante.

Di fronte a questa certezza (i signori che governeranno lo sanno perfettamente che gli spazi di manovra sono molto stretti) si continuerà a sostituire i problemi generali strutturali delle masse popolari con specifici problemi sovrastrutturali delle cosiddette “diversità” (qui la differenza tra struttura e sovrastruttura, che io non amo più di tanto, viene a fagiolo). Ciò si vede già adesso col ben servito dato alla sinistra del Partito Democratico (Sanders, Ocasio-Cortez e compagne) e la sostituzione dei suoi esponenti con esponenti “politicamente corretti”: Corretti sì ma tutti molto più a destra. E così sarà un florilegio di tokens e il politicamente corretto, en passant, sarà usato come giustificazione per strette censorie. Non è un caso che senza nemmeno avere uno straccio d'idea del programma reale della coppia Biden-Harris, tutti stanno comunque esaltando il colore molto “rosa” della sua amministrazione, facendo finta di ignorare che farà il paio col colore arcobaleno delle bombe che sgancerà, dell'impoverimento che produrrà e delle diseguaglianze che esacerberà.

E' persino stato riesumato il token Jennifer Psaki, come segretaria stampa del Presidente.

Jennifer in ruoli simili indubbiamente ha esperienza perché era già stata, per l'appunto, direttore della comunicazione durante il secondo mandato di Obama mentre durante la prima tenure aveva svolto il ruolo di portavoce del Dipartimento di Stato, allora retto dalla Clinton. Ora, lo so benissimo che fare un confronto tra lei e la sua allora omologa russa, Maria Zakharova, è sleale e perfido, e quindi, non preoccupatevi, non mi faccio prendere dalla tentazione e lascio immediatamente perdere, anche se potremmo capire molte cose sulle capacità in campo. Però non posso sorvolare sul fatto che in entrambe le posizioni la Psaki era riuscita a dare sfoggio di una particolare forma di russofobia: l'ignoranza. Riuscì ad esempio ad affermare che era l'Europa occidentale che forniva il gas alla Russia.

In realtà a casa sua Jennifer è - giustamente - semisconosciuta, ma è una celebrità in Russia, tanto che nella patria di Tolstoj e Dostoevskij sono stati coniati in suo onore persino neologismi, come “grande psakino - great Psakiing” che sta per “gran casino”, o “gran confusione dei fatti”.

Elena Panina, membro della Commissione Affari Internazionali della Duma ha commentato il ritorno della Psaki dicendo che “il fatto che gente del genere occupi posizioni governative di alto livello in una superpotenza nucleare è chiaramente allarmante”.

Ma la vera, intima, cifra della nuova portavoce di Joe Biden si desume da ciò che sto per raccontare.

La rivoluzione colorata di Kiev era in pieno svolgimento e l'ambasciatore statunitense in Ucraina, Jeffrey Pyatt, telefona all'Assistente Segretario di Stato, Victoria Nuland, informandola che l'Unione Europea non era molto contenta del casino che stava succedendo. Al che la Nuland, regista in loco del colpo di stato in Ucraina, rispondeva col celebre “and, you know, fuck the EU! – e allora: in culo l'Unione Europea!”. Purtroppo la conversazione, registrata, fu resa pubblica. Gelo nelle cancellerie europee.

Chiamata a dare spiegazioni, la Psaki – non sto scherzando – diede la colpa ai marinai russi che avevano insegnato alla Nuland le parolacce quando a 23 anni aveva passato otto mesi su una nave russa. Ripeto: non sto scherzando.

E questa gente può scatenare guerre mondiali. Sono anch'io terrorizzato.

Detto solo incidentalmente, Victoria Nuland assieme alle altre super donne dell'amministrazione Obama, Samantha Power, ambasciatrice all'ONU, Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale (anche lei ripescata da Biden come direttore del Consiglio di politica interna), e Hillary Clinton, formavano la quadriglia delle erinni dem: feroci, senza scrupoli e prive di ogni pur labile barlume di pietas. Questo per il colore “rosa”. D'altra parte avevamo già avuto una testimonianza della “sensibilità femminile” al potere con Madeleine Albright, Segretaria di Stato di Bill Clinton. Per lei mezzo milione di bambini iracheni morti per l'embargo erano “un prezzo giusto”: https://audittheempire.com/05-07-19/. Se la “diversità” è un valore, questo documento dimostra che il genere da solo non basta a differenziare una donna da un orco e che il contesto può essere determinante. Era il 1996 e una riprova l'abbiamo avuta quindici anni dopo con un'altra Segretaria di Stato democratica, Hillary Clinton, che rideva con tratti isterici alla notizia che Gheddafi era stato ucciso dopo orrende torture anche sessuali: https://www.youtube.com/watch?v=mlz3-OzcExI.

Tra l'ideologia e la realtà c'è di mezzo il mare, spesso un mare di sofferenze.

Tornando al nostro ticket, l'esperienza in politica estera di Joe Biden è indubbiamente notevole. Ha sostenuto attivamente la guerra in Serbia di Bill Clinton, le guerre in Afghanistan e in Iraq di Bush jr. (anche se poi dichiarò che il suo voto a favore dell'ultima fu un errore – dopo qualche centinaio di migliaia di morti, ma vabbè, un piccolo errore, non rimarchiamolo troppo); poi ha sostenuto la guerra in Libia e quella dei terroristi in Siria, scatenate da Obama. Nelle schifezze degli ucronazisti di Kiev, lui e il figlio, come ben si sa, sono immersi fino al collo. Insomma, un track record di alto livello.

Delle idee in politica estera della Harris invece sappiamo poco. E quel poco è preoccupante. Sull'Iran surclassa persino quel vecchio guerrafondaio del suo capo, che dice di voler ritornare ai trattati sul nucleare mentre la signora ha dichiarato di non escludere un ricorso a bombardamenti preventivi contro le strutture nucleari iraniane. Non solo, eventualmente ordinerebbe bombardamenti preventivi anche su quelle della Corea del Nord (in questo caso anche Biden vuole stracciare gli accordi tra Trump e Kim Jong-hun – sapete,quando ci sono di mezzo i valori ...).

Della Harris si conoscono invece molto bene la determinazione e la mancanza di scrupoli nella cura ossessiva della propria carriera.

Purtroppo, mentre le colpe dei padri ricadono sui figli, i meriti rimangono strettamente personali.

Nel caso della Harris forse ha contribuito anche il fatto che quando aveva sette anni i genitori divorziarono e lei rimase con la madre. Ed è un vero peccato, perché Donald Harris è stato un notevole economista progressista influenzato da pensatori che vanno da Marx alla Robinson, da Schumpeter a Keynes e contribuì alla formazione delle Pantere Nere negli anni Sessanta.

La figlia Kamala ha invece incentrato la prima parte della sua carriera attorno alle questioni legali e come l'ha fatto dice molto sulle sue propensioni e sulla sua rettitudine.

Procuratrice distrettuale in California, nel 1994 inizia a frequentare Willie Brown, un potente politico black democratico, per 30 anni deputato all'Assemblea Statale della California, per 15 suo speaker e infine sindaco di San Francisco. Una carriera costellata da accuse di nepotismo e favoritismi (elargiti sia a destra che a sinistra) e conseguenti indagini dell'FBI.

Willie ha 60 anni ed è sposato, Kamala 30 ma, come si sa, la differenza d'età e lo stato di famiglia non sono d'ostacolo all'amore quando è sincero (nemmeno in Italia, come molti casi insegnano). Nasce una relazione che durerà due anni, quel tanto che basta per essere piazzata da Brown in posizioni pubbliche che le frutteranno decine di migliaia di dollari all'anno, on top al suo stipendio da procuratore, e accuse molto pesanti [1]. Il ricco entourage frequentato da Brown aiuterà in solido negli anni seguenti la carriera della di lui diletta.

Sarà come sarà, ma durante i primi tre anni di ufficio come procuratore distrettuale a San Francisco, il tasso di incarcerazione spiccherà un vero balzo [2]. Tuttavia nel 2004 entra in contrasto con la polizia perché si rifiuta di chiedere la pena di morte per l'assassino di un poliziotto. Ma una volta diventata procuratrice generale cambia idea e si rifiuterà di sostenere due petizioni popolari per l'abolizione della pena di morte, sollevando accuse di incoerenza e opportunismo. Ha capito che il capestro paga mentre l'opposizione alla pena di morte è un ostacolo alla scalata dei piani alti.

Per sovrammercato nel 2014 e nel 2015 la Harris si rifiuta di indagare sull'uccisione da parte della polizia di due neri e, non contenta, si oppone anche a un disegno di legge per nominare un ufficio d'indagine specializzato sull'uso da parte della polizia di violenza letale.

Sulla sanità ha espresso opinioni molto ondivaghe. O meglio, ha detto tutto e il contrario di tutto: la voglio pubblica e la voglio privata. Così, tanto per non scontentare nessuno, né i poveracci né le assicurazioni.

Questo è il profilo del token del ticket.

Comunque sia, devo chiarire un punto importante. Che Kamala Harris sia stata “offerta” ai votanti come vice-presidente per questioni simboliche politically correct è un dato di fatto. Che la Harris accetti semplicemente un ruolo di token, di bella statuina, io personalmente lo metto in dubbio. Molto dipende dal suo carattere e dalle sue capacità politiche. E anche dalla sua spregiudicatezza, che come abbiamo visto è notevole. D'altra parte proprio in India, la terra d'origine della madre, c'è stato l'esempio di Indira Gandhi. Scelta dai potenti boss del Congress Party come presidente perché figlia dell'appena defunto leader carismatico Jawaharlal Nehru e perché ritenuta innocua, cioè un perfetto token, in pochissimo tempo sbaragliò i suoi nemici interni al Congress e l'opposizione sociale e di sinistra, anche con mezzi pesantemente coercitivi (stato d'emergenza, migliaia di arresti, diecimila morti nella repressione del movimento naxalita) e per anni governò sostanzialmente come un'autocrate nella cosiddetta “più grande democrazia del mondo”.

Kamala Harris sarà l'Indira Gandhi statunitense? Chissà! Una volta sarebbe stata un'ipotesi ridicola, viste le grandi diversità culturali, istituzionali e politiche tra i due Paesi. Ma oggi gli USA stanno attraversando forse la più grande crisi politica della loro storia dopo la Guerra di Secessione. I brogli elettorali dei Dem (che ci sono stati, eccome) per strappare in uno Stato o l'altro risicate maggioranze, la reazione irrituale di Trump (i brogli - o i voti comprati, anche alla mafia - ci sono sempre stati, ma il perdente comunque abbozzava per carità di patria), le camarille all'interno della Corte Suprema, delle corti statali e dei due partiti, descrivono un secondo grave colpo alle istituzioni americane dopo quello inferto dall'assassinio Kennedy. E la nazione è spaccata nettamente in due.

L'attentato di Dallas del 1963 segnò l'avvio deciso della moderna politica imperialista statunitense sull'onda lunga della vittoria nella II Guerra Mondiale. Questo secondo “attentato istituzionale” avviene invece sul declinare delle capacità egemoniche e imperiali degli USA a ben 75 anni da quella vittoria. Se dipendesse solo dalla nuova amministrazione ci sarebbe poco da farsi illusioni: assisteremmo all'inizio di un secondo round di aggressioni di ogni tipo per mantenere con le unghie e coi denti l'egemonia globale. Ma le condizioni internazionali sono drasticamente cambiate. Non solo, negli anni Sessanta l'economia USA era in fase montante e non aveva rivali. Quindi poteva assorbire le spinte sociali e di emancipazione razziale e presentarsi come locomotiva economica internazionale. Oggi non è più così. Oltre all'esibizione degli ethnic tokens e dei gender tokens e all'accelerazione sul pedale coercitivo della rimanente egemonia sarà difficile andare. Donald Trump ha cercato in modo confuso (e diversamente non poteva essere, per fattori oggettivi oltre che per i gravissimi limiti soggettivi del presidente uscente) di ritornare agli anni Sessanta. Non poteva riuscirci. Perché non poteva portare il secondo decennio del Duemila indietro al sesto decennio del Novecento. I suoi successori cercheranno invece di trascinare il sesto decennio del Novecento qui nel terzo decennio del Duemila. E anche questo sarà impossibile. E saranno disastri se verrà meno un'opera di prevenzione e di dissuasione da parte delle altre potenze e se all'interno degli USA non verrà suscitato un vero e ampio movimento di opposizione sociale che non guardi al passato indicato da Mr. MAGA, ma al futuro.

E non saranno disastri token.


Note
[1] https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1994-11-29-mn-2787-story.html
[2] https://www.nytimes.com/2019/07/31/us/politics/kamala-harris-prisoners-tulsi-gabbard.html
 
 
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I denti degli oligarchi. Il caso Biden

di Pino Cabras - 15 maggio 2014

Il figlio del vicepresidente USA al centro dell'industria del gas in Ucraina, assieme all'ex presidente della Polonia. Le alleanze flessibili con mondi mafiosi.

R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente USA, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell'Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un'altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce.
Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell'élite statunitense alle alte sfere dell'oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca. Sino a vent'anni fa l'oligarca era un generico esponente di un sistema di governo che poche persone imponevano a tutti. L'oligarca post-sovietico è invece una cosa più specifica: è un uomo d'affari che ha arraffato - mentre occupava una posizione dominante derivante dalla politica - le immense ricchezze pubbliche tratte dalla selvaggia privatizzazione dell'economia sovietica dopo il crollo dell'URSS. Questo tipo umano è ormai l'unico a essere etichettato come oligarca. La russofobia che regna nel discorso pubblico occidentale fa il resto: a est, anzi, in Russia, ci sono oligarchi; da noi, invece, sani imprenditori di specchiata virtù che mai oserebbero spolpare una nazione. Come definire altrimenti un De Benedetti?
 
Pazienza se moltissimi oligarchi russi, prima di decidere se appoggiare o combattere la nuova "verticale del potere" di Putin, siano stati per prima cosa delle creature occidentali.
 
Ma Hunter Biden è lì a ricordarci, con il suo cursus honorum e i suoi denti, stretti su un cucchiaio d'argento, che gli oligarchi esistono anche qui a Ovest, e prosperano e frequentano tutti i corridoi che portano alle stanze del denaro, dei governi, dell'intelligence. Con una colossale excusatio non petita, a Washington ci provano lo stesso a dircelo: secondo loro, le entrature nel governo, per il figlio del numero due della Casa Bianca non contano. E pertanto Biden ha ottenuto la sua carica nella lontana colonia europea solo per via del suo curriculum. Se i fatti ci dicono altro, è colpa nostra, che siamo prevenuti. 
È solo una coincidenza, infatti, che il 21 aprile Biden il Vecchio porti la sua dentatura a Kiev per dettare i suoi voleri, e che proprio negli stessi giorni Biden il Giovane diventi l'homoamericanus dell'azienda più strategica del Paese, in piena battaglia del gas.
 
Il sospetto è che laggiù servisse uno sperimentato oligarca, appunto, che facesse da ufficiale di collegamento fra l'oligarchia locale e gli ottimati di Washington. E il dottor Hunter Biden aveva davvero il curriculum giusto per questo compito urgente: carriera universitaria presso le più prestigiose ed elitarie università private, e poi un impressionante lavoro di interconnessione interno e internazionale fra multinazionali, organizzazioni non governative imbevute di valori (soldi) governativi, uffici legali di super-lobbisti, ecc. 
 
Soprattutto, Hunter Biden è uno dei più stretti collaboratori del presidente del National Democratic Institute for International Affairs (NDI), un'organizzazione creata dal governo USA come emanazione del National Endowment for Democracy (NED) per canalizzare contributi e donazioni miranti a «rafforzare la democrazia» in 125 diverse nazioni. Cioè un elemosiniere politico, una delle fabbriche delle rivoluzioni colorate di mezzo mondo, presieduta nientemeno che da Madeleine K. Albright, ex Segretario di Stato ai tempi di Clinton e del bombardamento della Serbia. È quella stessa personalità politica che disse in TV che mezzo milione di bambini morti per l'embargo in Iraq erano stati «un prezzo giusto», e ne era valsa la pena ("the price is worth it?"). [VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=FbIX1CP9qr4 ]
 
Biden si sceglie buone compagnie. Sempre assieme alla Albright, è fra gli amministratori del Truman National Security Project, un centro di formazione che impiega ingenti risorse per forgiare intere leve di esponenti politici progressisti intorno ai temi della sicurezza nazionale. Quando sentite qualche vago esponente di sinistra che parla bene della guerra, sappiate da dove viene imbeccato.
 
Secondo Hunter Biden, il proprio compito a Kiev consisterà nel dare buoni consigli su «trasparenza, corporate governance e responsabilità, espansione internazionale e altre priorità» al fine di contribuire, nientemeno, «all'economia e al benessere del popolo ucraino.» 
 
Sembra di sentire le stesse parole pronunciate nel 2003 per l'Iraq da Paul Bremer, il governatore coloniale insediato dal presidente George W. Bush quando invase e devastò quel paese. Ma mentre gli imperialisti repubblicani avevano una concezione rudimentale dell'«esportazione della democrazia», la gente dell'NDI è più duttile, perché afferma che «l'NDI non presume di imporre soluzioni né ritiene che un sistema democratico si possa replicare da qualche altra parte». Semmai, l'NDI «condivide esperienze e offre una serie di opzioni in modo che i leader possano adattare quelle pratiche e istituzioni che possano lavorare meglio nel loro proprio ambiente». 
"Adattare" è dunque la parola chiave. E gli imperialisti democratici americani in Ucraina si sono "adattati" così bene da allearsi con partiti fascistoidi e formazioni paramilitari naziste.
Si tratta di un'alleanza scandalosa che non imbarazza minimamente gli esponenti del Partito Socialista Europeo. Come non scandalizza nemmeno il plurimiliardario Ihor Kolomoyskyi, fondatore della European Jewish Union, doppia cittadinanza ucraina e israeliana, co-proprietario della banca Privat e di diverse società che hanno individuato grosse riserve di gas naturale proprio nelle zone ucraine in cui si combatte. 
 
Un'inchiesta di Forbes ha descritto molto bene il modo in cui Kolomoyskyi ha fatto fortuna: «Kolomoyskyi ha usato delle forze "quasi-militari" della banca Privat per far valere l'acquisizione ostile di aziende, arruolando un gruppo di "teppisti, armati di mazze da baseball, spranghe di ferro, gas e pistole con proiettili di gomma e motoseghe" per prendersi con la forza un impianto siderurgico a Kremenchuk nel 2006 e ha usato "un mix di ordini del tribunale fasulli (spesso per mano di giudici e/o cancellieri corrotti) e di maniere forti" per sostituire amministratori nei consigli di amministrazione delle società delle quali acquistava le partecipazioni». 
Si vede che a Forbes non hanno molta dimestichezza con la cronaca antimafia, che userebbe invece concetti più brevi per descrivere il profilo criminale di un siffatto personaggio. 
Il presidente golpista Turchynov, a ogni buon conto, lo ha nominato governatore dell'Oblast di Dnipropetrovsk, una regione confinante con i punti caldi della rivolta dei russi d'Ucraina. Kolomoyskyi ha promesso «una taglia per chi catturi militanti sostenuti dai russi e ricompense per chi depone le armi».
Questo magnate della finanza e del gas - fra un impegno di cosca e l'altro - sarà uno di quei campioni di «trasparenza, corporate governance e responsabilità» con cui dovrà interloquire Mister Biden jr. 
Qui c'è un punto ancora più interessante.
Il sito di documentazione anticorruzione ucraino (AntAC), d'ispirazione alquanto americana, nel 2012 ha tentato di ricostruire a chi possa appartenere davvero la Burisma, che si presenta come la faccia più alla luce del sole della catena proprietaria dell'impresa gasiera. Una volta che si muovono nel territorio finanziario off-shore, le tracce diventano più difficili, come in una caccia al tesoro mondiale. 
 
Abbiamo visto che la Burisma è controllata dall'entità cipriota Brociti Investments Ltd, che l'aveva rilevata dai precedenti proprietari, gli oligarchi Mykola Zlochevsky (ministro dell'energia del deposto presidente Janukovich) e Mykola Lisin (nel frattempo deceduto). Nello schema finanziario della vendita della Brociti sembra essere coinvolta un'altra grossa impresa del settore degli idrocarburi, la Ukrnaftoburinnya. Se vogliamo sapere chi possiede Ukrnaftoburinnya, le tracce ritornano a Cipro, dove il 90% della società sta in pancia alla Deripon Commercial Ltd. Qua dobbiamo fare un volo più lungo, perché la Deripon è controllata a sua volta da una holding delle Isole Vergini britanniche, la Burrad Financial Corp. Laggiù la nebbia, ancorché ai tropici, diventa fittissima. Ma il nome della Burrad non è tuttavia insignificante, perché ricorre in svariate inchieste che ricostruiscono le operazioni finanziarie gestite dalla banca Privat. Cioè la banca di Ihor Kolomoyskyi. 
Per Forbes, comunque, resta probabile che il proprietario sia ancora Zlochevsky (con possibile suo doppio gioco).
 
Lo so, vi siete persi. E anche io. Ma provo a riassumere.
 
Kolomoyskyi, tramite società off-shore, era il dominus della Burisma, la più importante impresa estrattiva del gas in Ucraina, in cui ora si impegna in prima persona quel dentone di Hunter Biden. 
Kolomoyskyi l'ha ufficialmente ceduta, grazie a uno schema finanziario che gli era familiare, a un'impresa off-shore di cui perdiamo le tracce dei proprietari. 
 
Nello stesso tempo Kolomoyskyi è diventato un'autorità politica territoriale di riferimento per le aree in cui si presume la presenza di grandi riserve di gas in mano alla società di cui è amministratore Biden. 
 
L'Ucraina, grazie alle nuove tecnologie estrattive per gli idrocarburi sviluppate negli ultimi anni dagli USA, è ormai un centro di attrazione per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. La coltivazione di questi giacimenti - ora pienamente sfruttabili nell'orbita nordamericana - minaccia apertamente la posizione dominante di Gazprom, ossia l'architrave energetica della rinata potenza russa. 
 
Il fatto che il cuore del potere USA si scomodi per gestire così da vicino la pratica del gas inviando il figlio del Vicepresidente conferma la crescente rilevanza politica di questa partita. Solo la subalternità, la ricattabilità e le misere ambizioni sub-dominanti dei politici europei potevano consentire questo gioco. 
Non è un caso che l'altro eminente consigliere di amministrazione della Burisma - profilo tutto politico anche il suo - sia l'ex presidente della Polonia, Aleksander Kwaśniewski, un campione di ingerenza atlantista (e polacca) in Ucraina. 
Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, fa ironia, mentre dichiara di non vedere un conflitto d'interesse nel ruolo di Biden. «In fondo, come tutti sanno, non c'è nessun gas in Ucraina. Il gas in Ucraina è russo.» E mostra i denti. I suoi.