[english / deutsch / italiano]

1) Cosa succede in Kosovo. Generale Fabio Mini a l’AD: “In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni” (di Alessandro Bianchi e Chiara Nalli, 5 Giugno 2023)
2) Crisi Serbia-Kosovo: genesi di un disastro annunciato (di Chiara Nalli, 31 Maggio 2023)
3) Unruhen im Kosovo (II) / Unrest in Kosovo (II) (GFP, 31 MAY 2023)
4) Tensione in Kosovo: scontri tra manifestanti serbi e KFOR, feriti anche militari italiani (Analisidifesa.it, 29 Maggio 2023)
5) Vertice Serbia-Kosovo a Bruxelles: Belgrado tra Ue e tutela degli interessi nazionali (di Chiara Nalli, 2 Maggio 2023)
6) Solo 3% l'affluenza alle "elezioni" nel Nord Kosovo (@balkanossiper, 25 aprile 2023)
7) Sull'ammissione del "Kosovo" nel Consiglio d'Europa (RT Balcani & @balkanossiper, 24-25 aprile 2023)
8) Discriminazione senza precedenti: la liberalizzazione dei visti non si applica ai serbi del Kosovo (RT Balcani 20 aprile 2023)
9) FLASHBACK: Serbia: Aleksandar Vučić denuncia il ricatto dell’Occidente sul Kosovo (di Giulio Chinappi, 2 Gennaio 2023)

 
VIDEO:
 
POLVERIERA KOSOVO: COSA SUCCEDE SE IMPLODE IL 51ESIMO STATO USA? (Giuliano Marrucci / OttolinaTV, 30.1.2023.)
VIDEO: https://fb.watch/inSBz9jfrf/
PODCAST: https://open.spotify.com/episode/4HUHEtlq17bkJBUUOWpeEs?si=9QOiBrGhSUiRC8zq3owlnA
 
 
KOSOVO: LE ORIGINI DEL CONFLITTO - INTERVISTE ANTIDIPLOMATICHE DI SARA REGINELLA
Dopo gli scontri di questi giorni in Kosovo, non poteva mancare un'intervista antidiplomatica che ripercorresse la genesi del conflitto jugoslavo e i legami con la questione ucraina. Grazie a un'analisi fatta da Andrea Martocchia, segretario del Coordinamento nazionale Jugoslavia, viene messo in luce come la NATO destabilizzò i Balcani. Gli effetti e le ripercussioni si sentono anche oggi.
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-kosovo_le_origini_del_conflitto__interviste_antidiplomatiche_di_sara_reginella/5496_49826/
VERSIONE COMPLETA PER GLI ABBONATI DEL CANALE YOUTUBE DE L'ANTIDIPLOMATICO:
 

 

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Cosa succede in Kosovo. Generale Fabio Mini a l’AD: “In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni”
5 Giugno 2023
 

di Alessandro Bianchi e Chiara Nalli

 

Come l’AntiDiplomatico abbiamo avuto l’onore di intervistarlo più volte sul conflitto in Ucraina. La prima intervista, in particolare, è stata letta da oltre 100 mila italiani, che hanno così trovato un valido antidoto alla propaganda martellante e a senso unico. 

Un conflitto che aveva previsto, per le scelte scellerate della Nato, e del quale ne ha da subito indicato rischi, portata e scenari, poi tutti effettivamente realizzati. 

Dalle pagine del Fatto Quotidiano e con le sue interviste, il generale Fabio Mini si è imposto come una delle voci più credibili e autorevoli. Con il suo libro “L’Europa in guerra” (Paper First) ha offerto informazioni imprescindibili da cui partire per ogni discussione seria sull’argomento.

L’Europa è in guerra in Ucraina. Ma c’è un altro scenario che inquieta e molto in queste ore. Come ex capo di Stato Maggiore del Comando NATO per il sud Europa, nonché comandante delle operazioni di pace a guida NATO in Kosovo, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, nessuno più del Generale Mini può aiutarci a comprendere quello che sta accadendo in questi giorni in Kosovo. Quante possibilità ci sono che si possa infiammare questo nuovo (vecchio) fronte? 

Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?

Innanzitutto vorrei esprimere l’apprezzamento per l’analisi sulla situazione fatta per l’AD da Chiara Nalli. Semplicemente perfetta. Il fatto che in prima linea nell’affrontare i disordini ci siano stati gli italiani non è casuale. Gli interventi di quel genere sono pianificati e le forze selezionate in relazione agli scopi da raggiungere. Se lo scopo è reprimere violentemente, individuare gli agitatori, neutralizzarli anche effettuando  arresti di massa, in prima linea si mandano unità d’intervento rapido appositamente addestrate ed equipaggiate per azioni di breve durata sostenute da unità per il controllo del territorio; se lo scopo è dissuadere gli organizzatori dei disordini, le forze da schierare devono essere tante e preparate ad attaccare, ma l’azione principale è la pressione psicologica e politica sulle autorità locali; se lo scopo è limitare e contenere i disordini l’intervento è prettamente difensivo, non passivo, ma freddo, razionale anche a costo di subire qualche  perdita; se lo scopo è reattivo in senso proporzionale alla minaccia le forze devono possedere tutte le capacità citate ma saranno sempre soggette all’iniziativa dei dimostranti e il rischio di escalation della violenza è alto. Kfor ha sempre privilegiato l’approccio della limitazione della violenza e le forze italiane in prima o seconda linea si sono distinte in modo particolare per saggezza, fermezza e imparzialità. Ma Kfor rappresenta la forza della comunità internazionale guidata dalla Nato e se questa non è altrettanto lucida, fredda e imparziale ogni situazione rischia il peggio. Se lo scopo degli interventi non è più chiaro, se mentre si chiacchiera di sicurezza si accendono fuochi che la minacciano, se nei fatti si alimenta l’odio interetnico e si pretende che Kfor intervenga a sostegno delle forze di polizia locali che non hanno né capacità né volontà di essere imparziali, allora non importa quante e come siano le forze d’intervento: saranno sempre strumenti dell’ambiguità e dell’ipocrisia.

Il governo serbo sembra determinato ad intervenire militarmente in difesa della popolazione serba di Kosovo, qualora ciò si rendesse necessario. Il Presidente Vucic lo ha ribadito in più occasioni, menzionando anche gli eventi del pogrom di marzo 2004. Una tale eventualità potrebbe comportare uno scontro diretto con le forze KFOR e quindi indirettamente con la NATO? Quanto è realistico questo scenario?

Gli eventi del 2004 sono stati determinati dalla certezza, assicurata dalla Unmik, che il Kosovo potesse fare impunemente piazza pulita delle minoranze non albanesi e in particolare dei serbi. L’accoppiata pro-albanese Nato -Unmik in Kosovo è sempre stata flemmatizzata da Kfor e perfino la componente statunitense della missione militare (a partire dal Comandante supremo della Nato) è sempre stata molto equilibrata. Sul piano politico e non in Kosovo ma a Bruxelles, l’accoppiata ha finito per prevalere e il Kosovo ha ritenuto di poter dare una “spallata” ricorrendo all’ennesima violenza. C’era però anche un altro fattore: nel 2003 la giustizia internazionale si era cominciata a muovere anche nei riguardi dei crimini commessi dai capi k-albanesi e molti di loro si sentivano in pericolo, non tanto e non solo perché implicati direttamente ma soprattutto perché percepivano lo sgretolando del mito della resistenza antiserba. Oggi quel mito è ancora vivo e vegeto, ma la Serbia ha più interesse ad entrare in Europa che alimentare un altro conflitto. Da parte loro, Stati Uniti e Nato intendono disaccoppiare la Serbia dalla Russia esattamente come dimostrano in Ucraina cercando di staccare completamente l’Europa dalla Russia. I disordini e le critiche europee e Nato nei riguardi delle autorità kosovare per averli provocati tendono proprio a indurre la Serbia a disconoscere i rapporti con la Russia. Allo stesso tempo, la Serbia sfrutta tali rapporti per convincere l’Ue a concedere quell’accesso negato e traccheggiato per 14 anni mentre la Russia offre sostegno proprio per evitarlo. Lo scenario di un nuovo conflitto Nato-Serbia è realistico se si verifica una condizione: la Serbia non si stacca dalla Russia e non viene ammessa all’Ue. Se invece la Serbia si stacca dalla Russia in cambio del riconoscimento della sovranità (in una forma qualsiasi, anche simbolica) sul Kosovo e dell’ammissione alla Ue e alla Nato, il conflitto interno si riapre in Kosovo e si accentua quello fra Nato e Russia. In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni.

Nel 1999 le forze NATO ottennero il ritiro dell’esercito jugoslavo dal Kosovo tramite una campagna militare condotta esclusivamente per via aerea. Ma la Serbia di oggi non è la Jugoslavia del 1999: non lo è per forze interne, innanzitutto – ed ha possibilità praticamente nulle di essere supportata dall’esterno. Conviene con questa valutazione? In tale contesto, ritiene che un confronto armato avrebbe alcun senso?

Una precisazione: nel 1999 la campagna aerea non ha risolto nulla sul piano militare e nemmeno su quello politico. La soluzione transitoria è stata trovata dagli accordi prettamente militari tra le forze della Nato dispiegate in Macedonia e quelle dell’esercito serbo in Kosovo. Gli accordi militari di Kumanovo stabilirono le condizioni per il ritiro delle forze serbe senza spargimento di sangue e tra queste condizioni, diventate parti integranti della Risoluzione dell’Onu 1244, non figurava né la sconfitta formale della Serbia né tanto meno la perdita della sovranità sul Kosovo che invece veniva riaffermata. Le forze Nato sono entrate in Kosovo dopo l’accordo e i serbi si sono ritirati senza essere stati sconfitti. Nel 1999 non c’è stato quello scontro tra eserciti che avrebbe procurato un bagno di sangue sia per i serbi sia per la Nato. Un massacro che la Serbia avrebbe potuto sostenere, se non altro per tradizione e vocazione al martirio, ma che le nazioni della Nato non avrebbero potuto accettare. Di qui la saggezza della soluzione del negoziato fra militari. Oggi nessun conflitto ha senso di utilità né politica né strategica, ma può averlo per convenienza economica specialmente se prevale il disprezzo per le ragioni e la vita altrui. E quanto sia forte questo disprezzo ai nostri tempi è dimostrato dalla guerra in Ucraina.

Tornando alla missione KFOR. Come lei ci spiega nel suo libro: “il coinvolgimento internazionale della Nazioni Unite e della NATO si è protratto sul piano amministrativo e militare concedendo al territorio conteso (Kosovo) uno status indefinito con la formula che “lo status finale sarà deciso con accordi tra le parti”. Una formula riportata nella risoluzione dell’ONU 1244 che non è servita a nulla e che è stata smentita dalle stesse Nazioni Unite quando hanno avallato la dichiarazione unilaterale di indipendenza dei territori sottratti alla sovranità della Serbia”. Allo stato attuale, le forze ONU e NATO in Kosovo stanno nuovamente avallando una violazione di un accordo internazionale da parte di Pristina, legittimando de facto la creazione di un esercito nazionale? Quale peso potrebbe avere questo elemento negli scenari futuri? 

Allo stato attuale la risoluzione 1244 è carta straccia. Serve ancora per mantenere una missione politico amministrativa ed una militare che hanno perso il valore iniziale: accompagnare il Kosovo e i Balcani interi in un percorso di ricostruzione, sicurezza e stabilità necessari alla sicurezza dell’intera Europa. Dopo vent’anni siamo ai problemi anteguerra. Le missioni militari straniere che garantiscono la sicurezza anche di una piccola parte del territorio estero sono forze di “occupazione”, come chiariscono i Regolamenti dell’Aja del 1907 inclusi nelle Convenzioni di Ginevra. È una situazione “de facto” che prescinde dalle ragioni e fini dell’occupazione. Gli stessi documenti chiariscono i diritti e i doveri delle forze occupanti nei riguardi delle popolazioni civili soggette a occupazione. E sono più doveri che diritti. Ma considerando carta straccia anche queste regole, rimane una constatazione: in Kosovo, con la mania di imporre regole e la linea prettamente ideologica di sfasciare ciò che non si condivide, la presenza amministrativa e militare Onu e Nato ha rallentato e perfino impedito la presa di coscienza kosovara e serba sul fatto che esiste sempre un’alternativa alla guerra e al conflitto. Le forze militari che affermano di basarsi sulla prevenzione del conflitto, sul mantenimento della pace e sulla deterrenza sono destinate a fallire al primo colpo di pistola. La loro successiva utilità consiste soltanto nel condurre la guerra e perseguire la distruzione. Molti stati sono consapevoli di questa fragilità delle cosiddette “buone intenzioni” e si preparano per la guerra senza ambiguità. La Serbia, pur con mezzi limitati, appartiene a questa schiera. Il Kosovo che avrebbe dovuto essere disarmato, perché difeso dalla Nato, è stato indotto dalla stessa Nato a dotarsi di un esercito e di prepararsi alla guerra contro la Serbia con il sostegno della Nato. La creazione di un esercito nazionale impedita dagli accordi è stata realizzata in modo surrettizio con l’aiuto e il sostegno della Nato. Quando gli ex membri dell’UCK dovevano consegnare le armi e, se volevano, operare in un corpo di protezione civile (KPC) sono stati addestrati, riarmati e vestiti da alcuni paesi della Nato per continuare la loro guerra fino all’ultimo serbo. Un collega inglese in Kosovo incaricato di controllare il KPC non aveva dubbi: “Pensa, marcia e spara come un esercito: è un esercito”. Da allora le armi sono aumentate e questo esercito non ha mai avuto in mente un’alternativa alla guerra.

 
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• 31 Maggio 2023 
 
Crisi Serbia-Kosovo: genesi di un disastro annunciato
 
di Chiara Nalli per l’Antidiplomatico


Lo scorso venerdì sera (26 Maggio) la Serbia ha schierato alcune unità dell’esercito lungo posizioni di difesa del confine amministrativo con il Kosovo. Le unità sono state poste in stato di massima allerta e sabato mattina (27 Maggio) si è tenuta una seduta del Consiglio di Sicurezza nazionale, i cui esiti non sono stati resi noti.

Come riportato anche dai media italiani, la decisione del governo di Belgrado fa seguito ai disordini scoppiati nei comuni di Zvecan, Leposavic e Zubin Potok quando cittadini di etnia serba hanno occupato i locali comunali nel tentativo di impedire l’insediamento dei neoeletti sindaci albanesi. L’intervento delle forze speciali di polizia del Kosovo, con gas lacrimogeni, fumogeni e granate assordanti ha causato il ferimento di diverse persone, sollecitando l’immediata reazione delle autorità di Belgrado che hanno inviato l’esercito al confine nell’eventualità di dover intervenire a protezione delle comunità serbe in Kosovo.
 
Per comprendere le ragioni delle proteste dei serbi del Kosovo occorre fare un passo indietro, chiarendo innanzitutto che i comuni teatro delle vicende fanno parte dei dieci (quattro nel nord del Paese e sei a sud est) a maggioranza serba e per i quali, gli accordi di Bruxelles del 2013 (e 2015) prevedono una forma di autonomia amministrativa mai attuata dalle autorità di Pristina, la c.d. “Unione dei Comuni Serbi del Kosovo” (ZSO – sigla in serbo). La mancata realizzazione della forma di autogoverno concordata nell’ambito dei piani per la normalizzazione delle relazioni, unita alla escalation di tensioni iniziata già nell’estate del 2022, ha portato le comunità serbe a boicottare le elezioni amministrative del 23 aprile 2023 - mediante le quali sono stati eletti i sindaci oggetto di contesa – a cui ha preso parte effettivamente, solo il 3,4% degli elettori, cioè circa 1.500 albanesi e solo 13 serbi.
 
Ciò che oggi i serbi del nord del Kosovo rivendicano, quindi, è, innanzitutto l’architettura costituzionale nell’ambito della quale sono state indette le elezioni e, di riflesso, la mancanza di legittimazione politica degli esiti elettorali.

È del resto vero che le stesse istituzioni dell’Unione Europea, prendendo atto dello stallo dei negoziati sulla formazione della ZSO e riconoscendo l’esito politico fallimentare delle elezioni di aprile, avevano proposto, nel timore di una nuova escalation, una soluzione transitoria in base alla quale i sindaci neoeletti non avrebbero assunto la carica presso i propri comuni alla data prevista del 28 Maggio. Proposta respinta dal primo ministro del Kosovo A. Kurti con il pretesto di dover dare piena attuazione a elezioni svoltesi nel quadro della legalità costituzionale del paese.
 
E’ altrettanto vero che l’atteggiamento oltranzista del governo kosovaro riguardo l’insediamento dei nuovi sindaci e la violenza nella gestione delle proteste hanno suscitato non poco biasimo presso gli attori internazionali coinvolti: in una dichiarazione congiunta, USA, Francia, Italia, Germania e Regno Unito hanno condannato la decisione del Kosovo di accedere agli edifici municipali con le forze di polizia, chiedendo alle autorità di ritirarsi e collaborare strettamente con le missioni EULEX e KFOR; parimenti il portavoce della Commissione europea, il portavoce della NATO, il capo dell'UNMIK (missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e l’ambasciatore americano a Pristina; mentre il segretario di Stato americano Anthony Blinken ha invitato A. Kurti a fermare immediatamente le azioni violente e a concentrarsi nuovamente sul dialogo con Belgrado, mediato dall'UE.
 
In effetti, nel crescendo di tensioni che ha caratterizzato le scorse settimane, hanno segnato il passo anche i fallimenti dei round negoziali per la creazione della ZSO - mediati dall’UE e tenutisi a Bruxelles il 2 e il 15 Maggio 2023. La vera domanda, quindi, è cosa si muove dietro lo stallo dei negoziati e le resistenze del governo di A. Kurti e quale sia il ruolo che, in tale contesto, l’Unione Europea (e gli USA) possono esercitare o hanno esercitato.

I negoziati di maggio avrebbero dovuto rappresentare il momento per discutere concretamente le prerogative e i limiti della ZSO, dopo gli accordi quadro difebbraio e di marzo 2023 [ https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-vertice_serbiakosovo_a_bruxelles_belgrado_tra_ue_e_tutela_degli_interessi_nazionali/5694_49534/ ] . Il governo kosovaro ha invece rigettato in toto la bozza di statuto della ZSO elaborata dal team di negoziatori preposto. Non solo: insoddisfatti dei contenuti dello Statuto, i membri del governo di Pristina hanno unilateralmente disconosciuto il ruolo del team che – ricordiamo – era stato specificatamente designato a tale compito dagli accordi di Bruxelles del 2013 e del 2015, che ne avevano definito competenze e mandato (un mandato, peraltro, non limitato alla presentazione del progetto di statuto me che avrebbe dovuto estendere il proprio ruolo al processo di formazione, fino alla costituzione vera e propria dell’associazione di comuni).
 
L’atteggiamento del governo di Pristina è stato stigmatizzato dagli stessi funzionari UE, i quali hanno evidenziato come il disconoscimento del team non fosse in linea con lo spirito dell’auspicato dialogo tra Belgrado e Pristina e con i principi contenuti degli Accordi per la normalizzazione delle relazioni del 2013 e del 2015. La bozza di statuto presentata a Bruxelles, infatti, deriva direttamente da tali accordi che – peraltro - le istituzioni di Pristina avevano accettato e ratificato (salvo non darne poi applicazione concreta con il pretesto di conflitti con la carta costituzionale del Paese).
 
I punti fondamentali, sulla cui attuazione insistono le autorità di Belgrado, riguardano in particolare la proprietà e la gestione di tutti i beni pubblici (infrastrutture e risorse naturali) posti nel territorio dei comuni interessati e la possibilità di ricevere finanziamenti direttamente dal bilancio dello Stato serbo.

La parte kosovara ha invece insistito proponendo il proprio modello di ZSO, elaborato direttamente dal governo di Pristina, che di fatto, svuoterebbe l’associazione di comuni da ogni competenza di tipo esecutivo e amministrativo, relegandone il ruolo a funzioni di tipo culturale, sociale ed educativo e nell’ambito degli assetti istituzionali già previsti dalla costituzione esistente.
 
Tutto questo non ostante le ripetute esortazioni, pervenute dalle più alte sfere della diplomazia europea e americana (e perfino dal Consiglio di Sicurezza ONU) a concludere l’accordo sulla ZSO con la massima urgenza e ignorando le preoccupazioni, sollevate da più parti, sull’imminente scadenza per l’insediamento dei nuovi sindaci, ritenuto, a buona ragione, il fattore scatenante dal quale avrebbe potuto dipanarsi una nuova spirale di incidenti. Avvertimenti evidentemente inascoltati da Pristina.

Perché? Come è possibile che un Paese grande quanto l’Abruzzo, totalmente dipendente dall’assistenza tecnica e finanziaria dei propri partner esteri (USA e UE) e non dotato di istituzioni ed esercito indipendenti (in quanto sottoposti al complesso schema di supervisione della missione UNMIK), assuma atteggiamenti negoziali tanto spregiudicati da porsi in contrasto perfino con i propri sostenitori? E come è possibile che, di fronte a un disconoscimento tanto evidente di accordi già accettati e in presenza di una grave e conclamata minaccia per la sicurezza dell’area balcanica, i paesi membri dell’UE e gli USA non abbiano utilizzato tutti (e in tal caso potenti) mezzi a propria disposizione per ricondurre il governo di Pristina a più miti consigli?
 
Perché se è chiaro che un’escalation dei disordini nel nord del Kosovo potrebbe anche risultare “comoda” alle autorità di Pristina, offrendo loro un ottimo pretesto per sospendere i negoziati ed evitare quindi la formazione della ZSO, è altrettanto evidente che l’unica forza in grado di impedire tale deriva è il blocco politico occidentale, inteso come insieme di interessi in campo e istituzioni coinvolte. Come è stato possibile, quindi, arrivare alla situazione attuale?

In effetti, riavvolgendo il nastro e scorrendo dall’inizio le dichiarazioni della diplomazia occidentale da un lato e le azioni del governo di Pristina dall’altro, la sensazione che si trae è quella di una sorta di “commedia internazionale” in cui i paesi occidentali raccomandano “ex cathedra” ma non esercitano pressioni concrete mentre i rappresentanti del governo Pristina si atteggiano come una sorta di figlioletto spocchioso ma benvoluto - che nulla ha da adempiere e che elogia se stesso come “paese più democratico della regione” e “fattore di pace e libertà nei Balcani". E se sul piano diplomatico, da un paio di mesi a questa parte il governo di Belgrado si è trovato di fronte una sorta di cortesissimo muro di gomma, sul versante squisitamente pratico le cose si sono mosse - e si sono mosse certamente in una direzione non favorevole alla popolazione serba.
 
Il boicottaggio delle elezioni amministrative del 23 Aprile rappresenta infatti, solo la punta dell’iceberg: un’occasione per dare visibilità e portare sul piano della discussione politica tutta una serie di difficoltà (o veri e propri soprusi) subiti dalla popolazione serba residente in Kosovo. In questa sede vale la pena menzionare la riforma della legge in tema di espropri – portata avanti dal governo di Pristina - che mira ad agevolare le confische di terreni per la costruzione di strutture militari e/o di polizia e tutte le infrastrutture a esse collegate, con un’estensione non ben definita alle aree circostanti. La riforma arriva peraltro nel mezzo di quello che sembra essere un processo di militarizzazione dell’area nord del Kosovo, attraverso la costruzione di nuove basi militari avviata già a partire dallo scorso anno. Lo scenario che si intravede è appunto quello di espropri forzati di terre ereditate dai serbi da generazioni e, in più, con la finalità di occupazione militare del territorio. Si tratta di terre storiche (incluse quelle di chiese e cimiteri) che la popolazione serba “superstite” (50.000 individui su circa 200.000 all’inizio degli anni ‘90) è assolutamente determinata a non abbandonare. Considerando che le discussioni relative agli espropri vanno avanti da mesi, si può comprendere quale sia il livello di esasperazione raggiunto dalla popolazione serba del Kosovo.
 
Per quanto riguarda UE e USA invece, possiamo sicuramente affermare che l’equidistanza ostentata sul piano formale è molto meno praticata a livello concreto. E’ del 30 Aprile la notizia, pubblicata sulla pagina Facebook ufficiale delle forze di sicurezza del Kosovo (KBS), secondo la quale i carabinieri italiani stanno addestrando alcune unità del KBS nell’ambito di un accordo bilaterale tra Italia e Kosovo; le esercitazioni fanno seguito a quelle già condotte in Italia nel 2022 e sono focalizzate sulla gestione e repressione dei raduni di massa. Mai tempismo fu più appropriato. Ma il controllo di rivolte non è l’unico punto sul quale il KBS sarà istruito dai propri partner occidentali. Per lo stesso KBS, infatti, era prevista la partecipazione all’esercitazione congiunta NATO nei Balcani, denominata "Defender of Europe 23", nell'ambito della quale, fino al 23 giugno, verrà testata la capacità di difesa nell’area balcanica contro un possibile attacco russo. E’ importante notare come la partecipazione del KBS alle esercitazioni congiunte del blocco NATO avesse una valenza molto più ampia della pura ed esplicita preparazione tecnica e militare, mirando, in realtà, alla trasformazione di tali forze di sicurezza in un vero e proprio esercito, legittimato anche da un alto livello di relazioni politico-militari con i propri principali alleati, USA e NATO. Vale la pena ricordare che la costituzione di forze armate sul territorio del Kosovo è contraria alla risoluzione ONU 1244, secondo la quale l'unica formazione armata legittimata ad operare in quel territorio è la KFOR.
 
E’ evidente quindi come le relazioni politiche, economiche e militari tra il Kosovo da un lato e UE, USA e NATO dall’altro si muovano verso una direzione sicuramente meno neutrale rispetto a quanto emerge dalle interlocuzioni formali, che vorrebbero il blocco occidentale come arbitro solo parzialmente coinvolto nelle vicende balcaniche. Motivo per cui si può affermare che la crisi attualmente in corso non era solamente ampiamente prevedibile ma anche gestibile. Da questa osservazione è facile comprendere quindi come il coinvolgimento diretto - o se vogliamo le ingerenze - del blocco occidentale nelle dinamiche dell’area balcanica possano essere spiegate anche in funzione anti-russa. Come del resto della guerra alla Russia fanno parte le enormi pressioni su Belgrado affinché aderisca alle sanzioni applicate da UE e USA. In aggiunta a quanto da noi già riportato (https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-vertice_serbiakosovo_a_bruxelles_belgrado_tra_ue_e_tutela_degli_interessi_nazionali/5694_49534/) segnaliamo che a maggio 2023 il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla Serbia, deplorando la mancata introduzione di sanzioni contro la Russia (inclusa la mancata sospensione delle attività di trasmissione di Sputnik e Russia Today) e condannando gli stretti rapporti tra i due paesi. Questo non ostante il governo serbo abbia chiarito in più occasioni di non poter adottare misure che si porrebbero in grave contrasto con i propri interessi nazionali e garantito, al contempo, piena cooperazione tecnica con le istituzioni UE affinché la Serbia non diventi una piattaforma per l’elusione delle sanzioni da parte di altri paesi.
 
E non è un caso se una delle dichiarazioni pubbliche più incisive della portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo abbia riguardato, in tempi recenti, proprio le pressioni ricevute dalla Serbia in tema di sanzioni. In un commento del 24 Maggio, M. Zacharova ha affermato: “Sappiamo quanti sforzi sta facendo l'Occidente per costringere i nostri amici serbi a rinunciare alla cooperazione con la Russia. La pressione esercitata su di loro è senza precedenti […]. Viene utilizzato tutto lo spettro di ricatti, sanzioni, minacce, il tutto secondo le peggiori tradizioni europee" – concludendo che: “nessuno in Occidente - che attui una politica neocoloniale - impedirà a Russia, Serbia […]di sviluppare una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e di contribuire al rafforzamento della pace e della stabilità nei Balcani”.
 
Dichiarazioni che potrebbero risultare entusiasmanti per chi abbia a cuore un mondo regolato da rapporti multilaterali paritari ma che in realtà puntano un riflettore, assolutamente non necessario, su un paese, la Serbia, completamente circondato da alleati NATO.

Per chi volesse immaginare una probabile evoluzione della attuale crisi, forse, è proprio questo il punto nodale da tenere in considerazione: la posizione geografica della Serbia, tecnicamente irraggiungibile dai propri alleati e quindi indifendibile. Applicando il buonsenso, potremmo pensare che un confronto armato, in tale contesto, sarebbe non solo tragico ma anche totalmente inutile. Il che potrebbe farci propendere, più realisticamente, per l’ipotesi di un lento “assorbimento” della Serbia nella sfera degli interessi occidentali - a partire da quelli economici - da attuarsi con “bastone e carota”: pressioni, favori e magari qualche manovra di destabilizzazione interna. Una strategia ampia, in cui il Kosovo e la protezione dei suoi territori a maggioranza serba potrebbero rappresentare una preziosa merce di scambio.
 
Alla chiusura del presente articolo (31 Maggio) si registrano gli ulteriori, violenti scontri, avvenuti la mattina del 30 Maggio - che hanno causato il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. In conseguenza di tali sviluppi, nel tardo pomeriggio del 30 Maggio il segretario generale della NATO J. Stoltenberg ha annunciato l’invio di ulteriori 700 militari a protezione della stabilità dell’area e l’esclusione delle forze di sicurezza kosovare (KBS) dall’esercitazione congiunta “Defender of Europe ’23”, come sanzione nei confronti del Kosovo per aver provocato un’inutile escalation di tensioni.
 
 
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AUF DEUTSCH: UNRUHEN IM KOSOVO (II) (GFP, 31 MAI 2023)
Unruhen im Nordkosovo veranlassen die NATO, ihre Truppen dort aufzustocken. Auch die Bundeswehr steckt in Ex-Jugoslawien fest, während sie sich gegen Russland und China in Stellung bringt...
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/9254

 
 
31 MAY 2023
 
Unrest in Kosovo (II)

Unrest in northern Kosovo prompts NATO to bolster its troops in the region. The German Bundeswehr is also bogged down in what had been Yugoslavia, while taking up positions against Russia and China.
 

BELGRADE/BERLIN (Own report) – Almost a quarter-century after the illegal war of aggression had de facto split Kosovo from Yugoslavia, serious unrest is again flaring up in the region. The flareup began when the Priština government tried to inaugurate Albanian-speaking mayors in four majority Serb-speaking administrative districts in northern Kosovo. This was preceded by a fierce conflict over the formation of an association of municipalities with a Serbian majority in Kosovo endowed with autonomous rights, which the Kosovo government had already officially promised in 2013, but had been de facto sabotaging ever since. The conflict escalated into violence late last year and had merely been provisionally calmed down, only to re-escalate into violent clashes on Monday, with at least 50 demonstrators and around 30 NATO soldiers injured, some seriously. NATO has announced another increase of its troops in Kosovo. This also leaves the German Bundeswehr bogged down in what had been Yugoslavia – at a time when it seeks to reserve all its forces for the West’s power struggle against Russia and China.

No Autonomous Rights

Already late last year, tensions had seriously escalated in northern Kosovo. Since Kosovo’s secession from Serbia, the situation has remained precarious due to the fact that the Serbian-speaking part of the population, constituting the majority in the region’s north, does not recognize the secession – not only in line with Serbia, but also with nearly half of the other countries world-wide, including five EU member states.[1] To improve the situation, an agreement was reached already in 2013, under EU pressure, to form an association of municipalities in Kosovo endowed with autonomous rights, that would comprise a total of ten administrative districts, four of them in northern Kosovo. However, the Priština government has since been refusing to permit this important association to be officially established. Instead, it had stepped up its pressure on the Serbian-speaking part of the population last fall, by declaring that Serbian license plates, still widely used in northern Kosovo, would no longer be valid and that anyone using them would face a fine. Taking such steps in an already very tense situation are enough to dangerously escalate the situation.

Resignation in Protest

This happened in November 2022. Placed under uncompromising pressure by the Kosovo authorities, the Serbian-speaking mayors of all four administrative districts in the north and other Serbian-speaking public office holders – judges, police officers – resigned from their posts. Priština continued to escalate, scheduled new elections for December and, breaching previous agreements, began dispatching Albanian-speaking police officers to majority Serbian-speaking territories in the north of the region, without the required accord of the Serbian-speaking authorities. Protests quickly erupted, with some involving roadblocks. Citing UN Resolution 1244 from 1999, Serbia’s President Aleksandar Vučić announced that, in case of physical attacks on the Serbian-speaking minority, he would deploy Serbian soldiers to northern Kosovo for their protection. Only massive pressure from Brussels and Washington induced the Priština government to at least postpone new elections in the North until April 2023, thus preventing further escalation at the last moment.[2] EU-negotiations with Priština and Belgrade seemed to provide a solution in early 2023, which has now proven a momentous illusion.

Voter Turnout: 3.47 Percent

The current escalation was sparked by the new elections on April 23. Because Pristina was still unwilling to allow the formation of the Association of municipalities with a Serbian-speaking majority and the withdrawal of all Albanian-speaking special units from the north,[3] the Serbian-speaking population had boycotted the elections. Of Kosovo’s approximately 45,000 eligible voters, only 1,567 cast their ballot. The voter turnout was at just 3.47%.[4] The four newly elected mayors – all Albanian-speaking – could rally only a few hundred votes each, and are, therefore, supported by only a small portion of the population, having more than 90 percent of the area’s residents against them. This obvious potential for escalation prompted the EU and the United States to warn the Kosovo government against further provocation. Pristina ignored the warnings of its Western protectors and, last week, publicly inaugurated the newly elected mayors in three of the four northern administrative districts into office. Even then, the expected protests required security measures on a larger scale. On Friday, Serbian-speaking protesters set up barricades, and violent clashes erupted with the police.[5]

Dozens Injured

On Monday, the situation escalated further. In Zvečan, one of the northern administrative districts, Kosovo police attempted to clear a path for the new mayor to his office through a large gathering of protesters. Violent conflicts ensued. Units of NATO’s KFOR – with a presence of around 300 soldiers in the area – intervened. Around 30 Italian and Hungarian soldiers and over 50 demonstrators were injured, some seriously.[6] Yesterday, the protests continued in several localities in northern Kosovo. Already at the end of last week, Serbia had once again concentrated some of its troops near its border with Kosovo. Official warnings were issued, not only to Serbia, but to Pristina as well by the four particularly heavily involved nations in Europe (Germany, France, Italy, Great Britain) as well as by the USA.[7] Yesterday, NATO additionally announced it will again increase its KFOR units. It is currently unknown, whether this also pertains to its Bundeswehr units, which, according to information from the Bundeswehr, has around 90 soldiers stationed in Kosovo. Late last week, the Bundestag had extended the German KFOR mission’s mandate by another year. The upper limit is 400 soldiers.

The Bundeswehr is Bogged Down

With the recent escalation of the conflict, the prospects of being able to terminate the Bundeswehr’s Kosovo mission – soon to reach its 25th year – in the foreseeable future, is receding into a more distant future. Moreover, just last summer, the German armed forces had to resume an already completed deployment, in what had been Yugoslavia – their deployment in Bosnia-Herzegovina. (german-foreign-policy.com reported.[8]) The Federal Republic of Germany was able to successfully crush Yugoslavia, which had potentially represented a strong pocket of resistance to its hegemony.[9] Today’s Serbia is likewise resisting German dominance in Southeast Europe, but it cannot match up to its much more powerful predecessor state in terms of influence. Nevertheless, Berlin has not managed to control the incessant unrest in Yugoslavia’s successor nations. The result is that the Bundeswehr is still operating in Kosovo and Bosnia-Herzegovina and is incapable of preventing an uncontrolled escalation, at a time when it would need to reserve its forces for defending global western dominance against Russia and China.

 

[1] By the end of 2022, only 99 of the 193 members of the United Nations had recognized Kosovo as a sovereign country. 94 nations refuse, including EU-members Spain, Slovakia, Romania, Greece and Cyprus.

[2] See also Unrest in Kosovo https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/9111

[3] Alice Taylor: Serbian List confirms boycott of local elections in Kosovo. euractiv.com 21.03.2023.

[4] Alice Taylor, Bojana Zimonjić Jelisavac: North Kosovo elections trigger harsh words, criticisms from Belgrade. euractiv.com 24.04.2023.

[5] Alice Taylor: Kosovo steadfast over mayor action despite international criticism. euractiv.com 29.05.2023.

[6] Mehrere Verletzte bei Zusammenstößen. tagesschau.de 30.05.2023.

[7] Joint Statement on Violence in the North of Kosovo. state.gov 26.05.2023.

[8] See also Back to Square One https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/8997

[9] See also Palatable Slogans https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/7666

and Auf die Flucht getrieben (IV)https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/6728

 
=== 4 ===
 
 
Tensione in Kosovo: scontri tra manifestanti serbi e KFOR, feriti anche militari italiani
 
• 29 Maggio 2023
 
 
Sono 34 i militari della KFOR della NATO, tra ungheresi, moldavi e italiani, rimasti feriti negli scontri avvenuti oggi a Zvecan in Kosovo settentrionale, durante le proteste della popolazione kosovaro-serba. I militari, a quanto apprende l’Adnkronos, sono rimasti feriti dal lancio di molotov, con dentro chiodi, petardi e pietre. Tra i 34 feriti, 14 sono militari italiani, appartenenti al Nono Reggimento Alpini: nessuno è in pericolo di vita.

Nel tardo pomeriggio lo Stato Maggiore Difesa ha comunicato che “questo pomeriggio unità di KFOR sono state impiegate nel contenimento di violente manifestazioni nelle 4 municipalità del Nord del Kosovo. Durante il contrasto delle frange più attive della folla, diversi soldati del contingente italiano appartenenti al 9 reggimento Alpini l’Aquila, hanno riportato ferite da trauma e ustioni dovute all’esplosione di dispositivi incendiari.

Prontamente soccorsi dalle unità mediche di KFOR, sono attualmente sotto osservazione del personale sanitario che ne sta accertando le condizioni. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, segue l’evoluzione della situazione per il tramite del Comando Operativo di Vertice Interforze ed esprime vicinanza ai militari feriti e ai loro famigliari”.
 
L’escalation delle tensioni tra serbi e albanesi in Kosovo degli ultimi giorni ha indotto il presidente serbo Alexandar Vucic ad accusare il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, di aver volutamente provocato gli scontri fra manifestanti serbi e forze della KFOR. Kurti “è l’unico responsabile”, vuole fomentare un conflitto fra i serbi e la NATO, ha detto Vucic in un discorso alla nazione, in cui ha affermato che 52 serbi sono rimasti feriti negli scontri di questo pomeriggio a Zvecan. Vucic ha detto che la Serbia farà di tutto per preservare la pace.

Il presidente serbo ha infine annunciato che al termine del discorso si sarebbe recato al confine per passare la notte con l’esercito che è stato dispiegato nei giorni scorsi ai confini del Kosovo. Uno schieramento attuato in concomitanza col montare delle violenze per monitorare la situazione e a scopo deterrente.

Vucic ha annunciato di aver convocato un incontro con gli ambasciatori di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Italia per discutere degli scontri avvenuti oggi in Kosovo settentrionale. In un discorso trasmesso dalla tv pubblica serba RTS, Vucic ha annunciato di aver messo in allerta le forze serbe, che i serbi non vogliono la guerra, ma “non permetteremo il pogrom del popolo serbo”.

Vucic ha annunciato anche che non andrà probabilmente domani a Bratislava, rimandando forse a dopodomani la visita. “Ancora una volta chiedo alla comunità internazionale di ragionare con Albin Kurti, non con annunci senza senso, dandogli tutto, ma di prendere misure: se non lo si farà, temo sarà troppo tardi per tutti noi”.
 
Vucic ha accusato Kurti di volere un “bagno di sangue” nella regione. Il leader di Belgrado ha inoltre invitato i serbi in Kosiovo, pur sapendo “come si sentono e quanto sia difficile per loro non entrare in conflitto con la NATO”, di non farlo “non perché io abbia paura o perché qualcuno di noi abbia paura, ma perché è quello che vuole di più Kurti”. Inoltre ha chiesto che le manifestazioni siano “pacifiche”, ma “se l’occupante albanese spara, allora la situazione sarà completamente diversa e questo l’ho comunicato a tutti nella NATO”.

L’esercito serbo resterà in stato di massima allerta fino a venerdì prossimo. ha detto oggi il ministro della Difesa Milos Vucevic, confermando la dislocazione di truppe lungo la linea di confine tra Serbia e Kosovo. “Tali unità sono pronte a espletare ogni compito e ordine che giunga dal comandante supremo delle Forze armate (il presidente Vucic, ndr), nella speranza che si trovi una soluzione politica”, ha detto Vucevic citato dai media.

Il ministro della Difesa ha al tempo stesso criticato la KFOR, la Forza Nato in Kosovo, che a suo dire prenderebbe le difese della polizia kosovara e degli ‘usurpatori della democrazia’ piuttosto che della popolazione serba.

Definendo inammissibile una situazione per cui dei sindaci e chiunque altro debbano recarsi al lavoro scortati da blindati e da agenti pesantemente armati, Vucevic ha detto che l’Esercito serbo è in costante contatto con KFOR, e che stamane il capo di stato maggiore, generale Milan Mojsilovic ha parlato con il comandante della KFOR, il generale italiano Angelo Michele Ristuccia che ha ribadito l’impegno della Forza della NATO a preservare la pace e a evitare scontri con la popolazione serba.
 
In serata il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha telefonato al presidente serbo Aleksandr Vucic e al primo ministro kosovaro Albin Kurti ribadendo con forza che ”ogni violenza e ogni provocazione deve cessare immediatamente”. E’ quanto riferisce una nota della Farnesina. Tajani, si legge, “segue con grave allarme gli ultimi sviluppi nel Nord del Kosovo e in particolare gli scontri che hanno coinvolto nel pomeriggio di oggi la Missione della Nato Kfor attaccata dai manifestanti nel comune di Zvecan”.

Tajani ha ribadito con forza che “ogni violenza e ogni provocazione deve cessare immediatamente: Kosovo e Serbia devono dare piena attuazione agli accordi che hanno sottoscritto grazie alla facilitazione dell’Unione Europea. La violenza è inaccettabile. L’Italia vuole contribuire a raggiungere in tempi molto brevi una soluzione sostenibile nel Nord del Kosovo.”

A Kurti , Tajani ha sottolineato con fermezza l’assoluta necessità che le autorità kosovare si astengano da ogni avventata azione unilaterale che possa presentarsi come provocazione e pregiudicare in maniera irresponsabile la sicurezza, offrendo altresì i buoni uffici dell’Italia per facilitare il dialogo tra Pristina e Belgrado.

Allo stesso tempo ha esortato Vucic affinché la Repubblica Serba eserciti immediatamente tutta la sua influenza sulle popolazioni coinvolte in questi giorni nei disordini. Tajani ha ribadito a entrambi la disponibilità dell’Italia a essere sempre più presente nei Balcani Occidentali, anche in funzione di ponte tra la regione e il resto dell’Europa.

Il 26 maggio il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva annunciato che gli Stati Uniti “condannano con forza” le azioni del governo del Kosovo per accedere “con la forza” negli edifici municipali nel nord del Paese. Sono azioni attuate “contro” i consigli degli Stati Uniti e dei partner europei del Kosovo.

Queste azioni “non necessarie”, prosegue Blinken, hanno aumentato le tensioni, “compromettono i nostri sforzi” per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia e “avranno delle conseguenze sulle nostre relazioni bilaterali” aveva detto Blinken lanciando un appello alla moderazione al premier Albin Kurti e a “tutte le parti” per evitare una ulteriore escalation.
 
 
=== 5 ===
 
 
• 2 Maggio 2023
 
Vertice Serbia-Kosovo a Bruxelles: Belgrado tra Ue e tutela degli interessi nazionali
 
di Chiara Nalli


E’ previsto per oggi, 2 maggio, il terzo round di negoziati nell’ambito degli accordi per la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, cui prenderanno parte il Presidente serbo Aleksandar Vucic e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti. L’incontro fa seguito a quelli del 27 febbraio e del 18 marzo, con i quali, sotto la mediazione dell’Unione Europea, sono stati delineati i punti fondamentali per la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi e la relativa roadmap attuativa. Nell’incontro di oggi, in particolare, è prevista la discussione riguardo la creazione della “Unione dei Comuni Serbi del Kosovo” (ZSO – sigla in serbo), punto di vitale interesse per Belgrado.
 
Già prevista negli Accordi di Bruxelles del 2013 e mai realizzata nei successivi dieci anni a causa delle resistenze delle autorità kosovare, l’Unione dei Comuni Serbi del Kosovo rappresenterebbe sostanzialmente un’area di autonomia amministrativa per i comuni a maggioranza serba del nord del Kosovo (ed alcune enclave nell’area sud-est) ed è tuttora ritenuta essenziale per la tutela delle popolazioni serbe della regione.

Per avere una misura di quanto simili questioni possano essere vitali in un contesto di tensione interetnica, basti pensare a come la crisi fronteggiata tra luglio e dicembre 2022 abbia avuto origine proprio da una questione amministrativa, vale a dire dal rifiuto, da parte di Pristina, di prorogare l’accordo sulla libera circolazione delle targhe serbe (e con esse, delle persone). L’escalation che ne è conseguita, sia a livello locale (con scontri e blocchi) sia a livello istituzionale (con le dimissioni di massa, a novembre 2022, dei rappresentati serbi da tutte le principali istituzioni governative) ha portato i rapporti tra Belgrado e Pristina ad un livello di tensione senza precedenti negli ultimi dieci anni, tale da “rendere necessaria” l’intermediazione di diplomatici statunitensi e dell’Unione Europea; quest’ultima, sulla base di una risoluzione ONU del 2010 (64/298), ha assunto il ruolo di “mediatore ufficiale” dei negoziati.
 
Il testo dell’accordo per la normalizzazione delle relazioni (del quale si studierà l’attuazione a partire da oggi) è basato su una proposta franco-tedesca che, se da un lato ribadisce la necessità di formare l’Unione dei Comuni Serbi, chiedendo al Kosovo un impegno generico in tal senso, dall’altro pone le basi per un riconoscimento de facto del Kosovo da parte della Serbia, stabilendo che “la Serbia non si opporrà all'appartenenza del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale”. Non solo: l’allegato attuativo dell’accordo prevede che i singoli punti debbano essere realizzati indipendentemente l’uno dall’altro: il che significa che Belgrado potrebbe trovarsi nella scomoda posizione di non avere l’autonomia richiesta per i territori a maggioranza serba e, allo stesso tempo, di aver implicitamente riconosciuto soggettività internazionale al Kosovo, perdendo qualsiasi strumento idoneo (anche solo di pressione diplomatica) a impedirne l’accesso all’ONU (o alla stessa NATO).
 
Un’ipotesi remota? Forse sì. Ma quelle che a prima vista potrebbero sembrare elucubrazioni di diritto internazionale assumono un aspetto totalmente diverso alla luce dell’atteggiamento delle autorità di Pristina e della stessa Unione Europea nei confronti dei due contendenti.

Partiamo dalle prime. Ieri il primo ministro kosovaro Albin Kurti si è lasciato andare a esternazioni che, a sole 24 ore dall’avvio del round di negoziati, suonano quantomeno poco incoraggianti: in un'intervista all’agenzia di stampa croata Hina, ha dichiarato che non avrebbe permesso “la creazione di una qualche forma di Repubblica Srpska*” e “la territorializzazione basata sull'etnia perché contraria alla democrazia”, definendo la bozza di statuto della ZSO come “il documento su cui Bruxelles insiste”. Dichiarazioni che hanno suscitato la reazione nervosa del Ministro degli Esteri serbo e del membro serbo del Comitato Congiunto per il Monitoraggio degli accordi, i quali hanno ricordato che le prerogative e i limiti della ZSO sono fissati nell’Accordo di Bruxelles del 2013, la cui applicazione è attesa da dieci anni. La situazione non si presenta maggiormente distesa sui territori: il 28 aprile scorso, le unità speciali della polizia del Kosovo hanno arrestato e trattenuto per diverse ore tre dipendenti delle Poste Serbe che trasportavano il denaro per il pagamento di pensioni e assegni sociali alla popolazione serba, secondo la consuetudine in vigore da vent’anni. Le autorità serbe hanno interpretato l’incidente come una provocazione e un atto intimidatorio nei confronti della popolazione, minacciata di rimanere senza alcuna forma di reddito.
 
Ma se le autorità kosovare mostrano una qualche forma di incoerenza, non meno ambiguo è l’atteggiamento di Bruxelles nel suo ruolo di “mediatore”. Nelle ultime settimane, le istituzioni europee si sono mostrate particolarmente ben disposte nei confronti di Pristina. E’ del 18 aprile, per esempio, la decisione del Parlamento Europeo di abolire il regime di visti per i cittadini del Kosovo che quindi potranno viaggiare liberamente in tutta l’area Schengen a partire dal prossimo anno (del provvedimento non beneficeranno invece i serbi residenti in Kosovo). Parimenti, il 24 aprile il Consiglio d’Europa (istituzione cui partecipano anche paesi non europei) ha accolto (con 33 voti a favore, 7 contrari e 5 astenuti) la domanda di adesione del Kosovo, avviando il relativo iter. Due “concessioni” che, a parere di Belgrado e di diversi analisti, avrebbero potuto essere quantomeno rimandate nel tempo in maniera tale da costituire una forma di pressione negoziale su Pristina.
 
D’altro canto, la normalizzazione delle relazioni con il Kosovo costituisce, per la Serbia, un impegno fondamentale nel processo di adesione all'Unione Europea, nell’ambito degli accordi stipulati fin dal 2014. Ad uno sguardo superficiale si potrebbe concludere che il riconoscimento del Kosovo e l’eventuale perdita di controllo sulle aree a maggioranza serba rappresentino il prezzo che Belgrado dovrebbe pagare per entrare nel luminoso consesso delle libere democrazie europee e condividerne la prodigiosa sorte.

Ma le cose non stanno esattamente così. Innanzitutto, l’opinione pubblica serba è fortemente polarizzata contro l’adesione all’Unione Europea e soprattutto, sulla tutela dei serbi di Kosovo; gli ultimi sondaggi riportati dalla stampa serba (gennaio 2023) dicono che solo il 35% della popolazione sarebbe favorevole all'adesione all'UE mentre tale percentuale scenderebbe al 9% se la condizione per l'ingresso nell'UE fosse il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo. Ma anche se l’opinione pubblica non fosse un problema, ci sarebbe dell’altro.
 
Già a partire dall’estate del 2022, infatti, le istituzioni europee hanno avviato forti pressioni su Belgrado affinché aderisse al quadro sanzionatorio nei confronti della Russia. La Serbia è infatti tra i principali paesi (insieme, a titolo esemplificativo, a Cina, India, Emirati Arabi e Israele) che rifiutano l’applicazione di sanzioni a Mosca. A settembre 2022, anche gli Stati Uniti, attraverso una dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato, hanno affermato che “la Serbia dovrebbe accelerare i passi per avanzare nel percorso europeo, compresa la diversificazione delle fonti energetiche per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e l'armonizzazione della politica estera e di sicurezza con l'Unione Europea".
 
Sanzioni e “diversificazione delle fonti energetiche”: un mantra a cui siamo tristemente assuefatti da questa parte dell’Adriatico ma che suona a dir poco blasfemo per la Serbia, legata alla Russia da una profonda connessione storica e culturale ma soprattutto, da vincoli economici strategici di importanza fondamentale. Senza entrare nelle vicende del settore finanziario, basta citare, in questa sede, la compagnia petrolifera nazionale NIS, controllata al 50% dalla russa Gazprom Neft, insieme al fatto che la produzione di energia a costi relativamente bassi (anche tramite carbone) ha costituito uno dei maggiori elementi di competitività dell’economia serba e rappresenta tutt’oggi un fattore essenziale per l’attrazione degli investimenti esteri e lo sviluppo della produzione nazionale. Il quadro appare ora più chiaro: nel difficile equilibrio dei rapporti con Bruxelles (e con Washington nelle retrovie) la cessione di quote di sovranità e l’apertura a interessi economici occidentali sarebbe piuttosto il prezzo che Belgrado pagherebbe per assicurarsi un terreno di confronto quantomeno non ostile con il Kosovo di Kurti. 
 
Il percorso di adesione all’Unione Europea, così come delineato dai vertici occidentali, potrebbe significare per la Serbia la perdita di quella sfera di indipendenza raggiunta a fatica negli ultimi dieci anni e soprattutto, l’ingresso in quel tritacarne economico che ha già caratterizzato il percorso della vicina Croazia: immigrazione di massa della forza lavoro verso l’Europa Centrale, produzione nazionale azzerata e totale dipendenza dell’economia da fonti esterne, siano esse finanziamenti, turismo europeo o rimesse dei lavoratori.

Ma la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo significa la pace, la stabilità dell’area e soprattutto la sicurezza di 50.000 serbi che ancora vivono nella regione.
 
Ad oggi sembra che per Belgrado sia impossibile ottenere una senza accettare l’altra, mentre Cina e Russia rimangono “geograficamente lontane” per un Paese circondato da membri NATO.

Aspettiamo che la storia ci indichi la via.


*la Repubblica Srpska è l’enclave di autonomia amministrativa serba in Bosnia Erzegovina, riconosciuta con gli accordi di Dayton del 1995.
 
 
=== 6 ===
 
Solo 3% l'affluenza alle "elezioni" nel Nord Kosovo
 
FONTE: @balkanossiper, 25 aprile 2023 (traduzione automatica)
https://t.me/balkanossiper/5839
 
Bruxelles ha criticato le elezioni che si sono svolte domenica in Kosovo e Metohija. Ma non sono stati criticati per illegittimità, come potresti pensare, per niente. Per la scarsa affluenza alle urne, che "non aiuterà a risolvere la crisi".
Permettetemi di ricordarvi che in quattro comuni del nord della regione con una popolazione prevalentemente serba, gli albanesi hanno tenuto elezioni anticipate alle autorità locali. I serbi li hanno boicottati e, di conseguenza, l'affluenza alle 19:00 è stata di circa il 3%. Per farti capire, solo 13 serbi sono venuti alle urne.
Secondo i risultati preliminari della Commissione elettorale centrale del Kosovo, a Mitrovica settentrionale e Leposavich, hanno vinto i candidati del partito al governo Kurti "Autodeterminazione", a Zvecan e Zubin Potok - rappresentanti del Partito Democratico del Kosovo. La Lista serba ha boicottato le elezioni.
Il primo ministro Albin Kurti ha affermato che le elezioni municipali si sono svolte "con calma e senza incidenti" e ha definito la bassa affluenza alle urne "un ricatto ufficiale di Belgrado e dei suoi strumenti criminali nel nord". Secondo Aleksandar Vučić, questo era un messaggio al mondo intero che non c'era dialogo in Kosovo. Il prossimo round di negoziati mediato da Bruxelles è previsto per il 2 maggio.

 
=== 7 ===
 
Sull'ammissione del "Kosovo" nel Consiglio d'Europa
 
FONTE: RT Balcani, 24-25 aprile 2023 (traduzione automatica)
 
 
Il ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic ha ringraziato i paesi contrari all'adesione del Kosovo al Consiglio d'Europa e ha dimostrato di essere i tradizionali amici della Serbia - Cipro, Spagna, Romania, Azerbaigian e Georgia, e in particolare ha ringraziato l'Ungheria, che ha riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, ma oggi ha votato contro.
“D'altra parte, siamo molto delusi dalla posizione di Grecia e Slovacchia, che si sono astenuti, soprattutto perché non riconoscono l'indipendenza del Kosovo. Vorrei inoltre ricordare che la Bosnia-Erzegovina si è astenuta. Immagina questa ironia. Immagina se la Republika Srpska facesse domanda di adesione ora, che ironia e impudenza sarebbe! E ci viene detto che stiamo influenzando la distruzione dell'integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina. Sono direttamente coinvolti nella distruzione dell'integrità territoriale della Serbia ", ha detto Dacic.
Ha notato in particolare la posizione dell'Ucraina, che si è astenuta dal voto.
"Guarda quanti problemi abbiamo con la protezione dell'integrità territoriale dell'Ucraina, come ci sforziamo e votiamo ovunque e ci giustifichiamo , perché qualcuno ci accusa di non sostenere abbastanza l'integrità territoriale dell'Ucraina, e l'Ucraina si astiene dal votare quando si tratta del nostro territorio integrità. Assolutamente inaccettabile . Anche l'Armenia non era in aula quando si è svolta la votazione. Non ci aspettavamo tali passi da questi paesi", ha detto Dacic.
Per quanto riguarda il Montenegro, il ministro ha osservato che lui stesso non sapeva se fosse sorpreso o meno, perché Podgorica ancora una volta ha sostenuto la distruzione dell'integrità territoriale della Serbia.
“Li ringrazio davvero per questo, non so cosa abbia fatto la Serbia per meritarselo. E devo dire che questo avrà sicuramente alcune conseguenze per le nostre relazioni. Non puoi trattare la Serbia nello spirito, come si suol dire, "ti spareremo in testa, non prenderla sul personale ", ha detto ironicamente Dacic.

https://t.me/rtbalkan_ru/1601

Il Presidente della Republika Srpska ha affermato che il voto dell'Ambasciatore della Bosnia-Erzegovina presso il Consiglio d'Europa è la prova di una violazione permanente dell'Accordo di Dayton e della Costituzione della BiH.
“Se la posizione è chiara secondo cui l'autoproclamato Kosovo non è riconosciuto, allora tutti dovrebbero trattarlo in questo modo. In Bosnia-Erzegovina la politica estera è determinata dal presidente, una decisione che ha richiesto anche il consenso degli altri. Non rispettano se stessi e si aspettano che gli altri li rispettino”, ha sottolineato Milorad Dodik. Ha sottolineato che l'ambasciatore della BiH ha votato senza il consenso del Presidium della BiH, in violazione delle procedure stabilite.
Il capo dei serbi bosniaci ha ribadito che Banja Luka non riconosce l'autoproclamato Kosovo, sottolineando che il voto dell'ambasciatore è scorretto e inaccettabile. Aggirando la procedura costituzionale stabilita, sia i serbi in Bosnia Erzegovina che quelli della regione vengono costantemente danneggiati.
Dodik ha detto che i sostenitori di questo approccio chiedono alla Serbia di rispettare l'integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, ma non appena ne avranno l'opportunità, saranno pronti a distruggere l'integrità della Serbia.
"Questo è inaccettabile. La Republika Srpska non riconosce l'autoproclamato Kosovo e nessuno dei suoi status in nessuna organizzazione", ha sottolineato il presidente.
Allo stesso tempo, tali situazioni si verificano continuamente nel paese. Così, al voto delle Nazioni Unite sulla sospensione dell'adesione della Russia al Consiglio dei diritti umani, l'ambasciatore della Bosnia-Erzegovina ha votato "sì", così come al recente voto sul "risarcimento" della Russia per il "danno" all'Ucraina attraverso la confisca dei beni congelati . Dei 10 pacchetti di sanzioni dell'UE contro la Russia, l'ambasciatore della Bosnia-Erzegovina ha sostenuto ogni decisione e dichiarazione.
Tuttavia, a livello statale non è stata presa alcuna decisione sull'introduzione di restrizioni anti-russe . Come ha detto in precedenza Milorad Dodik, ciò richiede un consenso nella leadership della BiH, ma non esiste: la Republika Srpska si oppone all'imposizione di sanzioni.

FONTE: @balkanossiper, 25 aprile 2023 (traduzione automatica)
 
 
Nella riunione straordinaria del Comitato dei Ministri di ieri è stata approvata la domanda di adesione di Pristina al Consiglio d'Europa. Come ha sottilmente notato Ivica Dacic, per la prima volta in questa organizzazione è stata presa in considerazione una richiesta di "qualcosa che non è uno stato e non è riconosciuto dall'ONU".
I rappresentanti di 33 paesi hanno votato a favore. La Serbia (che ha persino promesso di riconsiderare la sua partecipazione all'organizzazione), l'Azerbaigian, la Georgia, la Romania, Cipro, la Spagna e l'Ungheria si sono opposte. Grecia, Slovacchia, Repubblica di Moldavia, Ucraina, Armenia e Bosnia-Erzegovina si sono astenute.
La decisione finale verrà presa nel prossimo futuro, ma il “ministro degli Esteri” dell'autoproclamata repubblica ha già valutato come “un passo storico per il Kosovo”. La più importante da quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza. Grazie ai partner occidentali, nonché a coloro che "non hanno bloccato" l'adesione di un quasi-stato a un'organizzazione internazionale.
Il ministero degli Esteri serbo è molto deluso dalla posizione di questi stati. Soprattutto considerando che alcuni di loro non hanno ancora riconosciuto la “Repubblica del Kosovo”. E per proteggere l'integrità territoriale dell'Ucraina, Belgrado si è recentemente tesa in un intreccio geopolitico non malaticcio. Ma ora è chiaro perché ultimamente Nikos Dendias è stato in competizione con Edi Rama in termini di numero di visite ufficiali in Kosovo e Metohija.

https://t.me/balkanossiper/5838
 
Ma il Montenegro ha votato "sì". Secondo Dacic, lui stesso non sa se essere sorpreso o meno dal fatto che Podgorica abbia sostenuto ancora una volta la distruzione dell'integrità territoriale della Serbia.
Uno dei leader della coalizione politica in Montenegro stesso, Milan Knezevic, ha valutato ieri come una "disgrazia nazionale" e un "coltello nella schiena della Serbia". Knezevic ricorda come nel 2008 Allo stesso modo Djukanovic e l'ex primo ministro Dusko Markovic hanno riconosciuto il "frutto dell'UCK" contro la volontà dell'85% dei cittadini , nonostante il fatto che all'alba della sua carriera nella squadra di Milosevic, Milo abbia gridato con la schiuma alla bocca che il Kosovo e Metohija furono la culla della Serbia.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. I ministri della difesa del Montenegro e dell'autoproclamata repubblica stanno ora firmando memorandum di cooperazione nel campo della difesa, le autorità montenegrine promettono di aiutare il Kosovo ad aderire all'UE e alla NATO, e il presidente, che è stato seduto sulla sua sedia per il il mese scorso, è stato persino consegnato solennemente le chiavi di Pristina come ricompensa per aver aiutato gli albanesi del Kosovo durante l'aggressione della NATO.


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Discriminazione senza precedenti: la liberalizzazione dei visti non si applica ai serbi del Kosovo

Il Parlamento europeo ha approvato un regime senza visti con i cittadini della "Repubblica del Kosovo", ma i residenti della regione serba meridionale con passaporto serbo rimangono privati di tale opportunità. Stiamo parlando di discriminazione e punizione senza precedenti dei serbi del Kosovo a causa della loro etnia, ha detto a RT Balcani Alexander Markovich, vicepresidente della commissione parlamentare per la difesa e gli affari interni.
Quando l'UE ha abolito i visti per la Serbia quattordici anni fa, i cittadini che vivevano in Kosovo e Metohija non hanno ricevuto il diritto alla libera circolazione. Il rilascio di passaporti a serbi e albanesi in Kosovo è stato assunto dalla direzione di coordinamento del ministero degli affari interni a Belgrado. Pristina considera questi passaporti non validi, altri paesi li riconoscono, ma è necessario un visto per viaggiare nell'UE.
Ora la situazione è diventata ancora più complicata, soprattutto per i circa 90mila serbi con passaporti rilasciati dal Consiglio di coordinamento.
"È così che vengono puniti i rappresentanti del popolo serbo, perché prendono i documenti del nostro paese e si identificano come serbi", sottolinea Markovic.
Ha espresso il timore che, sullo sfondo dell'attuale pressione a cui sono sottoposti i serbi in Kosovo e Metohija, ciò diventi un'ulteriore costrizione per loro a rinunciare ai documenti del loro paese.
"Queste sono le conseguenze della politica dei doppi standard, che è mantenuta da una parte della comunità mondiale e che inequivocabilmente prende sempre la parte anti-serba", ha concluso Markovic.
 
FONTE: RT Balcani, 20 aprile 2023 (traduzione automatica)
https://t.me/rtbalkan_ru/1568


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Serbia: Aleksandar Vučić denuncia il ricatto dell’Occidente sul Kosovo

2 Gennaio 2023
 

di Giulio Chinappi

da https://giuliochinappi.wordpress.com


Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha avuto parole durissime nei confronti dell’Occidente, che sta adottando un modo di fare ricattatorio nei confronti del suo Paese, sfruttando la situazione del Kosovo e minacciando il conflitto armato.

Il continente europeo è molto vicino all’apertura di un nuovo fronte bellico al proprio interno, questa volta a causa delle crescenti tensioni tra la Serbia e il governo dell’autoproclamato Kosovo. Come nella crisi ucraina, l’Occidente atlantista a guida statunitense sta giocando un ruolo di primo piano nell’acuire le tensioni tra le parti, dimostrando ancora una volta la propria natura bellicista.

A denunciare la situazione è stato direttamente il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, che può godere di un ampio sostegno popolare, al contrario della maggioranza dei leader politici occidentali. Il capo di Stato ha respinto ogni forma di interferenza da parte di potenze straniere, denunciando il ricatto che l’Occidente sta mettendo in essere contro la Serbia: “Come se ne avessero il diritto, vengono dall’Occidente e ci minacciano, chiedendo che vengano rimosse le barricate“. “È importante sapere che tutto ciò che volete è il conflitto, volete che i serbi vengano uccisi perché per voi è più importante riconoscere la cosiddetta sovranità del cosiddetto Kosovo di quanti serbi vengono uccisi. Lo metto in termini semplici in modo che tutti possano vedere la verità“, ha aggiunto Vučić.

Nel suo discorso, Vučić ha ricordato molte delle violazioni commesse dal governo kosovaro nei confronti della popolazione serba presente sul territorio dell’autoproclamata repubblica. Secondo il presidente, Priština ha promesso alla popolazione serba di istituire una Comunità dei comuni serbi, ma hanno poi negato loro il diritto di voto ai referendum e alle elezioni. Il presidente ha chiesto che venga rispettata la firma dell’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ai sensi degli accordi di Bruxelles. In base a questi accordi, il Kosovo non potrebbe dotarsi di un esercito, ma in realtà le potenze occidentali stanno palesemente violando gli accordi, promuovendo la costruzione di un esercito kosovaro.

Nella giornata di ieri, il ministro della Difesa serbo, Miloš Vučević, ha annunciato che le forze armate serbe sono state messe in allerta per il combattimento su ordine del comandante in capo e presidente Aleksandar Vučić. Il ministro ha aggiunto che l’esercito è pronto a proteggere l’integrità territoriale e la sovranità della Serbia e dei suoi cittadini. La decisione del presidente Vučić rappresenta unicamente una risposta alle azioni del governo kosovaro, visto che già il 26 dicembre il quotidiano serbo Večernje Novosti aveva rivelato che le autorità del Kosovo avevano messo le proprie truppe in piena allerta al combattimento preparandosi per un’operazione di smantellamento delle barricate nel nord del Kosovo, con il serio rischio di provocare una vera e propria guerra.

Il primo ministro Ana Brnabić ha puntato il dito contro il suo omologo kosovaro, Albin Kurti, affermando che costui vorrebbe effettuare una pulizia etnica di tutti i serbi presenti in Kosovo. Il capo del governo di Belgrado ha fatto notare come Priština abbia violato tutti gli accordi presi in precedenza, in particolare penetrando con le proprie forze armate nelle regioni settentrionali del Kosovo, dove la popolazione è prevalentemente serba. Lo scorso 8 dicembre, infatti, circa 350 poliziotti del Kosovo in auto blindate hanno fatto irruzione nel Kosovo settentrionale e hanno bloccato la parte settentrionale del distretto di Kosovska Mitrovica. Il 10 dicembre, la polizia del Kosovo ha arrestato Dejan Pantić, un ex poliziotto serbo, con accuse pretestuose. In risposta, la popolazione serba ha eretto barricate lungo l’autostrada in diverse località ed è scesa in piazza per protestare.

Aleksandr Bocan-Charčenko, ambasciatore russo a Belgrado, è tornato a sua volta a fare il punto sulla delicata situazione dei Balcani. “L’incapacità dell’UE di tenere qualsiasi negoziato produttivo che produca qualche tipo di risultato è un completo fallimento dei colloqui di Bruxelles“, ha osservato il diplomatico russo. In effetti, aggiungiamo noi, le capacità diplomatiche dell’Unione Europea si sono già dimostrate nulle in occasione della crisi ucraina, visto che i leader politici del nostro continente sono troppo occupati a prendere ordini da Washington piuttosto che ad evitare lo scoppio di una guerra generalizzata su tutta l’Europa.

Secondo il diplomatico russo, la Serbia e la repubblica non riconosciuta del Kosovo sono in uno stato di aperto confronto: “Priština sta aumentando la sua presenza armata e, naturalmente, il compito che è stato assegnato a Priština e che è consentito dall’Occidente, vale a dire mettere sotto controllo le aree popolate dai serbi del Kosovo, viene svolto“, ha affermato in un’intervista al canale televisivo serbo Zvezda. L’ambasciatore ha sottolineato come la situazione sia molto grave, con il serio rischio di un conflito armato diretto trale due parti.

La situazione rischia di aggravarsi ulteriormente soprattutto in quanto le principali potenze occidentali hanno confermato il proprio sostegno nei confronti di Albin Kurti. Il 25 dicembre, gli ambasciatori di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno chiesto al presidente serbo di rimuovere le barricate erette nel nord del Kosovo entro 24 ore. I diplomatici hanno inviato una lettera con questo ultimatum al leader serbo, minacciando che altrimenti non avrebbero ostacolato i tentativi del primo ministro kosovaro Albin Kurti di risolvere la situazione da solo. Kurti, dal canto suo, ha rincarato la dose sottolineando che lo smantellamento delle barricate nel nord del Kosovo “non esclude la possibilità di vittime“, a dimostrazione di come l’intenzione deliberata di Kurti e dei suoi mandanti sia quella di aprire un nuovo fronte bellico nel continente.