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  Violenza sulle donne in Bosnia

  1. Jela e le altre (J.T.M. Visconti, su Il Manifesto del 17/2/1993)
  2. Quanti sono stati gli stupri? (da Notizie dalla Jugoslavia: "la stampa di parte", di Peter Brock, su Die Weltwoche / Internazionale 26/2/1994
  3. La suora violentata non è mai esistita. Si era inventato tutto un monsignore (C. Salvalaggio, su Il Messaggero del 19/11/1994)

... Il 1993 è ... l'anno delle "rivelazioni" di Roy Gutman, giornalista destinato a vincere il Premio Pulitzer, sui "campi di sterminio", e del Ministro degli Esteri bosniaco-musulmano Haris Silajdzic sulle "decine di migliaia di donne musulmane fatte oggetto di violenza sessuale a scopo di pulizia etnica" (dichiarazione rilasciata alla Conferenza di Pace di Ginevra). Nell'ottobre 1993 la Commissione ONU per i crimini di guerra sarà in grado di contare in tutto 330 casi di stupro, relativamente cioe' a tutte e tre le parti in conflitto... (fonte)


Il Manifesto, mercoledì 17 febbraio 1993../immagini/jelaelealtre.jpg

Jela e le altre

JEANIE TOSCHI M. VISCONTI *
Dalla Bosnia Erzegovina, storie di donne violentate dal «nemico». Lo stupro di un' «etnia» che è solo quella degli indifesi


Un comitato di donne deputate al Parlamento europeo, dopo un viaggio nella ex-Jugoslavia, ha presentato lunedì 1 febbraio una proposta per ottenere il riconoscimento dello stupro come crimine di guerra e violazione dei diritti umani. Fino ad oggi era stato sempre ritenuto un semplice incidente implicito alla guerra. Mentre i soldati sono garantiti dagli accordi di Ginevra per i prigionieri di guerra, le vittime più evidenti di un conflitto non sono protette da alcuno statuto ufficiale che preservi i loro diritti di esseri umani. Le violenze sistematiche contro le donne in Bosnia-Erzegovina hanno finalmente portato il problema dell'attenzione del consesso europeo.
Sembra un racconto medievale, ma si svolge oggi e poco lontano da noi: odii e vendette che per 50 anni il regime di Tito aveva sopito sono riscoppiati con tutta la violenza latente in popolazioni che vivono con il peso di un tragico e sanguinoso passato. Le tre etnie della Bosnia, i musulmani (in grande parte serbi convertiti all'Islam durante i 500 anni di impero ottomano), i croati cattolici e i serbi ortodossi si sono ritrovati, indietro nel tempo, alla fine della seconda guerra mondiale, al ricordo di tutte le atrocità che gli uni avevano perpetrato sugli altri, culminate con lo sterminio di centinaia di migliaia di serbi da  parte del regime fascista croato di  Ante Pavelic.

Figlio del nemico

I fantasmi di famiglie barbaramente trucidate, le torture, lo stupro sono ritornati ad essere una realtà. Per antica tradizione quest'ultimo è sempre stato praticato come mezzo per colpire il nemico: violentano la donna per oltraggiare l'onore dell'uomo e se rimane incinta il risultato è raggiunto.
Una serba, una musulmana e una croata daranno vita ad un nemico, poiché è tradizione che il figlio prenda l'etnia del padre. Siamo però nel profondo dell'inconscio storico collettivo, qualcosa di poco programmabile a tavolino e razionale politicamente come invece sembrerebbe denunciare la commissione Warburton della Cee, contraddetta da Amnesty International, dai medici dell'Onu e dal Comitato internazionale della Croce rossa che, nell'infamia del crimine di guerra rappresentato dallo stupro, non individuano il meccanismo della «pulizia etnica».
Almeno per un motivo: le donne, cosiddette «musulmane» violentate in Bosnia Erzegovina, da un punto di vista etnico altro non sono che donne serbo-slave, appartengono insomma anche loro alla stessa etnia dei violentatori serbo-bosniaci. Senza dimenticare che il tema dello «stupro etnico» è stata una menzogna alimentata per la prima volta proprio dai serbi che l'hanno utilizzata per disattendere ancora le aspirazioni degli albanesi del Kosovo.
Continuare ad alimentare la denuncia dello stupro legandola al di scorso della «pulizia etnica», riduce la portata del grido di denuncia necessario contro gli orrori della guerra in corso nell'ex Jugoslavia e rischia di far dimenticare che in questa guerra di uomini l'unica vera «etnia» realmente violentata è quella delle donne e degli indifesi, i bambini e gli anziani.
Ma veniamo ai fatti. E i fatti si svolgono sempre nello stesso modo: le avanguardie paramilitari, le più dure, conquistano una località, stuprano le donne, nel migliore dei casi, altrimenti le prendono come ostaggi chiudendole in palestre o scuole nelle immediate retrovie del fronte dove le tengono a disposizione delle truppe. E questo avviene sistematicamente ad ogni spostamento della linea dei combattimenti. Spesso delle poverette sono state stuprate dall'ex vicino di casa o dal compagno di scuola trasformatosi in implacabile persecutore.

Nessuno è fuori

Quando una donna, ostaggio in uno di quei luoghi di «detenzione», resta incinta, i suoi carcerieri la trattengono fino a superare il numero di mesi necessario per rendere l'aborto impossibile.
Di questa flagrante violazione dei diritti della donna nessuna etnia è innocente, lo provano il Caffé Monika, l'Hotel Zagreb a Sarajevo, Bosanski-Brod, il Campo di Zenica, di Konjic in mano ai musulmani; scuole e palestre di Orasje, Odzak, villaggi tenuti dai croati; motel sulle alture intorno a Sarajevo, a Brcko, Derventa in territorio controllato dai serbi.
Questa, come tante altre, è la storia di Jela, una ragazza serbo-bosniaca di Brcko, infermiera, 28 anni, intelligente, parla un buon inglese.
Appena divorziata, dopo pochi anni di matrimonio, si era regalata una vacanza in Germania presso una zia. Il 30 gennaio 1992 al suo rientro a casa, l'autobus su cui viaggiava veniva fermato a Slavonski Brod, al confine fra Croazia e Bosnia. Fatta scendere con gli altri passeggeri e costretta a consegnare il passaporto, veniva dichiarata prigioniera di guerra.
Alcuni ustascia (gruppo paramilitare croato del leader di estrema destra di Paraga) la portavano in una palestra di Slavonski Brod, vicino ad una raffineria, dove si trovavano 500 donne fra i 15 ed i 60 anni. Durante le prime 24 ore aveva dovuto subire un interrogatorio, durante il quale, spogliata dei vestiti, era stata insultata, picchiata e più volte violentata dagli uomini presenti.
Con voce calma e distaccata, inframmezzata da profondi sospiri, Jela ha descritto gli abusi e le sanguinose violenze subite e quello di cui era stata testimone durante il periodo di detenzione.
Particolarmente drammatica, ha sottolineato, era la condizione di terrore in cui vivevano le donne giovani e senza esperienza. Spesso dibattendosi e urlando avevano provocato l'ira del loro aguzzino fino a venirne uccise. Rinchiuse nella palestra, le prigioniere erano sempre a disposizione dei soldati. Fra questi, ha raccontato l'infermiera, i più giovani erano restii ad approfittarsi di loro ma venivano convinti dal pesante scherno e dall'esempio degli anziani.
Alla fine del mese di aprile, incinta, Jela veniva spostata con altre 50 donne a Bosanski Brod oltre il confine bosniaco in territorio musulmano. Anche qui aveva dovuto subire un «interrogatorio» nelle prime 24 ore.
In seguito la vita aveva ripreso come prima. Jela aveva notato una differenza nel comportamento dei musulmani e dei croati: mentre i primi soddisfacevano dei «semplici» bisogni fisiologici, gli altri abusavano delle prigioniere aggiungendo pesanti insulti e torture fisiche. Spesso obbligavano degli anziani serbi a presenziare allo stupro delle loro donne, obbligandoli ad annusare e leccare il risultato dello scempio.

Storie di crudeltà

In agosto Jela fu scambiata con altri prigionieri, arrivò a Belgrado dove chiese immediatamente di abortire pur essendo al settimo mese. I medici rifiutarono e in ottobre diede alla luce una creatura che abbandonò senza nemmeno conoscerne il sesso.
Dopo un periodo di supporto psicologico, Jela ha trovato un lavoro ed un alloggio a Belgrado. Non è più tornata a casa perché non vuole che la famiglia sappia la verità sulla sua prigionia. Ripensando all'accaduto, sostiene di essersi salvata dal peggio probabilmente perché era un'infermiera, aveva già conosciuto un uomo e soprattutto era riuscita a separare la mente dal corpo. Per le più giovani senza esperienza le brutalità continue a cui venivano sottoposte causavano tali crisi di disperazione da rasentare la follia. Jela, ora, vuole soltanto dimenticare.

Un altro caso penoso è quello di una vecchia contadina di Urbovacki Lipik, un villaggio vicino alla zona del fronte croato.
Nel maggio 1992 l'anziana donna viveva con la figlia e due nipotine. La località dove si trovava il suo paese era esposta alle continue avanzate e ritirate dei gruppi paramilitari delle diverse fazioni. Così una prima volta degli ustascia presero sua figlia e l'ammazzarono, alcuni giorni dopo, altri entrarono in casa e presero la nipotina di 10 anni, minacciando di portarle via anche la piccola di sei anni.
Tra le lacrime la donna ha raccontato come è stata ritrovata, ore dopo, la nipote semi-stuprata e in stato di shock. Da allora la bambina è ricoverata in ospedale a Zrenjanin.

A Belgrado, il dottor Slobodan Jaculic, direttore del maggiore ospedale neuropsichiatrico jugoslavo, il Lazar Lazarevic, negli ultimi mesi ha visitato nel reparto di psichiatria d'urgenza oltre 100 donne stuprate.
La maggiore difficoltà consiste nel riuscire a far parlare queste donne; quasi tutte negano disperatamente il fatto per timore della famiglia o della gente. In caso di gravidanza, tutte indistintamente vogliono abortire. Quando non è possibile abbandonano la creatura appena nata, incapaci di sopportare la vista della loro onta vivente.
Logicamente ogni donna reagisce in modo diverso alla violenza: le donne sposate hanno maggiore possibilità di superare il trauma, molto difficile e delicato per le più giovani che si sono trovate a subire brutalità inimmaginabili. In questo caso il recupero diventa lungo e difficile.
Al momento il reparto ospitava 4 casi di cui 2 molto gravi se non irreversibili.
Da Sarajevo era giunta pochi giorni prima una studentessa di architettura di 24 anni. Esile, delicata, in un buon inglese ha detto di ignorare la ragione del suo soggiorno in ospedale. Alcuni mesi prima, uscendo di casa per trovare del cibo, era stata stuprata sotto il portone. La famiglia dopo qualche tempo si era insospettita vedendola uscire spesso come attirata da qualche cosa che la terrorizzava ma a cui non poteva sottrarsi. Era diventata anoressica e aveva tentato più volte di togliersi la vita senza dare mai una spiegazione sulle cause del suo profondo sconvolgimento.
Il caso di B., 22 anni, una ragazza di Brcko (la cittadina che si trova lungo il corridoio serbo fra il fronte croato e quello musulmano, teatro di feroci combattimenti) è forse il più sconvolgente.

Errava fra rovine

Era stata trovata dalle avanguardie serbe mentre errava in stato di stupore fra le rovine con gli abiti strappati. B. era stata testimone dell'uccisione della sua famiglia e stuprata numerose volte. Ora, ischeletrita, senza età, lo sguardo vacuo, giaceva legata per i polsi al letto. Ripeteva con voce strozzata il proprio nome come se chiamasse qualcuno assente. Aveva tentato numerose volte di soffocarsi mettendosi ambedue le mani in bocca. Per lei ci sono poche speranze di ripresa perché la realtà la terrorizza.
Davanti alla disperazione muta di queste ragazze vittime di una violenza barbara e cieca ci si rende conto dell'importanza che lo stupro venga ufficialmente riconosciuto come un crimine di guerra e che coloro che l'hanno perpetrato vengano giudicati e condannati.
Per fare questo, però, bisogna che tutte le donne che hanno subito questo oltraggio abbiano il coraggio di parlare e indicare i colpevoli. Questo si augurava il deputato europeo Anna-Marie Lizin, membro della commissione presieduta da Simone Weil, durante un dibattito sui diritti dell'uomo alla Radio televisione belga.
Soprattutto le donne musulmane, che in maggior numero sono state vittime di questo crimine devono trovare il coraggio di parlare sapendo di poter contare sull'aiuto di un équipe di dottori e di donne pronte ad ascoltarle ed aiutarle.
Allo stesso tempo un organismo apposito si occuperà di trovare una famiglia a tutte quelle povere creature abbandonate prima ancora di venire al mondo che non dovranno conoscere mai la loro tragica origine. Così l'Europa cerca di riparare le proprie mancanze verso la Bosnia-Erzegovina.


* coautrice dei libro sulla crisi jugoslava «Il tempo del risveglio», edito in Francia da «L'Age de l'homme» '92, scritto insieme a Daniel S. Schiffer, collaboratore del premio Nobel per la pace Eli Wiesel.


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