Lager italiani

1) Lubiana (SLO) 9 Maggio: Pot, il sentiero lungo il filo spinato (Club Touristi Triestini)
2) 27 Gennaio Giornata della Memoria (difficile): i campi del duce (Carlo Spartaco Capogreco)
3) Primo Maggio alle "Fraschette" di Alatri (1943) (Augusto Pompeo)
 
 
Segnaliamo anche:
 
Lorentini, Giuseppe: «www.campocasoli.org: un archivio digitale per lo studio dei fascicoli personali di internati civili stranieri nell’Italia fascista» 
in "Diacronie. Studi di Storia Contemporanea", 35, 3/2018, 29/09/2018
 
Ricordiamo inoltre:
 
Martocchia, Andrea (a cura di): La lotta antifascista dei prigionieri di Colfiorito
Jugocoord Onlus 2018 (edizione autoprodotta), 60p., 5 euro
<< Di più di 1500 internati nel campo di concentramento delle Casermette di Colfiorito – antifascisti jugoslavi in grande maggioranza originari del Montenegro, deportati per essersi opposti alla occupazione italiana delle loro terre – circa 1200 scapparono al calare del buio il 22 settembre 1943. Questi fuggiaschi, assieme a migliaia di altri provenienti da decine e decine di simili campi e luoghi di confino e prigionia, trovarono rifugio e protezione da umili e coraggiose famiglie di contadini e montanari nelle località più remote della dorsale appenninica, dove parteciparono ai primi fuochi della Resistenza italiana >>
La pubblicazione può essere acquistata presso Jugocoord Onlus: https://www.cnj.it/home/it/valori/8913-orientamenti-2.html
 
La nostra pagina dedicata ai luoghi di internamento per jugoslavi nell'Italia fascista: 
 
 
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-------- Messaggio Inoltrato --------
Oggetto: Club Touristi Triestini
Data: Wed, 01 May 2019 09:36:01 +0000
Mittente: Club Touristi Triestini 

Club Touristi Triestini

 

Posted: 30 Apr 2019 04:08 PM PDT

POT: IL SENTIERO LUNGO IL FILO SPINATO DI LUBIANA




La Domenica delle Palme, il 6 aprile 1941, le potenze dell’Asse invasero la Jugoslavia: 5 giorni dopo, ossia il Venerdì Santo, l'11 aprile 1941, l'esercito italiano entrò a Lubiana. La Slovenia, o Dravska banovina come veniva chiamata allora venne occupata a nord (Stiria inferiore, Carinzia slovena e Alta Carniola) dalle forze tedesche, a Est dal Regno di Ungheria (Oltremura) e a Sud dal Regno d’Italia. Precisamente furono istituite le seguenti divisioni amministrative sotto occupazione italiana:

  • Città di Lubiana, che misurava 73,38 km² e comprendeva 91.612 abitanti; 
  • Distretto di Lubiana: per 977,34 km² e 68707 abitanti, con la costituzione di 28 comuni. 
  • Distretto di Novo Mesto o Nova Urbe con 1.313,47 km² e comprendente 81 389 abitanti, costituito da 31 comuni. 
  • Distretto di Longatico con 564,78 km² e comprendente 24.710 abitanti, costituito da 11 comuni 
  • Distretto di Cocevie – nella zona meridionale, con 1.064,48 km² e comprendente 40074 abitanti, con 13 comuni 
  • Distretto di Cernomegli– nella zona sud-orientale, con 551,64 km² e comprendente 29.787 abitanti, costituito da 11 comuni.. (Dati wikipedia)

Già nel dicembre 1941, vista la crescente ribellione slovena nei confronti dell’occupatore nonché la nascita di un primo movimento di resistenza, l’Alto Commissario Emilio Grazioli e i vertici militari italiani elaborarono un nuovo piano operativo di repressione e controllo territoriale; tale programma venne denominato circolare “3C" a firma del Generale Mario Roatta. Questa circolare venne riassunta in un opuscolo di circa 200 pagine: la lotta e i metodi repressivi che qui vengono descritti sono molto simili a quelli adottati nelle ex colonie.





Con l'obiettivo di spezzare quindi sul nascere qualsiasi ribellione nel modo più rapido ed efficace possibile, gli Italiani iniziarono pure a circondare la capitale, alla fine del febbraio del 1942 con una barriera metallica per isolare letteralmente la città e creando di fatto una mega prigione a cielo aperto. Alla fine del 1942, l’enorme filo spinato era lungo 29.663 metri. La recinzione fece si che Lubiana divenisse un’immensa città-prigione. L’Esercito di Liberazione riuscì a liberare la città il 9 maggio 1945 - dopo 1.170 giorni di filo spinato e agonia. La popolazione laibacense uscì in massa nelle strade celebrando in maniera solenne il bene più prezioso per l’essere umano, ossia la libertà: vennero organizzate feste, manifestazioni e gite nei dintorni. La rimozione del filo spinato e la demolizione delle trincee e fortezze durò fino all’autunno dello stesso anno. 

La prima Marcia ricreativa lungo l’ex filo spinato, in memoria della Lubiana recintata dall’occupatore, fu proposta al primo Festival sloveno per la cultura fisica nel 1957 dal Comitato distrettuale dell'Unione dei combattenti della guerra di liberazione nazionale. Alla competizione che si basava sui fondamentali valori quali resistenza e amistà, parteciparono 74 squadre di cinque membri cadauna (gli uomini fecero 35 km, le donne 8 km) provenienti da varie organizzazioni sociali, sportive, giovanili e delle forze armate. Quello stesso anno il "Sentiero lungo il filo spinato della Lubiana occupata” venne proclamato monumento storico. Si emanò una legge che stabiliva che ogni anno, il 9 maggio, si tenesse una marcia commemorativa lungo la linea dell’ex filo spinato attorno alla città. Da allora l’evento si ripete ogni anno ed è diventato una delle più sentite manifestazioni podistico-commemorative in Slovenia. La marcia ricreativa ha alternato diverse denominazioni nel corso degli anni, che in traduzione italiana suonerebbero come segue:

  • Lungo il filo spinato della Lubiana occupata (Ob žici okupirane Ljubljane)
  • Per i sentieri della Lubiana partigiana (Po poteh partizanske Ljubljane)
  • Per i sentieri della Lubiana libera (Po poteh svobodne Ljubljane)
  • Marcia “Abbraccia la nostra città” (Objemi naše mesto - Pohod)
  • Marcia del filo spinato (Pohod Žica)
  • e infine oggi Sentiero delle memorie e dell’amistà (Pot spominov in tovarištva), o ancora Sentiero del filo spinato (Pot ob žici) o semplicemente POT. Contrariamente alle regole dell’ortografia slovena la parola viene scritta maiuscola, anzi ogni lettera è scritta in stampatello maiuscolo, POT: quasi a rendere graficamente la sua valenza e preminenza tra tutti gli altri percorsi, sentieri e parchi della provincia.

Oggigiorno quindi il Sentiero lungo il filo spinato - POT è un percorso ricreativo podistico, lungo circa 34 km, che si dipana tutto attorno al centro città. Si snoda lungo il percorso dell’ex filo spinato, che ha recintato la capitale tra il 23 febbraio 1942 e il 26 maggio 1945 durante l’occupazione italiana prima e poi tedesca. 

Il Sentiero del filo spinato, sull’attuale percorso, fu completato nel 1985. Dalla Liberazione della città del 1945 fino al 1962 sono state poste 102 stele commemorative ottagonali per marcare le posizioni che occupavano allora i bunker.. Il progettista delle pietre commemorative è l'architetto Vlasto Kopač. Oggi la POT è una strada larga 4 m, coperta di sabbia e lunga più di 33 km. Sulle aree verdi ci sono 7.400 alberi di 49 specie di alberi piantati. E 'stato costruito dalle Brigate Giovanili di Lavoro e da un numero di volontari che ha completato oltre 350.000 ore di lavoro. Il Sentiero è stato proclamato monumento storico di natura modellata, unico in Europa, con il decreto cittadino del 1988. Seguendo le idee dell'architetto Janez Koželj, il Sentiero è dotato di segnaletica, pannelli informativi, bacheche, targhe e contrassegni metallici sul terreno, lungo le strade di accesso sono stati piantati degli obelischi stilizzati, dei piloni tricolori in pratica (rosso bianco blu)..



POT è oggi il risultato di una sagace opera di armonica coniugazione tra paesaggio naturale e natura modellata: un percorso invitante, educativo, culturale, naturalistico, storico in tutte le stagioni.. Un vero percorso “patrimoniale”, che vale la pena fare anche più volte durante l’anno: Vi accorgerete sempre di nuovi dettagli e particolari arricchenti. La forma più popolare di ricreazione è passeggiare, fare jogging o correre lungo l’intero percorso. Le biciclette sono pure concesse, sempre tenendo presente l’incolumità del pedone, che rimane il re assoluto di questo attraente tour intorno a Lubiana. 

Durante la stagione invernale il Sentiero presso Murgle, Koseze e a Zadvor sotto lo sv. Urh diventa una pista da sci di fondo. È possibile pattinare su una pista di pattinaggio naturale sul Lago di Koseze, dove POT tocca il parco paesaggistico Tivoli, Rožnik e Šišenski hrib. In estate, il Laghetto di Koseze diventa teatro di varie gare di modellismo di piccoli natanti radiotelecomandati.

E’ possibile iniziare il percorso in qualsiasi punto d’accesso ma per un orientamento più facile è consigliabile iniziare all’incrocio presso l'edificio Gruda sulla Tržaška cesta. Lungo tutto il percorso il chilometraggio progressivo è segnato sui vari cartelli indicatori e l’onnipresente logo del POT vi accompagnerà passo dopo passo in questa indimenticabile passeggiata storico-naturalistica. 



L’anello ricreativo attira ogni maggio oltre 30.000 partecipanti di tutte le età e lungo i circa 33 Km sono stati posti 8 punti di controllo, laddove ogni partecipante può collezionare un timbro con la dicitura della località raggiunta. La lunghezza del percorso, l’ora di inizio e di fine è devolta alla scelta individuale: sarete Voi i protagonisti di POT, ognuno con le sue forze percorrerà un tracciato più o meno lungo! Potrete partire da qualsiasi punto di controllo vi aggarbi e nell’orario che deciderete voi. Per coloro che svolgeranno totalmente il tracciato al traguardo spetterà una medaglia!

I timbri vengono collezionati su un apposito cartoncino, un tempo disponibile al TIMING Ljubljana prima della marcia una società ricreativo-sportiva con sede nella via Stanič 41, ma oggi direttamente disponibile lungo il percorso.



Chi svolgesse il percorso non nella giornata della Marcia ricreativa di maggio può ugualmente collezionare i timbri in qualsiasi stagione dell’anno, grazie alle apposite “obliteratrici stazionarie”. Ricordatevi di portare con voi il cuscinetto inchiostrato per poter timbrare agevolmente e in maniera indelebile il Vostro percorso!



Durante la prossima edizione della POT 2019 i timbri saranno disponibili ai seguenti 8 punti di controllo:

KT-1: Vič - sotto il ponte ferroviario, Sentiero della Croce rossa 
KT-2: Šiška - presso lo Stagno di Koseski 
KT-3: Bežigrad - presso AMZ Slovenije, Dunajska 128a
KT-4: Jarše - fermata dei pullmann LPP, Šmartinska cesta 
KT-5: Polje - Negozio Mercator, Zaloška 168 
KT-6: Fužine -  presso il Ponte di Fusine
KT-7: Rudnik - incrocio tra la Dolenjska cesta e la Peruzzijeva
KT-8: Livada - Hladnikova cesta. 

Non ci resta che metterci in cammino, buona marcia ricreativa e commemorativa a tutti!


Alessandro Ramillo Radmilovich
 
 
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Giornata della Memoria (difficile): i campi del duce

di Carlo Spartaco Capogreco, 24 gennaio 2019

In gran parte rimossi nella coscienza nazionale i 48 luoghi d’internamento in Italia. I casi di Ferramonti e Campagna. Una narrazione riduttiva e monca per coprire le responsabilità del fascismo
 
 
L’Autore è stato il primo storico italiano a ricostruire in una monografia le vicende di un campo fascista (“Ferramonti”, La Giuntina 1987). La sua opera più nota è la ricerca ventennale confluita nel volume “I campi del duce” (Einaudi 2004, pubblicato in più lingue), per il quale è stato insignito dalla Repubblica di Croazia dell’“Ordine della Stella Mattutina”. Nel 2007, col volume “Il piombo e l’argento” (Donzelli), ha ottenuto il Premio “Della Resistenza-Città di Omegna”. Alle sue ricerche va anche il merito di aver portato alla luce la figura di Maria Eisenstein e il suo “L’internata numero 6”, prima testimonianza diretta da un campo di concentramento fascista.
La storia dei campi di concentramento per civili impiegati dall’Italia fascista, dopo il 1945 non ha trovato spazio adeguato nella memoria collettiva e nella coscienza civile. Poco congeniale alla narrazione del passato affermatasi nel dopoguerra, l’argomento rimase generalmente avulso dal sentire comune e dall’interesse della ricerca accademica. Resta esemplare, quasi incredibile, l’episodio occorso nel 1965 a Treviso, dove, ad una delegazione slovena giunta per rendere omaggio ai propri connazionali deceduti a Monigo (il campo che, negli anni 1942-43, aveva funzionato appena fuori città, con 200 vittime, tra cui 53 bambini), le autorità locali non seppero dire alcunché. Questo conferma come, nella giovane repubblica “nata dalla Resistenza”, potesse accadere che – persino in una città che era stata sede di un campo di concentramento – né la scuola, né le istituzioni fornissero alla collettività alcun input sull’argomento [1]..
La mappatura dei campi e la ricostruzione del “sistema concentrazionario” fascista richiesero tempi lunghi, anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza degli storici” – a farsi carico del grosso delle ricerche (nel ventennio 1984-2004) non furono, nella maggioranza dei casi, soggetti istituzionalmente deputati a “fare storia”, ma studiosi e ricercatori che operavano per pura passione personale. Oggi, finalmente, la storia e la memoria dei campi fascisti si sono in gran parte aperte al sentire comune e al riconoscimento istituzionale; ma tale processo non è stato – e non è – sempre e ovunque lineare e omogeneo. Restano, peraltro, quanto mai attuali le parole con cui, vent’anni fa, Claudio Pavone ammoniva che occorrono sempre tempi lunghi affinché la coscienza collettiva elabori “nuove sintesi”, a partire dai “materiali freschi” che la ricerca storica rende disponibili. È quindi importante – in un’epoca come la nostra, dominata dal “presentismo” (la “fretta di trovare soluzioni immediate, senza curarsi di esaminare le radici dei problemi”) [2] – fare buon uso della “memoria ritrovata”. Una memoria – quella dei campi fascisti – solo apparentemente facile, perché si presta facilmente a narrazioni trite e a letture approssimative o “mitologiche”.
Promuoverne una memoria critica, uno degli aspetti nodali, in questo caso, consiste anzitutto nel “saper leggere” la storia (anche quella del dopoguerra!) e il territorio (ciò che rimane dei siti e delle vecchie strutture, che in Italia, il più delle volte, non sono rappresentate da baracche e reticolati). E una “buona lettura” rimanda, inevitabilmente, al rapporto campi fascisti/“luoghi di memoria”: un nesso che, per molti aspetti, è diventato un mantra, ma che, però, è alquanto ambiguo. Si sa che tra “spazio” (un ambito generico, privo di identità) e “luogo” (uno spazio specifico e ben determinato) c’è una grande differenza. Che, a determinare quest’ultima, sono le relazioni sociali e le sedimentazioni di significati che caricano il luogo di riferimenti importanti per gli individui e le comunità che lo abitano. Ebbene, dai primi anni Novanta la nuova stagione storiografica sull’internamento fascista ha spinto le comunità (non soltanto gli studiosi locali, ma anche gli amministratori e i comuni cittadini) a guardare con sguardo più attento al proprio territorio. Ad accorgersi, finalmente, dell’esistenza (attuale o passata) di “strutture concentrazionarie” e di luoghi “non riconosciuti”, ma di rilevanza storica.
Così, ai siti dei campi fascisti si è cominciato ad attribuire la patente di “luogo di memoria”. Un’etichetta “ovvia”, che, però, non restituisce sempre, di per sé, la garanzia del “fare memoria” a luoghi e strutture lungamente segnati, soprattutto, dall’oblio. Perché tende, talvolta, a bypassare una storia che – persino laddove le ricerche hanno favorito una precoce riscoperta dei campi – può essere ancora caratterizzata da violazioni dell’ambiente e del territorio e/o da travisamenti della realtà storico-fattuale degli eventi [3].
 
Ma facciamo qualche esempio. A Ferramonti (la contrada calabrese che, negli anni 1940-43, fu sede d’un grande campo di concentramento e oggi ne conserva qualche resto snaturato), il definitivo stravolgimento del luogo determinato, nei primi anni Duemila, da un’illogica “ristrutturazione” decisa dal Comune, ha portato alla quasi totale scomparsa delle ultime vestigia originali del campo. Producendo danni storico-ambientali così gravi da meritarsi, qualche tempo dopo, anche una nota di condanna di “Italia Nostra”: “Appare evidente – si legge, tra l’altro, in quel documento – che Ferramonti è oggi, di fatto, tutt’altro che un ‘luogo di memoria’, presentandosi piuttosto come un’area del ricordo in cui dilagano smemoratezza e spregiudicatezza, nella quale – si potrebbe dire con un filo di ironia e non poca tristezza – proprio la memoria, da qualche tempo, vi viene internata” [4]. A Campagna (il paese del salernitano che ospitò un altro dei 48 “campi del duce” gestiti dal ministero dell’Interno), da qualche tempo un “museo della memoria” si rivolge – così si legge sul suo sito web – “a tutti coloro che intendono approfondire quella che noi amiamo definire ‘una storia diversa’ riconducibile a temi di grande attualità, come: la Shoah, il dialogo interreligioso, la tolleranza, la pace e la fratellanza tra i popoli” [5]. Ma si può facilmente constatare che tale “memoria” (al di là delle tante informazioni, in gran parte apologetiche, su Giovanni Palatucci, impropriamente trasformato nella “figura centrale” di quel luogo) dice ben poco della storia effettiva del sito e di quella dell’internamento civile fascista che lo ha interessato.
Sono davvero tanti gli esempi che qui si potrebbero citare, sul sostanziale abuso della storia e dei luoghi e sullo snaturamento dei siti, compiuti, non soltanto in Italia, mentre si inneggia alla memoria. Mi sembra interessante – quantunque riferita al contesto dei lager – richiamare qui la breve testimonianza riportata, ne La vita offesa, da Anna Bravo e Daniele Jalla: “Dai luoghi ho capito come proprio la storia si stravolge, si cambia: ho visto tutti i modi di cancellarla. Poco a poco la verità perde il suo senso, s’allontana, diventa leggenda, diventa qualcosa di altro; ed è un peccato che possa succedere questo”. Essa ci dice, indirettamente, che occorre usare sempre molta cautela, prima di avvolgere col rassicurante luogo comune di “luogo della memoria” strutture e siti, come quelli italiani di cui stiamo parlando, che – quantunque di rilevanza storica – per quattro/cinque decenni sono rimasti intrappolati nell’oblio. Sui quali poi – nonostante il riconoscimento sociale e storiografico – non sempre si è voluto o saputo preservare l’esistente e riappropriarsi, realmente, di storia e memoria.
 
Non a caso, nessun campo fascista è stato minimamente sfiorato dal lungo “viaggio” nel patrimonio di “memorie diffuse” e “luoghi fisicamente identificabili”, compiuto da Mario Isnenghi con l’opera I Luoghi della memoria (Laterza, 1996-97), volta a ricostruire un’attendibile “mappa dei paesaggi mentali e dei punti di riferimento degli italiani”. Vi figurava, in verità, un saggio sul confino politico; ma nel principale luogo-simbolo del confino e dell’internamento – l’isola di Ventotene, che è stata sia “colonia confinaria” sia “campo di concentramento” – all’inizio degli anni Ottanta, l’edificio del grande “lager” per italiani e stranieri era stato tranquillamente raso al suolo, nell’indifferenza, quasi totale, dell’Italia intera.
Vorrei concludere queste mie brevi riflessioni volgendo lo sguardo alla memoria della Shoah (ormai, divenuta l’elemento centrale delle varie memorie nazionali dell’Europa occidentale), per evidenziare le sue non poche “interferenze” con la memoria dei campi italiani; e per “mettere in guardia” i lettori di Patria indipendente anche sui rischi corsi da chi propone una lettura troppo “olocaustocentrica” della memoria dei campi di concentramento monarchico-fascisti.
Dopo il cinquantenario delle leggi antiebraiche nostrane (1988) e la caduta del Muro (1989), si è giunti in Italia a un’incredibile “crescita di peso” della memoria della Shoah [6]; cosicché, la (forte) presa di coscienza sulla Shoah e la (lenta) riscoperta dei campi fascisti si sono andati realizzando quasi contestualmente. E il “peso di Auschwitz” ha portato molti italiani – nello “scoprire” i campi nostrani –, da un lato, ad immaginare che essi avessero avuto un nesso assoluto con la legislazione antiebraica; dall’altro, a sottolinearne i “meriti” (“ciò che i campi italiani non sono stati”, rispetto a quelli nazisti), piuttosto che a considerare le loro intrinseche specificità [7]. In tal senso, le vicende di alcuni campi come quelli di Ferramonti e Campagna, col maggior numero di ebrei – soprattutto per il travisamento delle ragioni essenzialmente geopolitiche che, dopo l’8 settembre 1943, vi avevano evitato la deportazione nei lager degli internati – sono divenuti terreno privilegiato di innumerevoli narrazioni autoassolutorie che oscurano la complessità di quella memoria. E propongono come “vera essenza” dei campi fascisti, quella sintetizzabile nell’idea del campo di concentramento “buono”, o, più sbrigativamente, del “campo all’italiana”.
Purtroppo, la legge 20 luglio del 2000 n. 211 sul “27 Gennaio” non ha favorito molto il confronto critico degli italiani con la storia dei campi fascisti. Peraltro, il suo testo e la data stessa prescelta dall’Italia quale “Giorno della Memoria”, continuano a suscitare perplessità per l’elisione evidente delle nostre responsabilità. Di fatto, le nuove commemorazioni introdotte dalle “leggi memoriali” (sostenute da un forte pressing scolastico-istituzionale) hanno avuto soprattutto l’effetto di favorire schematismi narrativi che, quanto al nodo storico delle colpe nazionali, non sempre favoriscono una presa di coscienza: spesso confermano e rilanciano l’immagine del “bravo italiano”, anziché problematizzarla.
Carlo Spartaco Capogreco, professore di Storia Contemporanea e Didattica della Shoah all’Università della Calabria e componente del Comitato Scientifico del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Fa parte, inoltre, del Consiglio Scientifico del Dottorato in “History, Politics and Institutions of the Mediterranean Area” dell’Università di Macerata

[1] Per uno sguardo veloce su tali questioni, rimando al mio Un paese che non volle ricordare. Campi fascisti, discorso pubblico e storiografia nell’Italia repubblicana, in Storia di uomini tra internamento e Resistenza nelle Marche, a cura di E. Bressan, A. Cegna, M. Pentucci, EUM, Macerata, 2017. Per chi desidera approfondire: C. S. Capogreco, Tra storiografia e coscienza civile. La memoria dei campi fascisti e i vent’anni che la sottrassero all’oblio, in “Mondo Contemporaneo”, n. 2/2014; Idem, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2004.
[2] Cfr. Andrea Ragusa (a cura di), Il passato in un presente che cambia. Conversando di storia con Fulvio Cammarano in “Storia e futuro. Rivista di storia e storiografia on line”, n. 46, marzo 2018, in http://storiaefuturo.eu/passato-un-presente-cambia-conversando-storia-fulvio-cammarano/.
[3] Il concetto di “luoghi della memoria” si ricollega ovviamente, in primo luogo, all’ampio dibattito culturale riconducibile all’opera di Pierre Nora Les Lieux de Mémoire, Gallimard, Paris 1984-1992.
[5] http://www.museomemoriapalatucci.it/ (consultazione del 27 giugno 2018).
[6] Come afferma, in particolare, Robert S.C. Gordon, il genocidio nazista è stato posto, da allora, “al centro del discorso pubblico, culturale e politico” (Scolpitelo nei cuori.. L’Olocausto nella cultura italiana. 1944-2010, Bollati Boringhieri, Torino 2013).
[7] Per capire la realtà più intrinseca dell’internamento nei campi fascisti, può essere assai utile (in particolare per i giovani e i “non addetti ai lavori”) la lettura del diario-testimonianza di Maria Eisenstein L’internata numero 6(http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/quellitalietta-fascista-razzista-e-ipocrita/http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/quellitalietta-fascista-razzista-e-ipocrita/).
 
 
 
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Primo Maggio alle "Fraschette" di Alatri (1943)

Dalla pagina FB di Augusto Pompeo, 3 maggio 2019
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1358697227628486&id=100004646646555&sfnsn=xwmo

<< Il 1º ottobre 1942, in pieno periodo bellico, fu allestito in località Le Fraschette, presso Alatri (nella foto), un campo di internamento che rimase attivo fino al 19 aprile 1944. Benché progettato per ospitare prigionieri di guerra, finì per diventare luogo di internamento di civili per lo più slavi e greci e altre popolazioni in guerra con l'Italia. Inizialmente accolse 780 persone di origine britannica e maltese. Prima della fine del 1942 giunsero dall'isola di Meleda, in Dalmazia, altre 2300 persone. All'inizio del 1943 si toccarono le 5500 unità con l'aggiunta di Croati, Montenegrini, Albanesi ed ebrei tripolini italiani. Le situazioni igieniche erano pessime, per il sovraffollamento, per la precarietà della struttura costruita in grande fretta e a causa dei furti e degli abusi commessi ai danni degli internati da parte delle autorità civili e militari che gestivano le 174 baracche. Il 1° maggio 1943 alcune internate jugoslave si presentano alla “conta” del mattino con un nastro rosso fra i capelli: furono, per questo, trasferite in un altro campo in Calabria. L’episodio suscitò molta contrarietà nelle autorità del campo anche se il prefetto di Frosinone, nel suo consueto rapporto al capo della PS, minimizzò l’accaduto:
“ […] Infine, l’episodio di alcune internate che nel Campo di Concentramento “Le Fraschette”, in occasione del 1° Maggio, si misero tra i capelli dei nastrini rossi, non tocca minimamente la fede di questa popolazione.”

Fonte: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale PS AGR (1940-1945), b. 3 riportato in fotocopia in IRSIFAR, Resistenza, fondo Ilardi – Natale, sez. III.