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Rivoluzione d’Ottobre

1) A. Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica
2) D. Losurdo: Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


Per iniziative e documentazione nel Centenario della Rivoluzione d\'Ottobre si veda la nostra pagina dedicata:


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La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica

di Andrea Catone
12 Ottobre 2017

1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.

La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.

Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità nazionale del paese più popoloso del mondo.

Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.

La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere posta e compresa in un contesto internazionale.

La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).

È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il Comintern è mondiale.

Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la Cina ne è il caso più emblematico).

2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale

Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.

Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.

3. La teoria della transizione al socialismo.

Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.

Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la produzione.

Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere lo stato.

Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di basso sviluppo delle forze produttive.

I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.

Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale (1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando notevolmente le forze produttive.

Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.

Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso la civiltà socialista.

4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione della democrazia socialista

La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata affrontata in modo adeguato.

Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di transizione.

Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una rivoluzione culturale.

5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri imperialisti, ma solo in periferia.

Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.

Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico (Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei rivoluzionari (In Ungheria).

Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di capitalismo periferico.

Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista (Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e occidentale.

Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad essere l’esecutrice dei suoi diktat.

Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta (la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.

Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla pianificazione socialista.

Quali sono le cause di questo fallimento storico?

La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione borghesi.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).

Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire dal 2007-2008).

La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.

Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali organici.

Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente. 

Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste internazionali.

L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.

Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la nuova via della seta).

Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.

In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.

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NOTE

1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.

2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.


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di Domenico Losurdo

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici. 

Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l\'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «\"piccoli\" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l\'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta. 

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un\'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili. 

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l\'arrostimento, l\'impiccagione, i colpi d\'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell\'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro». 

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia. 

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie. 

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L\'azione politica, una volta imperniata sull\'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall\'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell\'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. 

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell\'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.

LEGGI IN FORMATO PDFhttp://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf



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(italiano / english / deutsch)

Die deutsche Ethno-Zentrale


1) Die deutsche Ethno-Zentrale
2) The Power in the Center / Die Macht in der Mitte
[Muovendo dal conflitto secessionista in Catalogna, il sito web del settimanale tedesco Die Zeit ha pubblicato uno sferzante appello per lo smembramento degli Stati-nazione in Europa:
3) Die Ökonomie der Sezession / The Economy of Secession / Germania e separatismi: l’economia della secessione


=== 1 ===


Die deutsche Ethno-Zentrale
 
06.10.2017
BERLIN/FLENSBURG
 
(Eigener Bericht) - Beflügelt vom katalanischen Sezessionsreferendum treiben Mitglieder einer in Deutschland ansässigen Ethno-Organisation Autonomieforderungen für die ungarischsprachige Minderheit in Rumänien voran. In der vergangenen Woche haben bekannte Politiker der Südtiroler Volkspartei (SVP) eine Delegation der extrem rechten Partei Jobbik aus Ungarn empfangen, um ihr die Besonderheiten der Südtiroler Autonomie nahezubringen. Die SVP gehört der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) mit Sitz in Flensburg an, einem Zusammenschluss, der größere Sonderrechte für völkisch definierte Minderheiten fordert, von staatlichen Stellen finanziert wird und eng mit dem Bundesinnenministerium kooperiert. Jobbik, eine für ihre rassistisch-antisemitische Agitation berüchtigte Partei, kündigt an, sich in Rumänien, aber auch in der Slowakei, in der Ukraine und in Serbien für eine formelle Autonomie der dortigen ungarischsprachigen Minderheiten einzusetzen. Jobbik wird nach eigenen Angaben in dieser Frage von einem Angehörigen der deutschsprachigen Minderheit Ungarns beraten, der neun Jahre lang in führender Funktion für die FUEN tätig war und in der Organisation zu den zentralen Ansprechpartnern deutscher Regierungsstellen gehörte. Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat der FUEN am gestrigen Donnerstag einen persönlichen Besuch abgestattet.
In völkischer Tradition
Bei der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) handelt es sich um einen Zusammenschluss von aktuell über 90 Organisationen aus 33 Ländern Europas, des Kaukasus und Zentralasiens, die jeweils Sprachminderheiten vertreten. Die FUEN, einst unter Führung vormaliger NS-Antisemiten gegründet, sieht sich selbst in der Tradition der deutschen Minderheitenpolitik der 1920er Jahre, die Sprachminderheiten ethnisch definierte (german-foreign-policy.com berichtete [1]); bis vor kurzem nannte sie sich selbst Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen (FUEV). Entsprechend setzt sich die FUEN bis heute dafür ein, ethnisch-\"national\" definierten Minderheiten weitreichende Sonderrechte zu verleihen. Als vergleichsweise vorbildlich gilt bei der FUEN die Autonomie der norditalienischen Provinz Bolzano-Alto Adige/Südtirol, in der die deutschsprachige Minderheit Italiens fast zwei Drittel der Bevölkerung stellt. Stärkste politische Kraft ist die Südtiroler Volkspartei (SVP), die seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs durchweg den Landeshauptmann stellt; sie ist Mitglied der FUEN, stellt einen ihrer Vizepräsidenten und beteiligt sich an der Finanzierung der Organisation. Die FUEN, die ihre Zentrale in Flensburg hat, erhält ihre Mittel unter anderem von den Bundesländern Schleswig-Holstein und Sachsen, vom Land Kärnten und von der Deutschsprachigen Gemeinschaft Belgiens; projektbezogene Gelder kommen vom Bundesinnenministerium und der ungarischen Regierung.
Schutzmacht Deutschland
Für die Berliner Regierungspolitik ist ein Zusammenschluss innerhalb der FUEN von besonderer Bedeutung, der sämtliche deutschsprachigen Mitgliedsverbände bündelt: die Arbeitsgemeinschaft Deutscher Minderheiten in der FUEN (AGDM). Ihr gehören Organisationen aus Staaten von Dänemark bis Kirgisistan an. Die AGDM, die 1991 in Budapest gegründet wurde, trifft sich jedes Jahr zu einer Jahrestagung, die gewöhnlich im Bundesinnenministerium abgehalten wird; fester Programmpunkt sind Gespräche mit dem Beauftragten der Bundesregierung für Aussiedlerfragen und nationale Minderheiten und mit anderen für die deutschsprachigen Minderheiten zuständigen Ministerialbeamten aus dem Innenministerium und dem Auswärtigen Amt. Dadurch wird die Anbindung der Minderheiten an die Berliner Politik gesichert. Die Bundesregierung tritt dabei als Schutzmacht der deutschsprachigen Minderheiten auf und nutzt dies, um Einfluss auf die innere Politik fremder Staaten zu nehmen. So berichtete Bundeskanzlerin Angela Merkel bei einer Reise nach Polen am 7. Februar Vertretern der dortigen deutschsprachigen Minderheit, sie habe bei Ministerpräsidentin Beata Szydło zu ihren Gunsten interveniert. Hauptredner der AGDM-Tagung im Juni dieses Jahres in Berlin war ein ehemaliger Führungsfunktionär der deutschsprachigen Minderheit Rumäniens, Klaus Johannis. Johannis, der als Minderheitenvertreter über Jahre hin regelmäßiger Gast in Berlin war, amtiert seit dem 21. Dezember 2014 als rumänischer Präsident.
\"Juden erfassen\"
Am 28. September haben nun prominente Politiker des FUEN- und AGDM-Mitglieds SVP eine vierköpfige Delegation der ungarischen Partei Jobbik im Landtag in Bolzano empfangen. Die extrem rechte Jobbik ist für ihre rassistisch-antisemitische Agitation und für ihre glühende Verehrung des NS-Kollaborateurs Miklós Horthy berüchtigt.[2] Márton Gyöngyösi, Abgeordneter im ungarischen Parlament und Leiter der nach Bolzano gereisten Delegation, machte vor einigen Jahren von sich reden, als er forderte, \"Menschen jüdischen Ursprungs\" in Ungarn zu \"erfassen\", weil sie \"ein gewisses Risiko für die nationale Sicherheit Ungarns\" darstellten.[3] Gyöngyösi und seine Parteikollegen trafen nun unter anderem den Vizepräsidenten des Südtiroler Landtags, Thomas Widmann (SVP), den früheren langjährigen Ministerpräsidenten Luis Durnwalder (SVP) sowie den langjährigen Leiter des Südtiroler Volksgruppen-Instituts, Christoph Pan, um sich von ihnen über Geschichte und Funktionsweise der Südtiroler Autonomie beraten zu lassen. Jobbik kündigte anschließend an, dieselben Autonomierechte für die ungarischsprachigen Minderheiten Rumäniens, der Slowakei sowie weiterer Nachbarstaaten Ungarns erkämpfen zu wollen.[4] Die SVP-Politiker und Pan wurden zu einem Gegenbesuch nach Budapest eingeladen. Pan, ein prominenter Vertreter völkischer Minderheitenkonzepte, amtierte von 1994 bis 1996 als FUEN-Präsident.
\"Ausgesprochen minderheitenfreundlich\"
Wie Jobbik berichtet, lässt sie sich in Minderheitenfragen inzwischen von Koloman Brenner beraten. Brenner, Germanistik-Dozent an der philosophisch-humanwissenschaftlichen Fakultät der Eötvös-Loránd-Universität (ELTE) in Budapest, ist ein langjähriger Funktionär der Landsmannschaft der Ungarndeutschen und als solcher seit Mitte der 1990er Jahre in der FUEN aktiv. Von 2007 bis 2016 amtierte er zudem als Vorsitzender der AGDM; in dieser Funktion war er nicht nur ein wichtiger Ansprechpartner für alle AGDM-Mitgliedsverbände, darunter die SVP, sondern auch eine zentrale Kontaktperson für die Bundesregierung. Brenner urteilt heute, Jobbik sei eine \"ausgesprochen minderheitenfreundliche\" Organisation.[5] Laut Angaben der Partei wird er bei den ungarischen Parlamentswahlen in seiner Geburtsstadt Sopron für sie kandidieren.[6]
Neue Grenzen
Während die SVP Jobbik beim Forcieren von Autonomieforderungen in Ungarns Nachbarstaaten behilflich ist, hat das Auswärtige Amt erstmals einen Vertreter der Süd-Tiroler Freiheit in Berlin empfangen. Die Süd-Tiroler Freiheit steht in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern, die seit den 1950er Jahren regelmäßig Terroranschläge in Italien verübten, um den Anschluss Südtirols an Österreich zu erzwingen. Die Partei, die bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent erreichen konnte, zeigt, wie fließend der Übergang zwischen Autonomie- und Sezessionsforderungen ist. Sie hat kürzlich mit der Publikation eines \"Merkhefts für Schüler\" Aufsehen erregt. In dem Pamphlet, das kostenlos in Italien und in Österreich verteilt werden soll, ist eine Landkarte abgedruckt, die Südtirol als Teil Österreichs zeigt. Schüler sollten sich \"an diesen Anblick gewöhnen\" und auch \"daran ..., dass Südtirol nicht Italien ist\", wird der Fraktionsvorsitzende der Partei im Südtiroler Landtag, Sven Knoll, zitiert.[7] Bereits vor einem Jahr, am 24. Oktober 2016, konnte der Landesjugendsprecher der Süd-Tiroler Freiheit, Benjamin Pixner, im Auswärtigen Amt auf Einladung des Ministeriums an einer Diskussionsveranstaltung zum Thema \"Welches Europa wollen wir?\" teilnehmen. Pixner, der dabei auch mit Außenminister Frank-Walter Steinmeier zusammentraf, hatte gar nicht damit gerechnet, nach Berlin gebeten zu werden: Er war von den zuständigen Berliner Stellen als einziger Südtiroler geladen worden.[8]
[1] S. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[2] S. dazu Die Ära des Revisionismus (III).
[3] Ungarischer Politiker wegen judenfeindlicher Äußerungen in der Kritik. www.welt.de 27.11.2012.
[4] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[5] Jobbik auf Studienreise in Südtirol. unser-mitteleuropa.com 02.10.2017.
[6] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[7] Schüler-Merkheft zeigt Südtirol als Teil Österreichs. diepresse.com 31.08.2017.
[8] Junge Süd-Tiroler Freiheit bei Gesprächen über Zukunft Europas in Berlin. www.suedtiroler-freiheit.com 25.10.2016.


=== 2 ===

ORIG.: Die Macht in der Mitte (11.10.2017)



The Power in the Center
 
2017/10/11
BERLIN
 
(Own report) - Using the secessionist conflict in Catalonia as a backdrop, the website of the German weekly Die Zeit published a fiery appeal for dismembering Europe\'s nation-states. For quite some time, the author, Ulrike Guérot, has been promoting the \"disappearance of the nation-state\" in Europe. The nation-state should be replaced by regions with their \"own respective identities\" that could be \"ethnically\" defined. As examples, Guérot lists regions with strong separatist tendencies such as Flanders and Tyrol. The author sees herself upholding the tradition of the \"European Federalists\" of the early post-war period, who - under the guidance of western intelligence services - drew up plans for establishing of a European economic space with free circulation of commodities as a bulwark against the East European socialist countries. Wolfgang Schäuble, as President of the Association of European Border Regions (AEBR) in the early 1980, was also promoting regionalist plans. Inspired by former Nazi functionaries, the AEBR criticized the \"nation-state\'s barrier effect\" of borders in the interests of large corporations. Current economic maps indicate which areas in the EU would form the continent\'s most powerful block if regionalization should take effect: south and central Germany as well as its bordering regions from Flanders to Northern Italy.
From the CDU to the Greens
Yesterday, the website of the German weekly, Die Zeit, published a fiery appeal to dismember Europe\'s nation-states, authored by the political scientist Ulrike Guérot. Guérot had been employed by CDU parliamentarian Karl Lamers in the first half of the 1990s and participated in formulating the Schäuble/Lamers paper, propagating the establishment of a core Europe. She subsequently became collaborator for the EU Commission President at the time, Jacques Delors, and an expert of several think tanks (German Council on Foreign Relations, German Marshall Fund, and the European Council on Foreign Relations). In 2014, she founded a European Democracy Lab at the European School of Governance. Once member of the CDU; today, she is politically close to the Greens.[1]
\"Ethnic Region\"
Since some time, Guérot has been peddling an allegedly new political concept to the German public, based on the dismemberment of Europe\'s nation-states. According to her, \"the nation-state will disappear\" [2] and will be replaced by \"50 to 60\" regions in Europe, with \"their own respective identity.\"[3] She is referring to the concept of \"ethnic regions,\"[4] i.e. an ethnically defined community of shared origins. As Guérot writes \"ethnic region and statehood are not congruent\" for example in Ireland or Cyprus; Flanders, Venetia and Tyrol are further examples. In Flanders and Venetia, respectively more prosperous regions, defining themselves linguistic-ethnic (\"Netherlander\" or \"Venetian\") are dissociating themselves from poorer regions of the country, whereas the German speaking construct \"Tyrole\" encompasses areas of Austria and Northern Italy. According to Guérot, Catalonia is also one of the regions to be liberated from its constraints under the nation-state. The Catalan movement currently pushing for secession is in fact largely defining itself ethnically. The autonomous movement has been closely cooperating with French citizens, who live outside the Spanish region of Catalonia, but also consider themselves \"ethnic Catalans.\" At their rallies one can hear \"Neither France nor Spain! Only one country, Catalonia!\"[5] Last weekend the spokesperson of the left CUP party in Spanish Catalonia complained that Spaniards from outside Catalonia had come to Barcelona to participate in a demonstration. To demonstrate in Catalonia as a \"Spaniard\" corresponds to a \"colonial logic.\"[6]
Europe of the Regions
According to Guérot, only a \"European Republic,\" wherein \"the regions assume the role of the central constitutional actors,\" can save an EU shaken by national conflicts.[7] For example, the regions should constitute \"a second chamber\" in the European Parliament - \"a European Senate.\" Guérot has repeatedly said that political competence must be redistributed between the EU and its regions. According to this concept, a center of power will be set up in Brussels, in control of foreign and military policy, while the regions - for example, in charge of commercial taxes - would financially maintain independent latitude. Of course, the latter would depend on the economic power of the respective region. Besides its ethnic constitution, a \"Europe of the Regions\" would lead to a complete disenfranchisement of its smallest units. Guérot criticizes the fact that \"the EU is full of large regions (such as North Rhine-Westphalia) which are not permitted to participate in EU decision making, while on the other hand, small countries (such as Luxembourg or Malta) are.\" That must change. For example, rather than having one vote out of 28 in the European Council, Malta would only have one out of \"50 or 60\" votes in the \"European Senate.\" It would not be able to counter any measures proposed by the EU\'s economically predominating centers.
United States of Europe
Guérot\'s concept has precursors, which had been promoted, on the one hand, by intelligence agency circles of the post-war period and by interested business circles, on the other, serving however, entirely different interests under cover of promoting an alleged regional democracy.
Guérot says herself that her model is based on the \"European Federalists,\" particularly the Swiss Denis de Rougement. Since the mid-1940s, the \"European federalists\" sought to found a \"United States of Europe,\" as a unified economic realm - serving as a bulwark against the socialist countries, in the process of forming. It was also seen as a defense against the idea of abandoning the previous economic approach, which, at the time, was also rather popular in Western Europe. This is why the federalists had initially been supported and controlled by the CIA predecessor, the Office of Strategic Services (OSS) and its director, Alan Dulles, residing in Bern, and later by the CIA itself.[8] Rougement, an OSS-affiliate and professed federalist, complained in a 1948 \"Message to the Europeans,\" that \"Europe\" was \"barricaded behind borders impeding the circulation of its commodities,\" and because of this, is threatened with economic ruin. On the other hand, \"united,\" it could, already \"tomorrow, build the greatest political entity and the largest economic unit of our times.\" From 1952 - 1966, Rougemont continued his activities also as president of the CIA-financed \"Congress for Cultural Freedom.\"
\"Loss of Identity\"
Wolfgang Schäuble has also promoted regionalist concepts. Guérot had been in contact with him in 1994 during work on the Schäuble-Lamers paper. In 1979, Schäuble became president of the Association of European Border Regions (AEBR), an organization with the objective of downgrading the significance of borders in Europe. Business interests played an important role, which is why the AEBR could find reliable supporters in industry. A \"European Charter on Border and Cross-Border Regions,\" passed by the AEBR in 1981, stipulated that the \"elimination of economic and infrastructural barriers\" must urgently be pursued. For example, the \"expansion and construction of coordinated, combined cross-border freight transport terminals\" is necessary to \"close current gaps in cross-border traffic.\" In addition, the expansion of cross-border energy networks must be promoted. This is being overblown with allegations of Europe having emerged from a \"patchwork of historical landscapes,\" with borders creating \"scars\" on Europe\'s regions, and leading to the population\'s \"loss of identity.\" The current \"nation-state\'s barrier effect\" must be reduced - if not abolished, according to the paper drawn up under Schäuble\'s AEBR presidency.[9]
German Continuities
Former Nazi functionaries were actively participating both on the AEBR\'s committees and in the immediate entourage of its planning of the \"regionalization\" of the border regions, including Gerd Jans, the former member of the Waffen SS in the Netherlands, Konrad Meyer, responsible for the Nazi\'s \"Generalplan Ost,\" Hermann Josef Abs, of the Deutsche Bank, as well as Alfred Toepfer, described by the publicist Hans-Rüdiger Minow as \"infamous for his border subversion of France\'s Alsace.\" In an extensive study, Minow describes the continuities of the Nazi\'s concepts.[10]
Germany\'s Supremacy
Guérot ultimately argues in favor of her regionalization concepts, using the allegation that through the removal of nation-states, \"Germany\'s supremacy ... can be overcome.\" The opposite is the case. Economic maps by the EU\'s Eurostat statistics administration show the regions where 
Europe\'s wealth and, therefore, Europe\'s economic power is concentrated, a block with its centers in southern and central Germany, to the west, in Flanders and spreading to segments of the Netherlands, and to the South to parts of Austria and Northern Italy and in various separate regions of Western and Northern Europe. A number of these regions maintain close relations to Germany, or to the German regions. (german-foreign-policy.com reported.[11]) This clearly German-dominated block would hardly have any difficulty controlling a \"Europe of the Regions.\"
(Here, german-foreign-policy.com documents two Eurostat economic maps. The upper map shows the brut GDP per capita, according to the Purchasing Power Parity (PPP), while the lower map depicts the primary household incomes. The colors for Germany\'s south indicate the highest values, while the colors for the furthest southwestern and eastern EU indicate the lowest. Source: Eurostat.)

For more information on this subject see: The Economy of Secession (II).
[1] Ulrike Guérot: Adorno liest man nicht am Schwimmingpool. blogs.faz.net 17.03.2015.
[2] Steffen Dobbert, Benjamin Breitegger: \"Der Nationalstaat wird verschwinden\". www.zeit.de 03.01.2017.
[3] Ulrike Guérot: Europa einfach machen - einfach Europa machen. agora42.de 25.09.2017.
[4] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[5] Morten Freidel: Die Brüder im Süden haben es besser. www.faz.net 08.10.2017.
[6] Hunderttausende kontern Unabhängigkeitspläne in Katalonien. www.zeit.de 08.10.2017.
[7] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[8], [9], [10] Hans-Rüdiger Minow: Zwei Wege - Eine Katastrophe. Flugschrift No. 1. Aachen 2016.
[11] See The Economy of Secession (II).



=== 3 ===


Die Ökonomie der Sezession (I)
 
04.10.2017
MILANO/VENEZIA/BOLZANO/ANTWERPEN
 
(Eigener Bericht) - Separatisten in diversen EU-Staaten begreifen das Sezessionsreferendum in Katalonien als Ansporn und intensivieren ihre Aktivitäten. Bereits am 22. Oktober werden die beiden reichsten Regionen Italiens, die Lombardei und Venetien, je ein eigenes Referendum über eine Ausweitung ihrer Autonomie gegenüber der Regierung in Rom abhalten. Zentrale Ursache ist wie in Katalonien das Bestreben, den eigenen Wohlstand zu wahren und die Umverteilung ihrer Steuergelder an ärmere Gebiete insbesondere im Süden des Landes zu reduzieren oder zu beenden. Identische Motive befeuern Sezessionisten im niederländischsprachigen Teil Belgiens, in Flandern; die dortige Regionalregierung unterhält gute Beziehungen zur Regionalregierung Kataloniens. Auch im deutschsprachigen Separatismus Norditaliens (Südtirol), der bei den letzten Landtagswahlen über 25 Prozent der Stimmen auf sich vereinen konnte, werden neue Forderungen nach einer Abspaltung von Italien und dem Anschluss an Österreich laut. Viele Separatismen in der EU sind von Deutschland jahrzehntelang direkt oder indirekt gefördert worden - ökonomisch und politisch.
Die nächsten Referenden
Die nächsten Referenden, die den inneren Zusammenhalt eines EU-Staates beschädigen dürften, finden bereits in weniger als drei Wochen in Norditalien statt. Am 22. Oktober werden die Bürger der Lombardei und Venetiens entscheiden, ob die beiden Regionen größere Autonomierechte erhalten sollen. Mit Blick auf die Eskalation in Katalonien beschwören italienische Medien derzeit die Unterschiede zwischen den Referenden: Während es in Katalonien unter Bruch der spanischen Verfassung um die Abspaltung der Region ging, werden in der Lombardei und in Venetien nur Autonomieverhandlungen mit der Zentralregierung angestrebt - strikt im Rahmen der italienischen Verfassung. Allerdings ist die Dynamik der Entwicklung mit derjenigen in Katalonien, wo vor gut einem Jahrzehnt ebenfalls noch nicht die Abspaltung, sondern lediglich eine größere Autonomie mehrheitsfähig war, durchaus vergleichbar.
Die reichsten Regionen
Sowohl die Lombardei wie auch Venetien zeichnen sich durch einen weit überdurchschnittlichen Reichtum aus, der - wie im Falle Kataloniens - mit Umverteilungsleistungen zugunsten ärmerer Gebiete meist im Süden des Landes verbunden ist; das wiederum schürt Wohlstandschauvinismus und führt zu Bestrebungen, den Abfluss der Gelder zu stoppen. Die Lombardei verfügt nach eigenen Angaben über das höchste Bruttoinlandsprodukt pro Kopf in Italien; in der Rangliste der EU-Staaten schöbe sie sich mit 36.600 Euro pro Einwohner im Jahr auf Platz fünf - noch vor Deutschland (35.800 Euro) und weit vor dem Durchschnitt Italiens (27.800 Euro). Die Lombardei exportierte im Jahr 2015 Waren im Wert von 111,23 Milliarden Euro; das waren 27,2 Prozent der italienischen Gesamtausfuhr (408,66 Milliarden Euro), mehr als jede andere italienische Region erreichte. Auf Platz zwei lag mit Exporten im Wert von 57,52 Milliarden Euro Venetien, das das drittgrößte Bruttoinlandsprodukt Italiens erzielt - nach der Lombardei und der Hauptstadtregion Latium. Aus der Lombardei fließen, wie es in einer von ihrer Regionalregierung verbreiteten Broschüre heißt, jährlich 54 Milliarden Euro netto an den Zentralstaat ab, ein Vielfaches des Vergleichswerts in Katalonien, den die Publikation auf rund acht Milliarden Euro beziffert. Aus Venetien werden demnach ebenfalls hohe Nettosummen an Rom gezahlt - um die 15,5 Milliarden Euro pro Jahr.[1]
Von der Autonomie zur Abspaltung
Das Bestreben, die Mittelabflüsse zu verringern, begünstigt schon seit Jahrzehnten politische Kräfte, die zwischen dem Verlangen nach größerer Autonomie und der Forderung, sich von Italien abzuspalten, changieren. Bereits 1984 entstand mit der Lega Lombarda die Keimzelle der späteren Lega Nord, die lange für die Abspaltung Norditaliens plädierte, aktuell allerdings eher auf stärkere Autonomie setzt. Die Übergänge sind fließend. Parteichef Matteo Salvini zieht gegenwärtig die Ausdehnung der Lega Nord auf die Mitte und den Süden des Landes in Betracht und würde dazu wohl Zugeständnisse in puncto Autonomie machen; doch auch in dieser Frage ist der Machtkampf in der Partei nicht entschieden. Die Lega Nord stellt aktuell die Regierungschefs in der Lombardei sowie in Venetien. In Venetien sind dabei Abspaltungstendenzen deutlich erkennbar. Dort wurde 2014 ein informelles, nicht repräsentatives und weithin kritisiertes Online-Referendum abgehalten, dessen Resultate zwar nicht zuverlässig waren, in der Tendenz allerdings von Umfragen bestätigt wurden. Demnach gäbe es in der Bevölkerung Venetiens eine knappe Mehrheit für die Abspaltung der Region von Italien. Von der Entwicklung in Katalonien wird der Separatismus nun auch hier befeuert.
Der flämische Separatismus
Dasselbe trifft auf die belgische Region Flandern zu. Der niederländischsprachige Separatismus in dem Gebiet hat alte Wurzeln, die bis ins 19. Jahrhundert zurückreichen; er wird jedoch seit einigen Jahrzehnten ebenfalls durch Wohlstandschauvinismus und durch den Kampf gegen staatliche Umverteilung an die Hauptstadtregion Brüssel sowie vor allem an die Region Wallonie geprägt. Flandern erwirtschaftete 2014 rund 58 Prozent des belgischen Bruttoinlandsprodukts, die französischsprachige Region Wallonie lediglich 24 Prozent; für die verbleibenden 18 Prozent kam die Hauptstadtregion Brüssel auf, die zweisprachig ist. Das Bruttoinlandsprodukt pro Kopf lag in Flandern mit 36.300 Euro im Jahr weit über dem Vergleichswert in der Wallonie (26.100 Euro), deren Arbeitslosenquote (rund zwölf Prozent) diejenige Flanderns (rund fünf Prozent) beträchtlich übertraf. Mehrere Parteien, insbesondere der extrem rechte Vlaams Belang und die konservative Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), setzen sich prinzipiell für die Abspaltung Flanderns von Belgien ein, wobei die N-VA, die nicht nur den Ministerpräsidenten der flämischen Regionalregierung und den Bürgermeister der größten flämischen Stadt, Antwerpens, sondern auch einige Minister in der aktuellen belgischen Regierung stellt, sich gegenwärtig aus taktischen Gründen zurückhält. Die Region Flandern kooperiert seit 1992 mit der Region Katalonien; beide Seiten haben im Juli 2015 eine gemeinsame Erklärung unterzeichnet, die eine weitere Intensivierung ihrer Zusammenarbeit vorsieht. Die beiden Regionen haben sich im Vorfeld des katalanischen Sezessionsreferendums eng miteinander abgestimmt; vergangene Woche etwa traf sich die katalanische Parlamentspräsidentin vor der Abstimmung zu letzten Absprachen mit ihrem flämischen Amtskollegen Jan Peumans.
Präzedenzfall Katalonien
Neben den großen Sezessionsbewegungen in Norditalien und Belgien ziehen auch kleinere Abspaltungsorganisationen Nutzen aus dem katalanischen Referendum, darunter etwa Separatisten in Norditaliens Autonomer Provinz Bolzano-Alto Adige (Südtirol). \"Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol!\", heißt es etwa in einem gestern publizierten Manifest der \"Süd-Tiroler Freiheit\", einer Partei der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens, die in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern steht; diese verübten seit den 1950er Jahren immer wieder Sprengstoffanschläge in Italien, um den Anschluss der Provinz Bolzano-Alto Adige an Österreich zu erzwingen. Die Süd-Tiroler Freiheit erhielt bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent der Stimmen; rechnet man die 17,9 Prozent hinzu, die die Partei \"Die Freiheitlichen\" erhielt, dann liegen die deutschsprachigen Separatisten in Südtirol insgesamt bei rund 25 Prozent. Wie die Süd-Tiroler Freiheit berichtet, habe sie im Jahr 2013 ein Referendum abgehalten, bei dem sich 92 Prozent der Teilnehmer für die Abspaltung von Italien ausgesprochen hätten.[2] Sei damals oft erklärt worden, eine Sezession sei rechtlich nicht möglich, so beweise der \"Präzedenzfall Katalonien\" nun \"das Gegenteil\", erklärt die Partei, die mitteilt, \"enge Kontakte zu Katalonien\" zu unterhalten.
Von Deutschland gefördert
Aktuell laufen die Separatismen in der EU deutschen Interessen zuwider: Sie schwächen die Union und relativieren damit deren Nutzen als machtpolitische Basis für die ausgreifende deutsche Weltpolitik. Entsprechend mahnt die Bundesregierung, eine Einigung für den Sezessionskonflikt in Katalonien zu finden. Dabei hat die Bundesrepublik die Voraussetzungen für das Erstarken der Separatismen selbst geschaffen, indem sie sie jahrzehntelang auf verschiedenste Weise förderte - teils über völkische Vorfeldorganisationen, teils auch durch eine regionalistische Wirtschaftspolitik. german-foreign-policy.com berichtet am morgigen Donnerstag.

Mehr zum Thema: Unter Separatisten.
[1] Scopri perché la Lombardia è Speciale. Regione Lombardia 2017.
[2] Selbstbestimmung nicht mehr aufzuhalten: Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol! www.suedtiroler-freiheit.com 03.10.2017.


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Der zweite Teil: Die Ökonomie der Sezession (II) (GFP 05.10.2017)

ENG.: The Economy of Secession (II) (GFP 2017/10/05)
As can be seen in an analysis of the separatist movements in Catalonia, Lombardy and Flanders, the deliberate promotion of exclusive cooperation between German companies and prosperous areas in countries with impoverished regions has systematically facilitated the autonomist-secessionist movements in Western Europe. According to this study, Flanders, as well as Lombardy - two already economically prosperous regions - have been able to widen the gap between themselves and the impoverished regions of Belgium and Italy, also because they have played an important role in the expansion of the German economy, the strongest in the EU. Through an exclusive cooperation with the state Baden Württemberg, Catalonia and Lombardy have been able to expand their economic lead over more impoverished regions of Spain and Italy, which has spurred their respective regional elites to seek to halt their financial contributions for federal reallocations through greater autonomy or even secession. The consequences of deliberate cooperation - not with foreign nations - but only with prosperous regions, can be seen with Yugoslavia...
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/59064



Germania e separatismi: l’economia della secessione

DI STEFANO SOLARO - OTTOBRE 13, 2017

Mentre in Catalogna e, di riflesso, in tutta la Spagna è in atto una vera e propria crisi politica e civile a seguito del referendum sull’indipendenza, il sito German Foreign Policy pubblica un’analisi dei rapporti economici della Germania con alcune delle regioni che in questo momento storico sono al centro di rivendicazioni per l’autonomia.  A emergere è un quadro in cui si evidenzia come il Paese guida dell’Unione Europea abbia prima spinto e poi consolidato una relazione di interdipendenza con le zone più ricche di alcuni Stati Europei, alimentandone gli squilibri e, di conseguenza, le tensioni secessioniste.

 

 

di redazione German Foreign Policy, 05 Ottobre 2017.

 

BERLINO/BARCELONA/MILANO/ANVERSA 

 

In Europa occidentale la promozione mirata di una collaborazione esclusiva tra imprese tedesche e le regioni più ricche di nazioni ove ampie parti del paese sono in condizioni di impoverimento, ha sistematicamente favorito il rafforzamento dei movimenti autonomisti-secessionisti. Questa evidenza è frutto di un’analisi dei separatismi in Catalogna, Lombardia e Fiandre. Mentre giocavano un ruolo decisivo nell’espansione della più forte economia Europea, quella tedesca, due regioni economicamente rilevanti come Fiandre e Lombardia aumentavano il già consistente divario con le zone più povere di Belgio e Italia.

 

Attraverso un’esclusiva collaborazione con il Land del Baden-Württemberg, Catalogna e Lombardia hanno lasciato indietro le regioni più in difficoltà di Spagna e  Italia.

 

Ciò ha alimentato gli sforzi delle rispettive élite regionali per bloccare il flusso di redistribuzione nazionale dei fondi statali attraverso la strada di una maggiore autonomia o, in ultima analisi, della secessione. Le conseguenze di una cooperazione mirata non con interi Stati stranieri, ma solo con le regioni economicamente più avanzate, sono già note dall’esperienza dell’ex Jugoslavia.

 

“Forte Germania, forte Anversa”

 

La regione delle Fiandre, la parte olandese del Belgio, le cui spinte separatiste sono state per lungo tempo tra le più forti all’interno dell’UE, ha tratto particolare guadagno dalla sua stretta collaborazione con la Germania. La Repubblica Federale Tedesca è l’acquirente principale dell’export fiammingo; lo scorso anno, su un valore totale delle esportazioni di 302,4 miliardi di dollari, il contributo della Germania è stato di oltre 50 miliardi. Inoltre, le imprese tedesche sono tra i più importanti investitori del Paese. Il nucleo delle relazioni economiche tedesche-fiamminghe è il porto di Anversa, il secondo più grande d’Europa dopo il porto di Rotterdam. La sua importanza per l’economia delle esportazioni tedesca è evidente dal fatto che, di 214 milioni di tonnellate, quasi un terzo, ben 68 milioni, sono state spedite dalla Germania o trasportate nel Paese tedesco. Inoltre, numerose aziende tedesche, come BASF e Bayer, hanno investito miliardi in sedi o magazzini nei pressi del porto di Anversa.

 

Senza una forte Germania non può esistere una forte Anversa“, affermava con forza qualche anno fa il rappresentante del porto nella Repubblica federale. Considerato che l’economia tedesca prospera e gode di ininterrotti benefici grazie alla zona Euro, anche l’economia delle Fiandre sperimenta una crescita più rapida rispetto a quella della Vallonia – l’area meridionale è infatti maggiormente focalizzata sui rapporti con la Francia.

 

In questo modo in Belgio il divario di ricchezza tra regioni finisce per animare sempre più le rivendicazioni secessioniste.

 

“Allineati con la Germania”

 

Anche la Lombardia, la regione economicamente più ricca d’Italia, ha vantaggi considerevoli dai suoi rapporti con la Repubblica Federale tedesca. La Germania è il principale partner commerciale, con un volume di scambi pari a quasi 40 miliardi di euro. Secondo gli esperti, le imprese lombarde sono tradizionalmente “allineate per una stretta cooperazione con la Germania meridionale“, che è “un gateway fondamentale per l’Europa settentrionale e orientale“. In realtà è la regione a rappresentare il punto di snodo centrale per le aziende tedesche in Italia, raccogliendo circa un terzo delle esportazioni dalla Germania sul territorio nazionale. Di un totale di circa 3.000 aziende tedesche che hanno una filiale in Italia, circa la metà si sono stabilite in Lombardia. Società di primo piano come BASF, Bayer, Bosch, BMW, Deutsche Bank, SAP e Siemens hanno aperto la propria sede italiana a Milano o nei dintorni cittadini. Inoltre, si trova a Milano anche la sede di Unicredit, il più importante gruppo bancario italiano, che ha acquisito la Hypovereinsbank di Monaco di Baviera nel 2005.

 

La forza dell’economia tedesca contribuisce significativamente alla crescita della Lombardia, in particolare rispetto alle regioni più deboli del Paese.

Punto di appoggio principale

 

Il commercio con la Germania è di grande importanza anche per la Catalogna. Nel 2015 sono arrivate dalla Repubblica Federale il 18,3 % delle importazioni catalane, decisamente più che da qualsiasi altro Paese. Allo stesso tempo la Germania è il secondo più grande acquirente delle esportazioni catalane. In Catalogna oltre il 10% degli investimenti provengono dalla Repubblica Federale. La regione è poi il principale punto di appoggio per le aziende tedesche in Spagna. La metà delle 1.600 aziende spagnole con partecipazione tedesca hanno la sede in Catalogna, come ad esempio, BASF, Bayer, Boehringer, Henkel, Merck e Siemens. Anche Seat, la consociata di Volkswagen, ha sede a Martorell, vicino a Barcellona. Come Fiandre e Lombardia, la Catalogna trae benefici dalla prosperità del suo partner commerciale più importante, ovvero l’economia tedesca. Nonostante la crisi dei Paesi del Sud Europa, questa tendenza è diventata ancora più marcata negli ultimi anni per via della posizione dominante della Repubblica federale nell’UE.

 

A chi ha venga dato

 

Il fatto che le aziende tedesche cooperino esclusivamente con le regioni economicamente forti e, quindi, contribuiscano ad aumentare ulteriormente il divario di ricchezza nei Paesi in questione, non è soltanto la conseguenza di un processo naturale, quanto una dinamica incoraggiata da obiettivi politici. Un esempio è la comunità di lavoro “Quattro Motori per l’Europa”, fondata nel 1988 e che comprende, oltre al Land tedesco del Baden-Wuerttemberg, le regioni della Catalogna, Lombardia e Rodano-Alpi (Francia). Il suo obiettivo è quello di estendere la cooperazione economica tra le aree coinvolte, concentrandosi, ad esempio, sul miglioramento delle infrastrutture di trasporto e di telecomunicazione, e promuovendo una stretta collaborazione in materia di ricerca e tecnologia. La finalità dell’accordo?

 

Aumentare notevolmente “la competitività” dei “quattro motori”.

 

I membri del gruppo accettano, almeno implicitamente, che in nazioni da regioni economicamente asimmetriche, come Spagna e Italia, crescano significativamente le differenze tra i membri dei “Quattro Motori”, già relativamente benestanti, e le aree più povere dei rispettivi Paesi.
 
Come in Jugoslavia

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1937-2017 – 80 ANNI DALLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA CROATO


Oltre 100 persone si sono riunite ad Anindol, presso Zagabria, per celebrare l\'ottantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Croato. Tra i partecipanti, il rappresentante del comune di Samobor, promotore dell\'evento, il rappresentante del principale partito di opposizione SDP, vari altri partiti socialisti, comunisti e di sinistra, oltre alle formazioni antifasciste e partigiane di Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, e il Coro partigiano di Zagabria che si è esibito con canzoni rivoluzionarie, tra cui “Padaj Silo i Nepravdo”.


Le formazioni antifasciste e socialiste croate hanno commemorato questo evento che vide Tito, in segreto assieme ad altri 16 comunisti, fondare il partito che si sarebbe poi federato agli altri partiti comunisti jugoslavi e assieme ai quali sconfisse i fascisti ed instaurò uno stato socialista.


Gli intervenuti hanno voluto ricordare come il movimento socialista in questi territori fosse iniziato al seguito della I Guerra mondiale, sull\'eco della Rivoluzione d\'ottobre; che alle elezioni nel Regno di Jugoslavia il Partito Comunista finì in terza posizione, prima di venir messo fuorilegge; che Tito al ritorno dall\'URSS negli anni \'30 si occupò di diffondere le organizzazioni del partito in tutta la Jugoslavia, fondando anche partiti comunisti nazionali, al fine di creare con successo un fronte unico contro il fascismo.


In particolare il compagno Kapuralin (Partito Socialista dei Lavoratori) ha ricordato che il partito all\'inizio era piccolo, ma ben organizzato qualitativamente, e che seppe sfruttare l\'occupazione straniera non solo per condurre la liberazione nazionale, bensì per industrializzare il nuovo stato ed elevare il livello culturale del popolo:

Se non ci fosse stato il compagno Tito, l\'unità e la fratellanza, i suoi comunisti, il coraggio e la convinzione, già allora gli stivali stranieri ci avrebbero calpestato, e altra gente avrebbe governato sopra noi, come succede oggi.


La rappresentante dello SRP, Vesna Konigsknecht, ha brillantemente riassunto cosa significa la lotta antifascista:


Per mascherare le contraddizioni sociali, e sconfiggere l\'unità della classe lavoratrice, le società capitaliste ricorrono a mistificazioni sull\'unità nazionale, incoraggiano la convinzione che l\'appartenenza nazionale è d\'importanza critica, insistono sulle differenze tra i popoli.

Il fascismo compare nel capitalismo; è la conseguenza del modo in cui il capitalismo funziona, della sua volontà di sconfiggere l\'unità e la solidarietà di classe attraverso il mito dell\'unità nazionale.

Maggiori le differenze all\'interno di una società, maggiore la tensione. Con una recrudescenza delle tensioni, più ferocemente si tira in ballo l\'unità nazionale. L\'esplosione avviene non là dove necessario – nel campo degli interessi contrapposti tra capitale e lavoro – ma là dove la tensione è canalizzata, nel campo del nazionalismo. Degli interessi nazionali si parla sempre più aggressivamente ed esclusivamente, e molto facilmente si scivola – nel fascismo.


Da noi l\'antifascismo è arrivato assieme al socialismo. Ogni antifascismo, se pensato coerentemente, dev\'essere anticapitalista, perché il fascismo è figlio del capitalismo. E perciò, chi non vuole affrontare il capitalismo, che taccia sul fascismo!


Il Partito Comunista Croato, come frazione del PC Jugoslavo, si era chiaramente schierato dalla parte degli interessi della classe lavoratrice. Non voleva creare un movimento di resistenza (per combattere il fascismo e ripristinare lo status quo ante) ma condurre una guerra di liberazione popolare. Mentre combatteva l\'occupatore, si organizzava, sviluppava un nuovo potere, e creava un nuovo sistema sociale – il socialismo.


Commemorando l\'80esimo anniversario del PC Croato, ci ricordiamo che i nostri antifascisti lottarono sì per liberare il paese, ma anche per modificare i rapporti di classe. L\'antifascismo è lotta di classe. Doveva e deve esserlo. Ieri, oggi, per sempre!


Di seguito alcuni estratti dei discorsi degli altri partecipanti.


Non ci arrenderemo mai, la lotta è continua, non vi sfiduciate. Alle persone di sinistra dico – uniamo le nostre forze perché solo così la Lotta Popolare di Liberazione fu vinta.


Tutte le conquiste del sistema socialista – la solidarietà, il lavoro sicuro, l\'educazione e sanità universali e gratuiti, pensioni dignitose – oggi vengono affidate al mercato. Ogni giorno siamo testimoni dell\'inumanità del capitale, del mercato, della corsa alla produttività e al profitto. Per questo vengono distrutti i monumenti al mondo diverso che fu – per cercare di perpetuare il più a lungo possibile questo sistema che serve solo una minoranza.


La lotta condotta dal Partito Comunista fu non solo lotta di liberazione, ma allo stesso tempo lotta per la libertà dei lavoratori.


Noi a Samobor con onore ci ricordiamo del giorno in cui 80 anni fa un gruppo di uomini coraggiosi con a capo il compagno Tito fondò il Partito Comunista Croato. Con l\'obiettivo di una società migliore, per l\'uguaglianza delle donne e per correggere tutte le inguistizie.


Bisogna difendere gli interessi della classe lavoratrice, ma anche la libertà nazionale, l\'uguaglianza e la fratellanza tra i popoli.



--- A cura di Andrea Degobbis.
Sulla celebrazione di questo anniversario si veda anche: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8765



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(srpskohrvatski / english / italiano / castellano
Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


La Catalogna vista dai Balcani

... Il leader dei liberali di Vojvodina Nenad Čanak è stato a Barcellona nel giorno del Referendum ...


0) LINK IMPORTANTI SEGNALATI
1“Merkel responsible for Kosovo precedent and dividing Serbian people” (by Živadin Jovanović, 11 October 2017)
2) The Economy of Secession (German Foreign Policy)
3) Vučić e il Referendum in Catalogna / Srbija zbog Katalonije traži izvinjenje Brisela (Politika / RFE)


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LINK IMPORTANTI SEGNALATI:

La CUP invita Puigdemont a ribadire la proclamazione della Repubblica (di Cup-Cc, 14.10.2017)
... non abbiamo dalla nostra parte grandi poteri economici, né la UE è disposta ad ammettere che il diritto all’autodeterminazione è un diritto fondamentale dei popoli. Però altrettatnto sicuramente, restare immobili davanti alle sue minacce, i suoi rifiuti e la sua autorità, non ci permetterà d’esistere come popolo, non ci permetterà di governarci e neppure ci permetterà di avanzare nella conquista di maggiori diritti e libertà. Al contrario, li perderemo...

Il referendum del 1° ottobre in Catalogna e le responsabilità della sinistra (di Ferran Gallego | da investigaction.net, 14 Ottobre 2017)
... Uno dei fattori più rilevanti di questa crisi è che ha permesso alle cose di compiersi attraverso i canali politici ed ideologici entro i quali si è sviluppata, è stata ed è l\'assenza di analisi di classe. Non c\'è stata la prospettiva che doveva essere offerta da un\'organizzazione capace di operare come un intellettuale collettivo... La Repubblica federale, purtroppo, è stata l\'opzione meno presentata nel dibattito che ha egemonizzato questi settori della Catalogna e della Spagna intera... 

Ciclo di interviste e testimonianza dalla Catalogna #RadioCatalunyaLliure (di Contropiano.org, 11-13.10.2017)
... interviste quotidiane organizzate da Noi Restiamo direttamente dalla Catalunya in lotta. Una serie di colloqui con uomini e donne che stanno costruendo il loro riscatto...

Tra forza e ragione, la lotta in Catalogna (di Dante Barontini, 11 ottobre 2017)
... in Catalogna si è selezionata e formata, nel corso degli anni, una sinistra radicale capace di saldare insieme questioni sociali e questione nazionale, collegando i temi classici (lavoro, pensioni, occupazione, salario, ecc) con la dipendenza da uno Stato spagnolo mai definitivamente uscito dal franchismo. Una sinistra tanto radicata, oltretutto, da imporre una analoga radicalizzazione dell’agenda politica catalana, da sempre in mano all’ala “autonomista” del centrodestra... Il grande capitale multinazionale catalano (sia finanziario che industriale, con le banche Caixa e Sabadell, il colosso delle infrastrutture Abertis, la filiale iberica di Volkswagen, ecc) ha decisamente osteggiato ogni spinta indipendentista... Buona parte delle speranze dei moderati erano infatti riposte “nell’Europa”, immaginata per decenni come la superstruttura “civilizzatrice” in grado di far superare anche alla Spagna il sistema di potere ereditato pari pari dal regime franchista...

Catalogna: Parigi si schiera con Madrid (PTV News 09.10.17)

\'Istra nije Katalonija, mi samo želimo svoj novac\' (Sanjin Španović, 09. listopada 2017.)
Predsjednik IDS-a Boris Miletić za Express govori o prijedlogu zakona koji su ovaj tjedan uputili u saborsku proceduru...
[parlano gli autonomisti istriani: \"Noi vogliamo solo i nostri soldi\"]

Puigdemont come Tsipras? La Catalogna davanti a un bivio (di Marco Santopadre, 8 ottobre 2017)
... per ottenere l’indipendenza occorre rompere non solo con lo Stato Spagnolo ma anche con gli interessi delle elites catalane oltre che con quella vera e propria gabbia di popoli e settori popolari che è l’Unione Europea. Altrimenti Puigdemont potrebbe essere il nuovo Tsipras, e la finestra aperta coraggiosamente dal popolo catalano verso il cambiamento e la trasformazione sociale potrebbe chiudersi e rimanere sbarrata per chissà quanto tempo.

Intervista al responsabile dei giovani comunisti in Catalogna: «se ci combattiamo fra lavoratori, vincono i padroni» (Tinta Roja / Senza Tregua, 7 ottobre 2017)
... La concezione dell’interclassismo, della fiducia in chi ti sfrutta, nel restare uniti per un bene comune non sono indirizzi politici propri della classe lavoratrice. Se diciamo che il “processo” ha un carattere borghese è anche per questa ragione...

Indipendentismo e Costituzione (di Alba Vastano, 7/10/2017)
L’indipendentismo è sempre da perorare come diritto della volontà popolare o, in specifiche situazioni, è illegittimo perché contrasta con la Costituzione? Ne risponde il giurista Paolo Maddalena
Catalogna e indipendentismo dei ricchi: vero o falso? (di Paolo Rizzi, 7/10/2017)
Alcuni dati di fatto per non parlare in maniera astratta dell\'indipendentismo catalano.
https://www.lacittafutura.it/editoriali/catalogna-e-indipendentismo-dei-ricchi-vero-o-falso.html

Il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano (di Ramon Mantovani, 5 ott 2017)
... La sinistra politica spagnola, che oggi è rappresentata dall’unità fra Podemos e Izquierda Unida, e che è repubblicana, federalista e favorevole al diritto all’autodeterminazione dei diversi popoli spagnoli non può, a mio avviso, che prendere atto del fatto che la prima vera spallata al “regime del 78”, alla monarchia e allo stesso PP è arrivata con la via unilaterale all’autodeterminazione dei catalani. La Storia non segue linee rette. Per quanto mi riguarda, non essendo indipendentista, avrei preferito che la transizione si fosse chiusa con l’instaurazione di una repubblica federale. Ma se un popolo, con il massimo clamore e in forme inedite (di solito i processi di autodeterminazione si son fatti con le armi in pugno) e pacifiche, rivendica il diritto a decidere per se stesso e nel contempo mette in difficoltà uno stato non antifranchista e pesantemente autoritario, non gli si può dire che rompere la legalità è un errore...
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=31186

Internazionalismo e indipendenza, una questione di classe (di Francesco Piccioni, 5/10/2017)
... La storia dell’indipendenza finlandese, insomma, insegna quantomeno che per il vertice della Rivoluzione russa il problema non esisteva come definizioni astratte, ma come soluzioni concrete. Fermo restando il principio per cui non si può imporre a un popolo di farsi comandare da altri. L’internazionalismo proletario, insomma, prevede il consenso ad unirsi...

Comunistes de Catalunya: Unità a difesa delle istituzioni catalane (editoriale di Realitat, organo di informazione dei Comunisti di Catalogna, 5 ottobre 2017)
... L’emancipazione nazionale della Catalogna è inseparabile dall’emancipazione sociale della classe lavoratrice e delle classi popolari che formano la maggioranza della cittadinanza. Una cittadinanza in maggioranza resa precaria e destinata alla povertà salariata, come conseguenza delle politiche attive di de-industrializzazione, de-localizzazione e privatizzazione delle risorse pubbliche. Questa emancipazione è un obiettivo che ha bisogno di una strategia di approfondimento democratico a lungo termine e nonostante che per qualcuno sia difficile accettarlo anche di una strategia di conflitto di classe.

Il vaso di Pandora si è aperto anche in Europa (PTV News 03.10.17)

Rivolta catalana, crisi europea (di Dante Barontini, 3 ottobre 2017)
... Quel diritto all’autodeterminazione che era stato brandito con forza militare ed economica per disgregare l’Urss e gli altri paesi plurinazionali dell’Est europeo viene ora invocato da una nazione interna a uno Stato membro dell’Unione. Ora non va più bene, ora è (o lo si vorrebbe presentare) come “sovranismo” deteriore.
Ancora peggio. La maggioranza delle forze indipendentiste catalane sarebbe favorevole a rimanere come Stato autonomo all’interno della Ue. Dunque non ci sarebbe – dall’angolo visuale di Bruxelles – nessuno “strappo irrecuperabile” alla tessitura tecnoburocratica in atto da decenni. Basterebbe ricontrattare gli stessi trattati con la nuova entità, oltretutto da una posizione di assoluta forza (non caso le grandi imprese multinazionali presenti sul territorio catalano sono contrarie al processo indipendentista). Non cambierebbe granché… Ma una simile scelta manderebbe in crisi totale il quarto paese della Ue, che dovrebbe perdere il 25% del Pil e veder crescere – come già sta avvenendo da decenni – analoghe spinte da Euskadi e Galizia...

Catalogna: la dignità contro la vergogna. Una grana per l’UE e le oligarchie (di Rete Dei Comunisti, 2 ottobre 2017)
... Certamente il movimento indipendentista catalano è composito: si va dalle correnti anarchiche e comuniste ai socialdemocratici fino ai liberali e ai democristiani. Ma lo scontro per l’egemonia è aperto, e la sinistra anticapitalista ha molte carte da giocare, potendo contare su una radicalizzazione dello scontro e su una popolazione che sperimenta la disobbedienza, la mobilitazione permanente e in alcuni casi anche la creazione di un contropotere nazionale ma anche di classe...

La secessione catalana: un’analisi economica e finanziaria (di Senza Soste, 2 ottobre 2017)
... una cosa sembra chiara: senza una visione chiara di quale modello economico promuovere, e quale sistema politico a supporto, a sinistra ci vuole la giusta cautela in questa vicenda.

Austerity and Secession (GFP 2017/10/02)
... Catalonia has accumulated the largest debts of all of the Spanish regions - €60.4 billion, approx. 30 percent of Catalonia\'s GDP.[9] This sharp rise in debts, generated by austerity and the crisis, have become a separate issue in the Madrid/Barcelona dispute. Catalan politicians threaten to refuse to accept responsibility for Catalonia\'s share of Spain\'s debts, if the region secedes...
ORIG: Austerität und Sezession (GFP 02.10.2017)
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59687

C. Black: \"L\'ipocrisia e l\'immoralità della NATO è palese e visibile al mondo ogni giorno\" (di Alessandro Bianchi, 02/10/2017)
Christopher Black, , esperto di diritto internazionale, all\'AntiDiplomatico: \"L’indipendenza della Catalogna spaccherebbe ancora di più le forze lavoratrici spagnole come blocco e indebolirebbe le loro rivendicazioni in termini di diritti e Welfare\"...
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-c_black_lipocrisia_e_limmoralit_della_nato__palese_e_visibile_al_mondo_ogni_giorno/5496_21628/

Parlamento europeo riconosce legalità referendum in Catalogna (1.10.2017)
Il referendum d’indipendenza della Catalogna è legale, ma tali attività vanno tenute con il consenso delle autorità centrali, ritiene il leader del partito dei “Verdi” austriaco, il vice presidente del Parlamento Europeo Ulrike Lunacek...
https://it.sputniknews.com/mondo/201710015090533-referendum-Catalogna-Parlamento/

La democrazia popolare torna a vivere in Catalunya (di Redazione Contropiano, 1 ottobre 2017)
... si arriva a negare con la forza il diritto di esprimersi con il voto all’interno dell’Unione Europea e con il pieno appoggio della tecnoburocrazia di Bruxelles, degli Stati nazionali e di tutte le forze di governo nei vari paesi dell’Unione. E’ una contraddizione che vede dichiarare “illegale” la richiesta di far esprimere un intero popolo con il voto. Ovvero con l’unica caratteristica residua del concetto di “democrazia” sbandierato da cancellerie e televisioni...

La independencia catalana: cinco cosas para pensar (TONY CARTALUCCI, 1 Oct 2017)
1. Cataluña tiene una formidable economía industrializada...
2. La OTAN pareciera estar ansiosa por alentar la independencia y le daría la bienvenida a lo que ellos esperan sería una capacidad militar robusta para agregarle a sus guerras de agresión global.
Un artículo publicado por el Atlantic Council (un think-tank de la OTAN financiado por los Fortune 500) de 2014 titulado “Las implicaciones militares de la secesiones catalana y escocesa” [ http://www.atlanticcouncil.org/blogs/defense-industrialist/the-military-implications-of-scottish-and-catalonian-secession ] ...
3. Los políticos catalanes pro-independencia parecen apoyar de forma entusiasta el ingreso de Cataluña a la OTAN.
4. Algunos políticos catalanes han comenzado a planificar su integración en la OTAN.
5. Como “Kurdistán”, cualquier tipo de “independencia” pierde todo significado si el Estado resultante se encuentra a sí mismo profundamente dependiente e imbricado...
http://www.investigaction.net/es/la-independencia-catalana-cinco-cosas-para-pensar/
ORIG.: Catalan Independence: 5 Things to Think About (by TONY CARTALUCCI, 1 Oct 2017)
Catalan independence can be good or bad - it depends on the Catalan people to make it good, or else it likely will be bad...
https://landdestroyer.blogspot.it/2017/10/catalan-independence-5-things-to-think.html

Catalogna: autodeterminazione e prospettiva repubblicana e federale secondo i comunisti (di Alessio Arena, 30/09/2017)
Intervista a Nuria Lozano Montoya, responsabile statale del settore plurinazionalità di Izquierda Unida ed esponente del Bloc de Comunistes de Catalunya...
https://www.lacittafutura.it/esteri/catalogna-autodeterminazione-e-prospettiva-repubblicana-e-federale-secondo-i-comunisti.html

Si al referendum a Catalunya: “vivere vuol dire prendere partito” (di Andrea Quaranta, 30 settembre 2017)
... la nuova Repubblica rappresenterebbe anche una straordinaria opportunità per riaprire il dibattito sulla natura dell’Unione Europea e per la costruzione di uno spazio politico continentale finalmente irriducibile alle esigenze del capitale finanziario e imperialista...

Intervista al Segretario dei Comunisti Catalani alla vigilia del voto del 1° Ottobre (settembre 29, 2017)
Intervista al Segretario politico dei Comunisti Catalani – Partito Comunista dei Popoli di Spagna (PCPE), Albert Camarasa... \"Il diritto all’autodeterminazione è un nobile obiettivo che noi comunisti incorporiamo nelle nostre tesi. E’ stato un diritto promosso dall’Unione Sovietica e i successivi paesi socialisti. Ma che si condivida l’obiettivo non vuol dire che si condiva il cammino per raggiungerlo. Oggi ci sono due vie verso l’autodeterminazione, una fattibile e l’altra che non porta ad essa. L’indipendentismo sta scegliendo la seconda... L’unica via fattibile in cui si può applicare l’autodeterminazione per la Catalogna è quella che passa per rovesciare la classe borghese dominante che detiene il potere in Spagna. Con la presa del potere da parte della classe operaia si distruggeranno le basi materiali che perpetuano l’oppressione nazionale e la Catalogna potrà esser ciò che decidono liberamente i catalani.\"
http://www.lariscossa.com/2017/09/29/intervista-al-segretario-dei-comunisti-catalani-alla-vigilia-del-voto-del-1-ottobre/

Catalogna è Europa (carta di Laura Canali, 22.9.2017)
L’economia della comunità autonoma catalana ha una dimensione prevalentemente europea. Un dato che Barcellona non può sottovalutare in ottica secessionista...

Per la Repubblica Federale, Democratica e Solidale (di Ginés Fernández González, direttore di “Mundo Obrero”, 19 settembre 2017)
... per potere costruire un nuovo paese dobbiamo rompere con due vincoli: l\'UE e l\'euro, e il Regime del 78. Recuperare la sovranità e realizzare la rottura democratica rispetto ai contesti che impediscono qualsiasi processo di trasformazione sociale al servizio dei lavoratori e delle lavoratrici e del popolo. Di fronte alla restaurazione borbonica, abbiamo detto, rottura democratica repubblicana. Di fronte alla rigenerazione, rivoluzione democratica... proponiamo un processo costituente che presupponga la rottura con la situazione economica, sociale e istituzionale che ha sostenuto il sistema monarchico dal 1978 e che ci porti a una nuova Costituzione sulla base della democrazia partecipativa...

The Military Implications of Scottish and Catalonian Secession (by JAMES HASIK, AUGUST 26, 2014)
... NATO members should treat neither case lightly, but the independence of Catalonia would pose fewer military problems for the alliance than that of Scotland...

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Tra i nostri post passati relativi a questione catalana e dintorni raccomandiamo in particolare:

La Serbia accusa l\'Unione Europea di ipocrisia sull\'indipendenza catalana (Visnjica broj 998 su JUGOINFO)

Il cortocircuito della Catalogna (di Andrea Martocchia, 1.10.2017)
pubblicato anche su Contropiano e Marx21:

La vertigine catalana (rassegna JUGOINFO del 30.9.2017)
1) George Soros finanzia l’indipendentismo catalano / George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)

Interpretazioni divergenti della questione catalana (rassegna JUGOINFO del 26.9.2017)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone


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1Živadin Jovanović

Dietmar Hartwig, former head of the EU (EEC) Monitoring Mission in Kosovo and Metohija (ECMM) in his 2007 warning letter:
“MERKEL RESPONSIBLE FOR KOSOVO PRECEDENT AND DIVIDING SERBIAN PEOPLE”

It seems that the recent developments in Europe, and in particular the push of secessionism (Catalonia), rings a bell, or rather is reminiscent of certain events. The ensuing ones are shedding more light on the roles of the EU (EEC), the USA and Germany. To what extent have they been guided by the principles of the international law and democracy in the Kosovo crisis? How much did they appreciate the reports of their (expensive) missions in Kosovo and Metohija (КDОМ, КVМ, ЕCMM) depicting the realities on the ground? To what extent have they been defending the right to self-determination and human rights and to what extent abusing separatism for expansion of geopolitical interests? 

As strategies are slow to evolve, recollections of the past may help better understanding of the interests and roles of the EU in the ongoing Kosovo negotiations in Brussels. 

Over a longer period of time, the leading members of both NATO and the EU have been supporting the terrorist KLA in Kosovo and Metohija. Allied, they launched an armed aggression against Serbia (the FRY) in 1999 which, pursuant to the same principles of the international law  (eagerly invoked these days by the EU officials), was tantamount to a crime against peace and humanity! To sum it up, the countries and integrations whose spokespersons swear to this day that they have always been upholding the same principles and rule-based policies, back in 1999 had provoked the strongest blow to the global legal order and to the United Nations since the end of World War II. The policies pursued by governments of those countries and by integrations thereof during the Yugoslav and the Kosovo crises have stimulated the spread of secessions, the expansion of Islamic extremism, Wahhabism and terrorism in Europe and the rest of the world. By disregarding and violating the principles enshrined in the Helsinki Final Act, in the UN Charter and in international conventions and treaties, they have induced a lasting instability in the Balkans as the most vulnerable part of Europe. Presently, they are exerting pressure against Serbia, the one they have been demolishing, deceiving and humiliating by recognizing the forcible capture of her state territory in the form of an engineered unilateral and illegal secession of Kosovo, and requesting that Serbia erases it all from track-record and forgets it all “for the sake of her European future”! What kind of future could possibly be built upon such foundations!?

The separatist and terrorist genie that the leading countries of NATO and the EU have unleashed from the bottle in Kosovo and Metohija back in 1998/99 for the purpose of furthering the geopolitical goals of the USA and some European powers, such as Germany and the UK, for example, keeps spreading over Europe, while the EU and NATO believe they would be able to push it back into the bottle and clear they names and revive their dented unity by scarifying once again (interests of) Serbia! The real tragedy for Europe is the reasoning that truth is only what the EU commissioners and spokespersons declare to be the truth. The dominance of such reasoning is preventing the genuine understanding of historical maelstrom that has engulfed the Old Continent!

“War on the FRY was waged to rectify an erroneous decision of General Eisenhower from the Second World War. Therefore, due to strategic reasons, the U.S. soldiers have to be stationed there.” This quote was the explanation given by American representatives at a NATO conference held in late April 2000 in Bratislava, and noted by Willy Wimmer, former State Secretary in the German ministry of Defense, in his report to Chancellor Gerhard Schroeder dated 2 May 2000.

The first point in this report is an explicit U.S. request that its allies (NATO members) recognize ‘independent state of Kosovo’ as soon as possible, whereas the tenth, last point, reads that ‘the right to self-determination takes precedence over all others”. Should one wonder any further about the present referendum on secession of Catalonia?

Wimmer’s report also notes the U.S. declared position at the Bratislava Conference was that the 1999 NATO attack on Yugoslavia without UN SC authorization is ‘a precedent to be invoked by anyone at any time, and which is going to be invoked’. This renders any allegations of a principled and rule-based policy utterly dubious, when the aggression executed in violation of the UN Charter is declared to be a precedent, and the unilateral secession of Kosovo directly resulting from such aggression is declared to be ‘a unique case’?!

In the eve of NATO 1999 aggression on Yugoslavia two major international missions had been placed in the Province of Kosove and Metohija. One was under auspices of OSCE known as Kosovo Verification Mission (KVM), headed by American diplomat William Walker and the other under the auspices of EEC (EU) known as European Community Monitoring Mission (ECMM), headed by German diplomat Dietmar Hartwig. The later conveyed the often repeated assessment of the leader of KVM and his entourage that:  “There is no such thing as high costs to deploy NATO in Kosovo. Any cost is acceptable.”

After Kosovo Albanian leadership declared unilateral illegal secession in 2006, Dietmar Hartwig in 2007 sent four letters to the German Chancellor Angela Merkel urging her that Germany should not recognize such unilateral act.  In his letter of October 26, 2007 to Chancellor Merkel, Hartwig, among other points, says: “Not a single report (of ЕCMM) submitted from late November 1998 up to the evacuation (of ЕCMM, KVM) just before the war broke out (1999), contains any account of Serbs having committed any major or systematic crimes against Albanians, and not a single report refers to any genocide or similar crimes… Quite the contrary, my (ECMM) reports have repeatedly communicated that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive authorities, their law enforcement kept demonstrating remarkable restraint and discipline. This was a clear and persistently reiterated goal of the Serbian administration - to abide to the Milošević-Holbrooke Agreement (of October 13,1998) to the letter so not to provide any excuse to the international community for an intervention. In the phase of taking over the Regional Office in Priština, colleagues from various other missions – KDOM, U.S., British, Russian, etc. – confirmed that there were huge ‘discrepancies in perception’ between what said missions (and, to a certain degree, embassies as well) have been reporting to their respective governments and what the latter thereafter chose to release to the media and the public of their respective countries. This discrepancy could, ultimately, only be understood as an input to general preparations for war against Kosovo/Yugoslavia. The fact is that, until the time of my departure from Kosovo, there has never happened anything of what have been relentlessly claimed by the media and, with no less intensity, the politics, too. Accordingly, until 20 March (1999) there was no reason for military intervention, which renders illegitimate any measures undertaken thereafter by the international community.”

“The collective behavior of the EU Member States prior to, and after the war broke out, certainly gives rise to a serious concern, because the truth was lacking, and the credibility of the international community was damaged. However, the matter of my concern is exclusively the role of the FR of Germany and its role in this war and its political objective to separate Kosovo from Serbia…”

“The daily political news reporting over the previous months (before October 2007) made it progressively more evident that Germany not only supports the American desire to see Kosovo independent, but also actively engages on its own in dividing the Serbs…You are to be considered responsible for this. The same goes for your foreign minister, in particular, who knows perfectly well what is going on in Kosovo, and is presently pursuing your political directives by tirelessly advocating Kosovo’s independence and, thus, its secession from Serbia. Instruct him, rather, to promote a durable solution for the Kosovo issue which is in line with the international law… It is only if all states choose to observe the applicable rights, we can have the foundations for the common life of all nations. Should Kosovo become independent, it will be perpetuated as the place of restlessness… Contribute to achieving the solution for Kosovo on the basis of the endorsed UNSC Resolution 1244 pursuant to which Kosovo remains a province of Serbia. American wishes and active efforts to see Kosovo secede from Serbia and see Kosovo and Kosovo Albanians achieve full independence, are contrary to the international law, politically deprecated and, on top of all, irresponsibly expensive…”

“Kosovo’s secession from Serbia guided by ethnic criterion would constitute a dangerous precedent and a signal for other ethnic communities in other countries, including in EU Member States, who could rightfully request the‘Kosovo solution’” – says Dietmar Hartwig in concluding his letter to Chancellor Merkel.
Enough said about the ‘humanitarian intervention’ and the concerns for the protection of rights of the Albanian population as the features of the “uniqueness of the Kosovo case”. American Military base “Bondsteel” in the vicinity of the town of Uroševac, surely by a pure chance, happens to be among the largest U.S. military bases outside the U.S.A! Perhaps their anxiety over being potentially spied on from the Serbian-Russian Humanitarian Center in Niš merely confirms that the “Bondsteel’s” ’mandate’ is strictly local, humanitarian and just for short time?!

It was the U.S.A, the EU and NATO, not Serbia, who froze the conflict following the armed aggression of 1999. They and kept it frozen for the past 18 years by not allowing complete implementation of UN SC resolution 1244. The forced Serbia to fulfill all its commitments insisting on the legally obliging character of the resolution while exempting themselves and the Albanians from any obligation stated therein. They realize that the full implementation of UNSC Resolution 1244 equaled preservation of integrity of Serbia, which is exactly what they do not want since it goes against their geopolitical concept of expanding to the East. Especially now, when the West is undergoing a transition from which it may not emerge as mighty as it was during the uni-polar world order. 

At the present the West demands that Serbia ‘unfreezes’ Kosovo “independence procerss”. How? By compelling Serbia to sign a ‘legally binding agreement’ with Priština, to recognize a illegal unilateral secession, legalize illegal 1999 aggression, accept the consequences of violent ethnic cleansing of over 250.000 Serbs from Kosovo and Metohija and essentially assume responsibility for all that!

1The Author is President of the Belgrade Forum for a World of Equals, Federal Minister for Foreign Affairs of FR of Yugoslavia (1998-2000)



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ORIG: Die Ökonomie der Sezession (II) (GFP 05.10.2017)

Siehe auch den ersten Teil: Die Ökonomie der Sezession (I) (GFP 04.10.2017)
Separatisten in diversen EU-Staaten begreifen das Sezessionsreferendum in Katalonien als Ansporn und intensivieren ihre Aktivitäten. Bereits am 22. Oktober werden die beiden reichsten Regionen Italiens, die Lombardei und Venetien, je ein eigenes Referendum über eine Ausweitung ihrer Autonomie gegenüber der Regierung in Rom abhalten. Zentrale Ursache ist wie in Katalonien das Bestreben, den eigenen Wohlstand zu wahren und die Umverteilung ihrer Steuergelder an ärmere Gebiete insbesondere im Süden des Landes zu reduzieren oder zu beenden. Identische Motive befeuern Sezessionisten im niederländischsprachigen Teil Belgiens, in Flandern..

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The Economy of Secession (II)
 
2017/10/05
BERLIN/BARCELONA/MILAN/ANTWERP
 
(Own report) - As can be seen in an analysis of the separatist movements in Catalonia, Lombardy and Flanders, the deliberate promotion of exclusive cooperation between German companies and prosperous areas in countries with impoverished regions has systematically facilitated the autonomist-secessionist movements in Western Europe. According to this study, Flanders, as well as Lombardy - two already economically prosperous regions - have been able to widen the gap between themselves and the impoverished regions of Belgium and Italy, also because they have played an important role in the expansion of the German economy, the strongest in the EU. Through an exclusive cooperation with the state Baden Württemberg, Catalonia and Lombardy have been able to expand their economic lead over more impoverished regions of Spain and Italy, which has spurred their respective regional elites to seek to halt their financial contributions for federal reallocations through greater autonomy or even secession. The consequences of deliberate cooperation - not with foreign nations - but only with prosperous regions, can be seen with Yugoslavia.
\"Strong Germany, Strong Antwerp\"
Flanders, the Dutch-speaking region of Belgium, whose separatism has long been one of the strongest secessionist movements in the EU, is particularly benefiting from its close cooperation with Germany. The Federal Republic of Germany is the most important market for Flemish exports. €50 billion of Flanders\' €302.4 billion in total exports, last year, were to customers in Germany.[1] German investors are among the most important in the region. The port of Antwerp, Europe\'s second largest, after Rotterdam, is the centerpiece of German-Flemish economic relations. Its significance to Germany\'s export economy is demonstrated by the fact that, in 2015, nearly one third of the 214 million tons - 68 million tons - transshipped from the port had originated in or was shipped to Germany. Numerous German companies, for example, BASF and Bayer have invested billions in the Antwerp Port. Years ago, a representative of the Antwerp Port in the Federal Republic of Germany proclaimed that \"without a strong Germany, there can be no strong Antwerp.\"[2] Because the German economy is benefiting from the EU and the euro zone and is flourishing uninterruptedly, Flanders\' economy is also growing more strongly than its southern Belgium counterpart, Wallonia, oriented more on France. This is why the prosperity gap in Belgium is growing, fueling a secessionist drive.
\"Focused on Germany\"
Lombardy, Italy\'s most prosperous region also derives special benefit from its relations with Germany. With its nearly €40 billion trade volume, Germany is Lombardy\'s most important trade partner. Lombard companies are traditionally \"focused on cooperation with southern Germany,\" considered \"their gateway to northern and eastern Europe,\" according to experts.[3] Conversely, this region is German companies\' main point of departure for Italy. It absorbs approximately one third of the German exports entering the country. Of the approximately 3,000 German companies with subsidiaries in Italy, nearly half are settled in Lombardy. Top-ranking German companies, such as BASF, Bayer, Bosch, BMW, Deutsche Bank, SAP and Siemens, among others, have their Italian headquarters in or near Milan.[4] Unicredit, Italy\'s largest bank, which had absorbed Munich\'s Hypovereinsbank in 2005, is also based in Mil

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