Jugoinfo

(srpskohrvatski / italiano)

Report dalla Serbia in occasione del 18.mo della aggressione NATO

0) VOCE JUGOSLAVA e altri LINK
1) GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA
Report della Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta per Contropiano.org
2) 18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU (SRP)
3) 18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ (Komunisti Srbije)


=== 0: LINKOVI ===

VOCE JUGOSLAVA ★ JUGOSLAVENSKI GLAS / Program  28.III.2017  Programma  
18. godišnjice NATO bombardiranja. Izvještaj sa puta u Srbiju od 23. do 29. marta. Ivan i Andrea
18.mo Anniversario dei bombardamenti NATO. Relazione del viaggio in Serbia, dal 23 al 29 marzo. Ivan e Andrea

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Nećemo u alijansu koja nas je bombardovala (Igor MITIĆ | 24. mart 2017.)
Kod Železničkog mosta u Grdeličkoj klisuri obeleženo 18 godina od početka NATO bombardovanja SR Jugoslavije 1999. Vučić: Na svaku agresiju imaćemo jak i jasan odgovor...

Godišnjica Nato bombardovanja - Grdelica (Vranjska Plus, 24 mar 2017)

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Agresija NATO (SUBNOR, 23.3.2017)

Da se ne zaboravi (SUBNOR, 24.3.2017)

Zaječar:
Agresor ne moze da pobedi (SUBNOR, 25.3.2017)

Negotinska Krajina:
Mir je put u budućnost (SUBNOR, 25.3.2017)

Šumadija:
Školski čas o agresiji (SUBNOR, 27.3.2017)

Vranje:
Ubijali su i decu (SUBNOR, 27.3.2017)

Kuršumlija: 
Herojiski ćin sestre Radice (SUBNOR, 29.3.2017)
Uvek ćemo braniti otadzbinu (SUBNOR, 29.3.2017)

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Видео излагања са Конференције Де се не заборави, 18 година од НАТО агресије

(субота, 25 март 2017 09:21 | Нато агресија)

Конференција "Агресија НАТО 18 година после- где смо сада?" одржана је 23. априла 2017. године у Свечаној сали Дома војске у Београду. Конференција је окупила преко 250 учесника из Србије ( укључујући АП Косово и Метохију), Републике Српске, Црне Горе и српског расејања, као и велики број дипломата страних земаља у Србији. Скуп је започео минутом ћутања, чиме је одата почаст свим невино страдалим жртвама агресије. У наставку су излагања учесника.

Живадин Јовановић

Јелана Гускова

Ген. Миломир Миладиновић

Душан Чукић

Момчило Вуксановић

Проф др Жарко Павић

Јован Алексић

Проф Шеварлић

Марко Антић

Симо Спасић

Јован Радић - Косовски божури
Маја Арсић - Косовски божури


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GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA

Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta


La primavera ha fatto irruzione a Belgrado con una temperatura media di 25 gradi di giorno – molto meno di notte, come in ogni clima continentale che si rispetti. Sono giornate limpide e colorate da una splendida fioritura di violette, adatte a una campagna elettorale energica e aggressiva come è quella per le elezioni presidenziali in calendario il prossimo 2 aprile
Sono però anche i giorni dell'anniversario dell'inizio della aggressione della NATO (24 marzo 1999). Quella ferita non è rimarginata, nonostante il tempo passato, le ristrutturazioni di molti degli edifici bombardati, che fanno storcere il naso a chi non vuole dimenticare, e i nuovi rapporti politici, sociali e macro-economici instauratisi dopo il "cambio di regime". Le strade di Belgrado si sono riempite di insegne luminose in stile occidentale, la viabilità ha subito trasformazioni importanti – con la costruzione di nuove autostrade e spettacolari ponti sui fiumi Sava e Danubio, anche grazie all'imprenditoria cinese. I nuovi ponti non cancellano però dai cuori le immagini di quelli "colpiti e affondati" dalla NATO né di quelli occupati da migliaia di cittadini che, urlando slogan e ballando, in quella primavera del 1999 mostravano al mondo intero fieramente i cartelli con la scritta TARGET.
L'anniversario a Belgrado è celebrato nell'arco di un paio di giorni attraverso qualche conferenza con tema geopolitico e cerimonie in memoria dei caduti; la campagna elettorale potrebbe invece durare fino al 16 aprile, in caso di ballottaggio. L'opzione più probabile, e certamente la meno peggio da vari punti di vista, date le condizioni reali esistenti, è che vinca l'attuale primo ministro Aleksandar Vučić, che darebbe così il cambio al suo compagno di partito Tomislav Nikolić. Alle ultime elezioni politiche il loro Partito Progressista Serbo (SNS, una scissione moderata del Partito Radicale di Šešelj) ha incassato oltre il 48% dei voti. I due in tandem hanno gestito in questi anni la cosa pubblica e la collocazione della Serbia sulla scena internazionale con pacatezza ed equilibrio, riuscendo a garantire il posizionamento "centrale" del paese nella contesa sempre più dura apertasi tra Occidente e Federazione Russa: una contesa culminata con la guerra civile in Ucraina, che sotto numerosi aspetti assomiglia alla guerra – fratricida e imperialista assieme – che ha cancellato la Jugoslavia dalle carte geografiche tra il 1991 e il 2008 ed i cui strascichi permangono sotto forma di gravi tensioni e sfacciate ingerenze esterne. 

Non è questa la sede per approfondimenti sulla situazione in tutta l'area, ma per comprendere la precarietà quasi miracolosa dell'equilibrio serbo vanno richiamate le delicatissime situazioni esistenti nei paesi vicini. Nella FYROM (Macedonia di Skoplje), essendo fallito il progetto terrorista pan-albanese con la operazione di Kumanovo del maggio 2015, UE e NATO da molti mesi lavorano a rinfocolare lo scontro politico ed etnico cercando di imporre un governo socialdemocratico sostenuto dai secessionisti albanofoni al posto dell'attuale governo di impronta patriottica. In Montenegro, le stesse UE e NATO lo scorso ottobre hanno "coperto" l'ennesimo  "golpe bianco" del "presidente eterno", il camorrista Milo Djukanović, che ha inscenato una operazione mediatico-repressiva proprio nel giorno delle elezioni politiche, garantendo così la vittoria formale del blocco atlantista che sta portando il piccolo paese nella NATO contro la volontà della maggioranza della sua popolazione. In Bosnia-Erzegovina la Repubblica Srpska difende con i denti alcune prerogative di sovranità che in tutti i modi il regime semicoloniale, instaurato dopo gli Accordi di Dayton, le vuole sottrarre: principale tra tutti, anche in questo caso, è il diritto a non entrare a far parte della NATO contro la volontà del proprio popolo, anch'esso bombardato nel 1994-1996. 
Per quanto dunque riguarda la Serbia, il focolaio principale di crisi rimane ovviamente (lo è da 30 anni a questa parte) il Kosovo, che i paesi NATO hanno provato a strapparle a forza di atti militari e diplomatici unilaterali e illegali (1). Violenze, ingiustizie, provocazioni e polemiche non sono mai cessate dal giugno 1999 (momento della occupazione congiunta NATO-UCK del territorio) in poi, inclusa ovviamente la dichiarazione di indipendenza del 2008. Però sono adesso all'ordine del giorno nuovi passaggi simbolici dalla valenza potenzialmente lacerante, in particolare: la nuova decisione del "Parlamento" di Pristina di "nazionalizzare" i beni jugoslavi (ricordiamo la straordinaria ricchezza mineraria di quel territorio e tutte le infrastrutture industriali ad essa collegate) e l'annuncio della formazione di un "esercito del Kosovo" (fatto su misura, ovviamente, per la adesione alla NATO).

Ritornando dunque ai leader SNS, data la preoccupante situazione al contorno e globale, il loro equilibrio è apprezzato da tutti i soggetti internazionali: da Occidente – si pensi al gesto della visita di Vučić a Srebrenica – come da Oriente – visti i rapporti sempre più stretti, specialmente dal lato economico, con la Cina e ovviamente la Russia, con cui è stato stretto un accordo di partnership strategica nel 2014. In virtù di tale equilibrio, che potremmo definire opportunistico, gli anni del governo SNS sono stati finora contrassegnati dalla accumulazione di energie, anche economiche, nel segno ovviamente del nuovo corso liberista seguito al golpe dell'ottobre 2000.
Un orientamento liberista più acceso è propugnato dai candidati alla presidenza filo-occidentali: dall'ex "difensore civico" (ombudsman) Janković all’ex premier Živković ("Partito Nuovo"), dall’ex ministro degli Esteri Jeremić (di recente candidato a Segretario Generale dell’ONU, ma significativamente sgradito anche alla Russia) all’ex ministro dell’Economia Radulović, ed altri ancora. Tutti costoro erano però assenti dal Parlamento il giorno della visita della Rappresentante dell'UE Mogherini, a causa di una controproducente protesta che hanno voluto inscenare contro la sospensione della attività parlamentare in campagna elettorale. Nel Parlamento della capitale serba la Mogherini non ha trovato perciò applausi, come avrebbe voluto, bensì la sonora e plateale contestazione da parte dei deputati delle opposizioni di destra,cioè Dveri e il Partito Radicale con Vojslav Šešelj in testa. Dinanzi alla contestazione << Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile per l’UE >> (2). Allo stesso Šešelj il circo mediatico, evidentemente diretto da "spin doctors" assai professionali formatisi in chissà quali istituti anglosassoni, ha attribuito il ruolo di candidato per eccellenza della parte più apertamente anti-europeista e anti-occidentale dell'opinione pubblica; alle consuete scritte sui muri ed ai manifesti scoloriti affissi dai militanti si sono aggiunti in queste settimane molti manifesti patinatissimi e bene illuminati che ne espongono il faccione con insistenza. Oltre al provocatorio Šešelj, sul fronte nazionalista alle elezioni c'è il rappresentante di Dveri, Obradović, ed il debole candidato del partito DSS che fu di Koštunica – Popović.

La sinistra non presenta candidati. I socialisti (SPS e Movimento dei Socialisti) sono oramai da molti anni in coalizione con l'SNS e dunque appoggiano Vučić. La sinistra di classe doveva essere rappresentata da Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale), per la iniziativa civica "Il lavoratore non è merce": ma appena il 5 marzo con una dichiarazione pubblica rilasciata via YouTube Veselinović ha comunicato che "a causa delle condizioni impossibili" (spec. dal punto di vista economico) poste per la presentazione della lista e la partecipazione alle elezioni, doveva rinunciare alla competizione. È l'ennesima volta che le formazioni anticapitaliste sono tenute fuori dalle competizioni elettorali tramite tagliole burocratiche e finanziarie.

La UE si lagna della crescita dell'influenza russa in Serbia (3), ma ha poco da piangere sul latte versato essendo questo uno dei frutti di quanto ha essa stessa seminato nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Non si può dimenticare che la UE ha responsabilità non minori di quelle statunitensi nel determinarsi del disastro jugoslavo: proprio contestualmente al suo atto fondativo, il 17 dicembre 1991, a Maastricht, la allora Comunità Europea per diktat tedesco sacrificò l'unità jugoslava e con essa la pace nel continente (4). Il 23 dicembre successivo, come preannunciato a Maastricht, la Germania dichiarava unilateralmente e pubblicamente il suo riconoscimento delle repubbliche di Croazia e Slovenia, con effetto a partire dal 15 gennaio successivo; il 13 gennaio 1992 era però la Città del Vaticano a precedere tutti, riconoscendo la Croazia come stato indipendente, seguita due giorni dopo da tutti i paesi della UE.
Incontestabile fu dunque l'analisi di Slobodan Milošević, che dinanzi al “Tribunale ad hoc” dell'Aia, il 30 gennaio 2002 disse: << C'era un piano evidente contro quello Stato di allora [la Jugoslavia] che era, direi, un modello per il futuro federalismo europeo. >> Necessariamente, anche post-mortem Milošević rimane il convitato di pietra di ogni passaggio politico in Serbia, e quindi pure in queste elezioni. Proprio negli stessi giorni della visita della Mogherini, nell'altro anniversario marzolino – quello del giorno 11, quando nel 2006 il cadavere di Milošević fu ritrovato nella cella dell'Aia – a Belgrado la associazione SloboDA (che vuol dire "Slobo SI" ma anche "Libertà") ha presentato pubblicamente il testo "Anatomia di un assassinio giudiziario" (5), contenente tutta la documentazione forense e amministrativa che dimostra come all'interno del "Tribunale ad hoc" sia stato pianificato e realizzato l'omicidio dell'ultimo presidente jugoslavo, vittima della somministrazione intenzionalmente scorretta di un farmaco in grado di causare sbalzi di pressione esiziali per un cardiopatico.

In effetti in Serbia il nodo del "cambio di regime", dal colpo di Stato dell'ottobre 2000 alla uccisione di Milošević all'Aia nel 2006, rimane sotto traccia nella vita politica e nella coscienza popolare nonostante la disinformazione strategica impartita in dosi massicce da un sistema mediatico fortemente condizionato dai monopoli capitalistici. A Belgrado capita di trovare persone che ti dicono seriamente che "Milošević in realtà fu portato a Mosca di nascosto ed è ancora vivo"... ultima favola giornalistica dopo altre surreali bufale, come quella di "Tito agente del Vaticano".
Ancora più chiaro di Milošević nel giudizio sull'Europa è stato solamente il grande drammaturgo tedesco Peter Handke: << Per me la Jugoslavia era l'Europa... La Jugoslavia, per quanto frammentata sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa come è adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue zone di libero scambio, ma un posto in cui nazionalità diverse vivono mischiate l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia, anche dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come io la vorrei. Perciò, in me l'immagine dell'Europa è stata distrutta con la distruzione della Jugoslavia. >> (6) Questo è l'epitaffio che campeggia sulla tomba del progetto europeo sin dal 1991, e che i manifestanti del 25 marzo a Roma, dopo tante inequivocabili ulteriori verifiche (basti pensare ai casi ucraino o greco) potrebbero fare proprio con pieno diritto.


NOTE:

1) La Risoluzione ONU 1244 del 1999, con cui si è conclusa la aggressione NATO, sulla carta ribadisce la sovranità della Serbia sulla provincia del Kosovo-Metohija.

2) G. Vale: Serbia: il premier sogna da presidente (Affari Internazionali, 15/03/2017)
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3860

3) L'Unione Europea teme la crescita dell'influenza russa in Serbia (Sputnik News, 20.03.2017)
https://it.sputniknews.com/mondo/201703204225158-unione-europea-russia-serbia-conflitti-balcani/

4) La cinica trattativa è stata raccontata anche Gianni De Michelis, che vi partecipò (Si veda ad es. Limes n.3/1996. Di essa rimane anche traccia formale nel documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992.

5) Il libro "Anatomija sudskog ubistva" è in corso di traduzione a cura di Jugocoord Onlus, che su questi temi sta per lanciare una serie di attività concordate con SloboDA.

6) Intervista al giornalista televisivo tedesco Martin Lettmayer, gennaio 1997.

Sul tema delle responsabilità europee in Serbia si consiglia anche la lettura di
A. Martocchia: Nessuna Europa senza la Jugoslavia (su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011)


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18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU

Danas 24. marta, navršava se 18 godina od početka brutalne NATO agresije na SR Jugoslaviju, odnosno Srbiju i Crnu Goru, koja je trajala punih 78 dana. Sama agresija pokrenuta je mimo svih dotadašnjih normi međunarodnog prava, povelje UN-a, završnog dokumenta iz Helsinkija o evropskoj sigurnosti i suradnji pa i do tada važećih NATO akata koji su Sjevernoatlantski savez definirali kao obrambeni sistem.

Iako je NATO agresija na SR Jugoslaviju predstavljala presedan po nekoliko osnova, ona je ipak proizvod jedne politike koja si želi uzurpirati pravo dominacije u svijetu i upravljanja iz jednog centra moći.

Agresija koju je tzv. međunarodna zajednica, a ustvari grupa najbogatijih zemalja svijeta na čelu sa SAD-om i NATO, izvršila u proljeće 1999. godine na SRJ, bila je u svojoj biti sastavni dio borbe za prostor koja je krenula nakon tektonskih društveno-političkih procesa 90-ih godina prošlog stoljeća, a kojima je cilj bio prodor krupnog kapitala na Istok i osvajanje novih teritorija.

Tim prodorom je kapitalizam, koji se našao u dubokoj krizi 80-ih godina prošlog stoljeća, ostvario svoja tri cilja i odgodio svoj silazak s društvene scene i odlazak u povijest za jedan nedefinirani vremenski period.

Ciljevi koje je kapitalizam postigao su:

- ekonomski

- politički

- vojni

 

EKONOMSKI cilj sastojao se od:

Osvajanja novih tržišta.

Preuzimanja infrastrukture, sirovinske i financijske baze novoosvojenih područja.

Dobivanja jeftine radne snage, bilo postojeće u zemljama u koje su transferirali kapital ili one imigrantske u vlastitim zemljama.

POLITIČKI cilj sastojao se od:

Eliminacije socijalizma u Evropi i samoupravljanja u Jugoslaviji.

VOJNI cilj sastojao se od:

Prodora na Istok s krajnjim ciljem približavanja i opkoljavanja Rusije i Kine. I taj proces još traje.

Agresija na SRJ 1999. godine, osim što je bila dio opće strategije osvajanja prostora, na način kako je izvedena po svojoj brutalnosti imala je i zadatak kažnjavanja neposlušnog protivnika.

Naime, dinamika prodora u istočnoj Evropi bila je za nosioce imperijalne težnje zadovoljavajuća, jer su u zemljama bivšeg socijalističkog bloka lako pronašli suradnike među političkim elitama za rušenje dotadašnjeg društveno-političkog uređenja, koji su time vlastiti narod i materijalne resurse predali globalnom krupnom kapitalu.

Problem je nastao na jugoslavenskom prostoru. Posebno nepoželjan imperijalističkim krugovima bio je njen model samoupravnog socijalizma kao primjer emancipatorske prirodne pozicije rada u društvu i dostojanstva radnika koji bi bili u stanju upravljati vlastitim sudbinama uz pun državni suverenitet.

U procesu koji je dirigiran izvana, a realiziran iznutra, predani smo na milost i nemilost svjetskim moćnicima pri čemu su vodeću ulogu odigrale secesionističke republike Slovenija i Hrvatska, a po domino efektu slijedile Bosna i Hercegovina i Makedonija, bez iole racionalne potrebe koja bi imala pokriće u ekonomskoj ili nekoj drugoj logici. Jedinu prepreku osvajanju kompletnog  prostora i dominacije nad njim, predstavljala je tadašnji ostatak nekadašnje države, SR Jugoslavija, koja je, iako s tada već promijenjenim društveno-političkim uređenjem, percipirana kao zadnji bastion na putu imperijalističkim moćnicima i zbog toga ju je trebalo kazniti. Da se radi o kažnjavanju razvidno je već iz činjenice da je međunarodna zajednica primjenjivala različite kriterije za pojedine republike i narode bivše Jugoslavije, što je bilo dozvoljeno jednima, nije bilo dozvoljeno drugima, a to je zavisilo od stupnja koncilijantnosti lokalnih oligarhija naspram svjetskih moćnika.

Uslijedila je brutalna agresija NATO snaga koje nisu nanijele SRJ relativno velike vojne gubitke usprkos širini kampanje i činjenici da je omjer snaga izražen u ljudstvu i vojnoj opremljenosti između agresora i napadnutih bio do tada nezabilježen u vojnoj praksi. Iako su vojni gubici SRJ bili relativno mali, zato su oni civilni i materijalni bili vrlo visoki. Uništavana je infrastruktura i ekonomska supstanca zemlje primjenom najsofisticiranijih sredstava koja nemaju nikakvo vojno opravdanje, već su namijenjena materijalnom razaranju civilnih i privrednih objekata, često s katastrofalnim učincima.

Prvi su put upotrijebljene grafitne bombe, a vrhunac brutalnosti postignut je upotrebom municije s osiromašenim uranom koja trajno kontaminira prostor u kojem žive ljudi, a o apsurdu upotrebe tih sredstava svjedoči činjenica o velikom broju stradalih pripadnika agresorskih jedinica koje su rukovale tom municijom.

Presedan, par excellence, učinjen je sada već prema državi Srbiji otimanjem dijela njenog teritorija mimo svih međunarodnih pravnih normi i instaliranjem imperijalističkog protektorata na Kosovu i Metohiji s najvećom NATO vojnom bazom u ovom dijelu svijeta. Tim činom stvorena je jedna umjetna kvazidržavna tvorevina bez vlastite privrede od koje bi njeni građani živjeli, ali s velikim i vrijednim mineralnim resursima, koju nije priznao veliki broj zemalja u svijetu, a čija je osnovna namjena biti odskočna daska SAD-a i NATO-a na putu prema Kaspijskom bazenu. Ta je teza potvrđena 2008. kad su SAD i NATO stojeći jednom nogom na Kosovu i Metohiji pokušali drugom nogom zakoračiti na Kavkaz, što im, na sreću, nije uspjelo. Kasnija događanja u Ukrajini i ona recentna u baltičkim zemljama potvrđuju namjere SAD-a u širenju utjecaja prema Rusiji, ne prežući pritom od suradnje s eksplicite fašističkim subjektima.

Od agresije je, eto, proteklo 18 godina, ali posljedice su još prisutne, prvenstveno one zdravstvene kao posljedica trajno kontaminiranog tla od upotrebe radioaktivne municije. Ali i sam proces porobljavanja još traje. On se finalizira, ovaj put ne vojnim sredstvima, s ciljem da se žrtva ponizi i uvuče u interesni krug svojih tlačitelja – EU i NATO. Na raspolaganju je široki spektar metoda: od honoriranja oligarhije, obećanja za jednokratnu upotrebu, uvjeravanja, ucjena, podmetanja i slično.

Doprinos agresiji odradile su i bivše republike SFRJ, pa i Hrvatska, dozvolivši agresorskim snagama korištenje zračnog prostora za avione koji su polijetali iz NATO baze u Avianu. Dio neiskorištenih bojnih punjenja ti su avioni na povratku istresali u Jadransko more da bi se oslobodili prije slijetanja.

Aviano je tih dana svjedočio i plemenitoj strani ljudskog uma. Cijelim tokom bombardiranja tamo su se održavale vrlo organizirane masovne proturatne demonstracije na dnevnoj bazi, pretežno mladih ljudi pristiglih iz svih dijelova Italije i Evrope. Broj prisutnih znao je vikendom prelaziti brojku od 25.000 ljudi. Socijalistička radnička partija je, kao jedini politički subjekt iz Hrvatske, u organizaciji i suradnji s našim drugovima iz Rifondazione Comunista dva puta učestvovala u demonstracijama i to 17. aprila i zadnji vikend prije prestanka agresije. Tom je prilikom u demonstracijama uzeo učešće i osnivač i tadašnji predsjednik SRP-a dr. Stipe Šuvar.

 

Vladimir Kapuralin



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18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ


Комунисти Србије никада неће заборавити злочиначку агресију НАТО пакта на чијем челу су САД и водеће земље ЕУ који сви заједно представљају ударну песницу крупног капитала који изграђује нови светски поредак. 24. Марта 1999.године НАТО пакт је по први пут изашао из својих до тада прокламованих начела да никада никога не напада без сагласности СБ УН.

Током агресије уз ангажовање 19 чланица НАТО алијансе, убијено је око 3.500, а рањено 12.500 грађана. Од тога, према званичном, објављеном списку, у редовима војске и полиције погинуло је 1.008 бораца, од којих 659 војника и 349 полицајаца. Ракетама и бомбама НАТО оштећено је 25.000 кућа и стамбених зграда и уништено 470 километара путева и 595 километара железничких шина. Оштећено је 14 аеродрома, као и 19 болница, 20 домова здравља, 18 вртића, 69 школа, 176 споменика културе и 44 моста, док је још 38 мостова било потпуно уништено.Потпуно је разорио 7 индустријских и привредних објеката, 11 енергетских постројења, 28 радио и ТВ-репетитора, 29 манастира и 35 цркава. Изведено је 2.300 налета у нападима на 995 објеката по Србији, док је 1.150 борбених авиона испалило скоро 420.000 пројектила укупне масе од 22.000 тона. НАТО је испалио 1.300 крстарећих ракета, бацио 37.000 касетних бомби које су убиле око 200 људи и повредиле још неколико стотина.

Коришћени су пројектили пуњени осиромашеним уранијумом који трајно угрожава земљиште, воду и ваздух, улази у ланац исхране и изазива далекосежне последице по здравље људи и живих бића уопште. Србија је током бомбардовања засипана и другим отровима а контаминацији су допринела и оштећења индустријских постројења. Дејство загађивача резултирало је чињеницом  да је данас Србија прва у Европи по броју оболелих и умрлих од малигних болести у дечијем узрасту. Ово је био тихи атомски рат, чије последице ћемо сагледати за 600 година.

Уништена је једна трећина електроенергетских капацитета у земљи, бомбардоване су две рафинерије нафте, у Панчеву и Новом Саду, а снаге НАТО употребиле су први пут и такозване графитне бомбе нарушавајући функционисање електроенергетског система. НАТО је свесно лишавао снабдевања струјом домаћинства, болнице, породилишта, дечје вртиће, пекаре…

Комунисти Србије ће се и даље борити против поданичких власти у Србији који подржавају прикључење ЕУ и Евроатланским интеграцијама. Наглашавамо да је капитализам у овој фази узрочник НАТО агресије и свих досадашњих ратова и криза у свету.

КОМУНИСТИ СРБИЈЕ





Caldarola (MC), 31 marzo 2017
alle ore 20 presso la Tensostruttura comunale nella zona industriale

Cena Resistente 73° Anniversario Eccidi di Montalto e Piobbico

Resistenza, memoria e difesa del territorio

L’edizione della “cena resistente” di quest’anno sarà realizzata dalle sezioni Anpi Sarnano e Caldarola. 

L’evento, che cade nel periodo degli anniversari nazifascisti di Montalto (22 marzo) e Piobbico (29 marzo), si svolgerà presso la tensostruttura comunale nella zona industriale di Caldarola. 

Dopo la cena di autofinanziamento, il cui ricavato servirà per la realizzazione della “Marcia della Memoria” Caldarola-Montalto e per progetti di ‘ricostruzione’ della memoria, avrà luogo un dibattito aperto su ‘Resistenza, memoria e difesa del territorio’. 

Ci saranno i contributi di Lorenzo Marconi, presidente provinciale dell’Anpi Macerata, Franco Fabi dell’Anpi intercomunale Visso-Castelsantangelo sul Nera, Susanna Angeleri del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) e la presentazione di ‘Terre in moto’ Marche, “una rete di realtà sociali, associazioni e semplici cittadini che ha intrapreso un percorso collettivo che vuole intervenire sulle problematiche legate al terremoto andando oltre i singoli ambiti comunali”.

L’appuntamento è per venerdi 31 marzo a partire dalle ore 20.00.


Info:
Pagina Fan: https://www.facebook.com/anpi.sarnano/
Email: anpisarnano @ gmail.com



(deutsch / italiano)

Siehe auch:
"Freiheitskämpfer" in Riga (Waffen-SS-Gedenken in Lettland – GFP 15.3.2017)
RIGA/BERLIN (Eigener Bericht) - Öffentliche Gedenkveranstaltungen für Einheiten der Waffen-SS in dieser Woche in Riga stoßen international auf Protest. Am morgigen Donnerstag wird in der lettischen Hauptstadt die alljährliche Gedenkprozession zur Ehrung der lettischen Waffen-SS-Divisionen stattfinden. Als Teilnehmer werden neben den letzten noch lebenden Veteranen auch Aktivisten heutiger ultrarechter Organisationen erwartet. Vor mehreren lettischen Botschaften und Konsulaten unter anderem in Deutschland, Italien und Griechenland sind für den heutigen Mittwoch Protestkundgebungen angekündigt worden. Die lettische Waffen-SS war ein Produkt lettischer NS-Kollaborateure, die umfassend am Holocaust beteiligt waren. Von den rund 70.000 lettischen Juden, die sich beim Einmarsch der Wehrmacht noch in Lettland aufhielten, überlebten weniger als 1.500 das Terrorregime der Deutschen und ihrer Kollaborateure. Das morgige Gedenken geht auf eine Organisation namens "Daugavas Vanagi" ("Habichte der Düna") zurück, die nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs geflohene Waffen-SS-Veteranen versammelte und den westlichen Mächten für Zwecke des Kalten Kriegs zur Verfügung stand...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59561

Vedi anche:
In Lettonia si festeggia la giornata del legionario nazista (PTV news 17 Marzo 2017)



Riga: la sfilata annuale degli ex legionari lettoni delle SS


di Fabrizio Poggi, 17 marzo 2017

Sono finiti in manette ieri a Riga i giovani che, in lingua russa, avevano osato gridare “Vergogna Lettonia; il fascismo non passerà”, di fronte al corteo che ogni anno, il 16 marzo, celebra i legionari lettoni delle Waffen SS. La data ricorda il primo scontro dei reparti lettoni delle SS (15° e 19° Divisioni Granatieri) contro l'Armata Rossa, nel 1944. 

La Lettonia si difende in questo modo dalla “aggressione” russa e spiega ai più piccoli il pericolo che potrebbe venire da est, insegnando la “Difesa dello stato” – educazione patriottica e preparazione paramilitare – materia scolastica introdotta in seguito alla “annessione della Crimea”. Per i più grandi, la speaker del Saeima per il Nacionālā apvienība (Unione nazionale, il cui simbolo è di per sé un programma)Ināra Mūrniece, propone di reintrodurre il servizio militare obbligatorio, cui però si oppongono (ma solo per motivi di bilancio, o per la paura che i giovani emigrino, pur di evitarlo) Presidente, Ministro della difesa e Comandante in capo, nonostante insistano anch'essi sul “pericolo russo”. Si è arrivati al punto di dichiarare che la naja servirebbe gli interessi russi, indebolendo l'esercito professionale (circa 6.000 uomini) e la Zemessardze, la difesa territoriale (8.000 uomini). 

La stessa Ināra Mūrniece, intervenendo ieri alla cerimonia commemorativa delle SS al cimitero militare di Lestene (80 km a sudovest di Riga) ha dichiarato che i legionari SS andarono in battaglia per “sgominare il bolscevismo, nella speranza di sconfiggere entrambi gli eserciti occupanti” (lo stesso argomento usato dai neonazisti ucraini che si rifanno a Stepan Bandera) “come avevano fatto nella guerra di indipendenza del 1918-1920, allorché i lettoni respinsero sia i bolscevichi, che i nazisti”, i quali ultimi, per le cronache, non erano ancora comparsi.

Ma, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, le fobie che dettano tali misure e altre già adottate ad esempio in Lituania, potrebbero in egual misura scoraggiare i tanto attesi investimenti occidentali. Tant'è che, ad esempio, il sindaco della città portuale di Ventspils, 200 km a nordovest di Riga, Ajvar Lembergs, aveva già avuto da ridire sulle prese di posizione della passata amministrazione USA a proposito della “linea del fronte che passa per la Lettonia”: pensiamo davvero, aveva detto Lembergs “che un investitore voglia gettare risorse in un territorio prossimo alla linea del fronte?”. Non a caso, il 23% dei lettoni, contro le pretese dei circoli russofobi, avrebbe voluto Lembergs alla guida del governo, sopravanzando nei favori addirittura il sindaco di Riga Nils Ušakovs, appoggiato dalla forte minoranza russofona lettone, in gran parte esclusa dal diritto di voto nella Lettonia membro della UE.

In un modo o in altro, sembra comunque che il passato collaborazionista torni regolarmente a far capolino nei Paesi baltici, con le parate annuali di Riga e Sinimaee, in Estonia. E a poco servono gli “argomenti” secondo cui i legionari baltici sarebbero stati costretti a indossare l'uniforme nazista per difendere il proprio paese: combattendo contro l'Armata Rossa, liberavano forze naziste per le necessità di sterminio nei campi di Salaspils (20 km a sudest di Riga) o Klooga (40 km a sudovest di Tallin); tanto più che, come nota l'agenzia Regnum, i legionari non prestavano giuramento al proprio paese, ma direttamente a Adolf Hitler. 

E ugualmente serve a poco la “giustificazione” per cui i legionari lettoni non ricadono sotto le sentenze del tribunale di Norimberga, dato che, nonostante il loro status formalmente volontario, non avrebbero avuto la possibilità di sottrarvisi. Le stragi di almeno 12mila civli lettoni (di cui 2.000 bambini) e le distruzione di centinaia villaggi in Russia, Bielorussia e Polonia a opera di battaglioni lettoni delle SS, impiegati nelle attività antipartigiane dell'operazione “Magia invernale”, non sembrano un solido argomento a sostegno delle dichiarazione adottata nel 1998 dal Saeima lettone: "L'obiettivo dei militari richiamati e di quelli che volontariamente aderirono alla legione era quello di difendere la Lettonia dalla restaurazione del regime stalinista. Essi non presero mai parte alle azioni punitive hitleriane contro la popolazione civile". Nel 1944-'45, come ricorda un ampio servizio di Argumenty i Fakty, i terroristi del “Comando Arajs” di polizia ausiliaria si occuparono dell'eliminazione di ebrei lettoni – da 26mila a 60mila, a seconda delle fonti – e anche questo difficilmente permette di considerare i membri volontari della legione lettone “vittime delle circostanze”, come si tenta di presentarli oggi in Lettonia. 

Sono centinaia i collaborazionisti, sfuggiti 70 anni fa alla giustizia sovietica, rifugiati a ovest e utili alle manovre della guerra fredda, poi rientrati in patria dopo la fine dell'Urss. Ma perché su di loro, nota Argumenty i Fakty, sulle loro sfilate e celebrazionil'occidente chiude tutti e due gli occhi? Perché tali reparti di SS non ci furono solo nei Paesi baltici o in Ucraina: ce ne furono in Olanda, Danimarca, Norvegia, Belgio, Finlandia, Svezia, Francia e in altri paesi europei.

E' così che oggi, da Riga, Tallin o Vilnius, mentre non si rinnega tale passato e anzi lo si esalta, con la partecipazione ai cortei dei veterani anche di massimi esponenti governativi (a titolo individuale, per carità!), non si hanno remore a pretendere “compensazioni” in milioni di euro non dagli eredi degli ex camerati, ma dalla Russia, “erede della occupazione sovietica”.

Io ho vissuto l'occupazione e so cosa significhi”, ha dichiarato qualche giorno fa il primo ministro estone Juri Ratas incontrando a Bruxelles il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e riferendosi alla odierna “occupazione russa” dell'Ucraina e alla necessità di “ristabilire l'integrità territoriale di Moldavia e Georgia”. Se è chiara la sua posizione geopolitica, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, è però il caso di ricordare come suo padre, Rejn Ratas, durante “l'occupazione sovietica” – terminata, bisogna ricordarlo, nel 1991, quando Juri Ratas aveva 13 anni – sia divenuto uno degli scienziati più affermati del paese, le cui centinaia di pubblicazioni e volumi sono oggi disponibili in ogni biblioteca russa.

Ora, dunque, lo scorso novembre Juri Ratas è diventato leader del Partito di Centro (sostenuto da moltissimi russi di Estonia), capovolgendo la precedente politica di buon vicinato con Mosca condotta dal suo predecessore e sindaco di Tallin, Edgar Savisaar, politica che aveva relegato il partito fuori del governo, nonostante i successi elettorali. Adottando la nuova politica, il Partito di Centro è stato immediatamente ammesso al governo e Ratas nominato primo ministro. 

E' così che va, nella UE “a due velocità”, non solamente economiche, quando a Bruxelles si ritiene, alla maniera di Heinrich Böll, che “nei momenti decisivi bisogna essere primitivi e barbari”.

 

(deutsch / italiano)

Europa nucleare

0) INIZIATIVE 
– 28 Aprile a Quirra e dappertutto contro le basi militari e la guerra
– 19 Marzo manifestazione ad Augusta: NO DYNAMIC MANTA
– Appello dal convegno di Prato (2016) e bozza di mozione da proporre
1) Il riarmo delle testate nucleari tedesche potrebbe trasformarsi in una tragedia nazionale (di Rudolph Herzog, 10 marzo 2017)
2) Nuovi articoli di Manlio Dinucci, da Il Manifesto:
– Il grande gioco nucleare in Europa (14.3.2017)
– Colpo di sonno nucleare (28.2.2017)
– Due minuti e mezzo alla Mezzanotte (7.2.2017)
3) La posizione del CNGNN sulle armi nucleari in Italia e sulla Risoluzione presentata dall’On. Manlio Di Stefano et al. (15 marzo 2017)


ALTRI LINK:

Violazioni del Trattato INF: “E’stato Putin ancora una volta” (PandoraTV, 10 Marzo 2017)

Auf Augenhöhe (II) (Berlin sieht sich auf Augenhöhe mit Washington, strebt nach Zugriff auf Atomwaffen – GFP 20.02.2017)
Auf der Münchner Sicherheitskonferenz hat die Bundesregierung sich am Wochenende zum ebenbürtigen Verbündeten "auf Augenhöhe" mit den Vereinigten Staaten stilisiert. Die Bundeskanzlerin sowie mehrere Minister haben gegenüber der US-Administration Bedingungen für eine künftige Zusammenarbeit formuliert und ein "stärkeres Europa" in Aussicht gestellt, das Außenminister Sigmar Gabriel zufolge auch eigenständig in der Lage sein müsse, "mit der Realität der Krisen und Kriege außerhalb der Europäischen Union ... erfolgreich umzugehen". Entsprechende Aufrüstungsschritte werden vorbereitet; die Kanzlerin hält eine Erhöhung des Militäretats um rund acht Prozent pro Jahr für möglich. Zudem schreitet die Debatte über deutsch-europäische Nuklearwaffen voran; Publizisten bringen die Option ins Spiel, Berlin könne sich per Kofinanzierung des französischen Atomwaffenarsenals eine Teilkontrolle über die Force de Frappe sichern. Weil die Aufrüstung ebenso wie die Sicherung des Zugriffs auf Atomwaffen Zeit kosten, setzt Berlin zumindest vorläufig noch auf das Bündnis mit Washington...


=== 0: INIZIATIVE ===

28 APRILE UNITI CONTRO LE BASI MILITARI E LA GUERRA

Anche quest’anno, in concomitanza con la ripresa delle esercitazioni militari in Sardegna, il movimento che lotta e si oppone alla presenza militare, contro le basi e la militarizzazione, contro la guerra, si prepara ad organizzare per il 28 APRILE un corteo al PISQ (Poligono Interforze del Salto di Quirra).
Il Poligono di Quirra oltre ad essere la palestra di tanti eserciti, è anche luogo di sperimentazione per i colossi dell’industria bellica, a partire dall’italianissima Finmeccanica, che da anni è ospite fissa del poligono e di altre industrie come la Piaggio Aerospace e l’Alenia.
L’Italia è in prima fila, come parte integrante sia dell’Unione Europea che della NATO, nella partecipazione alla guerra imperialista che mai come in questo momento si manifesta con tutte le sue conseguenze negative sul piano sociale ed economico nel nostro paese.
Guerra imperialista significa adesione al progetto di un nuovo colonialismo e ad una nuova spartizione del mondo per la conquista di nuovi mercati, appropriazione di risorse energetiche, imposizione dell’ordine capitalistico, che si traduce ‑ al tempo stesso ‑ per milioni di persone, in distruzione, miseria sociale ed ambientale.
Negli stessi paesi promotori della guerra, il militarismo si avvale del sostegno dell’apparato industriale militare e di una  gestione autoritaria della crisi attraverso una presenza militare ‑ sempre più visibile ‑ nei territori a garanzia di controllo e deterrente dei conflitti sociali e dei flussi migratori (generati dall’impoverimento di intere aree e dalle guerre in corso) che le politiche, di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, producono.
Anche l’apparato ideologico, attraverso la scuola e la formazione,  diventa strumento da una parte di consenso e dall’altra di controllo. Stiamo assistendo – difatti ‑ ad un intervento sempre più organico ‑ all’interno degli atenei ‑ degli apparati sia militari che industriali sotto forma di corsi di studio e progetti legati a finalità belliche sia dal punto di vista produttivo che di formazione di figure, spacciate come civili, di intermediazione sociale nelle situazioni di conflitto. In questo senso a Milano l’Università Politecnico ha siglato un accordo con il colosso industriale della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, Leonardo-Finmeccanica.
Il sostegno a quelle iniziative di lotta che indeboliscono il normale svolgersi delle politiche militari all’interno degli Stati dei principali promotori della guerra, USA ed UE, oltre che essere da sostegno alle Resistenze che combattono contro l’aggressione imperialista, rafforzano anche nei nostri territori quelle lotte per i bisogni concreti della popolazione, dal lavoro alla casa alla salute, e aprono spazi perché si sviluppi un fronte comune di lotta al razzismo e all’autoritarismo per una società liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
Anche per queste ragioni, nella stessa giornata del corteo in Sardegna al Poligono di Quirra, diventa significativo organizzare per il 28 APRILE anche nei nostri territori iniziative di informazione e di lotta contro la “guerra del capitale”.
Invitiamo tutti al confronto e alla partecipazione per cominciare a ridare voce e corpo in questa metropoli ad una opposizione alla guerra.



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NO DYNAMIC MANTA, STOP AI WAR GAMES USA E NATO IN SICILIA! 
Presidio ad Augusta, domenica 19 marzo ore 10:30
c/o Via Darsena – ingresso base navale MM (banchina Tullio Marcon)
di Coordinamento Regionale Dei Comitati No Muos
Per adesioni: comunica@... / Coordinamento regionale dei comitati No Muos
http://www.nomuos.info/war-games-usa-e-nato-in-sicilia-no-grazie/
Tra le unità navali impiegate, a preoccupare maggiormente è la presenza di sottomarini a propulsione nucleare, già partecipanti all’edizione dello scorso anno...
Al via Dyma 2017: la NATO si esercita alla guerra nel mare siciliano (La Riscossa | lariscossa.com, 12/03/2017)


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APPELLO DEL CONVEGNO «IL RUOLO DELLA NATO NELLA GUERRA MONDIALE A PEZZI»

Il Convegno – promosso da Pax Christi Italia, Mosaico di pace, Comi-tato No Guerra No Nato, Comunità Le Piagge, Unione Suore Domeni-cane San Tommaso D’Aquino – si è svolto l’11 giugno 2016 nel Complesso S. Niccolò a Prato. 



NO ALLE BOMBE NUCLEARI IN ITALIA
APPELLO DA SOTTOSCRIVERE E DIFFONDERE 

Sono in fase di sviluppo negli Stati Uniti – documenta la U.S. Air Force – le bombe nucleari B61-12, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Italia e altri paesi europei.

La B61-12 – documenta la Federazione degli scienziati americani (Fas) – non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma nucleare: ha una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, con una potenza media pari a quella di quattro bombe di Hiroshima; un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo; la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando in un attacco nucleare di sorpresa.

Le B61-12, che gli Usa si preparano a installare in Italia, sono armi che abbassano la soglia nucleare, ossia rendono più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese e lo espongono quindi a una rappresaglia nucleare.

Secondo le stime della Fas, gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180. Nessuno sa però con esattezza quante effettivamente siano le B-61, destinate ad essere sostituite dalle B61-12. 

Foto satellitari – pubblicate dalla Fas – mostrano che, per l’installazione delle B61-12, sono già state effettuate modifiche nelle basi di Aviano e Ghedi-Torre. 

L’Italia, che fa parte del Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, mette a disposizione non solo il suo territorio per l’installazione di armi nucleari, ma – dimostra la Fas – anche piloti che vengono addestrati all’attacco nucleare con cacciabombardieri italiani sotto comando Usa.

L’Italia viola in tal modo il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, firmato nel 1969 e ratificato nel 1975, che all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». 

Chiediamo che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e, attenendosi a quanto esso stabilisce, chieda agli Stati uniti di rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari. 

Liberare il nostro territorio nazionale dalle armi nucleari, che non servono alla nostra sicurezza ma ci espongono a rischi crescenti, è il modo concreto attraverso cui possiamo contribuire a disinnescare l’escalation nucleare e a realizzare la completa eliminazione delle armi nucleari che minacciano la sopravvivenza dell’umanità. 


BOZZA DI MOZIONE DA PROPORRE AI PARLAMENTARI E AI RAPPRESENTANTI IN ENTI LOCALI

CONSIDERATO che – secondo i dati forniti dalla Federazione degli Scienziati Americani (FAS) – gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180.

CONSIDERATO che – come documenta la stessa U.S. Air Force – sono in fase di sviluppo negli Stati Uniti le bombe nucleari B61-12, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Europa. 

CONSIDERATO che – come documenta la FAS – la B61-12 non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma nucleare, con un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, con capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando in un attacco nucleare di sorpresa. 

CONSIDERATO che foto satellitari, pubblicate dalla FAS, mostrano le modifiche già effettuate nelle basi di Aviano e Ghedi-Torre per installarvi le B61-12. 

CONSIDERATO che l’Italia mette a disposizione non solo il suo territorio per l’installazione di armi nucleari, ma anche piloti che – dimostra la FAS – vengono addestrati all’uso di armi nucleari con aerei italiani.

CONSIDERATO che l’Italia viola in tal modo il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, firmato nel 1969 e ratificato nel 1975, il quale all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». 

I PROPONENTI CHIEDONO al Governo di rispettare il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari e, attenendosi a quanto esso stabilisce, far sì che gli Stati Uniti rimuovano immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinuncino a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari. 


PER CONTATTI:
Coordinatore nazionale del CNGNN, Giuseppe Padovano
cell. 393 998 3462
e-mail:  giuseppepadovano.gp @ gmail.com


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E ora anche la Germania pensa a costruire l’atomica

Tempi di crisi, di rotture; alcune lente, altre velocissime. Dopo dieci anni di crisi economica globale, che hanno avuto il loro epicentro negli usa e in Europa, "la politica" non appare più in grado di gestire alcunché. "Il mercato" ha da tempo spossessato gli Stati di buona parte dei loro strumenti strategici per concentrarli in istituzioni sovranazionali inattingili alla volontà delle popolazioni, am permeabilissime alle istanze del grande capitale, soprattutto finanziario. 

In un quadro di crisi degli assetti geostrategici – in particolare dopo il voto per la Brexit e l'elezione di Trump alla presidenza Usa – le vecchie alleanze sembrano molto meno solide. Quasi improvvisamente.

Inevitabile, in questo quadro, che le potenze regionali si scoprano militarmente deboli, davanti a "protettori" storici improvvisamente interessati da tutt'altri scenari. 

Ma se in un paese chiamato Germania si comincia a discutere pubblicamente della "necessità" di costruire armamenti nucleari "indipendenti", dopo 70 anni di tabù assoluto, è il caso di prendere atto che qualcosa di enorme si è rotto.

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Il riarmo delle testate nucleari tedesche potrebbe trasformarsi in una tragedia nazionale 

 

Il riarmo delle testate atomiche oggi, per la Germania, potrebbe mettere a rischio anche l'ordine mondiale.

Da “Foreignpolicy.com”, Rudolph Herzog, 10 marzo 2017

Traduzione e cura di Francesco Spataro

 

Dal 1945 ad oggi, nessuno si è più preoccupato dei passi compiuti dalla Germania circa la bomba atomica, ma questo atteggiamento è destinato a cambiare. I commentatori tedeschi, stanno dibattendo da alcuni giorni, se il Paese si debba dotare di nuovo di armi nucleari oppure no. Il più importante quotidiano berlinese, “Der Tagespiel”, ha dato il via alla discussione sulla sua piattaforma online, due mesi dopo le elezioni USA, pubblicando un cosiddetto “articolo d’opinione”, in cui si sosteneva che il Presidente Donald Trump aveva intenzione di chiudere di scatto l’ombrello nucleare della NATO, e che l'unico modo di controbattere le minacce russe percepite era dunque quello di rendersi più indipendenti. 

Ma la via a questa “indipendenza”, richiederebbe, un deterrente nucleare tedesco. “Ne va dei nostri interessi fondamentali,” sostiene il politologo Maximilian Terhalle; e continua: “Le circostanze così vitali potrebbero voler dire che Berlino, non dovrebbe ricevere alcun consenso, sulla materia, da parte degli altri 27 membri della Unione Europea.”

Proprio a febbraio, “Die Ziet”, rispettabile settimanale del Paese, ha compiuto un supplemento di indagine, con un articolo che terminava con un duro e spiacevole avvertimento: la Germania potrebbe ignorare il cambiamento dei tempi, oppure investire velocemente nella “Force de Frappe”, o “Forza d'urto”, la forza di dissuasione nucleare francese.

Infranto un tabù di lunga data e con i vari Dottor Stranamore che si aggirano furtivamente fra i mass media nazionali, non c’è voluto molto tempo, prima che qualcuno condannasse queste dichiarazioni. Ottfried Nassauer, a capo del Centro Informazioni per la Sicurezza Transatlantica con sede a Berlino, in un pezzo su “Der Freitag”, un popolare settimanale, ha fatto risalire il concetto di un ordigno atomico tedesco a “un'ala conservatrice, nazionalista e di estrema destra… che soffre di manie di grandezza o si vuole solo divertire ad aprire il vaso di Pandora.” In realtà, alcune di quelle persone, che sono saltate fuori evocando una bomba tedesca (mascherandola debolmente con il termine “Eurobomba”), sembra non abbiano aspettato altro, per sbattere l’idea fra la popolazione.

Con tutto questo dibattito in pieno svolgimento, dovrebbe tornarci alla mente il perché tutto ciò sia un'idea ridicola, e terribilmente pericolosa.

Tanto per cominciare, la Germania è firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare, o NPT, e sarebbe quindi illegale, per il Paese, acquisire la bomba. Se una Nazione così influente, all’improvviso si chiamasse fuori da un accordo ancora in vigore e che per quasi mezzo secolo è stato efficace, minerebbe la credibilità del NPT stesso, e sarebbe un esempio estremamente negativo. Altri Paesi potrebbero seguire velocemente questa pratica, scegliendo l’opzione di rinuncia per acquisire la bomba. Nonostante l’Iran sia un ovvio candidato, vicini amici degli Stati Uniti potrebbero sostenere che le garanzie di sicurezza dell’America non sono più affidabili. Vengono alla mente, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, ed anche l’Arabia Saudita; paesi situati in zone problematiche, difficili, vicine sia al paria nucleare nordcoreano e alla polveriera del Mar Cinese Meridionale, che all’orrore senza fine dei conflitti che stanno espandendosi in Medio Oriente. 

Come un qualsiasi stato “nucleare canaglia”, la Germania si troverebbe anche a perdere molta della sua credibilità nel “potere dolce”, di persuasione e convincimento, conquistato con così tanta fatica. 

Ma mentre questi sono argomenti razionali, c’è un altro aspetto del dibattito sulla Germania che va considerato, e che è considerevolmente più sconvolgente di queste particolarità tecniche legali: l’amnesia autoinflitta dei cittadini sulle possibilità di una catastrofe nucleare.

I commentatori che strepitano e reclamano una bomba di produzione tedesca, sembrano aver dormito per la maggior parte del XX secolo, quando il Paese era in prima linea parlando di sterminio nucleare. Quell’esperienza ha reso la Germania depositaria di una conoscenza, guadagnata duramente, sui pericoli di questi armamenti; ma alcuni tedeschi sembrano intenzionati a svuotare questo cassetto dei ricordi.

Richiamiamo alla mente alcuni degli strabilianti progetti ed incidenti, che sono accaduti fuori e dentro la Germania, al culmine del periodo nucleare.

Oggi, gli USA e la Russia hanno ancora una riserva di ordigni nucleari pari a 14.000 testate; durante la Guerra Fredda, questo numero, già enorme, era anche molto più alto ed alcuni degli ordigni più pericolosi erano proprio puntati su obiettivi tedeschi. Per la maggior parte della Guerra Fredda, gli strateghi militari Americani furono convinti che i vertici politici dell’Unione Sovietica, stavano complottando per invadere l’Europa Occidentale con i loro eserciti tradizionali. Per scoraggiare il nemico al di là della Cortina di ferro, e bilanciare eserciti NATO relativamente più piccoli, l’Amministrazione USA, sotto il Presidente Dwight Eisenhower, decise di optare per la teoria del “chi più spende, meno spende.” Questo voleva dire, che le testate nucleari erano piazzate in Europa Occidentale per garantire una massiccia ritorsione, se l’Unione Sovietica avesse deciso di inviare i carri armati, per infiltrarsi al di là del confine. 

Nel 1956, il SAC, il Comando Aereo Strategico, (incaricato della detenzione e dell’impiego dell'arsenale nucleare strategico N.d.T.), stabilì che in caso di attacco venissero sganciate ben 91 testate nucleari solo su Berlino Est, alcune delle quali destinate esplicitamente a distruggere la “popolazione”, anche se questo violava i trattati internazionali. La sponda sovietica aveva ammassato una potenza nucleare simile, seguendo la fredda logica della corsa agli armamenti.

Prima dell’avvento dei missili balistici intercontinentali entrambe le parti sganciarono in aria delle bombe 24/7 (bombe a frammentazione N.d.T.), ciascuna armata con una carica esplosiva nucleare. Questa situazione aumentò significativamente le tensioni, e portò ad una serie di incidenti imbarazzanti, come quello tristemente noto come Incidente di Palomares del 1966, nel quale un bombardiere USA B52 si schiantò vicino ad un villaggio spagnolo, perdendo il suo carico, fatto di quattro bombe all’idrogeno. “Hanno iniziato a tremarmi le ginocchia, quando ho visto la testata di uno di questi ordigni”, ha dichiarato uno dei tecnici che recuperarono le bombe in un’intervista per il mio libro “Breve storia di una follia nucleare”

La sostituzione delle squadre specializzate in allarme bomba, con missili nucleari, alla fine, invece di tranquillizzare la popolazione, ha semmai aumentato la probabilità di un Armageddon (il biblico giorno del giudizio finale, N.d.T.). Il fatto che fossero stati posizionati al largo delle spiagge statunitensi ha poi quasi condotto ad uno scontro nucleare planetario, durante la crisi dei missili a Cuba. Ad un certo punto, una flotta USA iniziò a calare bombe di profondità contro un sottomarino russo, che stava facendo strascico, a largo dei Caraibi. Il capitano russo, Valentin Savistski, ordinò immediatamente di preparare la difesa, con i siluri nucleari, ma aveva comunque bisogno del permesso degli altri due comandanti dell’unità per distruggere l’ordigno; uno di loro acconsentì all’istante, l’altro, tale Vasili Arkhipov, li persuase a non contrattaccare, e anzi a calmarsi un poco. 

Non sarebbe stata l'unica volta in cui la III Guerra Mondiale fu evitata per la reazione ragionevole di un uomo con la testa sulle spalle. Nel 1983, la valutazione dell’ufficiale sovietico Stanislav Petrov, su un segnale radio da loro ricevuto come pericoloso era in realtà un falso allarme, ancora una volta salvò il mondo dalla catastrofe. 

La Germania, comunque, è stata la Nazione che si è avvicinata molto probabilmente più di ogni altro paese all'aspetto più pericoloso della corsa agli armamenti: lo stazionamento di missili a corto e medio raggio, più notoriamente noti come Pershing II, che in 15 minuti, sono in grado di colpire Mosca. Un'instabilità così diffusa, una sensazione di vivere sempre sulle spine, portava entrambi i Paesi a pensare che nessuna delle parti in causa avrebbe mai avuto tempo sufficiente per una reazione razionale. Non sorprende che questo abbia portato ad innumerevoli situazioni di tensione, durante le quali le superpotenze credevano, erroneamente, di essere sotto attacco. La sola cosa certa era che la Germania fosse il piano di scontro più probabile per un conflitto nucleare.

Durante la Guerra Fredda, molte delle aree di confine fra la Germania Est e quella Ovest furono minate con ordigni nucleari. Se l'Armata Rossa avesse attaccato, gli USA avrebbero potuto in pochi attimi trasformare gran parte della regione ad est del fiume Reno, in una terra di nessuno. Tutta questa apocalittica massa di macerie, avrebbe sicuramente dissuaso l'eventuale avanzata dei Sovietici. Nessun governo tedesco ebbe mai il coraggio di dare informazioni su questo progetto fino al 1974, quando Helmut Schmidt divenne Cancelliere. 

Non pensiamo agli ordigni, ormai un numero incalcolabile, bensì al fatto che in Germania, sia Est che Ovest, continuarono ad essere ammassate un gran numero di armi nucleari “tattiche”, testate con cariche esplosive minime, che potevano essere disattivate anche da ufficiali di basso grado; uno di questi, denominato Davy Crockett, dal nome del leggendario trapper mito del Far West, era di dimensioni così ridotte che si poteva incastrare sopra ad un fucile dotato di un rinculo minimo ed essere sparato anche da un singolo uomo.

Tra gli strateghi militari Americani, c’è sempre stata una pericolosa tendenza a credere che un conflitto nucleare potesse, in qualche modo, essere limitato all'interno dei confini della sola Germania. Henry Kissinger, più realistico, suggerì neanche tanto velatamente che un conflitto nucleare, anche se su scala ridotta, sarebbe stato possibile anche fuori da quei confini. Ha così dichiarato, una volta: “Se saremo costretti ad una guerra, causata da un'aggressione sovietica, tenteremo in ogni modo di contenere le perdite; non vorremmo usare più forza di quella necessaria a difendere la salvezza del mondo libero.” Anche nell'ottimistica visione di Kissinger dell'Armageddon, le cosiddette “perdite contenute” avrebbero significato comunque una vasta porzione di Germania.

L'altro schieramento non credeva alla verosimiglianza di quei limiti. “Se gli Americani avessero lanciato anche solo un piccolo ordigno l'Unione Sovietica avrebbe di sicuro contrattaccato, scatenando ben presto una guerra nucleare generalizzata.” Queste le dichiarazioni del Generale Evgeni Maslin, ex-capo dell'unità per la salvaguardia nucleare dell'URSS, durante un'intervista da me raccolta. Se anche gli USA fossero sopravvissuti ad uno scontro di questo genere, la Germania non sarebbe stata più come prima.

La Germania ha avuto una lettera “x” (una sorta di marchio) dipinta su di sé, da sempre. I tedeschi, sebbene in gran parte ne ignorino i dettagli terribili, ne sono ben consci; dalla fine degli anni ’70 in poi, si formò un movimento per la pace molto forte che culminò con manifestazioni di massa, come il raduno del 1986, dove più di 200.000 persone bloccarono un sito dove la Nato intendeva installare 96 missili nucleari Cruise. I dimostranti si resero conto che la cosa, illogica nella strategia NATO, si fondava sul fatto che il Paese poteva essere salvato dalla catastrofe nucleare soltanto se si fosse reso conto che, in caso di non installazione delle rampe missilistiche, sarebbe stato distrutto. Così la Germania, si accorse della barbarie presente nella logica degli armamenti nucleari: come ogni giro di vite, può irrigidire o peggiorare l'escalation; quando uno scudo è più grande, induce ad usare una spada più affilata. Secondo una recente ricerca, l'85% dei tedeschi sostiene che gli ordigni nucleari USA devono essere rimossi dal proprio territorio.

Rimane la questione, un poco retorica, se tutto questo porterà a prendere una posizione; una spia, in questo senso, potrebbe essere rappresentata dalla chiusura dell'impianto per l'arricchimento dell'uranio da parte dell’URENCO (compagnia britannica di carburanti che si occupa anche di arricchimento dell'uranio, N.d.T.), che sembra essere imminente. In una Germania che presumibilmente si sta armando, riprendersi questa struttura potrebbe essere di vitale importanza, se si vuole investire in una infrastruttura nucleare.

Sebbene tutto questo ragionamento, per ora, sembra essere distante, potrebbe diventare preoccupante però, più avanti nel tempo, anche per il resto del mondo. Ricordiamoci che questa disputa si sta tenendo in un Paese che, per ben due volte, ha dato fuoco alle micce, nei decenni scorsi. Dopo la devastante esperienza del Terzo Reich, la Germania ha lavorato sodo per riconquistarsi un senso di credibilità morale, chiedendo comprensione e perdono alle sue vittime e cercando una qualche redenzione. Data la sua storia, è un vero miracolo che oggi il Paese sia così rispettato al mondo. (Al contrario, il Giappone, è ancora considerato un Paese emarginato, un paria, dalla maggior parte dei paesi confinanti, a causa dei suoi comportamenti, durante il periodo della guerra). Se la Germania si armerà con il nucleare, metterà decisamente a repentaglio le sue sorprendenti conquiste.

In un mondo, post-Brexit o post-Trump, molti cittadini del pianeta stanno riponendo le loro speranze, e molte aspettative, verso la Cancelliera Merkel e il suo Governo, per sostenere principi morali e portare a soluzione problemi come l'unità della UE, o la crisi dei rifugiati. Queste sono le sfide più grandi. Per essere alla loro altezza, la Germania deve attaccarsi ai suoi principi, come ogni nazione pacifica, e lavorare sodo per la cancellazione degli armamenti nucleari. Dovrebbe affrancarsi da percorsi pericolosi; in caso contrario, verrebbe inflitto un danno enorme, non solo all'ordine mondiale, ma anche alla Germania stessa.



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Vedi anche: Il grande gioco nucleare in Europa (PTV news, 14 Marzo 2017)


Il grande gioco nucleare in Europa

14 Marzo 2017

di Manlio Dinucci
da ilmanifesto.it

Il siluro lanciato attraverso il New York Times – l’accusa a Mosca di violare il Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) – ha colpito l’obiettivo: quello di rendere ancora più tesi i rapporti tra Stati uniti e Russia, rallentando o impedendo l’apertura di quel negoziato preannunciato da Trump già nella campagna elettorale.

Il siluro porta la firma di Obama, che nel luglio 2014 (subito dopo il putsch di Piazza Maidan e la conseguente crisi con la Russia) accusava Putin di aver testato un missile nucleare da crociera, denominato SSC-X-8, violando il Trattato Inf del 1987 che proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5.500 km. Secondo quanto dichiarano anonimi funzionari dell’intelligence Usa, ne sono già armati due battaglioni russi, ciascuno dotato di 4 lanciatori mobili e 24 missili a testata nucleare.

Prima di lasciare l’anno scorso la sua carica di Comandante supremo alleato in Europa, il generale Breedlove avvertiva che lo schieramento di questo nuovo missile russo «non può restare senza risposta».

Taceva però sul fatto che la Nato tiene schierate in Europa contro la Russia circa 700 testate nucleari statunitensi, francesi e britanniche, quasi tutte pronte al lancio ventiquattr’ore su ventiquattro. E man mano che si è estesa ad Est fin dentro la ex Urss, la Nato ha avvicinato sempre più le sue forze nucleari alla Russia.

Nel quadro di tale strategia si inserisce la decisione, presa dall’amministrazione Obama, di sostituire le 180 bombe nucleari B-61 – installate in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), Germania, Belgio, Olanda e Turchia – con le B61-12: nuove armi nucleari, ciascuna a quattro opzioni di potenza selezionabili a seconda dell’obiettivo da colpire, capaci di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando. Un programma da 10 miliardi di dollari, per cui ogni B61-12 costerà più del suo peso in oro.

Allo stesso tempo gli Usa hanno realizzato in Romania la prima batteria missilistica terrestre della «difesa anti-missile», che sarà seguita da un’altra in Polonia, composta da missili Aegis, già installati a bordo di 4 navi da guerra Usa dislocate nel Mediterraneo e Mar Nero.

È il cosiddetto «scudo» la cui funzione è in realtà offensiva: se riuscissero a realizzarlo, Usa e Nato terrebbero la Russia sotto la minaccia di un first strike nucleare, fidando sulla capacità dello «scudo» di neutralizzare la rappresaglia.

Per di più, il sistema di lancio verticale Mk 41 della Lockheed Martin, installato sulle navi e nella base in Romania, è in grado di lanciare, secondo le specifiche tecniche fornite dalla stessa costruttrice, «missili per tutte le missioni», comprese quelle di «attacco contro obiettivi terrestri con missili da crociera Tomahawk», armabili anche di testate nucleari.

Mosca ha avvertito che queste batterie, essendo in grado di lanciare anche missili nucleari, costituiscono una violazione del Trattato Inf.

Che cosa fa l’Unione europea in tale situazione?

Mentre declama il suo impegno per il disarmo nucleare, sta concependo nei suoi circoli politici quella che il New York Times definisce «una idea prima impensabile: un programma di armamenti nucleari Ue».

Secondo tale piano, l’arsenale nucleare francese sarebbe «riprogrammato per proteggere il resto dell’Europa e posto sotto un comune comando europeo», che lo finanzierebbe attraverso un fondo comune. Ciò avverrebbe «se l’Europa non potesse più contare sulla protezione americana». In altre parole: qualora Trump, accordandosi con Putin, non schierasse più le B61-12 in Europa, ci penserebbe la Ue a proseguire il confronto nucleare con la Russia.


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Manlio Dinucci, il manifesto, 28 febbraio 2017

Il governo Gentiloni ha capovolto il voto del governo Renzi all’Onu, votando a favore dell'avvio di negoziati per il disarmo nucleare! La sensazionale notizia si è rapidamente diffusa, portando alcuni disarmisti a gioire per il risultato ottenuto. Per avere chiarimenti in proposito, il senatore Manlio Di Stefano (Movimento 5 Stelle) e altri hanno presentato una interrogazione, a cui il governo ha dato risposta scritta nel bollettino della Commissione Esteri. Essa chiarisce come sono andate le cose. 
Il 27 ottobre 2016, durante il governo Renzi, l’Italia (accodandosi agli Stati uniti) ha votato «No», nella prima commissione dell'Assemblea generale, alla risoluzione che proponeva di avviare nel 2017 negoziati per un Trattato internazionale volto a vietare le armi nucleari, risoluzione approvata in commissione a grande maggioranza. 
Successivamente, il 23 dicembre 2016 durante il governo Gentiloni, quando la stessa risoluzione è stata votata all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia ha invece votato «Sì» insieme alla maggioranza. 
Capovolgimento della posizione italiana? No, solo un errore tecnico. «Tale errore – spiega il governo nella risposta scritta – sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte». In altre parole il rappresentante italiano, probabilmente per un colpo di sonno, ha premuto il pulsante sbagliato. «L'erronea indicazione di voto favorevole – spiega sempre il governo – è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in prima commissione». 
Il governo Gentiloni, come quello Renzi, ritiene che «la convocazione, nel 2017, di una Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari, costituisca un elemento fortemente divisivo che rischia di compromettere i nostri sforzi a favore del disarmo nucleare». Insieme ai paesi militarmente non-nucleari dell'Alleanza Atlantica, «l'Italia è tradizionalmente fautrice di un approccio progressivo al disarmo, che riafferma la centralità del Trattato di non-proliferazione». 
Il governo ribadisce in tal modo la centralità del Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, ratificato nel 1975, in base al quale l’Italia «si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». Mentre in realtà viola il Trattato, poiché mantiene sul proprio territorio, ad Aviano e Ghedi-Torre, almeno 70 bombe nucleari Usa B-61, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani. 
Quale sia l’«approccio progressivo al disarmo nucleare» perseguito dall’Italia lo dimostra il fatto che tra circa due anni essa riceverà dagli Usa, per rimpiazzare quelle attuali, le nuove bombe nucleari B61-12, sganciabili a distanza e con capacità penetranti anti-bunker. Armi nucleari da first strike dirette soprattutto contro la Russia, che, rendendo più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese, lo esporranno ancora di più al pericolo di rappresaglia nucleare. 
Il modo concreto attraverso cui possiamo contribuire all’eliminazione delle armi nucleari, che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, è chiedere che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e chieda di conseguenza agli Stati uniti di rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61-12. Battaglia politica fondamentale se anche l’opposizione non fosse stata contagiata dal colpo di sonno, che assopisce perfino l’istinto di sopravvivenza. 


SULLO STESSO ARGOMENTO SI VEDA ANCHE:
Armi nucleari: misteri e commedie – di Giorgio Nebbia, 27 feb 2017


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Due minuti e mezzo alla Mezzanotte

Manlio Dinucci | ilmanifesto.it, 07/02/2017

Finalmente il telefono ha squillato e Gentiloni, dopo una lunga e nervosa attesa, ha potuto ascoltare la voce del nuovo presidente degli Stati uniti, Donald Trump. Al centro della telefonata – informa Palazzo Chigi – la «storica amicizia e collaborazione tra Italia e Usa», nel quadro della «importanza fondamentale della Nato». Nel comunicato italiano si omette però un particolare reso noto dalla Casa Bianca: nella telefonata a Gentiloni, Trump ha non solo «ribadito l'impegno Usa nella Nato», ma ha «sottolineato l'importanza che tutti gli alleati Nato condividano il carico monetario della spesa per la difesa», ossia la portino ad almeno il 2% del pil, il che significa per l'Italia passare dagli attuali 55 milioni di euro al giorno (questi secondo la Nato, in realtà di più) a 100 milioni di euro al giorno. Gentiloni e Trump si sono dati appuntamento a maggio per il G7 a presidenza italiana che si svolgerà a Taormina, a poco più di 50 km dalla base Usa/Nato di Sigonella e di 100 km dal Muos di Niscemi. Capisaldi di quella che, nella telefonata, viene definita «collaborazione tra Europa e Stati Uniti per la pace e la stabilità».

Quale sia il risultato lo confermano gli Scienziati atomici statunitensi: la lancetta dell'«Orologio dell'apocalisse», il segnatempo simbolico che sul loro bollettino indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti a mezzanotte nel 2017. Un livello di allarme più alto di quello della metà degli anni Ottanta, al culmine della tensione tra Usa e Urss. Questo in realtà è il risultato della strategia dell'amministrazione Obama la quale, con il putsch di Piazza Maidan, ha avviato la reazione a catena che ha provocato il confronto, anche nucleare, con la Russia, trasformando l'Europa in prima linea di una nuova guerra fredda per certi versi più pericolosa della precedente.

Che farà Trump? Nella sua telefonata al presidente ucraino Poroshenko – comunica la Casa Bianca – ha detto che «lavoreremo con Ucraina, Russia e altre parti interessate per aiutarle e ristabilire la pace lungo le frontiere». Non chiarisce però se entro le frontiere dell'Ucraina sia compresa o no la Crimea, ormai distaccatasi per rientrare a far parte della Russia.
L'ambasciatore Usa all'Onu, Haley, ha dichiarato che le sanzioni Usa alla Russia restano in vigore e ha condannato le «azioni aggressive russe» nell'Ucraina orientale. Dove in realtà è ripresa l'offensiva delle forze di Kiev, comprendenti i battaglioni neonazisti, addestrate e armate da Usa e Nato. Contemporaneamente il presidente Poroshenko ha annunciato di voler indire un referendum per l'adesione dell'Ucraina alla Nato.

Anche se di fatto essa ne fa già parte, l'ingresso ufficiale dell'Ucraina nella Alleanza avrebbe un effetto esplosivo verso la Russia. Intanto si muove la Gran Bretagna: mentre intensifica la cooperazione delle sue forze aeronavali con quelle Usa, invia nel Mar Nero a ridosso della Russia, per la prima volta dalla fine della guerra fredda, una delle sue più avanzate unità navali, il cacciatorpediniere Diamond (costo oltre 1 miliardo di sterline), a capo di una task force Nato e a sostegno di 650 soldati britannici impegnati in una non meglio precisata «esercitazione» in Ucraina. Allo stesso tempo la Gran Bretagna invia in Polonia ed Estonia 1000 uomini di unità d'assalto e in Romania cacciabombardieri Typhoon a duplice capacità convenzionale e nucleare.
Così, mentre Gentiloni parla con Trump di collaborazione tra Europa e Stati Uniti per la pace e la stabilità, la lancetta dell'Orologio si avvicina alla mezzanotte nucleare.


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