Due interviste sulla condizione degli sloveni in Italia ed Austria


Sull'argomento del revanscismo italiano e austriaco contro le
rispettive minoranze slovene, riceviamo e giriamo due interviste di
Angelo Floramo a Lipej Kolenik e a Boris Pahor, apparse sull'ultimo
numero di Paginazero (letterature di confine).

Le opinioni qui espresse non sono necessariamente da noi tutte
condivise. Si noti in particolare la posizione molto diversa, tra
Kolenik e Pahor, sulla salvaguardia delle identità nazionali nella
Jugoslavia federativa e socialista, e sulla natura della attuale
Repubblica di Slovenia. (CNJ)


--- LIPEJ KOLENIK ---

Scheda sull'autore

Lipej Kolenik è nato a Šmarjeti pri Pliberku nel 1925. Vive a
Schilterndorf /Cirkovce, un piccolo villaggio della minoranza slovena
in Carinzia. Nel 1943 fu costretto ad arruolarsi nei ranghi
dell'esercito tedesco, e mandato in Italia. Partecipò alle battaglie
di Montecassino e dopo essere rimasto ferito disertò ed entrò a far
parte della Resistenza, combattendo assieme alle bande partigiane che
operavano in Carinzia, coordinandosi con il movimento di liberazione
sloveno. Alla fine della guerra, durante l'occupazione militare
inglese (1945-1955), subì nuove angherie e discriminazioni a motivo
della sua militanza partigiana. Per l'atteggiamento di diffidenza e di
aperta ostilità dimostratogli dalle autorità rimase disoccupato fino
al 1954. La casa Editrice Drava di Klagenfurt ha creduto in lui,
pubblicandogli nel 1988 l'intenso libro di memorie relative agli anni
della guerra: "Mali ljudje na veliki poti", che ormai è già giunto
alla terza edizione, con una traduzione in lingua tedesca, e il più
recente (2004): "Po zmagi - zatiranje in zapori. Spomini na angleško
zasedbeno oblast 1945-1955 Slowenisch", che invece si riferisce agli
anni difficili dell'amministrazione militare inglese della Carinzia.
Uomo di grande cultura e di rara sensibilità è tra gli organizzatori
dell'importante cerimonia che ogni anno, il 17 luglio, riunisce sul
monte Kömmel/Komelj i reduci partigiani che si opposero al nazismo. In
quell'occasione vengono ricordate le vittime di una delle più feroci
repressioni avvenute in Carinzia per mano fascista praticamente a
guerra già conclusa.


Piove. Sono gocce fitte, pesanti, fredde, che appannano i vetri della
macchina. Anche se luglio è appena iniziato qui sembra già autunno. La
strada insegue la Drava, tradendola a tratti per lasciarsi inghiottire
dalle macchie verdi dei tigli, che hanno foglie brillanti come
ramarri. Sono già le due del pomeriggio ma pare che il fiume non si
voglia ancora svegliare dal torpore della notte. Forse per questo
lascia che il buio ristagni in pozze di ombra nelle fosse che
delimitano il suo letto. C'è bruma dappertutto. E' Carinzia, ma
ovunque ti giri è la Slovenia che vedi: nei tetti dei villaggi, nel
modo di costruire le case, per come si raccoglie il fieno sui graticci
di legno. E' terra di confine. Bilingue. Tutto fluttua dall'asprezza
germanica alla rotondità slava: Bleiburg, Edling, Neuhaus, Rinkenberg
diventano più dolci anche sul percorso della mappa: Pliberk, Kazaze,
Suha, Vogrče. Vale per i nomi dei luoghi come per le donne. Hanno
occhi che sanno già d'oriente, direbbe Paolo Rumiz. Segui la Drava e
sconfini senza accorgertene. E ti viene da pensare che un confine
attraversato dal corso di un fiume non è un vero confine. Non lo è per
la geografia. Non dovrebbe esserlo nemmeno per gli uomini. Oltre è
tutta pianura: il Kobansko Pohorje, dolce di campi ben coltivati e
vigneti. Se la mente ne insegue i profumi arrivi a Maribor in un
sorso. Ed è già odore di Ungheria. La magia di queste terre ! Qui
realizzi che il cuore dell'Europa è per forza meticcio, ibridato di
innesti. Ricchissimo di suggestioni, salvato dalle minoranze che si
incuneano dentro i nazionalismi, come i dubbi minano i dogmi e le
certezze. Mi guardo attorno e capisco che ha proprio ragione Peter
Handke quando parla dell'amore che l'uomo slavo nutre per la terra in
cui è nato. Un amore che sa diventare nostalgia o rabbia, furore o
canto. La guerra partigiana, in queste contrade, è stata anche un atto
d'amore per ogni vallata, ogni villaggio, ogni cresta alpina. Questo
dice Handke che è nato a Griffen, sull'altra riva del fiume. Lo
ricordiamo mentre lasciamo il suo villaggio stampigliato per qualche
secondo nello specchietto retrovisore, proseguendo in direzione
Bleiburg/ Pliberk. Non viaggio da solo. Mi accompagna Sara. E' una
giovane donna windisch della Valcanale, nata e cresciuta in una terra
in cui ci si parla in un miscuglio di "theutsch e crainerisch": un
ibrido musicale di tedesco- carinziano e sloveno, un dialetto che
fonde in sé l'anima stessa del confine, trasformando in musica le sue
apparenti dissonanze. Ora sta completando un dottorato di ricerca
all'università di Klagenfurt. Da studentessa ha seguito le lezioni di
Hans Kitzmüller a Udine. Un corso monografico su Handke. Tanto denso
da fare invidia. Da rimpiangere di non averlo frequentato. Mi è
sembrata da subito la guida ideale per questo mio "attraversamento" di
terre, memorie e suggestioni alla ricerca di Lipej Kolenik, nome di
battaglia "Stanko", partigiano e scrittore, uomo da sempre impegnato a
rivendicare la libertà come valore supremo di ogni essere umano.
"Soprattutto una persona gentile". Così lo definisce Helga Mracnikar,
della casa editrice Drava, di Klagenfurt, che ha pubblicato tutti i
suoi libri, agevolandoci il contatto, con rara cortesia e preziosa
disponibilità. Kolenik venne arruolato, in quanto carinziano, nelle
fila della Wehrmacht. Era il 1943. L'anno terribile. Dovette indossare
l'uniforme di quel popolo che stava schiacciando la libertà delle sue
genti. E di infinite altre ancora. Combatté a Montecassino. Poi decise
di disertare. Scelse la lotta partigiana. I morti non sono tutti
uguali. Cirkovce è un villaggio raccolto nell'abbraccio di poche case;
in tedesco lo chiami Schilterndorf , ma il risultato, per quanto forte
lo chiami, non cambia: quasi si nasconde agli occhi dei forestieri. Se
ti sfugge l'imboccatura della strada puoi ripetere il tragitto diverse
volte, da Pliberk ad Aich, prima di trovare la direzione giusta. A noi
è capitato. Piove e non c'è nessuno per strada. Nessuno a cui chiedere
informazioni. Ma una macchina di targa italiana che viaggia a
rallentatore bordeggiando orti, recinti per animali e silos per i
cereali a lungo andare desta curiosità, se non proprio sospetti.
Finalmente qualcuno esce da un ricovero per gli attrezzi: "Chi?
Kolenik lo scrittore? L'altra casa, quella dietro la stalla". Ci sta
aspettando. E siamo incredibilmente puntuali. Lipej. In sloveno Lipa è
il tiglio. L'uomo che ci sta davanti, a suo modo, è proprio un tiglio
sloveno. Lo è davvero, nella mia immaginazione. Un tiglio enorme,
dalle profonde radici, con un tronco solcato dagli anni. Ma la stretta
di mano è generosa, sicura. Un sorriso che non diresti da guerriero,
ma da uomo di pace. La casa è ospitale, coccolata dalla penombra. Il
tavolo della cucina ricoperto di riviste, album di vecchie foto color
seppia, libri glossati, appuntati, sottolineati. Sono aperti o
impilati un po' ovunque. E alle pareti rimbalzano memorie. Attestati.
Riconoscimenti. Non esibiti. Tuttaltro. Lipej Kolenik è uno Sloveno di
confine. Uno Sloveno di Carinzia. Una terra in cui i fremiti
nazionalistici sono molto forti. E il signor Haider, il governatore,
non aiuta certo il dialogo con le minoranze: " Quello? Oh, quello è un
nazista!". Scuote il capo, il partigiano Stanko. Mi chiedo quanto sia
difficile essere sloveni oggi a Cirkovce, che anno dopo anno,
generazione dopo generazione diventa sempre più Schilterndorf. Quando
siamo scesi al bar sulla strada, poco prima di arrivare in paese, alle
nostre domande in sloveno hanno preferito risponderci in tedesco:
abbiamo chiesto se avessero qualcosa da mangiare" Oprostite, imate ze
jesti?" e ci hanno risposto con un certo imbarazzo, quello di chi
vuole tagliare corto: "Nixt ferstien". Già. Incomprensibile. Davvero !


Cosa ha significato per lei appartenere a una minoranza? E' difficile
essere sloveno? E soprattutto lo è stato in passato (penso in
particolare all'epoca nazista, alle camicie brune, alla lunga notte
del Reich) ?

Molte cose sono cambiate, nel corso degli anni. Innanzi tutto la
maggioranza: non lo siamo più, nella nostra terra. Ora apparteniamo a
una minoranza. Che si è sempre più ridotta a partire dagli anni '70.
Il Reich nazista, le persecuzioni, gli arresti, le deportazioni, e poi
la Resistenza: prenda il nostro villaggio, ad esempio. Un centinaio di
case. In passato solo in quattro famiglie parlavano in tedesco. Oggi
chi parla in sloveno si è ridotto a neanche la metà. La scuola qui non
fa nulla per la tutela della lingua. Poi è inutile che la si insegni
come una materia fra le altre. Se non la parli più nemmeno a casa tua,
è finita. I ragazzi migliori se ne vanno. Attratti da città più
grandi. Luoghi lontani, diversi dalla terra in cui sono nati. Nel
periodo nazista era vietato parlare in sloveno. Ovviamente anche a
scuola. I libri. Hanno bruciato i libri. Ci si doveva esprimere in
tedesco. Noi il tedesco non lo conoscevamo affatto. Lo abbiamo
imparato quel tanto che bastava per seguire le lezioni. Tra di noi
parlavamo sempre in sloveno.

C'era un Kulturni Dom qui?

No, non un vero Kulturni Dom... direi piuttosto un'osteria. Il
proprietario ci aveva messo a disposizione una sala in cui ci
incontravamo. Avevamo messo assieme una piccola biblioteca di libri in
sloveno. Potevamo leggere, giocare, studiare. Ma no, non c'era
ovviamente un Kulturni Dom, come quello odierno.

Ma questa chiusura nei confronti degli sloveni esisteva anche prima
dell'Anschluss?

Già prima, già prima. C'era un'associazione di studenti – esiste
ancora oggi – organizzati militarmente. Veniva detta Purschenschaft.
Avevano il compito di "germanizzare queste terre". L'acquisto di
proprietà per cittadini di nazionalità tedesca era facilitato in
queste zone. Hanno iniziato con le buone... poi hanno adottato altri
sistemi. Vorrei aggiungere che la Chiesa ha appoggiato questa
trasformazione, agevolando in tutto l'ascesa di Hitler al potere.
Certo, c'è da dire che nel '43 alcuni preti carinziani hanno sostenuto
la guerra partigiana, ma la maggioranza di loro non faceva più di
tanto. Il Vescovo invece, quello sì era molto attivo: quando nel 1938
è arrivato Hitler ci trovavamo in chiesa. E ci è stato chiesto di
uscire e di seguire il corteo. Una vera azione di propaganda.

C'è una grande similarità fra lei e Boris Pahor, lo scrittore sloveno
triestino che ha raccontato la sua vita e quella della sua comunità
negli anni difficili della guerra, e anche prima, durante il ventennio
fascista, in cui ogni diritto veniva negato alla minoranza slovena, a
ogni minoranza... e poi la sua esperienza partigiana... entrambi avete
toccato, ciascuno a suo modo, gli stessi temi, attraversando percorsi
di vita davvero molto vicini. Vi conoscete personalmente? Ha letto
qualcosa di Pahor ? Cosa vi lega... cosa vi diversifica ?

Certo. Ho letto i libri di Pahor ! Ma le problematiche degli sloveni
in Italia sono molto diverse dalle nostre, qui. Voi eravate meglio
organizzati, come posso dire, vi siete svegliati prima, forse perché
il Fascismo lo avete conosciuto già alla fine della prima Guerra
Mondiale. La Primorska (comunità degli sloveni "del litorale", dunque
oggi in Italia, ndCNJ) ha quindi conosciuto e combattuto il Fascismo
molto prima di noi.

Lo conosce personalmente, Boris Pahor ?

Gli sono stato vicino una volta, durante una conferenza. Ma non ho mai
avuto l'occasione di scambiare qualche parola con lui.

E' interessante che entrambi abbiano avuto esperienze come sloveni di
minoranza, prima nella lotta di opposizione al Nazismo ed al Fascismo
e poi nella letteratura !

Ognuno di noi prende le mosse dalle esperienze che vive in prima
persona. La Storia esiste solo per come noi la sappiamo narrare. Per
questo ho iniziato a pensare che se non avessi scritto le mie
esperienze quella storia sarebbe stata presto dimenticata. Così alla
sera mi capitava di pensare a fatti e momenti della mia vita che
valesse la pena di raccontare. Chiedevo consigli, pareri, opinioni a
chi mi era vicino. Ho letto molto, ho compiuto ricerche personali.
Alla fine di questo lungo percorso sono giunto alla pubblicazione. A
quanto pare è stata una buona idea: il mio libro è ormai giunto alla
terza edizione. Pensi che lo hanno anche pubblicato in tedesco! Chi lo
ha letto lo ha apprezzato.

"Mali ljudje na veliki poti": piccola gente lungo un grande cammino...
un libro intenso, che ha suscitato notevole interesse nei lettori e
nella critica. E non da ultima anche una recensione entusiastica da
parte di Peter Handke. C'è una famiglia di contadini sloveni, a
Šmarjeta... la guerra, combattuta dal protagonista in terra straniera
indossando la divisa tedesca, a Montecassino: la divisa di un regime
che in qualche modo ha sempre soffocato le minoranze, compresa la sua;
e poi la diserzione (o meglio la scelta coraggiosa della verità), la
decisione di aderire alla Resistenza... e ancora tutto l'amore che uno
sloveno prova per la sua terra, i fiumi, l'Alpe, i villaggi... Temi
importanti... a lei molto cari, vicini alla sua biografia... Come si
intrecciano nella sua narrativa ? Nella sua vita ?

La mia esperienza di vita d'allora... beh, da una parte c'era il
Nazismo, dall'altra la Resistenza. Il Nazismo con i suoi
saccheggiatori, i suoi predoni, gli stupratori. Sul fronte opposto i
partigiani. Mi attraeva il mondo della Resistenza, fin da quando avevo
quindici, sedici anni. Avevo contatti con quel mondo fin da allora.
Ben prima di iniziare la lotta al loro fianco. Prima di essere
costretto ad arruolarmi nell'esercito tedesco. Ma non avevo ancora
l'età giusta. Nel 1942 si sono fatti vivi loro. Li abbiamo seguiti in
molti. Nell'estate del '42 ero un soldato. Mi ossessionava il pensiero
di mia madre. Pensavo a quanta paura avesse per me. Per quello che
avrebbe potuto capitarmi. Cosa mi avrebbero fatto, dove mi avrebbero
rinchiuso. Mia madre mi faceva pena. Fu solo l'inizio di una specie di
via crucis. Non è stato per nulla facile. Nel cuore ero antifascista,
mi sentivo vicino ai partigiani. Ma ero costretto a indossare proprio
l'uniforme dei nazisti. Una ribellione che bruciava dentro di me.
Voglio aggiungere che i partigiani qui dovevano cavarsela da soli,
arrangiarsi. Non eravamo organizzati come voi, nella Primorska o in
Slovenia. Ci aiutavamo a vicenda. Ma non c'era nulla che assomigliasse
nemmeno da vicino all'azione di propaganda dell'Osvobodilne Fronte
(Fronte della Liberazione, n.d.r.), che fosse in grado di organizzare
nuove leve per la Resistenza.

Qual è stato il valore della guerra partigiana in questa terra di
frontiera ? Sappiamo molto poco noi italiani dei movimenti
resistenziali in Germania (perché tale era l'Austria dopo l'Anschluss
nel 1938). Cos'ha significato per la sua generazione ? Per lei in
particolare, sloveno e combattente... intendo dire: cosa l'ha motivata
profondamente a scegliere di diventare un partigiano?

Per me è stato un vero e proprio terremoto interiore. Quando hanno
cominciato a deportare le intere famiglie, ad arrestare la gente...
allora abbiamo capito che non potevamo più attendere. Ci saremmo
opposti. Non era più possibile rimanere agli ordini di Hitler. A casa
nostra poi deportavano le persone per metterle nei campi di
concentramento. E' così che è nata la nostra Resistenza. E quelli che
hanno appoggiato le bande partigiane sono stati sempre più numerosi.
Era un modo per salvare la nostra terra. Conoscevamo quella gente fin
dal 1934, fin dai tempi dell' Hitlerputsch. Nel '38 erano sempre loro,
sempre gli stessi fascisti. Loro prima, loro dopo.

Dunque è stata una presa di coscienza matura, una scelta ragionata la
vostra?

Che dire... ho potuto raccogliere tante testimonianze negli anni. La
vita ci insegna. La vita è la nostra scuola. Il Fascismo si svelava
poco alla volta. Ma era possibile capire subito cosa volesse fare
della gente. Avrebbe liquidato tutte quelle persone che non gli
andavano a genio, attraverso uccisioni di massa, arresti... è così che
ha preso forza. Devo dire che alla fine della guerra l'80% della
popolazione dei villaggi, qui, era a favore di un'annessione alla
Jugoslavia. Non credevano che l'Austria ci avrebbe mai potuto dare
altro da quello che ci aveva da sempre elargito: solo promesse e
oppressione.

Ma cosa ha comportato per lei, così giovane, una scelta tanto radicale?

Per prima cosa è stato necessario trovare molto coraggio. E poi una
forte dose di autoconvincimento. Quelli che come me hanno subito
l'oppressione nazista, per quanto ancora molto giovani e privi di
esperienza, si sono lasciati guidare dalle loro coscienze. Ho pensato
a lungo cosa, in questi anni, sia stato maggiormente motivo di
angoscia, per tutti noi. Eravamo considerati dei traditori, quando
abbiamo risposto a Hitler "un fico secco", mettendoci di fatto contro
di lui. Anche la Chiesa ci ha considerato dei traditori, perché
stavamo dalla parte dei "banditi sloveni". Ancora oggi in molti ci
chiamano venduti, traditori dell'Austria. Poco tempo fa, da Vienna, mi
ha chiamato Portisch, quello che sta scrivendo la storia dell'Austria.
Mi ha chiesto perché mai avessimo deciso di combattere sotto la
bandiera di Tito. Gli ho risposto: "Mi dica il nome di un solo
austriaco che in quegli anni sarebbe stato disposto a guidare la lotta
di liberazione contro il Nazismo!". In pochi altri luoghi, come da
noi, si sono raccolti dopo la guerra nazisti fuggitivi provenienti da
molte altre nazioni. Sono stati momenti drammatici, di grande
tensione. Avevamo tutti contro qui: gli Ustaša, i Belagardisti, i
Fascisti... tutti contro di noi. Crede che ora sia cambiato qualcosa?
Non c'è mai stata dopo la guerra una vera e propria
denazistificazione. Non hanno trovato nessun altro da mettere al loro
posto. Così si sono semplicemente cambiati i berretti. Ma le persone
sono rimaste sempre le stesse. E così i loro cervelli. Io non ho mai
avuto una pensione per la mia scelta di libertà. Ma i camerati che
hanno assediato Stalingrado... beh, quelli sì, e anche qualche
menzione ufficiale!

Sono passati 60 anni da allora... come vengono vissuti oggi quei
fatti? In un momento in cui pericolosamente il revisionismo storico
(penso alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte o dell'italiano
Renzo De Felice) porta a riconsiderare gli eventi, a relativizzare il
valore delle scelte di allora, ad insinuare che a diciotto anni una
scelta non può essere consapevole (e quindi in fondo i giovani che
combattevano per i partigiani o per le SS erano uguali, travolti tutti
dalla tragedia della storia)?

Posso dire che oggi guardo con molta preoccupazione allo sviluppo
degli eventi. A sessant'anni di distanza. Sembra che la gente stia
dormendo. Pensi che hanno eretto un monumento agli Ustaša, a
conclusione della guerra. Lo hanno eretto a Lobuški Polje. Arrivano
qui ogni anno da tutte le nazioni quei fuggitivi, quegli assassini, i
macellai di Hitler, per onorarlo. Abbiamo protestato, ma non è servito
a niente. Il monumento è sempre lì. Le autorità dicono che ci
penseranno, ma intanto non prendono provvedimenti. Così ogni anno,
quindicimila, ventimila persone si danno appuntamento sotto quel
monumento. Indossano divise, sventolano bandiere, come ai tempi di
Hitler. E i nostri restano a guardare. Sono convinto che se ci
andassimo noi, lì, con le nostre bandiere... ci arresterebbero subito.
Noi quel periodo lo abbiamo vissuto. Ci siamo dovuti unire in bande. E
abbiamo contribuito a sconfiggere il Nazifascismo. Per noi, per tutti
coloro che si sono ribellati, l'8 maggio è la festa più grande della
Storia. In quel giorno è stato sconfitto il Nazifascismo. L'Austria
non lo celebra volentieri. Ricorda con dispiacere questa ricorrenza.
In fin dei conti ha perso. Qui sentono molto di più le celebrazioni di
ottobre. Ma in realtà non hanno una festa vera e propria. Credono di
essere ancora al comando, come ai tempi di Hitler.

E' dunque così forte il senso di opposizione alla guerra partigiana qui?

E' ancora molto forte. E ogni anno si rinnova. L'anno scorso hanno
diffuso la notizia che alla fine della guerra sono stati uccisi per
rappresaglia 40.000 Ustaša. Ma non è vero. E' una notizia falsa.
Diffusa dall'America ha fatto in breve il giro del mondo. Secondo
questa versione sono stati i partigiani a macchiarsi degli orrori.
Sappia che qui in Carinzia ci sono 53 cimiteri partigiani. Ma mai
nessuna autorità vi ha deposto ufficialmente una corona di fiori. Ce
ne occupiamo noi privati.

Il 17 luglio del 1945 sul monte Kömmel/Komelj i nazisti, a guerra
ormai finita, trucidarono numerosi civili accusati di essere
partigiani. Oggi quella ricorrenza è diventata un appuntamento civile,
di grande urgenza e dignità, celebrato puntualmente ogni anno. Il
valore della memoria si fonda sempre nella sottolineatura della
libertà. E in questo interviene anche la letteratura, intesa come voce
di quella memoria, arte che nobilita quell'impegno. Ce ne vuole parlare?

E' una data importante. Per non dimenticare. Noi che abbiamo vissuto
quella tragedia abbiamo il dovere morale di avvertire gli altri.
Quando l'incendio è divampato è ormai troppo tardi. Non possiamo
dimenticare tutti quei milioni di vittime. È nostro dovere fare in
modo che i giovani non ne perdano la memoria. Solo rimanendo sempre di
sentinella potremo evitare di essere sorpresi per la seconda volta. Da
ogni regione in cui i partigiani hanno combattuto i reduci verranno
qu, sul monte Komelj. Lo scorso anno c'era anche Peter Handke. Lo
ammiro molto perché è una persona semplice innanzi tutto. E poi per il
modo in cui esprime le sue idee: non gli interessa se quello che
scrive può dare fastidio a qualcuno. Spesso mi viene a trovare, come
fosse uno qualsiasi dei miei amici. È stato lui a fare in modo che il
mio libro venisse tradotto. Lo riteneva importante perché questa
storia non fosse dimenticata.

Nel 1943 lei aveva 18 anni... E' stato capace di scegliere. Pensi ai
diciottenni di adesso. Come vivono oggi i giovani della minoranza
slovena di Carinzia ? Le nuove generazioni... Come le vede davanti
alle scelte che l'Europa e il mondo inevitabilmente imporranno loro di
fare ?

Questa è una domanda difficile. La vita oggi è molto diversa da quella
di allora. Oggi la gente è viziata, ha un lavoro, ha di che mangiare.
Cose che non si potevano certo dare per scontato in quegli anni. Per
questo il Fascismo ha potuto diffondersi velocemente. Accade sempre
quando non c'è il pane... E poi perché mai oggi dovrebbero fare una
scelta ? A loro non interessa affatto che il nuovo padrone sia russo o
che sia Hitler o che sia americano. Quello che conta sono i soldi. E
una vita tranquilla.

Esistono dei contatti con la Slovenia ? Vi sentite aiutati in qualche
modo?

Nei confronti della Slovenia nutro una speciale forma di delusione.
Quella non è la terra per la quale ci siamo battuti. Hanno distrutto
la Jugoslavia, che era modello per l'Europa Unita. Uno stato forte che
aveva un certo prestigio a livello internazionale. Capace di rimanere
neutrale e libero dalle politiche dei due blocchi. Oggi sono tutti
divisi, ognuno per conto suo. Non so davvero cosa accadrà. Adesso la
Slovenia è già nell'Unione Europea, tra poco entrerà anche la Croazia,
poi sarà certamente la volta dei Serbi. Quindi tutto tornerà proprio
uguale a prima; ma ci sono dovute essere tante vittime... Questo è ciò
che più spaventa le minoranze. L'Unione europea. Chi non saprà nuotare
in un mare così grande... sarà condannato a sparire per sempre. Gli
aiuti dice? Non ne vediamo, né finanziari né politici.

La scrittura... lei ne ha fatta una ragione di vita. Perché scrivere
? Per l'urgenza di non perdere la memoria, forse?

Allora: la tradizione orale dura a lungo. Ma se scrivi qualcosa, dura
per sempre. Resta! Pensi al plebiscito del 1918. Quanto materiale è
stato raccolto su come abbiano tiranneggiato la gente comune, su come
gli Sloveni siano stati derubati, arrestati? Nessuno ha mai scritto
niente di queste cose. Se solo ci fosse stato uno storico... No, a
dire il vero forse no; perché gli storici scrivono più volentieri
quando oramai non ci sono più superstiti o testimoni vivi. Alle volte
hai quest'impressione. Sai, negli anni vieni a sapere cose che prima
non conoscevi... Festeggiando i sessant'anni dalla fine della guerra,
a Poljane hanno pubblicato un libro, in cui si parla dell'ordine dato
da Tito e Kardelj a Majnik di ritirarsi dalla Carinzia. Invece nel `49
ci spronarono alla lotta per l'annessione. Che senso ha tutto questo?
Noi per averci creduto siamo stati anche rinchiusi, abbiamo subito le
perquisizioni in casa, siamo stati etichettati come Titocomunisti, un
marchio che ci rimane appiccicato addosso ancora oggi. È meglio dire
la verità anche se la strada della verità è sempre più lunga e più
difficile.

In Italia è molto difficile promuovere la diffusione di testi che
provengono dal mondo sloveno. Lo stesso Boris Pahor ha incontrato
molta difficoltà a pubblicare presso un editore italiano. Accade lo
stesso anche in Austria? E quali sono, se ci sono, le possibilità di
vedere finalmente tradotta la sua opera anche in lingua italiana?

Penso che sia una soprattutto questione di soldi. Poi bisogna trovare
qualcuno che crede in quello che stai facendo. A me è successo proprio
con Handke, che mi ha aiutato, e molto: perché se una persona come lui
parla bene di un libro, è già un buon inizio. Così è stata stampata
una prima edizione di "Mali ljudje na veliki poti". Per la seconda
c'erano ancora dei dubbi, non sapevamo se l'opera avrebbe potuto
destare ancora qualche interesse, così ho dovuto aggiungere io dei
soldi. Ma poi il libro è stato pubblicato addirittura per la terza
volta. E' inutile, bisogna fare un po' di pubblicità, vendere il pane
finche è caldo... Il libro che uscirà a novembre si occupa invece
della vita in Carinzia durante l'occupazione Inglese, tra il '45 e il
'55: quanti arresti, quante perquisizioni ! Non ho niente contro gli
inglesi, ma devo dire che qui da noi si sono comportati esattamente
come nelle loro colonie, ne possedevano molte, in mezzo mondo e le
hanno sfruttate... A Bleiburg c'era un poliziotto che indossava la
divisa inglese. Era tedesco ed ebreo, e si accaniva contro i partigiani...

Speriamo che la letteratura possa aiutare la lotta contro le guerre...

Si, ma non sarà di nessun aiuto, se i libri verranno stampati e poi
stivati nei magazzini in pile alte fino ai soffitti. Il loro posto è
qui... devono andare tra la gente...


Kolenik scompare per un attimo dalla nostra vista, per rientrare da
una porta, alle nostre spalle, silenzioso come un partigiano. Ha per
le mani un vassoio di dolcissimi kolaci: "Sono buoni. Li ha fatti mia
figlia!". Una nipotina ogni tanto occhieggia dalla cucina. E' curiosa,
ma troppo timida per fraternizzare. Basta guardarla negli occhi per
capire chi è suo nonno. "Parla lo sloveno?" chiedo temendo una
delusione. "E cos'altro? E' la nostra lingua". La risposta mi
riconcilia anche con la pioggia.

(a cura di Angelo Floramo)


--- BORIS PAHOR ---

Scheda sull'autore

Boris Pahor è nato a Trieste nel 1913, citta in cui ancora oggi vive,
medita e scrive. Laureatosi in Lettere all'università di Padova si è
dedicato all'insegnamento e alla scrittura. Ha pubblicato moltissimo,
e i suoi scritti sono stati tradotti dallo sloveno in francese,
inglese, tedesco e perfino in esperanto, ma in lingua italiana sono
stati editi solamente "Necropoli", Consorzio Culturale del
Monfalconese, Begliano 1997; "Il rogo nel porto", Nicolodi, Rovereto
2001 e "La villa sul lago", Nicolodi, Rovereto 2002. Sempre per i tipi
di Nicolodi è uscito quest'anno "Il petalo giallo" (titolo originale:
"Zibelka sveta", la culla del mondo). Per l'autorevolezza della sua
voce e il valore della sua produzione letteraria è attualmente membro
dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Ljubljana e
Vice-presidente dell'Associazione Internazionale per la difesa delle
lingue e delle culture minoritarie. E' redattore e direttore della
rivista "Zaliv" (il Golfo), che ha sempre dimostrato forte impegno per
la tutela della minoranza slovena e per il processo della
democratizzazione della Slovenia. E' tra gli scrittori candidati al
premio Nobel per la Letteratura.


Anno secondo della rivoluzione fascista. E' una trasparente mattinata
di fine autunno, già quasi in odore d'inverno. L'aula scolastica sa di
gesso e di legno impregnato d'inchiostro. Tutto regolare, non fosse
per Julka. Perché oggi ha occhi umidi di pianto la piccola Julka, che
il maestro si ostina a chiamare Giulia. Il maestro: un omino dai
capelli neri e lucidi come il catrame e il distintivo con il fascio
littorio bene in evidenza all'occhiello della giacca. "Danilo, pej
sem". Tre parole soltanto indirizzate a un compagno. Ma bastano
all'omino del fascio littorio per una condanna senza possibilità di
appello. Siamo nel 1924 e Julka ha parlato in sloveno. Perché nella
sua ignoranza etnica e caparbiamente sciava non ha ancora capito che
si chiama Giulia e che deve parlare in italiano. Non certo in
quell'altra brutta lingua. E' un reato grave, insomma, che offende i
patri confini, e la bandiera, e l'italico suolo. Ora i piccoli piedi
di Julka non toccano terra: rimane sospesa per le lunghe trecce
all'attaccapanni, dove l'omino l'ha trascinata mosso da educativo
furore. Così forse le entrerà in testa che italiani, se non lo si
nasce, lo si diventa. Appesa come un vestito sgualcito Julka sembra
una piccola farfalla dalle ali spiegate. Boris Pahor è il cantore di
questa atroce novella, "La farfalla sull'attaccapanni", ed è il
paradigma di tante altre atrocità, grandi e piccole, di cui egli è
stato testimone, suo malgrado, e che costituiscono la trama di una
prolifica vena letteraria che ancora non si è estinta, visto che
l'autore continua a scrivere, a produrre, a studiare. Le sue
narrazioni si intrecciano alla lunga memoria di una vita altrettanto
lunga, intensa, imprigionata dalle maglie di troppe libertà soffocate,
negate, sottratte. E dal bisogno esistenziale di affermare, al
contrario, il diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile
libertà. Questa è la poetica che vivifica la sua letteratura. "Hanno
detto di me che Pahor è tutto memoria del campo di concentramento o
voce della minoranza slovena. Ma non è così. E' un'affermazione
riduttiva. Il valore etico che anima la mia scrittura è l'insofferenza
per la non libertà, di qualunque genere essa sia". Protagonista vigile
e lucidissimo del "secolo breve", sloveno Triestino classe 1913, il
che significa novant'anni indossati con affilata e arguta
intelligenza, Pahor resta ancora quasi del tutto sconosciuto
all'editoria e al mondo intellettuale italiano, che lo hanno
volutamente ignorato, a cominciare da Primo Levi che stroncò fin da
subito "Necropoli", la dolorosa esperienza del campo di concentramento
di Struthof, nei Vosgi, in cui l'autore venne internato dai
nazifascisti nel 1944. Un'opera che rimase anche per questo
totalmente sconosciuta in Italia mentre nel resto d'Europa riscuoteva
ammirati consensi e critiche lusinghiere, che definivano il suo autore
come uno degli scrittori europei più interessanti, certamente la
migliore voce vivente nella lingua di Ljubljana. Ci sono voluti
ventitrè anni e il coraggio del Consorzio Culturale del Monfalconese
perché il romanzo – che nel 1995 vinse il premio Kosovel - uscisse
finalmente anche in lingua italiana. Oggi, per unanime consenso, è
considerato un capolavoro. Eppure ancora Pahor rimane misconosciuto
dalla cultura di casa nostra, sempre più mondana e salottiera, così
poco europea da rischiare la stigmate di un sonnacchioso chic
provincialismo fatto più di mode che di sostanza. Unica gradita
eccezione l'intelligente editore Claudio Nicolodi, che ha recentemente
acquistato i diritti d'autore per l'Opera omnia di Pahor, anche per
quei romanzi (quasi tutti) che ancora non sono stati tradotti in
italiano. E forse ha avuto buon fiuto, dal momento che da più parti
giungono segnalazioni per un Nobel alla letteratura che finalmente
riconosca il valore di questa voce tanto orgogliosa della sua
"minorità". Ma chi è in definitiva Boris Pahor ? Ogni buona antologia
slovena lo pone tra le voci più rappresentative del Novecento. Nel
2001 la Germania ha inserito "Necropoli" a pieno diritto nella famosa
Bestenliste, il prestigioso elenco dei dodici libri più belli
pubblicati nell'anno. La Francia lo adora, lo coccola, lo sente quasi
suo. Gli editori parigini Phébus e Le Rocher hanno pubblicato gran
parte dei suoi lavori. E in Francia partecipa frequentemente a simposi
e pubbliche letture. E' infatti appena rientrato da St. Malo, dove
assieme ad altri 150 scrittori europei, in 3 giorni di intensa
attività, ha vivacemente animato ben cinque tavole rotonde, discutendo
di letteratura, di appartenenza, di lingue minoritarie, di libertà
negate. La rassegna si intitola: "Etonnants voyagers": viaggiatori
meravigliosi. E davvero la vita di Pahor è stata un viaggio
meraviglioso. Perché dolore e meraviglia sono emozioni che fanno
grande l'essere umano, tanto da renderlo capace di letteratura.

"A St. Malo ho parlato del Fascismo, di quello che ha fatto. Dei suoi
tanti crimini che sono spesso stati sottaciuti. E questo per non dare
troppa materia al Comunismo, che in Italia era davvero forte dopo la
seconda guerra mondiale. Per questo hanno preferito che non si
raccontasse mai la verità su quello che i fascisti hanno fatto qui a
Trieste, in Slovenia, in Croazia. E non parlo della guerra, ma del
periodo tra le due guerre mondiali. Ci hanno annientati. Ci hanno
trattato peggio degli schiavi neri. Quelli, almeno, parlavano la loro
lingua, mantenevano le loro tradizioni. A noi hanno negato tutto: la
lingua, la cultura, l'identità. Se parlavi in sloveno per strada a
Trieste in quegli anni rischiavi che qualcuno ti allungasse uno
schiaffo!"

Eppure c'è stato un tempo in cui Trieste era orgogliosa delle sue
molte anime, delle sue differenze...

"No, a Trieste non è mai interessato un granchè delle sue anime. Ci
credevano gli intellettuali come Svevo e Joyce. Ma a Trieste Svevo e
Joyce non sono mai piaciuti davvero. Certo la città aveva un nome
all'estero. Qui i bastimenti andavano e venivano da ogni parte del
mondo. E i commercianti sapevano bene che passare all'Italia avrebbe
significato la morte di tutto questo. Eppure gli irredentisti andavano
dicendo: cresca l'erba nel porto, ma vogliamo Trieste italiana ! Così
noi sloveni e croati abbiamo dovuto soccombere. Le nostre etnie, o per
meglio dire le nostre nazioni, sono state immolate ai sacri confini
della regione orientale. L'Istria era a maggioranza croata, c'è poco
da fare. C'erano gli italiani sulla costa, nessuno dice di no. Ma
l'interno dell'Istria era ed è croato. Noi in quegli anni abbiamo
pagato l'imperialismo interno dell'Italia, lo stesso che si è espresso
all'estero sui Balcani o sulla Libia, lo stesso che Bretoni,
Provenzali e Alsaziani hanno dovuto soffrire in Francia, o i Catalani
sotto il regime di Franco".

Ma come è cominciata a Trieste la persecuzione ?

"Già nel 1920. In quell'anno vennero dati alle fiamme tre centri di
cultura sloveni, uno a Trieste città, uno a Barcola e uno a San
Giovanni, assieme a molti studi di nostri avvocati, a tipografie,
teatri. Ma l'incendio dei centri culturali è stato un atto molto
forte, perché noi sloveni siamo sempre stati legati ai nostri centri
di cultura. In ogni borgo, per quanto piccolo, sorge anche oggi una
kulturni dom. E' questa consapevolezza della nostra identità che ci ha
aiutato a sopravvivere nei secoli. Nel `30, a dieci anni
dall'incendio, Francesco Giunta, uno dei fondatori delle squadre
d'azione triestine, celebrò in un libro l'evento come la prova che la
rivoluzione fascista era nata proprio a Trieste".

Lei ricorda quei momenti nella sua opera Il rogo nel porto. Che
impressione le resta di quei giorni ?

"Ho personalmente vissuto la distruzione del teatro di San Giacomo.
Era la festa di San Nicolò e il Santo, accompagnato di diavoli,
distribuiva piccoli regali ai bambini. Poi sono arrivati i diavoli
veri, quelli con il fez e i manganelli. Avevo sette anni. Ero lì con
mio padre e le mie due sorelline. Hanno gettato tutto dalle
finestre... appiccato il fuoco. Era un teatro coi fiocchi... La città
è rimastra neutra. Ha assistito senza esprimere alcun parere."

E in casa quale clima si era venuto a creare in conseguenza al fatto?

"Mio padre bestemmiava, mia mamma piangeva... e poi piangeva anche
perché mio padre bestemmiava. Era un uomo buonissimo mio padre, ma
quando si scaldava... vendeva burro, miele e ricotta a Ponterosso. Un
mestiere molto duro. D'inverno rischiavi che la bora buttasse tutto in
canale. C'era tanto freddo che mio padre si metteva un giornale sotto
la giacca, per proteggersi in qualche modo dal gelo. E d'estate invece
il burro si scioglieva per il gran calore. Pensi che sotto l'Austria
era fotografo della polizia scientifica. Poi il nuovo governo italiano
pensò bene di allontanare tutti gli amministrativi e lo trasferirono
in Sicilia. Ma mio padre preferì mettersi in pensione. E per vivere
andò ad aiutare mio nonno su questo banco a Ponterosso. Era tenace, ci
teneva alla sua identità. Volle che sulla tomba di famiglia, in
cimitero, ci fosse una croce con su scritto Drusina Pahor, famiglia
Pahor, in sloveno. In quegli anni cambiavano i nomi anche ai morti. Ma
quella croce è rimasta lì... chissà, forse perché non eravamo
importanti, non ci conosceva nessuno e così nemmeno la notarono".

Lei allora era un ragazzino...

"Ho vissuto malissimo quegli anni. Il passaggio alla classe quinta
elementare è stato drammatico. Dopo quattro anni di scuola in sloveno
dover diventare improvvisamente italiano... E' stato un disastro
completo. Ovviamente andavo malissimo a scuola. E mio padre lo visse
come un fallimento personale. Tanto che qualcuno suggerì in famiglia
di farmi entrare in seminario. Fui mandato così a Koper, Capodistria.
Una città istriana, ma abitata da lattaie e contadine croate e
slovene, come Gorizia, come Trieste. E qui ho incontrato moltissimi
altri giovani croati e sloveni, come me. Sono stati anni
importantissimi. Ho preso coscienza di me stesso. Mi sono ricostruito
psicologicamente. Ma non era certo la mia strada, quella del
seminario. Così dopo altri due anni di teologia sono uscito e appena
fuori mi hanno arruolato: era la Campagna di Libia. Un'esperienza
strana. Facevo il militare per una nazione che voleva annullare la mia
identità. Ho combattuto per quella Nazione e ho guadagnato anche due
medaglie".

E' una situazione paradossale davvero: scommetto che sulle medaglie
l'iscrizione non era in lingua slovena !

"Oh no ! Ma ero contento, in un certo senso, di essere lontano dal
groviglio Triestino. Il deserto poi mi suggeriva una vastezza di
orizzonti che non avevo mai potuto vivere prima. E gli arabi: li
sentivo a me molto vicini, una nazione oppressa dall'Italia, come lo
era anche la mia nazione. Dall'esperienza di quegli anni è nato un
libro: "Nomadi senza oasi". E poi in Libia ho potuto prendere il
diploma di maturità classica, al liceo Carducci di Bengasi. Mi ero
portato dietro tutti i libri che potevo, infilandoli in ogni tasca
disponibile. Il mio comandante infatti non mi poteva sopportare. Era
uno che aveva combattuto in Spagna per Franco... e dal momento che io
non mi interessavo proprio ai suoi cannoni, mi aveva fatto lasciare
gran parte dei miei libri a Tripoli... per ripicca".

Beh, un fatto singolare... uno sloveno che in Libia consegue la
maturità classica in un Liceo Italiano !

"E' stata una specie di riscatto. Dei trentacinque ufficiali italiani
che hanno sostenuto l'esame ne sono stati promossi soltanto sei. E tra
quelli l'unico otto in italiano è stato il mio, quello di Boris Pahor,
sloveno triestino!".

E poi l'esperienza terribile del campo di concentramento, dalla quale
nasce il romanzo Necropoli...

"Le mie simpatie per i partigiani erano evidenti. Assieme ad altri
avevo costituito nel 1944 un comitato triestino di opposizione ai
nazifascisti. Ma una settimana dopo ero già nelle loro mani. Trovarono
in casa mia dei documenti compromettenti. Avevo scritto da qualche
parte che i nazisti si sarebbero rotti la testa sulle scogliere di
Trieste. Questo è bastato. Era il 28 febbraio del 1944. Assieme a me
sono partiti altri seicento disgraziati come me".

Ma la sua voce è sempre stata pronta a condannare ogni tipo di non
libertà, da qualunque parte venisse l'oppressione...

"La mia letteratura si è sempre interessata alle storie semplici della
povera gente. La mia poetica è e resterà l'insofferenza per la
mancanza di libertà. Sono stato sempre un non allineato. Per questo
non ho mai riscosso grandi simpatie, né da una parte né dall'altra. La
lotta di liberazione partigiana è stata pluralistica, animata da un
fortissimo valore etico: comunisti, liberali e cristiano sociali hanno
lottato assieme per la libertà. Poi le cose sono cambiate. Pensi a
quello che è accaduto a Edvard Kocbek: un cristiano sociale che ha
combattuto assieme a Tito, un intellettuale di grande levatura e
apertura culturale, autore tra l'altro di un libro importantissimo e
non adeguatamente valorizzato, La Compagnia (ed. Cseo, Bologna 1979,
n.d.r.), che andrebbe rivalutato; uno che è diventato vicepresidente
del Parlamento iugoslavo... beh, è stato liquidato politicamente
perché non allineato con le scelte della Iugoslavia di allora. E gli
eccidi compiuti nel '45 contro gente disarmata non possono essere
considerati lotta di liberazione ! Io non potevo non pronunciarmi su
tutto questo. Per questo la mia è ancora oggi considerata una voce
scomoda."

E poi la fine della guerra, il ritorno a casa...

"E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a
Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo
scontro tra Oriente e Occidente. Due delle opere che compongono la mia
trilogia, come l'hanno chiamata i critici, "Labirinto" e "Primavera
difficile" (la terza opera della trilogia è "Oscuramento"; nessuna
delle tre è ancora stata tradotta in italiano, n.d.r.), sono
ambientate in quegli anni così difficili. Si parla di un amore
contrastato, della malattia di TBC contratta dal protagonista, delle
difficoltà di adattamento di un ex deportato".

Dunque ancora gabbie, ancora confini. Confini che forse l'Europa che
sta nascendo potrà cancellare. Crede che l'Europa unita, di cui anche
la Slovenia entrerà a far parte, permetterà di abbattere queste
barriere ?

"Il Presidente della Repubblica Slovena mi ha invitato a partecipare
come ospite gradito alla celebrazione della festa dell'Indipendenza
della Repubblica, il 25 giugno scorso. Ma non ci sono andato perché la
comunicazione mi è giunta troppo tardi. La lettera ci ha messo sette
giorni per arrivare da Ljubljana a Trieste. Sette giorni per
attraversare una distanza di sessanta chilometri. Come vede l'Europa
dei confini resta".

E la Slovenia, cosa potrà portare all'Europa ?

"Per prima cosa l'esempio di come si possa restare fedeli alla propria
identità senza armate, senza generali e senza ammiragli. Un'identità
bastata sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo
sopravvivendo a una storia che da sempre ha cercato di assorbirli, di
omologarli: prima la germanizzazione dell'Impero Asburgico, poi il
Fascismo e l'Italianizzazione forzata e infine gli anni iugoslavi,
serbizzanti, orientalizzanti. L'internazionalismo di Tito è sempre
stato contrario alla salvaguardia delle identità nazionali. Una
posizione molto lontana da quella del Partito Comunista Italiano, che
appunto è sempre stato fiero della sua identità nazionale: prima
comunisti ma poi anche italiani. E poi la Slovenia ha una grande
tradizione letteraria. Una letteratura di valore, per quanto
espressione di un piccolo popolo, è sempre motivo di ricchezza per
tutti".

E dedicandosi a questa ricchezza lei continua a pensare, a scrivere, a
raccontare...

"L'ultimo libro che ho scritto si intitola "Zibelka sveta", la Culla
del mondo, che in Francia è stato edito da Le Rocher nel 2002. Qui in
Italia è edito da Nicolodi. E' uscito quest'anno con il titolo: "Il
petalo giallo". E' la storia di un incesto perpetrato per anni da un
padre sulla propria figlia. La protagonista si innamorerà di un
sessantenne sopravvissuto ai campi di sterminio. E i loro dolori, le
loro prigionie, così diverse ma tanto simili, si incontreranno nella
ricerca di se stessi attraverso un sentimento molto forte che dalla
conoscenza passa alla convivenza, quindi alla comprensione per
sbocciare infine nell'amore".

La donna che redime il dolore attraverso l'amore dunque ?

"La donna è la culla del mondo".

(a cura di Angelo Floramo)