20 ottobre 1941-2011

1) FIABA CRUENTA (D. Maksimovic)
2) Occupazione nazista, stragi e collaborazionismo in Serbia (P. Diroma)
3) KRAGUJEVAC 1941, STERMINIO NAZISTA IN SERBIA (A. Pitamitz)


=== 1 ===

Desanka Maksimovic: FIABA CRUENTA


  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un giorno solo morì
  di morte gloriosa.

  Avevano tutti la stessa età,
  scorrevano uguali per tutti
  i giorni di scuola, andavano alle cerimonie in compagnia,
  li vaccinavano tutti
  contro la stessa malattia.
  Morirono tutti in una giornata sola.

  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un solo giorno morì
  di morte gloriosa.

  Cinquantacinque minuti
  prima che la morte se li portasse via
  sedevano sui banchi di scuola
  i ragazzi della piccola compagnia,
  e con lo stesso compito assillante;
  andando a piedi, quanto
  impiega un viandante
  e così via.

  Erano pieni delle stesse cifre
  i loro pensieri,
  e nei quaderni, dentro la cartella,

  giacevano assurdi innumerevoli
  i cinque e gli zeri

  Stringevano in saccoccia con ardore
  una manciata di comuni sogni,
  di comuni segreti
  patriottici e d'amore.
  E ognuno, lieto della propria aurora,
  credeva di poter correre molto
  tanto ancora
  sotto l'azzurro tetto rotondo
  fino a risolvere
  tutti i compiti di questo mondo.

  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un giorno solo morì
  di morte gloriosa.

  File intere di ragazzi
  Si presero per mano
  e, dall'ultima ora di scuola,
  si avviarono alla fucilazione
  calmi, col cuore forte,
  come se nulla fosse la morte.
  File intere di compagni
  salirono nella stessa ora
  verso l'eterna dimora.


=== 2 ===

https://www.cnj.it/documentazione/Serbia1941/Serbia1941.html#diroma

Occupazione nazista, stragi e collaborazionismo in Serbia


I rapporti tra la «sottorazza slava» e i nazisti nelle zone di occupazione tedesche


Estratto da: P. Diroma, La Jugoslavia dal 1941 al 2000: tra esodi, scontri etnici e movimenti di popolazione, tesi di laurea Università degli studi di Firenze, AA. 2006-2007 - fonte

 

La razza inferiore.


L’idea nazista dell’inferiorità razziale della gente balcanica, e in particolare dell’assoluta mancanza di valore della vita umana dei popoli slavi, si realizzò praticamente nei territori della Slovenia, del Banato e della Serbia con uno dei più duri regimi di occupazione e di repressione del secondo conflitto mondiale. Se nei confronti degli sloveni i tedeschi vollero imporre nuovamente con le armi la supremazia politica, economica e militare che già detenevano in Slovenia all’epoca del Regno degli Asburgo, molto più radicali si dimostrarono i metodi nazisti in Serbia.

Ritenendo il popolo serbo responsabile della guerra e della sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale, dell’affronto delle manifestazioni di piazza antitedesche del marzo 1941, dello slittamento del ben più importante piano Barbarossa, Hitler decise di far pagare a caro prezzo il secolare carattere ribelle dei serbi[1]. Spinte da un odio viscerale contro i popoli balcanici, le autorità militari germaniche nel corso delle vaste operazioni condotte contro il movimento di liberazione jugoslavo, si abbandonarono ad efferati crimini contro i civili residenti nelle zone di guerra. Nell’ambito del programma di epurazione e di rappresaglie i tedeschi saccheggiarono, violentarono, sterminarono e deportarono le popolazioni di interi villaggi[2].


 

[1] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 210; M. WALDENBERG, Le questioni nazionali nell’Europa centro-orientale cit., pp. 61-5; G. SCOTTI, Kragujevac: la città fucilata, Milano, Ferro edizioni 1967, pp. 3-12; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 517-8.

[2] Ibidem, pp. 536-8. 


Il Banato «tedesco».

 

Nel Banato (regione della Vojvodina che non era stata concessa nel 1941 all’Ungheria per ottenere i servigi dei rivali rumeni) ad occuparsi della persecuzione dei serbi, degli ebrei e degli zingari fu soprattutto la minoranza tedesca locale (Volksdeutsche). Presenti in quell’area dai tempi di Maria Teresa d’Austria, quando fu decisa la colonizzazione delle terre strappate ai Turchi dal comandante principe Eugenio di Savoia, i «tedeschi etnici» convivevano con gli slavi e con i magiari e avevano dal 1920 le loro organizzazioni nazionali (Schwabisch-Deutscher Kulturbund). Quest’ultime subirono nel corso degli anni Trenta la progressiva nazificazione e in esse si fece largo l’idea di annettere il Banato al Reich[1].

Con l’invasione del Regno di Jugoslavia, le formazioni paramilitari locali (le «squadre tedesche») sgominarono l’esercito regio e spartirono i poteri amministrativo e di polizia con la Wehrmacht. La regione rimase sotto il diretto controllo delle truppe di occupazione fino al 14 giugno 1941, quando fu stipulato un accordo tra i rappresentanti dei Volksdeutsche e i membri del governo fantoccio serbo che prevedeva l’incorporamento del Banato nell’amministrazione militare e civile della Serbia. Speciali diritti e un autonoma giurisdizione spettavano alla minoranza tedesca[2].Parallelamente alle misure amministrative di esproprio delle proprietà jugoslave, all’istituzione di tribunali militari, si moltiplicavano le violenze, le condanne a morte e le esecuzioni di militari jugoslavi, serbi, ebrei e zingari. L’uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un altro nell’aprile del 1941 nella città di Pančevo, causò la fucilazione di cento civili. Sempre nella stessa città, numerosi civili furono fucilati e impiccati come ammonimento per la popolazione.

Dall’aprile 1941 all’ottobre 1944 nel Banato si ebbero un numero totale di vittime pari a 7513 (di cui 2211 uccise in loco, 1294 morte nei campi di concentramento in cui furono deportate, 1498 uccise nei campi di lavoro forzato)[3]. Dal marzo 1942 ben 21100 tedeschi etnici del Banato furono reclutati, volontariamente o per coscrizione, nei reparti delle SS. Essi costituirono la famigerata divisione Principe Eugenio che dalla base operativa di Pančevo dilagò in tutto il territorio jugoslavo, abbandonandosi ad efferati crimini contro la popolazione inerme (anche contro centinaia di croati di numerosi villaggi attorno a Spalato) e dando una spietata caccia ai «ribelli» comunisti e ai četniči di Mihajlović[4].

 

La Serbia: tra resistenza e collaborazionismo.

 

L’estrema brutalità nazista nei confronti della Serbia fu evidente sin dalle prime ore dell’invasione del Regno di Jugoslavia il 6 aprile 1941. Gli impressionanti bombardamenti della Luftwaffe sulla città aperta di Belgrado provocarono la morte di 17 mila civili. I militari del regio esercito jugoslavo, composto per il 90% da serbi, furono subito internati nei campi per prigionieri di guerra in Germania[5]. Immediatamente posta sotto la diretta amministrazione militare tedesca, la Serbia fu ridotta territorialmente ai confini precedenti la prima guerra balcanica, divenendo terra di conquista del Reich. Come prospettato alla conferenza di Vienna del 16 aprile 1941, la Serbia e la sua capitale rappresentavano nel Nuovo Ordine europeo un avamposto imbattibile, come lo era stato nei secoli precedenti nelle guerre tra l’impero asburgico e i turchi, per la difesa dell’Europa centrale e di Vienna[6]. Perciò concesso il Kosovo all’Albania (tranne la sua punta settentrionale) e parte della Serbia sudorientale alla Bulgaria, l’amministrazione tedesca, dipendente dal 9 giugno dai comandi militari per il settore sud est nella persona del feldmaresciallo List, fin da subito occupò le ricche miniere del territorio serbo e kosovaro, strategicamente importanti per l’industria bellica tedesca, garantendo la sicurezza e la funzionalità delle vie di comunicazioni lungo il Danubio nonché il più ampio collegamento tra Belgrado e Salonicco, fondamentale per i rifornimenti sul fronte africano[7].

Il quartier generale amministrativo del comandante militare per la Serbia, facente funzioni di governo e guidato dall’alto funzionario nazista H. Turner, da subito introdusse la legislazione antiebraica del Reich e obbligò donne e uomini al servizio del lavoro. Esso in pratica affiancava e controllava le autorità civili serbe collaborazioniste che dal maggio 1941, con la formazione del cosiddetto Consiglio dei commissari presieduto da M. Acimović, erano sì state restaurate ma erano totalmente subordinate agli occupanti. I tedeschi avevano trovato fedeli servitori in ex funzionari del Regno dei Karadjeordjević espressamente filotedeschi e filofascisti nonché in politici dei vecchi partiti borghesi decisamente anticomunisti. Convinti della vittoria delle forze dell’Asse e della definitiva morte della Jugoslavia, questi ultimi decisero di lavorare politicamente in favore dello Stato e del popolo serbo ma in realtà finirono per rendersi complici di gravissimi crimini contro i loro stessi connazionali[8]. Ben presto cominciarono ad affluire in Serbia i profughi e i deportati dalle regioni della smembrata Jugoslavia.

L’inizio della lotta armata popolare convinse i tedeschi della necessità di allargare il consenso politico attorno alle autorità collaborazioniste. Furono intavolate trattative per la formazione di un esecutivo serbo che si conclusero con la nascita il 29 agosto 1941 del cosiddetto «governo di salvezza nazionale», guidato dall’ex ministro della difesa jugoslavo, generale M. Nedić (già destituito nel 1940 per essersi espresso in favore di una più stretta collaborazione con le forze nazifasciste)[9]. Il governo fantoccio fu da subito spalleggiato dalle milizie del partito fascista serbo (ZBOR) di D. Ljotić, già designato dai tedeschi quale capo del governo quisling, di cui però aveva declinato la guida in favore di Nedić. I cosiddetti ljotičevci, al fianco dei reparti di polizia e della Gestapo serba, collaborarono attivamente con le forze d’occupazione germaniche alla repressione e al massacro di comunisti ed ebrei così come alle azioni di rappresaglia contro la popolazione[10]. Il maggiore obiettivo del governo collaborazionista fu sempre quello di annientare tutte le forze della resistenza e di arrestare coloro che si connotavano per le loro idee progressiste e antifasciste[11].

Fin da subito la Serbia dimostrò nei confronti delle forze d’occupazione naziste il suo carattere indomabile: già nel mese di maggio le forze nazionaliste filomonarchiche del generale D. Mihajlović ripararono sulle pendici della Ravna Gora nella Serbia sud-orientale, da dove iniziarono azioni di sabotaggio contro le truppe tedesche. Dalla valle del fiume Toplica nella Serbia meridionale i ben più noti četniči di K. Pečanac, incaricato dal governo monarchico di condurre azioni di guerriglia contro le forze nazionaliste bulgare e albanesi, ingrossavano le loro fila con profughi serbi provenienti dalla Macedonia e dal Kosovo. Contemporaneamente si organizzava e si preparava ad entrare in azione il PCJ gravemente minacciato dalle pesanti retate delle forze di polizia tedesche e collaborazioniste nel mese di giugno.

Nel giorno dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica numerosi attentati e sabotaggi furono realizzati a Belgrado dalle organizzazioni giovanili comuniste[12]. Il 7 luglio nel villaggio di Bela Crkva sotto la guida di Z. Jovanović scoppiava la prima grande rivolta della più vasta insurrezione popolare condotta dai partigiani comunisti e dai četniči di Mihajlović: tra luglio e settembre le forze della resistenza riuscirono a liberare gran parte delle località minori e dei villaggi, infliggendo gravi perdite alle truppe tedesche costrette dall’impeto della rivolta a riparare nelle maggiori città. La risposta tedesca fu tremenda e piena di odio razziale: nei bilanci inviati agli alti comandi militari si rendeva conto dell’uccisione di migliaia di comunisti ma in realtà ad essere colpita indiscriminatamente fu l’inerme popolazione civile. Nelle direttive del capo di stato maggiore W. Keitel e del generale plenipotenziario per la Serbia F. Böhme, furono fissate precise quantità di ostaggi da fucilare come rappresaglia: per ogni soldato tedesco o Volksdeutsche ucciso o ferito bisognava uccidere rispettivamente cento e cinquanta ostaggi. I comunisti arrestati dovevano essere impiccati ed esposti pubblicamente come ammonimento per la popolazione. Le località ribelli dovevano essere date alle fiamme; tutta la popolazione maschile avviata nei campi di prigionia e di internamento mentre quella femminile destinata ai campi di lavoro[13]. L’applicazione di tali misure fu rigorosa. Già in aprile l’uccisione di un ufficiale della Wehrmacht aveva portato all’incendio del villaggio di Dobrić. La distruzione di una motocicletta costò la vita di 122 ebrei e comunisti il 29 luglio. Nel periodo tra il 24 settembre e il 9 ottobre 1941 i tedeschi fucilarono nella Mačva 1127 civili, internarono nei campi di concentramento oltre 21 mila persone, saccheggiarono e incendiarono numerosi villaggi. Identica sorte subì la popolazione maschile delle città di Šabac (circa 3 mila morti) e di Belgrado (4750 fucilati al 30 ottobre).

Ma le rappresaglie più spietate le truppe tedesche le commisero nell’ottobre del 1941 nella regione “rossa” della Šumadija: in pochissimi giorni le città e i villaggi di Kraljevo (almeno 2 mila morti), Krupanj, Gornj Milanovac, Mečkovac, Maršić, Lapovo, Grošnica furono saccheggiate e incendiate mentre la popolazione maschile arrestata arbitrariamente per le vie e nelle case fu fucilata. Come ritorsione per gli attacchi partigiani tra Čačak, Valjevo e Gornj Milanovac, che avevano causato la morte di dieci soldati tedeschi e il ferimento di altri 26, il generale Böhme decise una grande azione di rappresaglia: vittima designata fu la città di Kragujevac, già distintasi nei mesi estivi per spettacolari azioni di guerriglia. Tra il 20 e il 21 ottobre 1941 almeno 5 mila persone (ma nelle testimonianze a carico dei responsabili durante il processo di Norimberga si è parlato di 7300 vittime) furono fucilate dalle truppe tedesche, dai collaborazionisti ljotičevci e dai Volksdeutsche. Come descrive lo Scotti nella sua appassionata cronaca della strage, i soldati tedeschi comandati dal maggiore plenipotenziario Köenig e i reparti volontari di M. Petrović, rastrellarono palmo a palmo la città industriale in una grande razzia di uomini (10 mila arrestati). Non furono risparmiati nemmeno 300 studenti delle ultime classi del Ginnasio mentre i fascisti serbi scambiavano con le truppe tedesche propri simpatizzanti arrestati con bambini rom in un macabro baratto di uomini destinati alla morte. Condotti alla periferia della città innocenti, comunisti, ebrei, zingari, studenti, professori, detenuti, sacerdoti, operai, funzionari, ammalati e alcune donne furono fucilati dai plotoni di esecuzione tedeschi. Tra le stesse autorità germaniche si sollevarono dubbi sul reale potere deterrente della strage (esse lavorarono per nascondere la verità dichiarando «l’uccisione matematica di 2300 ribelli»), che al contrario rinfocolò l’odio della popolazione civile che andò ad ingrossare le fila della resistenza[14].

In quel periodo i partigiani comunisti erano riusciti persino a proclamare il primo territorio libero d’Europa, la cosiddetta Repubblica partigiana di Užice, che sopravvisse fino alla fine di novembre, quando fu abbattuta sotto i colpi della prima controffensiva delle forze dell’Asse, che per tutta la sua durata nell’autunno del 1941 causò la morte di oltre 35 mila civili e un numero superiore di internati[15]. Dal mese di giugno le autorità militari tedesche avevano intrapreso la deportazione e l’internamento in massa della popolazione «ribelle» in numerosi campi di concentramento sul territorio serbo come quelli di Niš, Smederevska Palanka, Šabac, Čačak, Stari Trg, Kruševac, Zasavica, Pančevo, Sajmište, Banjica, nonché nei campi di sterminio in Germania. Centinaia di migliaia di serbi, ebrei, zingari (bambini compresi) furono massacrati al loro interno. Il genocidio ebraico era cominciato nel Banato nel settembre del 1941 (Jabuka) ed era proseguito con l’internamento degli ebrei di Belgrado e del resto della Serbia. Il 29 agosto 1942 i tedeschi affermavano con soddisfazione che «la questione ebraica in Serbia è stata completamente risolta» (non erano stati risparmiati nemmeno 800 ammalati che nel marzo 1942 furono eliminati con i gas)[16]. Più di 15 mila ebrei della Serbia, del Banato e del Sangiaccato furono soppressi.

La comparsa della resistenza comunista e il mancato accordo con i distaccamenti di Mihajlović avevano spinto i četniči di Pečanac a cercare un accordo con le autorità tedesche e serbe. I cosiddetti «četniči legali» con i loro metodi brutali divennero allora strumento nelle mani del regime d’occupazione per stroncare i comunisti; essi stabilirono contatti con l’esercito italiano di stanza in Albania per azioni antipartigiane nel Sangiaccato[17]. Intanto partigiani di Tito e  monarchici di Mihajlović cercavano vanamente di giungere ad accordi di cooperazione ma le differenti strategie di guerriglia, la distanza ideologica, gli opposti obiettivi di guerra, la pretesa di mostrarsi agli occhi degli Alleati come unici rappresentanti della resistenza si dimostrarono elementi di contrasto troppo forti[18].

In seguito all’offensiva nazista dell’autunno 1941, alcune migliaia di četniči di Mihajlović cercarono e trovarono riparo presso il governo di Nedić, con il quale raggiunsero accordi di cooperazione che consentirono loro di guadagnare il controllo delle campagne. Dal novembre 1941 cominciarono a verificarsi in Serbia scontri armati tra i comunisti e le forze nazionaliste serbe che avrebbero caratterizzato sempre più i successivi anni di guerra: una guerra civile che faceva il gioco degli occupanti[19]. Nel frattempo i «četniči legali» furono sempre più implicati nelle delazioni, negli omicidi e negli arresti di comunisti, ebrei e di tutti coloro che si opponevano alle autorità militari germaniche; il loro programma politico era tutto proteso verso la costruzione della «Grande Serbia»[20]. Così sul finire del 1941, mentre il grosso delle forze partigiane erano costrette a rifugiarsi nella Bosnia sud-orientale per non far più ritorno sul territorio serbo (almeno fino all’avanzata dell’Armata Rossa nell’autunno del 1944), la Serbia era stata sostanzialmente normalizzata. L’apporto della popolazione serba alla guerra di liberazione negli anni a seguire fu decisamente scarso rispetto a quel mitico 1941[21].

Nel marzo del 1943 i tedeschi decisero di sbarazzarsi degli inaffidabili ed inefficienti «četniči legali»; lo stesso Pečanac internato dalle autorità serbe concluse la sua avventura nel giugno del 1944 quando fu fucilato dai četniči di Mihajlović. Quest’ultimi dopo aver stretto un disperato accordo con Nedić, oramai braccati dall’avanzata dell’Armata Rossa e dell’Esercito di liberazione jugoslavo, negli ultimi mesi di guerra intavolarono trattative con gli accaniti nemici dei serbi, gli ustaša croati, per aprirsi un varco che dalla Bosnia nord-orientale permettesse loro di riparare nella Venezia Giulia (nel mese di maggio 1945 essi sono fatti prigionieri a Gorizia) e verso il confine austro-sloveno. Qui nel maggio del 1945, inseguiti dalle truppe di Tito, subirono assieme a migliaia di ustaša,domobranci sloveni e croati, anticomunisti, la vendetta e la radicale epurazione degli oppositori del nuovo regime comunista. Il loro capo, Mihajlović, era stato già catturato a marzo presso Višegrad e riportato a Belgrado dove nel corso del 1945 fu processato e condannato a morte[22].

  

[1] S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER, The “expulsion” of the German speaking minority from Yugoslavia cit., p. 50.

[2] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., pp. 224-26.

[3] http://en.wikipedia.org/wiki/Crimes_of_the_occupiers_in_Vojvodina,_1941-1944.

[4] C. K. SAVICH, Genocide in Vojvodina and Greater Hungary, 1941-44, in www.serbianna.com/columns/savich/058; S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER, The “expulsion” of the German speaking minority from Yugoslavia cit., pp. 53-4.

[5] G. SCOTTI, “Bono taliano” cit., pp. 21-3; F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 199.

[6] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 211.

[7] N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., pp. 326-8.

[8] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., pp. 210-15.

[9] R.W. SETON-WATSON, R.G.D. LAFFLAN, La Jugoslavia tra le due guerre cit., p. 226.

[10] G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 74-5, 93-4.

[11] http://en.wikipedia.org/wiki/Nedić’s_Serbia.

[12] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 236-241; G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 16-7;  www.vojska.net/eng/worldwar2/serbia/chetniks/pecanac.

[13] P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 531-8; G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 18-32.

[14] G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 92-212; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 531-35, 550-2.

[15] G. SCOTTI, “Bono taliano” cit., pp. 41-2, 57-8; Id.Kragujevac cit., p. 38. 

[16] J. ROMANO, Jews of Jugoslavia 1941- 1945 cit. 

[17] www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac; N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., p. 335.

[18] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 241-3.

[19] N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., pp. 335-6.

[20] Ibidem, p. 335; www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 547-8.

[21] J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave cit., p. 19.

[22] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 257-60; http://en.wikipedia.org/wiki/Bleiburg_massacre.



=== 3 ===

https://www.cnj.it/CULTURA/krvavabajka.htm#pitamiz

Il seguente articolo e' tratto da "Storia Illustrata" del gennaio 1979

STERMINIO NAZISTA IN SERBIA

In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del 1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della popolazione civile.

   di ANTONIO PITAMITZ


Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie lontane da alcuni giorni alimenta.

Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il regno dei Karadjordjevic, ma non ha prostrato i popoli della Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.

Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina" nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente sconfitto sul fronte orientale.

L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione, lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno. Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.

È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia. Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco. 
   
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.

È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la "filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una "crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano all'azione. La macchina si mette in moto.

Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio. 
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia, uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai 14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46 chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10 ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10 tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata" la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure, l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore. 
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva" comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino, Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento dai partigiani, che attaccano senza sosta.

Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100 cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito. Duemilatrecento persone sono condannate a morte.

La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich: comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66 persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac, Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I fascisti serbi strappano il pope dall'altare con il vangelo ancora in mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".

L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba, gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso. È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig, tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge, nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani, pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente, che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia insaponata, l'altra no.

Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi propagandisti e sabotatori.

L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano. Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi. Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori tutti.

I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa. Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe, e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto". I ragazzi credono ancora che torneranno.

Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.

Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte, la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa, e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco. Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.

Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi. Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo, invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da parte.

Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore, insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua. Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.

Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno 21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele, presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.

Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e benedet

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