Niente di nuovo sul fronte orientale
 
1) Friuli Venezia Giulia: mozione regionale contro Anpi e Istituto storico (redaz. Patria Indipendente)
2) L’abisso Plutone, la vera foiba triestina (C. Cernigoi)
Breve riassunto dei fatti narrati in “Operazione Plutone. Le indagini sulle foibe triestine”, di Claudia Cernigoi, ed. Kappa Vu 2019
3) Strategia della tensione in Istria, 1946 (C. Cernigoi)
4) Il caso dei finanzieri scomparsi nel maggio 1945 da Trieste (C. Cernigoi)
 
 
Raccomandiamo anche:
 
STORIA E MEMORIA AL CONFINE ORIENTALE
Un Vademecum per il Giorno del Ricordo (10 Febbraio) a cura di Claudia Cernigoi, 9 Aprile 2019
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TRST JE NAŠ! CONTROLETTURA DEI 42 GIORNI DI OCCUPAZIONE TITINA DI TRIESTE, a cura di Vincenzo Cerceo (di Flacons 2.1_ / Sergio Mauri, 29.4.2019)
 
 
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Sulla vicenda della "Mozione 50" si veda anche il nostro post precedente: 
 
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Friuli Venezia Giulia: mozione regionale contro Anpi e Istituto storico

Redazione, 1 aprile 2019

L’accusa: addirittura revisionismo e negazionismo per le foibe. La segreteria nazionale dell’associazione partigiana: “Mozione faziosa e irresponsabile. Basta con l’uso politico della storia!”.. Forti reazioni di Paolo Pezzino e Raoul Pupo
 
Incredibile mozione approvata dal consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia in cui si mettono sotto accusa Anpi e Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli Venezia Giulia. Oggetto: le foibe.. I capi d’imputazione: addirittura revisionismo e negazionismo. Sotto tiro persino un pacato ed utilissimo “vademecum del Giorno del Ricordo” opportunamente stilato dall’Istituto storico. Finalità: sospendere qualsiasi contributo, patrocinio o concessione pubblica. Presentatori della mozione: Giuseppe Ghersinich, della Lega (Gruppo di appartenenza: Lega Salvini, si legge sulla pagina web del Consiglio regionale), Piero Camber (Forza Italia). Presumibile finalità aggiuntiva: propaganda elettorale.

Mentre il Consiglio regionale operava dissennatamente per dividere, inasprire, strumentalizzare, usando politicamente la storia e riaprendo ferite che da anni si cerca di sanare, negli stessi giorni a Sezana (Slovenia) i Presidenti delle associazioni partigiane di Italia, Slovenia, Croazia, Carinzia davano vita ad una comune iniziativa per cementare l’amicizia fra i popoli e i Paesi e per far sì che i confini che separano questi Stati e che nel 900 sono stati varcati per invadere e sopraffare siano oggi una porta aperta per una pacifica convivenza nelle diversità e nel rispetto delle minoranze.

Il primo a reagire alla mozione del Consiglio regionale è stato il presidente dell’istituto storico Paolo Pezzino: “Una gravissima presa di posizione del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia”; “una censura senza precedenti rispetto a un’operazione storiografica condotta dall’Istituto per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia di Trieste secondi i canoni della ricerca scientifica. Si torna al pensiero unico, al rifiuto del libero dibattito, confondendo negazionismo ed esercizio della libertà di ricerca e di critica. Una vicenda che non può restare senza una forte risposta da parte di tutti i democratici”.
 
Poi uno dei più autorevoli storici, per di più fra i curatori del vademecum, Raoul Pupo: “Allo stesso modo, domani il Consiglio regionale potrebbe decidere, sempre a maggioranza, che la terra è piatta ed invitare la Giunta a negare i finanziamenti a chi ritiene invece che sia tonda”..

A brevissima distanza, ecco la presa di posizione della Segreteria nazionale dell’Anpi: “La mozione del Consiglio regionale di accusa all’Anpi e all’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia di riduzionismo o addirittura negazionismo sul dramma delle foibe e dell’esodo, rappresenta una inaccettabile censura perché nega libertà e legittimità alla ricerca storica in base ad un pregiudizio di ordine politico e ideologico. È gravemente faziosa perché assume l’opinione degli estensori come inconfutabile verità, mentre in particolare in questa regione occorrerebbe bandire qualsiasi uso politico della storia e approfondire la conoscenza e il confronto su basi scientifiche. È un atto di irresponsabilità, perché, strumentalizzando il terribile dramma delle foibe, fomenta un clima di odio e di rivincita e riapre tensioni del passato con i Paesi confinanti, in particolare Slovenia e Croazia. Distorce e falsifica la legge che punisce “l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Si permette di delegittimare l’Anpi e l’Istituto regionale per la storia della Resistenza, rivelando così un intollerabile spirito di vendetta non solo verso questi istituti al servizio della Repubblica, ma specialmente verso la Resistenza. L’Anpi non si farà certo intimidire da questi grotteschi tentativi di sanzionare chi da settant’anni custodisce la memoria della Resistenza e difende la Costituzione; nello stesso tempo l’Anpi denuncia il disegno oscurantista e autoritario che sta prendendo piede nel nostro Paese e di cui questa mozione è una prova gravissima e lampante”.
 
 
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Sul libro si veda anche il video:
"OPERAZIONE PLUTONE" DI CLAUDIA CERNIGOI (TeleCapodistria, 29/3/2019)
Il libro “Operazione Plutone, le inchieste sulle foibe triestine” di Claudia Cernigoi è stato presentato a Trieste al Circolo della stampa. Il libro ha attizzato una serie di vivaci polemiche con la destra e le organizzazioni degli istriani e è valso al Circolo della stampa un comunicato al vetriolo a firma di Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli Venezia Giulia. Nel servizio l'intervista all'avv. Giadrossi e a Claudia Cernigoi.
 
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L’ABISSO PLUTONE, LA VERA FOIBA TRIESTINA

di Claudia Cernigoi, mercoledì 27 marzo 2019
 
(Breve riassunto dei fatti narrati in “Operazione Plutone. Le indagini sulle foibe triestine”, di Claudia Cernigoi, ed. Kappa Vu 2019).
Nell’abisso (foiba) Plutone (una voragine che si apre sul Carso triestino nei pressi della strada che collega il paese di Basovizza a quello di Gropada, detta tradizionalmente Jamen Dol), furono gettati, dopo essere stati fucilati, 18 prigionieri che erano stati arrestati come presunti criminali di guerra. Alcuni dei responsabili di questo eccidio (appartenenti alla cosiddetta “banda Zol-Steffè” che aveva preso possesso del carcere dei “Gesuiti” al momento dell’insurrezione di Trieste e dove commisero atti di violenza) vennero poi arrestati, processati a Lubiana e condannati dalle stesse autorità jugoslave. Nel 1948, sotto il GMA, fu celebrato anche a Trieste un processo contro i responsabili o presunti tali. Tra di essi c’erano alcuni di coloro che erano stati precedentemente arrestati dalle autorità jugoslave e condannati a Lubiana, ma anche l’attore comico Angelo Cecchelin, che era del tutto estraneo agli “infoibamenti”, ed il comandante partigiano Nerino Gobbo Gino[1], che non solo si è sempre dichiarato innocente ma anzi aveva contribuito ad arrestare i membri della “banda” che furono poi processati a Lubiana.
Del processo di Trieste, avvenuto nel 1948, che si concluse con le condanne di tutti gli imputati a pene molto severe, parleremo più avanti.
Per inquadrare gli avvenimenti, diamo adesso la parola proprio a Nerino Gobbo[2], che innanzitutto ci fa un breve racconto della sua esperienza partigiana, iniziando col raccontare delle sue funzioni di dirigente in Villa Segrè.
«Villa Segrè, la famigerata villa Segrè[3] che prima era stata comando delle SS[4], fu destinata a sede del comando del 2° settore, il più esteso fra quelli in cui era stata divisa Trieste. Ricevetti la comunicazione di trasferimento dalla sede di S. Giovanni a villa Segrè intorno al 4 o 5 maggio; organizzammo il comando del 2° settore con funzioni di ordine pubblico. Tra le funzioni c’erano la persecuzione dei crimini compiuti dai nazifascisti ma anche dei crimini di anteguerra e poi c’erano anche altre cose, vendette personali, saccheggi, anche atti criminosi peggiori che, per il fatto di essere commessi durante il periodo della presenza dell’Armata Jugoslava, venivano attribuiti tutti alle forze di liberazione jugoslave, specie a noi triestini che avevamo combattuto con il IX Korpus.
Quello che di più ci impegnò in quel periodo fu proprio il cercare di evitare che accadessero violenze indiscriminate, ma avevamo anche altri compiti, come rifornire di viveri gli ospedali, aiutare le famiglie di nostri caduti e dispersi che non avevano mezzi di sussistenza, fare i permessi per chi voleva andare via da Trieste: fu così, tra l’altro, che potemmo arrestare un membro della banda Collotti che era venuto a farsi fare il permesso, ma venne riconosciuto da uno di noi. Ricevemmo anche richieste più strane, come richieste di divorzio, ma naturalmente su questo non potevamo accontentare la gente.
La struttura di villa Segrè era così composta: al pianoterra c’era il corpo di guardia allargato con un gruppo operativo, al primo piano c’era il comandante di questo gruppo operativo; al secondo piano c’era il comando vero e proprio che si occupava anche delle cose civili. Io ero lì, c’era un vicecomandante che si occupava della parte operativa, la parte generale del comando del 2° settore la gestivo io. Il resto della villa era sede dell’OZNA.
Cos’è accaduto al carcere dei Gesuiti[5]? Bene, noi ci siamo imbattuti in una serie di atti inconsulti, criminosi, con i quali abbiamo dovuto fare i conti. Un giorno mi telefonò il comandante del 2° battaglione, Giordano Luxa, e mi chiese se avevo io sotto controllo le carceri dei Gesuiti, ma io risposi che quelle erano sotto la sua giurisdizione. Visto che avevano avuto informazioni di maltrattamenti ed anche furti ai danni dei prigionieri, dissi al mio vice di andare a dare un’occhiata.
Ai Gesuiti c’erano dei “partigiani” che dicevano di essere stati attivi durante l’insurrezione e che avevano preso posizione alle carceri e anche al distretto e che avevano fatto degli arresti. Ricevute queste informazioni dal mio vice, decisi subito che dovevamo prendere noi il controllo delle carceri, e abbiamo sostituito questo gruppo che c’era all’interno delle carceri con altre persone di fiducia, con un comandante qualificato.. Così facemmo ordine nelle carceri.
Per chiarire come fossero successi i fatti di prima e per non destare sospetti e coperture, decidemmo di trasferire quel gruppo al comando, dove sarebbero stati tenuti sotto osservazione. Così potemmo impedire ogni reazione improvvisa ed includemmo nel gruppo due nostre guardie di fiducia che dovevano controllarlo. Dopo circa una settimana abbiamo avuto abbastanza elementi in mano per decidere l’arresto di tutto questo gruppo che era coinvolto in fatti che non corrispondevano alle direttive, alla nostra funzione. I maggiori responsabili sono stati consegnati all’autorità jugoslava che ha provveduto a processarli. All’inizio ne avevamo arrestati di più, ma quelli consegnati all’Armata erano circa dieci/dodici. Questi sono stati portati a Lubiana, ma durante il viaggio alcuni di loro tentarono la fuga; alcuni ci riuscirono, altri no. Quelli che riuscirono a scappare furono processati a Trieste; quelli portati a Lubiana sono stati processati e riconosciuti colpevoli, hanno fatto anche due o tre anni di reclusione e dopo sono ritornati a Trieste».
LA “BANDA STEFFÈ”.
Della cosiddetta “banda Steffè”, autonominatasi “squadra volante”, e cioè il gruppo di persone citate da Gobbo insediatesi ai Gesuiti, macchiatesi di abusi e violenze nei confronti degli arrestati e successivamente implicate nei fatti della Plutone, furono inquisiti dalla Polizia civile del GMA: Giovanni Steffè e Giuseppe Cavallaro, di cui si disse che erano stati membri della X Mas; Ottorino Zol, rapinatore arrestato e rilasciato poco prima dell’insurrezione da una squadra dell’Ispettorato Speciale; Edoardo Musina, che era stato allievo paracadutista a Tarquinia, nella scuola della X Mas; Teodoro Cumar; Giacomo Stule e Carlo Mazzoni. Non si procedette nei confronti di Mazzoni, Steffè e Zol, deceduti in due distinti tentativi di fuga, così come nei confronti di Cavallaro, che passò dalla figura di indagato a quella di testimone chiave, antesignano, forse, di quella, tanto tristemente diffusa al giorno d’oggi, figura del “pentito”, ovvero colui che, dopo essersi macchiato di efferati delitti, riesce a salvare se stesso dal giudizio perché testimonia contro altre persone.
I giornali dell’epoca, che relazionarono dello svolgimento del processo, riportarono anche alcune affermazioni che sarebbero state fatte dall’ispettore Umberto De Giorgi (che aveva condotto le indagini): ma queste affermazioni stranamente non compaiono nella trascrizione ufficiale dell’udienza.
«Lo Zol aveva comandato le carceri dei Gesuiti, togliendone la direzione all’autorità fino allora in carica. Il De Giorgi stesso comandava al momento la squadra di Polizia di servizio alle carceri. Prima di cedere il comando allo Zol, si era consultato col col. Peranna del CLN che gli diede l’autorizzazione»[6].
Questa citazione è confermata da una relazione redatta dello stesso De Giorgi ed indirizzata al questore designato dal CLN Ottorino Palumbo Vargas:
«Come da ordine vostro il mattino del 1° maggio alle ore 8 ho assunto servizio d’ordine al Carcere succursale di via del Collegio, assieme a 10 agenti di Polizia e 9 soldati comandanti (sic) dal sottotenente degli Agenti Ausiliari di Polizia signor Alessi[7]».
Quindi stando a queste dichiarazioni, l’ordine di prendere il controllo dei Gesuiti sarebbe venuto a De Giorgi direttamente da Palumbo Vargas, cioè dal CLN.
In seguito «verso le ore 20 si sono presentati altri giovani armati in abito civile fregiati della stella rossa, capeggiati da certo ZHOLL (sic) Ottorino da me conosciuto quale pregiudicato per reati comuni, il quale ha esibito un biglietto portante un timbro con la stella rossa sui cui era scritto che egli era incaricato dal suo comando di assumere il compito di comandante delle carceri. (…) Poiché nel meriggio, avendo telefonato in questura, in un colloquio col Colonnello Tamaro dei Carabinieri avevo appreso che già gli agenti di altre caserme avevano ceduto le armi; allo scopo di evitare inutile spargimento di sangue ho aderito all’ordine portato dallo ZHOLL…»
Che vi siano state infiltrazioni di provocatori provenienti dall’ambiente nazifascista all’interno dei comandi partigiani, allo scopo di creare disordini e discredito sulle autorità jugoslave che amministravano Trieste, è un sospetto che può venire dopo la lettura di un documento redatto nell’autunno del 1945 da Aldo Gamba, comandante del 1° Squadrone autonomo, già Polizia Militare di sicurezza dipendente dall’OSS, (la futura CIA) sul “piano Graziani” risalente all’ottobre 1944.
L’idea del maresciallo Graziani era di infiltrare elementi fascisti nelle organizzazioni clandestine antifasciste, idea esposta in una riunione segreta avvenuta a Milano presso la sede della Muti. Il metodo sarebbe stato il seguente, scrive Gamba: «immettere il maggior numero di fascisti entro le nostre organizzazioni clandestine, mandando in galera gli antifascisti veri (...), iscriversi in massa ai partiti antifascisti, attizzarvi le tendenze più estremiste, sabotare ogni opera di ricostruzione, diffondere il malcontento e preparare sotto qualsiasi insegna (...) la resurrezione degli uomini e dei loro metodi fascisti. (...) Gli elementi (...) erano i comandanti delle varie legioni Muti, brigate nere, guardie repubblicane, i capi dei vari servizi di spionaggio, i torturatori, gli aguzzini, ecc.» Secondo Graziani, prosegue Gamba, «non è necessario vincere la guerra perché il fascismo e i fascisti possano salvarsi (...) basta saper rendere la vita impossibile ad ogni governo che raccolga la nostra successione» E per questo bisognava «organizzare bande armate che funzionino segretamente, che aggiungano altre distruzioni a quelle tedesche, che si mescolino alle manifestazioni popolari per suscitare torbidi. Ma soprattutto mimetizzati penetrare nei partiti antifascisti e introdurvi fascisti a valanga, propugnare le tesi più paradossalmente radicali (...), sabotare e screditare l’opera del governo (...), seminando l’Italia di sciagure su sciagure, suscitare il rimpianto del fascismo e (...) riacciuffare il potere»[8].
Un piano questo che partì alla fine del 1944 e col quale si possono forse spiegare alcune pagine “oscure” sia della Resistenza (come l’eccidio di Porzûs), che avvenimenti successivi ad essa, come i fatti della Plutone ed altri “infoibamenti”, e tutta l’attività della stessa Gladio nel dopoguerra.
«Due giorni dopo la notte della foiba Plutone, l’intera “Squadra volante” veniva arrestata per ordine delle autorità jugoslave e trasportata con due autocarri a Lubiana per essere processata. Durante il tragitto, all’altezza di Fernetich, Zol, Cumar, Steffè e Mazzoni tentarono la fuga e gli ultimi due rimasero uccisi.
Zol veniva nuovamente arrestato al suo ritorno a Trieste e, in un nuovo tentativo di fuga, si prese una sventagliata di mitra alla schiena che lo freddò. Del nucleo dirigente della “Squadra volante”, tra deceduti e latitanti, rimaneva solo Cumar, nel frattempo condannato all’ergastolo dal tribunale jugoslavo»[9].
IL PROCESSO.
Il processo a Trieste si aprì il 3 gennaio 1948 e, come scrivono Duiz e Sarti «verranno istituite decine di processi per le foibe, mentre quello per la Risiera di San Sabba andrà in aula solo nel 1976»[10]. Sul banco degli imputati si trovarono Cumar e Cecchelin; mentre erano contumaci Musina, Stule e Gobbo, al quale ridiamo la parola.
«A Trieste, a parte Cumar, gli altri sono stati tutti processati in contumacia; si parla del famoso processo in cui fu coinvolto anche Cecchelin. Gli imputati principali furono tutti condannati in contumacia, come me; io fui condannato come comandante del gruppo che avrebbe fatto sotto il mio comando quello che è stato loro imputato, mentre al processo avrebbe dovuto venire fuori che io ero stato quello che aveva impedito a quei signori di continuare a fare quello che stavano facendo di male. Ma i testi a mia discolpa non si trovavano; una di essi, che aveva chiarito le cose in istruttoria, al momento di testimoniare in tribunale era “irreperibile”[11]..
Quello che è molto interessante rispetto al processo è che io non sono mai stato né invitato né notificato a presentarmi. Dai miei organi di Stato sono stato invitato alla prudenza nel caso andassi a Trieste, ma non ebbi mai notizia ufficiale del processo.
Praticamente sono stato informato del processo dall’avvocato Sardoc, con il quale ero in buoni rapporti; mi fermò a Capodistria e mi disse che avrebbe preso volentieri la mia difesa al processo. Dagli atti del processo risulta che io ero irreperibile, ma io ero allora una delle persone più note del capodistriano, andavo a Trieste normalmente, mi conoscevano tutti. Avrebbero potuto incontrarmi ed interrogarmi in ogni momento, potevano raggiungermi personalmente o tramite le autorità o l’avvocato d’ufficio, ma non fecero nulla di tutto ciò.
Quanto alla proposta dell’avvocato Sardoc, non l’ho potuta accettare per questioni giurisdizionali. Ammesso che avessi commesso qualcosa che non andava, questo sarebbe accaduto quando in forma ufficiale io ero comandante di un settore che era alle dipendenze del Comando città di Trieste, cioè delle autorità civili costituite dall’Armata jugoslava che aveva liberato Trieste, quindi per le mie eventuali trasgressioni sarebbe stato competente il Tribunale militare, così come sono stati giudicati dalle nostre autorità tutti quelli imputati di aver commesso qualche cosa»[12].
Ma come si svolse il processo?
«Fascisti della peggior fama venivano chiamati a deporre, come Ugo Pelizzola (...) Mario Storini, Romeo Sau, Giuseppe Romito, tutti ex squadristi (...), condannati a diversi anni (chi venti, chi trenta) dalla Corte Straordinaria di Assise per sevizie, saccheggi, bastonature e poco dopo amnistiati (...) E avventurieri come Bruno Banicevich (...) O, come lo stesso Cavallaro, già appartenente alla X Mas, con numerose testimonianze di brutali sevizie a suo carico, e poi passato alla “Squadra volante”, “costretto” dal Gobbo a sparare nella notte fatale del 23/24 maggio del ‘45»[13].
Il Cavallaro, dunque, che sostenne in udienza di “essere stato costretto a sparare” da Gobbo che gli avrebbe tenuto una pistola puntata alla schiena mentre lui e gli altri “infoibavano” i diciotto prigionieri che avrebbero dovuto essere trasportati a Lubiana, il Cavallaro, dicevamo, non fu imputato nel processo ma solo testimone. Infatti l’ispettore De Giorgi, «consenziente l’autorità giudiziaria (…) premiò la sincerità» di C. e decise di non incarcerarlo, applicando l’art. 54 del Codice penale[14].
Non possiamo non rilevare che Cavallaro evidentemente ottenne di far stralciare la propria posizione per il fatto di avere accusato Gobbo di essere lui il responsabile del crimine.
Alla fine Cumar fu condannato a 28 anni (sulla sentenza c’è un’annotazione datata 5/11/54: «da ordine GMA n° 8 dd. 27/1/54, ridotta a Cumar la pena a 2 anni») e Cecchelin a 5 (con tre di condono), mentre i tre contumaci furono condannati a 26 anni (Musina e Gobbo) ed a 24 anni (Stule). Gobbo, al quale nulla fu ufficialmente notificato, non interpose appello contro la condanna che quindi divenne definitiva, chiese ed ottenne successivamente l’amnistia dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
GLI “INFOIBATI”.
Dall’abisso Plutone furono recuperati tra il 18 ed il 20 maggio 1947, stando alle risultanze processuali, 20 corpi, 16 dei quali furono identificati come quelli di un gruppo di 18 prigionieri fatti uscire dai Gesuitinella notte tra il 23 ed il 24 maggio per essere condotti a Lubiana. Quattro salme non furono identificate ufficialmente, però il procedimento si svolse anche per l’uccisione dei due prigionieri del gruppo di 18 che non furono identificati da nessuno.
Vediamo ora le figure degli “infoibati” nell’abisso Plutone.
Arrigo Chebat, impiegato della cassa mutua ma anche squadrista della prima ora; Giuseppe Pelizon, infermiere all’ospedale Maggiore: una testimonianza raccolta ha detto che questi riferiva ai nazisti in merito ai ricoveri da ferite d’arma da fuoco, in modo da denunciare i partigiani feriti (che magari venivano curati nascostamente da altri infermieri e medici); Carlo Polli, impiegato, ma negli articoli di giornale che parlano dei recuperi delle salme, viene indicato come “agente” non meglio specificato; Giacomo Pellegrina, in arte Nino D’Artena, artista di varietà (fu per il suo arresto che venne incriminato Cecchelin) ma anche squadrista, spia, collaboratore di Radio Franz[15], criminale di guerra denunciato da Radio Londra; Giuseppe Poropat, carbonaio, ma anche torturatore di partigiani in Istria; Domenico Toffetti, interprete presso l’Ufficio dell’ammasso a Dignano; Mario Giorgio Stoppa, agente di PS; Giovanni Spinella, Pietro Piccinini, Santo Camminiti, Matteo Greco, Antonio Picozza, Gaspero Sciscioli, Raimondo Selvaggi dell’Ispettorato Speciale di PS; Alfredo Trada, delle Brigate Nere, che pare si vantasse di avere ucciso più di un antifascista; Filippo Del Papa, agente di custodia al Coroneo ma anche nei ranghi dell’Ispettorato Speciale; infine Ernesto Mari ed Angelo Bigazzi, capi degli agenti di custodia al Coroneo, che furono responsabili di deportazioni ed internamenti nei lager tedeschi di diversi loro sottoposti. Due di questi, rientrati dalla prigionia, li denunciarono alle autorità jugoslave di Trieste a metà maggio ’45, furono per questo successivamente arrestati sotto il GMA e si trovavano rinchiusi in un carcere italiano ancora all’epoca del processo Plutone, nel 1948. Il Tribunale Militare di Padova li assolse in quanto nel corso del dibattimento emerse innanzitutto che le accuse contro Mari e Bigazzi erano circostanziate: ad esempio il maresciallo Mari giunse al punto di dire alla signora Tafuro (moglie di un agente deportato che era già morto in un lager, anche se la donna non lo sapeva) che lo pregava di intercedere per il marito «stia zitta, che se no, la faccio finire in Germania anche lei»; inoltre agli imputati fu riconosciuto il fatto di avere denunciato i superiori a quella che allora era l’autorità competente, cioè quella jugoslava[16]. Di Mari risulta inoltre che firmò l’ingresso in carcere e poi l’uscita per essere consegnati alle SS di alcuni bambini di pochi anni e di alcuni anziani ebrei. Ci chiediamo se coloro che decisero di intitolare a Mari, nell’ottobre 2001, la caserma degli agenti di custodia di Trieste, e poi nel 2018 le carceri stesse, siano stati a conoscenza di queste risultanze processuali.
L’abisso Plutone può essere considerato forse l’unica “vera” foiba triestina. In esso trovarono la morte persone su cui gravavano accuse di crimini di guerra, che avrebbero dovuto subire un regolare processo, il quale non poté essere celebrato a causa delle “deviazioni” dei membri della “banda Steffè”. Tenuto conto che parte della “banda Steffè” (a cominciare da colui dal quale la “banda” prese nome) proveniva dalla X Mas e che della X Mas facevano parte i servizi segreti che avevano, assieme ai nazisti, orchestrato la propaganda sulle foibe in chiave “anti-slavocomunista”, viene il sospetto che anche l’episodio della foiba Plutone possa essere stato fatto a futura memoria, un eccidio di cui incolpare i partigiani, un crimine da ingigantire ed attorno al quale creare ulteriori mistificazioni e confusioni. Nel suo libro “Porzûs. Dialoghi sopra un processo da rifare”, Alessandra Kersevan scrive, riferendosi all’eccidio di Porzûs: «Un comandante garibaldino con cui una volta ho parlato mi ha detto, pensando a quanto i democristiani hanno potuto sfruttare l’episodio: - Se Porzûs non fosse avvenuto avrebbero dovuto inventarlo -». E, più avanti: «Più che inventato, lo hanno costruito e plasmato». La similitudine dei due avvenimenti (Porzûs e Plutone), il coinvolgimento più o meno degli stessi organismi (X Mas e servizi collegati, ma anche il CLN anticomunista), salta all’occhio. Sarà casuale che Ennio Maserati (il quale è tutto sommato uno degli storici più seri), come abbiamo già visto, parli del «recupero di numerosi cadaveri di militari italiani e tedeschi e di civili, in particolare nella foiba Plutone di Basovizza (pozzo della miniera)»? Se Maserati definisce così la Plutone, può significare che “qualcuno” aveva fatto in modo da creare confusione nell’identificare i due abissi, fondendo assieme i ricordi e le “testimonianze” sui processi popolari a Basovizza nei pressi del pozzo della miniera con i morti della Plutone, i quali erano stati veramente infoibati, si noti bene: ma erano solo 18, e non certo “infoibati” su ordine delle autorità jugoslave che anzi avevano provveduto ad arrestare e processare i responsabili; mentre le “voci” diffuse nell’estate del ‘45 da una certa stampa (legata, ricordiamolo, al CLN triestino) parlavano di 400 persone gettate nell’altro abisso vicino a Basovizza, il Pozzo della Miniera che poi è diventato monumento nazionale, ma dove non fu commessa alcuna esecuzione di massa da parte jugoslava.
[1] Nerino Gobbo, comandante Gino, militante e poi comandante di Unità Operaia-Delavska Enotnost, responsabile, al momento dell’insurrezione di Trieste, del II settore operativo.
[2] Intervista concessa da Nerino Gobbo al periodico triestino La Nuova Alabarda nel settembre 1996.
[3] Quando a Trieste si parla degli “orrori dell’occupazione titina” uno dei temi ricorrenti è sempre quello relativo alle violenze che sarebbero state commesse nella villa Segrè dalla “Squadra volante”. In realtà queste violenze si svolsero alle carceri dei Gesuiti. Secondo noi il probabile motivo della confusione tra i due posti è dovuto ad una relazione redatta da Biagio Marin (Archivio IRSMLT XXIX 2112 b) dove si parla di «inaudite violenze» perpetrate in villa Segrè, ma si citano solo i casi dell’insegnante Elena Pezzoli, del CLN che «fu torturata e non ha fatto più ritorno» e di «un’altra donna (...) costretta a pulire il pavimento con stracci che erano i resti di una bandiera italiana». Nella testimonianza resa in sede processuale dalla protagonista di questa vicenda (Emma Pirnetti) leggiamo che «il compagno Doro (Teodoro Cumar, n.d.r.) mi incaricò di eseguire la pulizia dei mobili e per l’occasione mi fornì uno straccio che era residuato da una bandiera italiana» (procedimento n. 2571/47 RG).
[4] È un’interessante coincidenza che tra il 28 e 29 aprile, cioè poco prima dell’insurrezione, la villa Segrè fu attaccata da membri di tre brigate del CVL, che ne asportarono automezzi ed armi. Non sappiamo se qualcuno di questi militanti sia rimasto a controllare la villa, però tra gli arrestati dalle autorità jugoslave come membri della “banda” compaiono i fratelli Raffaele e Ruggero Terzulli per i quali il CLN triestino inviò una lettera di richiesta notizie (11/1/47), indicandoli quali suoi componenti (lettera citata da Spazzali in “…l’Italia chiamò”, LEG 2003, conservata nell’archivio segreteria dell’Associazione Volontari della Libertà).
[5] I Gesuiti erano le vecchie carceri di Trieste che si trovavano vicino alla chiesa di S. Maria Maggiore, in origine dei padri Gesuiti, successivamente dei frati francescani.
[6] Corriere di Trieste, 8/1/48. Va precisato che questa non è la sola discrepanza che abbiamo riscontrato tra la verbalizzazione ufficiale ed i resoconti apparsi sui giornali.
[7] “Relazione sul servizio alle Carceri giudiziarie di via del Collegio durante l’insurrezione per la liberazione di Trieste”, indirizzata al “reggente la Questura di Trieste designato dal CLN”, dottor Ottorino Palumbo Vargas, datata 3/5/45, copia rilasciata all’autrice dalla DIGOS di Trieste. Palumbo Vargas era stato dirigente della Polizia ferroviaria in epoca nazifascista. Un Alessi risulta nei ranghi del CVL inserito nella Brigata “Venezia Giulia”, comandata da Redento Romano, che si ricostituìnel maggio ‘45 per continuare la “resistenza” contro le autorità jugoslave.
[8] Nel numero di novembre 1985 del mensile “Storia Illustrata”.
[9] R. Duiz e R. Sarti, “La vita xe un bidòn”, Baldini & Castoldi 1995, pag. 166.
[10] Id., pag 260. Quanto scritto qui corrisponde al vero (basta consultare l’archivio delle sentenze della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste tra il 1946 ed il 1950), ma è interessante rilevare che la parte nazionalfascista ha sempre sostenuto l’esatto contrario. Così nel libretto curato dalla Federazione Grigioverde nel 1985 (“L’olocausto sul Carso”), troviamo questa affermazione: «nessuno perseguì mai gli autori delle stragi (delle foibe, n.d.r.), a differenza di quanto si fece per gli aguzzini e gli assassini della Risiera».
[11] In realtà, come si legge anche sulla stampa dell’epoca, la teste era stata tratta in arresto su ordine di De Giorgi, con l’accusa di avere partecipato alle sevizie commesse ai Gesuiti (accusa dalla quale fu quasi completamente prosciolta con la sentenza della Corte Straordinaria d’Assise del 20/3/48) , proprio quando avrebbe dovuto recarsi a testimoniare e fu trattenuta in carcere un paio di mesi; successivamente non fu più convocata a deporre.
[12] Intervista concessa da Nerino Gobbo, cit..
[13] R. Duiz e R. Sarti, cit., pag. 379.
[14] L’articolo 54 del Codice penale disciplina lo “stato di necessità”, ossia la non punibilità di «chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (omissis)». Il passo è tratto da una relazione anonima, datata 23/12/48, che segnala l’ispettore per un concorso bandito dalla rivista Crimen (premio: 100.000 lire dell’epoca) per il migliore investigatore del 1948 (copia ricevuta dalla DIGOS di Trieste).
[15] Radio Franz era un’emittente gestita dai nazisti che si spacciava per filo partigiana e mediante la quale venivano diffuse notizie false per creare confusione alla Resistenza armata.
[16] Tutto ciò risulta dalla sentenza del Tribunale militare di Padova, n. 573/48 d.d. 10/11/49.
 
Claudia Cernigoi, marzo 2019
 
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Strategia della tensione in Istria, 1946
 
di Claudia Cernigoi, sabato 30 marzo 2019
 
 
  1. Il CLN dell’Istria e le strutture degli esuli in Italia.
Nell’estate del 1945, mentre l’attuale provincia di Trieste (la futura zona A) era sotto il controllo angloamericano, l’Istria (compresa la futura zona B) era rimasta sotto controllo jugoslavo, eccezion fatta per l’enclave della città di Pola (importante porto militare), amministrata dagli angloamericani.
Fu in quel periodo che si costituì il CLN dell’Istria, sorto in opposizione all’amministrazione jugoslava che aveva occupato militarmente territori prima occupati dai nazifascisti. Teniamo conto di quanto affermato da Fabio Forti, che ancora più che non a Trieste, in Istria la politica del CLN nazionalista non era stata di resistenza attiva al nazifascismo, con la motivazione che «la resistenza democratica era debole e i comunisti erano preponderanti» e che sia i rastrellamenti nazifascisti, sia la lotta partigiana «terrorizzavano gli istriani»: il che sarebbe stata la causa del primo esodo avvenuto nel 1943. Nel contempo però, come a Trieste, esponenti del movimento repubblicano erano impegnati «già sul finire del conflitto a contrastare attivamente la politica annessionistica jugoslava»[1].
Riportiamo di seguito alcuni dati esposti dal presidente dell’Associazione delle Comunità istriane Lorenzo Rovis. Alla fine del 1945 si costituì a Trieste il GEI (Gruppo Esuli Istriani), che operava in virtù dei riconoscimenti ottenuti a livello istituzionale ed usufruiva di fondi richiesti al CLN della Venezia Giulia (che, come ricordiamo, non si era sciolto alla fine delle ostilità) che li otteneva dal Ministero dell’assistenza post-bellica e dal Ministero degli Interni. Tali fondi sarebbero stati gestiti da un comitato facente capo al Presidente di Zona (cioè della Zona A) Gino Palutan, il cui referente era il dottor Fausto Pecorari[2].
Il GEI comprendeva nuclei facenti riferimento a varie località: per Isola d’Istria il referente era Carlo Chelleri (già membro della Brigata Timavo del CVL giuliano, che si recò a Roma al Ministero della guerra per cercare fondi ed al quale è stata attribuita una relazione apocrifa che parla dei non avvenuti “infoibamenti” a Basovizza); per Capodistria aveva una «posizione significativa» il sacerdote capodistriano don Edoardo Marzari, già presidente del CLN triestino e c’era il giornalista socialista Giorgio Cesare; per Umago il referente era un altro triestino, l’ex comandante della Brigata Venezia Giulia (e segretario della DC triestina negli anni ‘50) Redento Romano; infine Rinaldo Fragiacomo per Pirano e Ruggero Rovatti per Pinguente (che era anche responsabile della Sezione assistenza per la gestione degli esuli istriani nella Zona A). Dopo la firma del Trattato di pace nel 1947 il CLN ebbe un riassetto con altri incarichi[3].
Del CLN istriano a Trieste erano attivi, oltre a Romano e Cesare, anche Gianni Giuricin, Dario Biasi e Pietro Apollonio, che rappresentavano rispettivamente le località di Rovigno, Parenzo e Pinguente; le riunioni si svolgevano a Trieste nella sede del Partito repubblicano dove venivano raccolte le adesioni della popolazione italiana contraria ai nuovi poteri popolari.
A curare la sezione stampa e propaganda fu Redento Romano, il quale diresse, oltre al Servizio informazioni che compilava «periodiche relazioni sulla situazione d’oltreconfine da inviare al Governo nazionale», anche il bollettino Il Grido dell’Istria.
Il CLN istriano avrebbe continuato ad operare fino al 1966 e si sarebbe sciolto nell’Associazione delle comunità istriane nel giugno del 1967: pertanto gli attuali rappresentanti delle organizzazioni degli esuli istriani sostengono che esse discendono direttamente da questo raggruppamento.
Spostiamoci momentaneamente nella Capitale, dove, come prima accennato, si era costituito il Comitato nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che vedeva uniti ex ufficiali della SS e il “padre della patria”, il deputato democristiano eletto all’Assemblea Costituente Fausto Pecorari (che fu nello stesso anche referente per i finanziamenti dell’Ufficio Zone di Confine alle squadre nazionaliste triestine), sotto la presidenza del quale l’Esecutivo riunitosi a Roma dal 23 al 29 maggio 1947, votò il seguente «ordine del giorno»:
«L’Esecutivo (…) eleva nella ricorrenza del 24 maggio il suo reverente pensiero ai Caduti della guerra di redenzione; ricorda quanti immolarono la propria vita per l’italianità e la libertà delle terre orientali adriatiche; ammonisce gli italiani a considerare l’ingiustizia imposta alla Patria con l’iniquo trattato di pace; invita i giuliani e dalmati esuli in patria a stringersi concordi intorno alle bandiere del Comitato Nazionale Venezia Giulia e Zara per conservare e tramandare ai figli le fiere tradizioni patrie della nostra gente, nella costante anelante visione del ritorno alle nostre case; fa presente al governo e alla nazione le tristi condizioni degli esuli invocando urgenti adeguate provvidenze; fa voti che la Patria ritrovi presto l’unità spirituale indispensabile alla rinascita, al suo avvenire, alla sua indipendenza»[4].
Il Comitato divenne poi Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e tra i suoi fondatori c’era anche l’azionista Lino Drabeni, che durante la guerra aveva diretto la Formazione Autonoma Giuliana a Milano.
Nel libro-intervista con Maria Pasquinelli[5] un intero capitolo è dedicato ai «verbali delle riunioni del CLN» istriano svoltesi a Pola nel 1946, pubblicati a cura di Pasquale De Simone (che dovrebbe avere fatto parte di questo CLN) dall’ANVGD di Gorizia nel 1990, ed introduce il capitolo con le seguenti valutazioni: «alcuni momenti del dibattito all’interno del CLN che è giusto percorrere perché spiegano l’atmosfera di quel 1946 a Pola, e forse sono una chiave di lettura della strage di Vergarolla ed anche del gesto estremo di Maria Pasquinelli che si sentiva coinvolta in quelle giornate di convulsa ricerca di una soluzione più di quanto potesse sospettare chi l’aveva incontrata e conosciuta»[6]..
Della strage di Vergarolla e del “gesto estremo di Maria Pasquinelli” parleremo più avanti, vediamo ora i contenuti politici espressi dal CLN istriano.
In sintesi il CLN di Pola chiedeva un «plebiscito che assicurasse alle popolazioni della Venezia Giulia di decidere del proprio destino», ma, afferma De Simone, «neanche i parlamentari amici come De Berti[7]» vollero «occuparsi della faccenda». Nel periodo erano in corso le consultazioni diplomatiche per la stipula del Trattato di pace che doveva definire i confini d’Italia, non solo il confine orientale, ma anche i territori da cedere alla Francia, i confini dell’Alto Adige e le colonie.
Nel maggio 1946 le riunioni verbalizzate da De Simone mostrano un dibattito piuttosto agguerrito, a cominciare dalle parole di tale Coslovi («nessuna causa si vince senza sangue, dobbiamo agire, abbiamo della gente disposta a tutto, un moto di popolo può risolvere»), per proseguire con quelle di un tale Laganà (anche questo indicato senza il nome di battesimo): «bisogna far sì che in Italia si rendano conto della nostra situazione e di quella che verrebbe a crearsi nell’Istria nel caso di una cessione alla Jugoslavia. Le mozioni a questo scopo servono a poco; bisogna creare disordine o fare in genere qualcosa di forte».
Ed infine un certo Rusich: «La popolazione si sentirebbe rincuorata da una dimostrazione. Chi non è disposto a dare la vita perché qui non vengano gli slavi? Io sono disposto a darla (…) siamo dalla parte del diritto, per questo diritto dobbiamo lottare senza paura di dover spargere del sangue, anzi proprio dal sangue sorgerà per noi un maggior diritto»[8].
A questi propositi di creare una vera e propria strategia della tensione si mostrarono contrari altri membri del CLN: Porcari, Massimo Manzin, De Luca e Villa. E va citata infine la dichiarazione di Leonardo Benussi: «noi partigiani italiani dobbiamo cancellare un marchio (…) d’aver combattuto con Tito (…) per salvare l’Italia nell’Istria e siamo disposti a combattere contro Tito per affermare la nostra italianità».
Qui si interrompe l’analisi dei verbali del CLN pubblicata da Turcinovich e non conosciamo pertanto quale linea sia alla fine passata. Però bisogna aggiungere la testimonianza di Mario Merni, dell’Associazione Partigiani Italiani di Pola, che a proposito di Maria Pasquinelli dichiarò: «Veniva spesso a rincuorarci, garantiva il suo aiuto e ci parlava di un “colpo di stato caldo”» [9].
 
VERGAROLLA, 18 AGOSTO 1946.
Parliamo ora della strage di Vergarolla, che provocò un centinaio di morti ed un numero imprecisato di feriti tra i partecipanti ad una festa popolare[10], iniziando dai ricordi di Maria Pasquinelli. Scrive Turcinovich:
«Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa proprio in quel giorno, fu terribile»[11].
Quel giorno, il 18/8/46 a Vergarolla il circolo canottieri Pietas Julia di Pola aveva organizzato una festa sportiva popolare che prevedeva, oltre alle gare di canottaggio, chioschi gastronomici ed intrattenimenti. E proprio in quel giorno (leggiamo in un articolo di Lino Vivoda) il padre della futura esule Marina Rangan si impuntò per non andare a Vergarolla: «remava mio padre perché aveva deciso che si andava a fare il bagno proprio lì e non a Vergarolla con il barcone pieno di gente, come avrebbe voluto mia madre. Normalmente lui l’accontentava sempre, per il quieto vivere, invece quella volta si impuntò, forse per un provvidenziale sesto senso»[12].
Curiose queste forme di telepatia preammonitrice, considerando anche che «l’annuncio della riunione», come scrive Lino Vivoda, «venne pubblicato per parecchi giorni sul quotidiano locale italiano (…) come un implicito appello per la partecipazione in massa», perché «ormai qualsiasi occasione di pubblica riunione era diventata per la cittadinanza motivo di corale dimostrazione d’italianità». Ciononostante la patriota Pasquinelli proprio quel giorno disertò la spiaggia di Vergarolla, spiaggia sulla quale «giacevano accatastate ventotto mine marittime, residuato di guerra, prive di detonatori ma non vuotate dell’esplosivo in esse contenuto. Nottetempo quel deposito di morte fu riattivato da emissari criminali, giunti da fuori città, con l’inserimento di detonatori collegati ad un congegno per il comando a distanza dello scoppio»[13]. E le mine scoppiarono, poco dopo le 14, provocando una strage.
Nei fatti, nel corso della bonifica del porto, sulla spiaggia erano state ammassate le mine (di fabbricazione tedesca e francese, contenenti tritolo) che erano state raccolte e disinnescate da artificieri provenienti dal Comando Marina di Venezia comandati dal capitano Raiola che dichiarò successivamente che i lavori di disinnesco e controllo erano stati condotti da tre squadre, e che «era materialmente impossibile che avvenisse l’esplosione delle mine, perché il tritolo (…) sarebbe esploso solo con l’innesco di un detonatore»[14]..
E questo detonatore sarebbe stato collegato ad un congegno per il comando a distanza, del quale avrebbe denunciato la presenza, in una cava vicino alla spiaggia, il poeta e futuro esule Giuseppe BepiNider, già ufficiale dell’esercito italiano ed all’epoca membro dell’API (come il Mario Merni di cui abbiamo parlato prima), che si era recato in sopralluogo subito dopo l’esplosione assieme ad un maggiore inglese della FSS. Nider avrebbe anche fatto notare all’ufficiale «le tracce indicanti apparati per l’innesco di apparecchiature per il contatto che comandava a distanza lo scoppio di detonatori», aggiungendo che tali inneschi sarebbero stati «uguali a quelli che usavano nelle miniere dell’Arsa»[15].
Tali circostanze sarebbero state confermate anche da altre testimonianze, come quella di Claudio Bronzin, undicenne all’epoca, che così racconta «ho sentito nitidamente una detonazione (tipo colpo di fucile), secca ed unica (…) ho visto innalzarsi una immensa colonna di fuoco che è durata qualche secondo prima di diventare fumo. L’immane e terrificante boato dell’esplosione è arrivato dopo l’innalzarsi della colonna di fuoco»[16].
Secondo il testimone, quindi «è certo che le mine sono saltate in aria dopo una frazione di secondo dalla prima detonazione»: e Bronzin paragona i tempi di questa esplosione a quelli da lui sentiti quando era militare e gli artificieri, per far scoppiare gli ordigni inesplosi «mettevano una piccola carica (detonatore) addosso all’ordigno e nello scoppio i colpi, intervallati da una frazione di secondo, erano due».
Bronzin riporta inoltre la testimonianza della zia Rosmunda Bronzin Trani, che rimase ferita nell’esplosione: ella dichiarò di avere visto nella mattina del 18 agosto «un uomo vestito bene, di grigio» stendere un «filo» attraverso la pineta, filo che poi aveva tagliato con un coltello, e «lo ha aggiuntato in più punti», cioè avrebbe eseguito «la classica operazione degli elettricisti che spellano il terminale del filo elettrico per poi aggiuntarlo». Bronzin, che specifica che la zia rese più volte questa testimonianza agli inquirenti e continuò a parlarne in famiglia, conclude che l’uomo vestito di grigio avrebbe fatto il collegamento della linea per il comando a distanza, e lo scoppio si sarebbe verificato dopo che si era allontanato. E tale persona, aggiungeva la teste, «non le era una faccia nuova», quindi il nipote giunge alla conclusione che doveva essere di Pola.
Considerato lo stato di choc in cui versò la sopravvissuta alla strage, si può anche dubitare dell’attendibilità di tale testimonianza, perché è difficile pensare ad un dinamitardo che prepara l’attentato in pieno giorno ed in presenza di altre persone, che potrebbero anche conoscerlo (e se era conosciuto dalla zia Rosmunda, si può ipotizzare anche che avrebbe potuto essere un polesano della comunità italiana).
Un altro uomo “sospetto” fu segnalato invece da Gino Salvador, che avrebbe visto «un tale a bordo d’una barchetta di idrovolante» approdare dopo le dieci del mattino del 18 agosto alla banchina del cantiere navale E. Lonzar, sulla via Fisella». Salvador gli disse che l’approdo era proibito, e questi «rispose che doveva recarsi nelle vicinanze e che non avrebbe tardato a prendere il largo»; il teste aggiunge di avergli chiesto da dove giungesse «con quel mezzo acquatico e mi rispose dall’isola di Brioni. Era di statura media, colorito bruno, capelli neri ricciuti, vestiva pantaloni di tela blu»[17].
Ricordiamo che nell’isola di Brioni, che si trova di fronte allo sbocco a mare di Pola, durante la guerra ebbe sede la Base Est dei mezzi d’assalto della Decima Mas, comandata dal sottotenente di vascello Sergio Nesi.
Infine citiamo da un articolo di stampa piuttosto recente: «Sono da poco passate le due.. Un grido improvviso: Scampè, scampè che s’ciopa! D’istinto, molti scattarono in piedi. Nello stesso istante, fu l’inferno. Ore 14,10»[18].
Se il fatto fosse vero, vuol dire che l’attentatore avrebbe avvisato la gente del pericolo.. Ma è veramente accaduto così, oppure la giornalista ha arricchito il suo articolo di particolari inventati per aumentare il pathos della narrazione?
Questi dunque i dati che abbiamo raccolto, peraltro contraddittori. La prima domanda che sorge spontanea è questa: perché gli organizzatori della festa popolare avevano scelto proprio la spiaggia accanto al cumulo di mine, sia pure disinnescate, per radunare tante persone? E perché le autorità alleate avevano permesso questa iniziativa, che, pur essendo recintato il cumulo di mine, poteva in ogni caso rivelarsi pericolosa per l’incolumità delle persone che si trovavano nei paraggi?
L’esplosione avvenne intorno alle 14, ma le persone “sospette” avvistate dai testi Rosmunda Bronzin Trani e Gino Salvador si sarebbero trovate sul posto “al mattino” (e la prima specifica che l’esplosione sarebbe avvenuta dopo che l’uomo vestito di grigio si era allontanato). Invece Vivoda (senza notare la contraddizione con le deposizioni da lui stesso trascritte) scrive che il congegno a distanza sarebbe stato attivato “nottetempo”, cosa che ci pare più plausibile, rispetto a quanto descritto da Rosmunda Bronzin.
Aggiungiamo le dichiarazioni dello studioso Fabio Fontanot, cioè che del problema dell’innesco avrebbe parlato anche il generale Antonio Usmiani, evidenziando che le modalità di innesco di questo tipo di mine erano conosciute solo da coloro che le avevano in uso: militari francesi ed inglesi e della Decima Mas[19]. Eliminando i francesi (che non erano presenti), sospendendo il giudizio sugli inglesi (che amministrando la zona potevano e non potevano avere interesse a creare una tensione di questo tipo), va ricordato che un anno prima, il 26/9/45, il Comando Marina Alleato di Venezia aveva assunto per il proprio Centro esperienze 18 ex membri della Decima Mas del gruppo Gamma (gli uomini rana specializzati nel piazzare mine marittime sotto le navi nemiche), tra i quali lo stesso comandante Eugenio Wolk, per affidare loro il compito di bonificare il porto di Venezia[20]. Non abbiamo dati per ritenere che gli stessi bonificatori di Venezia siano poi stati inviati a bonificare anche Pola, ma sembra che Usmiani abbia anche fatto cenno ad un «ufficiale della Decima passato ai partigiani» nella zona di Pola[21].
Ci furono naturalmente varie inchieste, che però non approdarono a nulla di definitivo. Negli anni, pur in assenza di prove od indizi, la responsabilità dell’eccidio fu attribuita dalla propaganda nazionalista italiana (poi assimilata non solo dal comune sentire ma anche da alcuni storici) alla Jugoslavia per mano dell’OZNA: ad esempio lo storico Raoul Pupo scrive che tale strage avrebbe scatenato l’Esodo dall’Istria e che «le responsabilità» della strage non furono mai chiarite, ma «l’effetto è assolutamente chiaro», cioè avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani[22].
Ma se, come si legge in varie pubblicazioni, il 26/7/46 (tre settimane prima della strage di Vergarolla) il CLN di Pola «aveva raccolto 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla Jugoslavia»[23], quale motivo avrebbero avuto gli Jugoslavi di “terrorizzare” la popolazione italiana per farla andare via, considerando che la maggioranza aveva comunque già deciso di andarsene[24]? Aggiungiamo inoltre che il lavoro di Maria Pasquinelli a Pola sarebbe stato proprio finalizzato a far andar via gli italiani, già da prima della strage di Vergarolla, lavoro a causa del quale la donna temeva per la propria vita, volendo prestare fede alle affermazioni dell’ex deputata di Forza Italia ed esule istriana Antonietta Marucci Vascon che ha riferito quanto le avrebbe detto l’ex marito, il cineoperatore Gianni Alberto Vitrotti[25]. Se l’interesse della Jugoslavia fosse stato far andare via gli italiani, perché avrebbero dovuto boicottare il lavoro di Pasquinelli? O forse il lavoro dell’ex agente della Decima consisteva in altro?
Torniamo al secondo articolo di Vivoda nel quale leggiamo che nel 53° anniversario della strage (quindi nel 1999), il giornalista croato David Fištrović aveva pubblicato sul quotidiano Glas Istredi Pola, tre articoli sull’argomento, basati in parte sul libro dello stesso Vivoda, ed aveva anche parlato di una «ritrovata lettera d’addio scritta da un polese che si è suicidato e con la quale si scusa? si giustifica? per l’esplosione, ma sottolinea che tutto quello che ha fatto lo ha fatto su ordine di Albona». Ed è qui che si inserisce il particolare prima citato dei detonatori «uguali a quelli dell’Arsa»: perché «ad Albona dove c’erano le miniere si trovava la sede principale dell’organizzazione polese titina».
Vivoda pertanto prese contatto con il giornalista croato, che «sapeva il nome di uno degli attentatori di Vergarolla! E mi disse il nome: Ivan (Nini) Brljafa». Più avanti Vivoda scrive che «altre dicerie di rimasti a Pola, sebbene reticenti» lo avrebbero convinto della partecipazione di Brljafa all’attentato, e gli avrebbero anche detto «i nomi di altri presunti componenti», ma, dato che Vivoda non cita né le fonti di quelle che egli stesso definisce “dicerie”, né i nomi degli altri “presunti componenti”, il tutto può essere considerato nulla più che chiacchiere e pettegolezzi.
Tornando al biglietto del suicida, Fištrović confermò a Vivoda «di aver visto personalmente il biglietto nel quale il personaggio in argomento, prima di suicidarsi, aveva lasciato scritta la confessione. La lettera era in possesso di una parente del suicida». A questo punto Vivoda, consultatosi con alcuni amici, decise di comperare quel biglietto, cosa possibile secondo Fištrović, al quale «avevano detto che sarei dovuto recarmi da solo in un luogo che mi sarebbe stato indicato successivamente».. Pertanto Vivoda medita «se valeva la pena rischiare. Il suicida in questione era uno dell’OZNA, per la quale aveva collaborato all’attentato. Mi ricordavo che l’ing. Onorato Mazzaroli, con un tranello chiamato dall’OZNA a Peroi per presentare un suo progetto di autonomia dell’Istria, era sparito senza lasciare più traccia, nonostante Rodolfo Manzin, col quale s’era confidato, l’avesse messo in guardia sconsigliandolo dal recarsi all’appuntamento. Non fidandomi dunque della gente con cui avrei dovuto trattare, rinunciai all’appuntamento per l’acquisto del biglietto»[26].
Abbiamo cercato di ricostruire la “scomparsa” di Onorato Mazzaroli (zio del futuro generale e sindaco del “libero comune in esilio di Pola” Silvio Mazzaroli), e trovato quanto segue: Mazzaroli, «invitato ad un incontro con esponenti slavo-comunisti per discutere della collaborazione italo-jugoslava il 10/8/44 fu catturato e fatto scomparire»[27]. Le motivazioni addotte da Vivoda per non acquistare il biglietto ci sembrano pertanto del tutto inconsistenti, se consideriamo innanzitutto che la scomparsa di Mazzaroli avvenne durante la guerra; e che nel 1999, quando ormai la Croazia indipendente era governata dalla destra di Tudjman, l’OZNA era sciolta da decenni, l’UDBA (che l’aveva sostituita) era crollata con il crollo della Jugoslavia ed a 36 anni dalla morte del presunto colpevole, quale pericolo poteva ancora rappresentare “l’OZNA” per un giornalista che voleva fare chiarezza su fatti di mezzo secolo prima?
Oltre alla questione del biglietto, che fa molto spy-story ma non sembra avere alcun riscontro concreto, è strana anche la questione degli inneschi delle mine navali, che non dovrebbero essere compatibili con quelli che si usano nelle miniere (e qui ricordiamo le parole di Usmiani a proposito di chi poteva essere in grado, tecnicamente, di lavorare con quelle mine specifiche). Però, pur non essendo noi artificieri specializzati in materia, da quanto siamo riusciti a capire, stante che le mine navali esplodono a contatto, e possono esplodere anche “per simpatia” nel caso in cui vicino ad esse esploda un altro ordigno, forse non ha tanto senso andare a cercare chi poteva essere in grado di re-innescare le mine, dato che la cosa più semplice da fare sarebbe stato posizionare un altro ordigno, di qualunque tipo, da far esplodere con il comando a distanza di cui si è tanto parlato: per simpatia sarebbero esplose poi tutte le mine, con il risultato che si è visto (ma allora si sarebbero sentito solo le due esplosioni descritte dall’allora undicenne Bronzin, o dovrebbero essere state di più?)
Nel settantesimo anniversario della strage è apparso un articolo che vorrebbe portare nuove prove sulle “responsabilità jugoslave” nella vicenda, pubblicato a firma di Lucia Bellaspiga, giornalista che non brillando per competenza storica, supplisce a questa mancanza infarcendo i testi con frasi ad effetto, anche se spesso prive di buon gusto, come nel presente articolo, in cui si sofferma su particolare macabri per descrivere la strage («i resti di un centinaio di persone arrossarono il mare e ricaddero a brandelli sulla pineta per centinaia di metri»; «l’urlo dei gabbiani che si avventavano sul mare contendendosi i resti umani») prima di passare al preteso scoop: dopo anni di insabbiamenti e depistaggi finalmente era emersa la prova che i mandanti di Vergarolla sarebbero stati «la gerarchia titina, presente a Pola in quel primo dopoguerra», in base all’«indizio prezioso per confermare di persona quanto le carte degli archivi di Londra, Washington, Zagabria, Roma e Belgrado hanno da sempre avvalorato: che dietro l’eccidio di italiani ci fossero il maresciallo Tito e la polizia segreta jugoslava».
Tale prova, al di là di ogni retorica e falsificazione (le carte degli archivi citati non hanno mai “avvalorato” alcuna responsabilità jugoslava nell’esplosione), sarebbe costituita da una testimonianza di Claudio Perucich, allora vivente in Australia e «partito da Pola a sette anni nel 1949». Settantaquattrenne all’epoca dell’intervista, Perucich ha dichiarato che «il più dei ricordi è basato su ciò che mia madre non ha mai smesso di confidarmi per tutta la vita», e cioè quanto alla madre avrebbe riferito uno zio, Antonio Riboni, che era stato partigiano e all’epoca «connesso al comando filo titino di Pola», motivo per cui sarebbe entrato «nella lista dei sospetti del governo militare alleato». Riboni, che dovrebbe essere stato prosciolto (le indagini si conclusero con un nulla di fatto), avrebbe poi iniziato ad indagare nei suoi ambienti, e, dopo avere scoperto una verità «che lo lasciò distrutto» morì l’anno dopo, a 33 anni perché «aveva perso la voglia di vivere». Avrebbe però rivelato «tutto» alla madre di Perucich, «ammonendola di non riferire a nessuno ciò che aveva scoperto, pena minacce di morte per tutta la famiglia».
In pratica la prova decisiva per confermare le illazioni sulle responsabilità di “Tito e della polizia segreta jugoslava”sarebbero le parole di una persona che, settant’anni dopo gli eventi, riferisce che la madre gli aveva detto che il fratello aveva fatto una scoperta sconvolgente; senza ovviamente spiegare quale sarebbe stata la scoperta, dato che la madre non gliene aveva mai parlato nei particolari[28].
Parliamo infine di quel documento dei servizi britannici che viene citato dai divulgatori a prova della “responsabilità dell’OZNA” in questo attentato e che è stato rintracciato dal ricercatore Mario Josè Cereghino negli archivi londinesi di Kew Gardens. Si tratta di una informativa che riferisce che a Trieste si dice che «uno dei sabotatori» di Vergarolla sarebbe stato «Kovacich Giuseppe, uno specialista in azioni terroristiche nonché responsabile di numerosi delitti», che «in passato era solito recarsi in macchina da Fiume a Trieste tre volte alla settimana», che «lavorava per l’OZNA» e che «dopo l’attentato di Vergarolla non si è più fatto vedere in città». Tali informazioni sarebbero state fornite «da una fonte attendibile del controspionaggio»[29]. Consideriamo però innanzitutto che un’informativa di per se stessa non costituisce una prova certa, ma solo il rapporto di quanto riferito da qualcuno; che non sono stati resi noti altri documenti a conferma, che questo Kovacich non è neppure stato chiaramente identificato (precisiamo che il nome di Giuseppe Kovacich è comune quasi quanto quello di Mario Rossi); e la fonte che ha riferito le voci che corrono a Trieste è l’italiano 808° Battaglione del Controspionaggio[30], una struttura creata dal SIM badogliano durante il conflitto e poi rimasta in funzione anche negli anni seguenti, posta però sotto il diretto controllo dell’allora OSS[31]. Dal ricercatore Gaetano Dato apprendiamo un particolare importante: dal febbraio del 1946 quella parte del personale ex SID, cioè gli agenti segreti della Repubblica di Salò che durante la guerra avevano collaborato con gli Alleati «nei gruppi come il Nemo» poterono prendere servizio nei Carabinieri, nello specifico nell’808° battaglione e nell’Ufficio I[32].
In sintesi, le informazioni sulle “voci” (e ribadiamo che solo di “voci” si tratta) circolanti a Trieste in merito al presunto responsabile di Vergarolla sarebbero state fornite ai servizi britannici da servizi italiani controllati dai servizi statunitensi.
Aggiungiamo infine, ma solo per dovere di cronaca, che Alvise Savorgnan di Brazzà è anche autore di un testo “La verità su Trieste” (LINT 1980), scrive che «vi furono molte indicazioni (a pochi chilometri vi era una jugoslava scuola di sabotatori (non meglio identificata, n.d.a.), si fece il nome di un certo Bassan, ma poche prove»[33].
Concludiamo questo capitolo considerando, oltre ai dubbi sollevati da Usmiani su chi avesse la possibilità reale di innescare nuovamente le mine ammassate in spiaggia, che gli Jugoslavi, impegnati all’epoca a Parigi a far valere le proprie ragioni in merito ai crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, non avrebbero tratto politicamente profitto per avere messo in atto un’azione abietta come una strage di civili. Mentre ricordiamo che chi affermò che non era il caso di temere di dovere “spargere del sangue” era stato l’esponente del CLN istriano Rusich.
La strategia della tensione in Istria proseguì con l’assassinio del generale britannico Robert De Winton per mano dell’ex maestra, nonché agente della Decima Mas, Maria Pasquinelli, che “per caso” non andò a Vergarolla proprio nel giorno della strage.
Ma questa è, per dirla con Lucarelli, un’altra storia, che abbiamo narrato nel “Dossier Maria Pasquinelli”, n. 47 di questa collana (reperibile in http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/07/dossier-maria-pasquinelli.pdf ).
 
NOTE.
[1] Intervento di Fabio Forti (esponente della Resistenza “bianca” ed anticomunista) nel corso della tavola rotonda sulla “Resistenza patriottica nella Venezia Giulia”, svoltasi a Trieste il 21/6/07, organizzata dall’Associazione Volontari della Libertà e dall’Arcipelago Adriatico (Centro Documentazione Multimediale della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata).
[2] Il dottor Fausto Pecorari, democristiano, già tesoriere del CLN giuliano, fu internato a Buchenwald, dove fu nominato tesoriere del Comitato di solidarietà per l’assistenza tra gli internati e fece di tutto per togliere la presidenza del Comitato ai comunisti; nel dopoguerra, mentre era membro del Parlamento per la Costituente, fu tra i fondatori del Comitato degli esuli istriani a Roma che riteneva “iniquo” il Trattato di pace. Il suo nome fu fatto dall’agente del CIC William Gowen, che lavorò con l’ungherese Ferenc Vajta per «arruolarlo» nei servizi statunitensi, come una delle persone che fecero in modo di liberare Vajta che era detenuto come criminale di guerra (cfr. M. Arons e J. Loftus, “Ratlines”, Newton Compton 1993 , p. 69) .
[3] Intervento di Lorenzo Rovis, 21/6/07, nel corso della tavola rotonda sopra citata.
[4] Cfr. Ciro Manganaro Trieste tra cronaca e storia o Pecorari? Manganaro, pur millantando una collaborazione col CLN triestino, collaborava alla rivista dei reduci della RSI Nuovo Fronte e nel dicembre 1975 aderì al progetto di Costituente di destra promosso da Almirante e Covelli.
[5] Maria Pasquinelli, insegnante, frequentò la Scuola di Mistica fascista, nel 1940 si arruolò nel corpo delle crocerossine seguendo le truppe italiane in Libia ma si travestì da uomo e con documenti falsi cercò di raggiungere la prima linea del fronte nella zona di Bengasi, ma venne scoperta, espulsa dalla Croce Rossa e rimpatriata. Nel 1942 fu inviata ad insegnare l’italiano nelle scuole croate della Dalmazia annessa dall’Italia durante la guerra, dopo l’armistizio iniziò a collaborare coi servizi segreti della Decima Mas, e fu tra i protagonisti degli abboccamenti tra Divisione Osoppo e Decima. Autrice di una relazione sugli “infoibamenti” in Istria nel 1943, dal 1946 riprese a recarsi in Istria in modo più o meno clandestino.
[6] Le citazioni di questo paragrafo sono tratte da Rosanna Turcinovich, “La giustizia secondo Maria”, Del Bianco 2008, cap. IX, da p. 113 a p. 120.
[7] Il democristiano Antonio De Berti fece parte della delegazione del CLN giuliano che il 7 maggio 1945 uscì clandestinamente da Trieste (missione organizzata dalla Sezione Calderini del SIM, cfr documento in AUSSME, b. 314 n. 179163) mentre la città era sotto amministrazione jugoslava, per recarsi a Roma, al Vaticano ed a Milano dove ) accompagnò De Gasperi a Londra alla conferenza dei ministri degli Esteri (settembre 1945) e, come consigliere politico, alla conferenza della pace di Parigi (maggio-settembre 1946); fu vicino a De Gasperi e a Bonomi.
[8] Tale Silva Rusich ha inteso identificare in questo Rusich suo padre Sergio Rusich, già partigiano del Battaglione Pino Budicin, arrestato nel dicembre 1944 e deportato a Flossenburg fino alla fine del conflitto. Il nominativo di Sergio Rusich non si trova, peraltro, nell’elenco dei partigiani nel sito dell’ANPI (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/).
[9] Carla Mocavero, “La donna che uccise il generale”, Ibiskos 2012, p. 194.
[10] Il numero esatto delle vittime non fu mai definito.
[11] R. Turcinovich, op. cit., p. 40.
[12] Lino Vivoda (esponente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) su L’Arena di Pola, 19/8/12. Vivoda ha pubblicato nel 1989 un libro (“L’esodo da Pola. Agonia e morte di una città italiana”, Castelvetro) ed ha scritto due articoli sull’argomento, da cui abbiamo tratto i dati che riportiamo.
[13] Ogni volta che ci troviamo davanti ad una descrizione così circostanziata di come sarebbero avvenuti i fatti, ci domandiamo se chi scrive sia più informato di quanto voglia far credere: nella fattispecie, come fa Vivoda ad essere così sicuro che gli autori dell’attentato erano «giunti nottetempo da fuori città» ed avevano ricollocato i detonatori originali?
[14] Vivoda non specifica il nome del capitano Raiola, ma in altro articolo scrive che era il padre «del giornalista Giulio»: Giulio Raiola, scrittore di fantascienza, e autore di articoli sulla Decima Mas, fece parte della “corrente evoliana dei Figli del Sole” del MSI.
[15] Tale particolare è riportato solo nel secondo articolo di Vivoda, “Vergarolla strage titoista” (http://www.arenadipola.it/index.php?option=com_content&task=view&id=753&Itemid=2).. Dal racconto sembra che Nider sia andato a colpo sicuro alla cava per mostrare gli inneschi agli ufficiali britannici.
[16] Claudio Bronzin, “Bieco telo di ipotesi false per cercare di coprire le precise responsabilità della strage. Prove e testimonianze sull’eccidio di Vergarolla”, L’Arena di Pola, 18/11/96, citato da Lino Vivoda in http://www.arenadipola.it/index.php?option=com_content&task=view&id=753&Itemid=2.
[17] Gino Salvador, L’Arena di Pola, 19/10/96.
[18] Scappate, scappate che scoppia!, Carla Rotta, La Voce del popolo, 5/4/08.
[19] Intervista rilasciata all’autrice, 16 agosto 2012. Ricordiamo che Usmiani era un agente dell’OSS molto stimato da Angleton.
[20] Documento firmato dal più colonnello del SIM Pompeo Agrifoglio, in qualità di dirigente dello Stato Maggiore dell’Esercito, che conclude asserendo che i 18 Gamma erano da considerarsi da quel momento «immuni da qualsiasi responsabilità per l’attività da essi finora svolta» (https://casarrubea.wordpress.com/2009/12/13/discriminati-e-immuni/).
[21] Ricordiamo che nel CLN triestino si erano inseriti diversi membri della Decima, tra i quali il futuro campione di vela Agostino Straulino, che aveva fatto parte dei Gamma.
[22] Sul Piccolo del 17/8/06.
[23] Carla Rotta, La Voce del Popolo, 5/4/08.
[24] Accenniamo brevemente al fatto che in quel periodo era in atto una campagna stampa rivolta ai cittadini istriani di etnia italiana per farli venire in Italia, basata sia sul terrorismo psicologico (la paura delle “foibe” e degli espropri che sarebbero stati operati dai “comunisti”), sia sul miraggio di una vita più agiata e di privilegi di cui avrebbero goduto una volta lasciata la Jugoslavia.
[25] Intervento di A. Vascon nel corso di un dibattito su Maria Pasquinelli svoltosi nella sede della Lega Nazionale di Trieste, 8/2/13. Vitrotti si trovava a Pola nell’estate del ‘46 per conto del MAE a monitorare l’inizio dell’esodo in previsione della firma del Trattato di pace che avrebbe assegnato la città alla Jugoslavia, ma nello stesso periodo (13/8/46) aveva operato le riprese dei recuperi di salme dalla “foiba” di Gropada-Orlek nel Carso triestino. Aggiungiamo che Vitrotti, «come titolare dell’agenzia Trieste Pictorial News era accreditato presso il GMA e in qualità di operatore ufficiale era incaricato dal Public Information Office di eseguire servizi fotografici e cinematografici»; nonostante questi accrediti fu arrestato nel 1947 ed in seguito espulso dal TLT «per avere ripreso avvenimenti a dispetto dei divieti alleati» e poté rientrare solo «grazie al diretto interessamento dell’ambasciatore americano» (P. Spirito, “Trieste a stelle e strisce”, MSG Press Trieste 1995, p. 155). Nel dopoguerra lavorò alla RAI di Trieste; è deceduto nel 2009.
[26] L. Vivoda, “Vergarolla strage titoista”, art. cit.
[27] L. Papo, “Albo d’Oro”, Unione degli Istriani, Trieste 1995 .
[28] L. Bellaspiga, “La strage di Vergarolla: 70 anni dopo, la rivelazione”, Avvenire, 14/08/2016.
[29] “Sabotage in Pola”, informativa d.d 19/12/46 n. 204/12765, pubblicata in F. Amodeo e M. J. Cereghino “Trieste e il confine orientale tra guerra e dopoguerra” vol. 3, Trieste 2008, p. 64.
[30] Così scrive Pietro Spirito ne “Gli archivi inglesi rivelano: la strage di Vergarolla voluta dagli agenti di Tito”, Il Piccolo, 9/3/08.
[31] Ricordando che il SIM badogliano fu organizzato da quel Pompeo Agrifoglio che firmò il citato documento di “immunità” per i Gamma della Decima Mas, riprendiamo da un articolo di Casarrubea un elenco di «uomini che dipendevano direttamente» da James Jesus Angleton (il dirigente dell’OSS che aveva operato il salvataggio di Junio Valerio Borghese ed organizzato il riciclaggio di fascisti nelle istituzioni post-belliche, sia italiane che tedesche): «Reali Carabinieri, 808° battaglione dell’Esercito addetto al controspionaggio, Marina Italiana, agenti speciali spediti in Sicilia dall’OSS…» (cfr http://www.cittanuove-corleone.it/Casarrubea,%20perch%E9%20ricordare%20Portella.htm). L’elenco dei componenti l’808° Battaglione si trova in http://casarrubea.wordpress.com/2008/07/09/rapporto-del-controspionaggio-italiano-1946/.
[32] G. Dato, Vergarolla, LEG 2014, p. 143, che cita una lettera del Capitano Morris, ufficiale di collegamento angloamericano presso l’Ufficio I UK NA WO 204-12380 inviata al comando di Caserta, 25/1/46. In questa struttura erano inseriti gli ex agenti della Rete Nemo (struttura cogestita nel corso del conflitto dal SIM del Regno del Sud e dall’Intelligence Service britannico), tra i tanti gli ufficiali dei Carabinieri Giorgio Manes (che farà carriera nell’Arma fino a diventarne vicecomandante negli anni ’60, e lo ritroveremo tra coloro che indagarono sul Piano Solo) ed Armando Lauri (che dirigerà negli anni ‘60 il CS del SIFAR a Milano e poi a Firenze, e si trova nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2).
[33] A. Savorgnan di Brazzà, “La verità su Trieste”,LINT 1980, p. 106 (ma il testo è inattendibile in molte sue parti). È forse superfluo aggiungere che di questo “Bassan” (che peraltro è un tipico cognome veneto e non “slavo”), non parla nessun documento dell’epoca.
 
Claudia Cernigoi, marzo 2019
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Il caso dei finanzieri scomparsi nel maggio 1945 da Trieste

di Claudia Cernigoi – lunedì 13 maggio 2019

Nel titolo la foto [https://www.facebook.com/notes/claudia-cernigoi/il-caso-dei-finanzieri-scomparsi-nel-maggio-1945-da-trieste/321947528521928/] della parte superiore della lapide posta dalla Guardia di Finanza «in memoria dell’eccidio dei militari della GdF nella foiba di Basovizza». Tale targa si trovava originalmente sul muro della caserma confinaria di Basovizza, ma dopo la dismissione della caserma seguita all’abolizione del confine con la Slovenia è stata posta nel comprensorio del museo della “foiba” di Basovizza, assieme agli altri cippi e lapidi che ricordano eccidi mai avvenuti nel posto in cui sono ricordati. Di seguito pubblichiamo la foto della lapide intera.
 
 
Prima di entrare nel merito dei nomi indicati come “infoibati” a Basovizza sulla lapide, ricordiamo che sotto il fascismo la Guardia di Finanza non aveva solo compiti di controllo e repressione dei reati tributari, ma, fino al 25 luglio 1943 metteva il proprio personale a disposizione dei nuclei mobili di polizia dell’Ispettorato Speciale di PS; poi, dopo l’arrivo dei tedeschi, (nell’Adriatisches Küstenlandtutte le forze armate giuravano fedeltà al Reich ed al Führer) una parte di essa fu inquadrata in un corpo a sé stante, la Polizia economica, che non solo aveva un nome tedesco, Wirtschaftspolizei, ma si trovava alle dipendenze funzionali della SS e svolgeva anche compiti di ordine pubblico e repressione degli antifascisti[1].
Una parte della GdF ebbe inoltre funzioni di antiguerriglia alle dirette dipendenze di Christian Wirth, il “sovrintendente” del lager della Risiera di S. Sabba ed alcuni componenti di essa gli fecero da scorta armata nei suoi spostamenti. Reparti della Guardia di Finanza avevano il compito di mantenere «libera dai partigiani» la strada che collega Trieste a Fiume e per ottemperare a questo incarico compirono diverse azioni di rastrellamento sia contro gruppi partigiani che contro la popolazione civile; e bisogna ricordare inoltre che «la “sicurezza” della strada Trieste-Fiume, rimasta sempre assai precaria, comportò la distruzione selvaggia di decine di paesi sloveni e croati con stragi efferate come quella di Lipa (commessa da un reparto della MDT, n.d.a.) del 30 aprile 1944 dove furono trucidati 287 civili inermi, vecchi, donne, bambini (molti bruciati vivi o fatti a pezzi a colpi di baionetta)»[2].
In un documento dell’Ufficio Comando della 5^ Legione territoriale della Guardia di Finanza “del Friuli”[3], datato 3/8/45 con oggetto «lotta per la liberazione di Trieste, avvenimenti successivi (copia dell’originale)», inviato al Comando militare territoriale di Udine, leggiamo che la GdF rimasta nella Venezia Giulia dopo l’/8/9/43 avrebbe «svolto nei riguardi dell’invasore attività spiccatamente negativa» ed «occultato» armi e munizioni «destinandole al fronte della Libertà» (sic); e che si sarebbe messa a disposizione del CLN della Venezia Giulia nel marzo 1945[4].
Riguardo a questo ultimo punto, in effetti risale all’aprile 1945 un’annotazione del CLN giuliano nella quale si legge che «il Prefetto (Bruno Coceani, di nomina nazista, n..d.a.) sta organizzando un importante nucleo di forze repubblicane contro l’eventuale calata del IX Korpus di Tito. Naturalmente, in caso di necessità, noi siamo disposti a far causa comune con queste forze. Urge quindi sapere se possiamo assimilarle al momento opportuno al Regio esercito, sia pure con le opportune epurazioni e gli opportuni riti»[5]. Le «forze repubblicane» comprendevano Guardia civica, Guardia di Finanza, ed anche elementi della Polizia (persino dell’Ispettorato Speciale di PS); in pratica il progetto (fortunatamente non realizzato) del CLN giuliano sarebbe stato di organizzare una “resistenza” con le forze collaborazioniste per impedire ad un esercito alleato di entrare in città, quindi in totale violazione delle direttive del CLNAI e del legittimo governo italiano.. Va ricordato che l’Esercito jugoslavo era considerato “alleato” nella compagine antinazifascista (al pari di Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Sovietica), mentre l’Italia del Sud era considerata solo come “cobelligerante”, quindi i CLN locali che intendevano combattere al fianco di forze repubblichine (e quindi alleate dei nazisti) contro un esercito alleato, andavano a rompere gli accordi internazionali sottoscritti dallo stesso Regno d’Italia.
La relazione dell’agosto ’45 prosegue parlando dell’insurrezione di Trieste, che secondo l’estensore sarebbe terminata il 30 aprile con la liberazione della città prima dell’arrivo dell’Esercito jugoslavo (ma ricordiamo che i combattimenti in città proseguirono fino al 3 maggio, con i nazisti asserragliati tra l’altro nel castello di San Giusto e nel Palazzo di Giustizia); in seguito, scrive il relatore, gli Jugoslavi arrestarono finanzieri, guardie civiche e poliziotti che avevano partecipato all’insurrezione (cioè appartenenti a corpi collaborazionisti inquadrati all’ultimo momento nei ranghi del CVL giuliano, presumibilmente nell’ambito di quel progetto da alto tradimento proposto dal prefetto nazista e con la collaborazione di alcuni settori del CLN giuliano).
In pratica, al momento dell’insurrezione di Trieste accaddero due gravi incidenti tra finanzieri ed Esercito jugoslavo.
Il primo riguardò un battaglione di finanzieri di stanza a Roiano, i cui comandanti si erano accordati con la Kosovelova Brigada (aggregata al IX Korpus jugoslavo), scesa dal Carso ed arrivata in città nella zona di Roiano appunto, affinché tenessero sotto tiro i tedeschi che si trovavano a presidiare la stazione centrale ed il porto vecchio. Ma nel corso dei combattimenti ad un certo punto i tedeschi penetrarono alle spalle della Kosovelova proprio dal punto in cui avrebbero dovuto essere tenuti sotto controllo dalla Guardia di Finanza. I partigiani lo interpretarono come un tradimento da parte dell’Arma e per questo motivo disarmarono i finanzieri e ne arrestarono diversi[6]. La brigata del CVL che operava a Roiano era la Foschiatti(organizzata dalla formazione di Giustizia e Libertà) che aveva fissato la propria sede di riferimento per l’insurrezione proprio nella caserma della Guardia di finanza di via Udine 81, a Roiano.
Un altro episodio, ancora più grave, riguarda invece i finanzieri della caserma di Campo Marzio che, poiché non erano stati informati dai loro superiori che la formazione era stata messa a disposizione del CLN triestino, invece di combattere a fianco della IV Armata jugoslava scesa in città, spararono contro di essa assieme ai militari germanici, che erano accasermati nello stesso edificio. Di conseguenza una settantina di finanzieri sarebbero stati arrestati ed internati nei campi di prigionia jugoslavi; secondo Giorgio Rustia, che ha citato un documento senza però renderlo pubblico, 77 di questi sarebbero stati uccisi a Roditti presso Divača, a pochi chilometri da Trieste[7].. Questa ricostruzione viene però contraddetta da altri documenti. In alcune lettere di familiari di finanzieri arrestati a Campo Marzio (conservate nell’archivio della Croce Rossa Slovena di Roman Pahor[8]), leggiamo che gli arrestati sarebbero stati invece 71 (tre ufficiali e 68 militi) e sarebbero stati portati dapprima in villa Necker (che era stata sede del Comando germanico a Trieste), poi presso l’oratorio dei Salesiani nel rione di San Giacomo (nei pressi della caserma di via dell’Istria) ed infine visti transitare lungo la Strada di Fiume, per destinazione ignota. E sulla Voce Libera del 24/7/45 fu pubblicato un appello a «chi avesse notizia di 98 uomini della GDF arrestati a Campo Marzio il 1° maggio scorso e condotti prima in via dell’Istria, indi Basovizza, poi – sembra – a Cirquenizza donde il 23 giugno sarebbero partiti per Carlovaz».
Inoltre diversi nominativi di arrestati a Campo Marzio si trovano in un elenco di internati a Borovnica[9], il che significa che almeno una parte di questo gruppo non può essere stata fucilata a Roditti come sostiene Rustia. Ed ancora, Carlovaz si trova sul litorale croato, mentre Borovnica è oltre Lubiana, in direzione dell’Austria.
Per complicare il tutto, citiamo infine un’altra versione, riportata da Roberto Spazzali: la sera del 30 aprile «quando a Trieste non erano ancora entrate le truppe jugoslave», il comandante della Brigata Frausin del CVL Vasco Guardiani[10], che si trovava nella Curia per parlare col Vescovo, vide passare i finanzieri «prelevati dalla caserma di Campo Marzio, scortati da operai dei Cantieri navali»[11].
Non è dato sapere il motivo per cui sarebbero stati fatti questi arresti prima dell’insurrezione, né tantomeno come Guardiani fosse in grado di identificare la provenienza dei prigionieri e la qualifica di chi li aveva arrestati guardando dalle finestre della Curia: però ricordiamo che stando ai “diari” del CVL[12], nei cantieri si sarebbero “insinuati” membri della Brigata Frausin, che era comandata proprio da Guardiani.
Considerando infine che era compito della brigata Timavo (per la precisione del battaglione agli ordini del tenente colonnello Domenico Lucente[13]) prendere il controllo della caserma di Campo Marzio, possiamo anche domandarci quale responsabilità ebbero in questi incidenti i dirigenti del CVL, che evidentemente non avevano informato esattamente i finanzieri in merito agli accordi presi. E non si può fare a meno di notare la coincidenza del fatto che ambedue gli incidenti tra Guardie di Finanza ed Esercito jugoslavo scoppiarono proprio dove assieme ai finanzieri erano accasermati anche membri del CVL (a Roiano la Brigata Foschiatti, a Campo Marzio la Brigata Timavo), di conseguenza possiamo anche domandarci quale responsabilità ebbero in questi incidenti i dirigenti del CVL, che evidentemente non avevano informato esattamente i finanzieri in merito agli accordi presi.
Torniamo ai nomi presenti sulla lapide che ricorda i finanzieri asseritamente “infoibati” a Basovizza: quasi tutti i nominativi di coloro che avevano prestato servizio a Campo Marzio compaiono in elenchi di internati nel campo di Borovnica redatti nell’estate del 1945 (47 nominativi sui 53 totali: si può peraltro presumere che anche questi sei siano stati condotti a Borovnica assieme agli altri commilitoni). Abbiamo anche trovato un’annotazione relativamente al finanziere di stanza a Campo Marzio Tommaso Saraceni, che sarebbe stato fucilato a Roditti: possiamo presumere che la maggior parte della truppa sia stata internata a Borovnica ma siano stati fucilati subito i militi ritenuti responsabili dell’attacco contro gli Jugoslavi. Risultano internati a Borovnica anche altri due finanzieri di cui non abbiamo trovato il reparto di provenienza, ed il finanziere di stanza a Fiume Carmine Barone, che peraltro risulta riportato due volte nell’elenco (ultimo della prima colonna e primo della seconda), così come sono duplicati i nomi di Celestino Fiorenza (nella prima e nella seconda colonna) e di Giardino che appare trascritto anche come Giandino (senza indicazione del nome proprio). Sono riportati inoltre in modo errato i cognomi Pieranico (correttamente Pieramico), e Moleo, correttamente Molea Domenico, di stanza alla caserma di via Udine, che inoltre molte testimonianze danno come deceduto nel corso del trasferimento verso Prestranek.
Quindi, dei 97 nominativi indicati sulla lapide come “infoibati a Basovizza” nei primi giorni di maggio 1945, 48 risultano internati a Borovnica, uno morto altrove, tre sono duplicati, e dei rimanenti non abbiamo reperito dati sufficienti a definirne la sorte. Ma considerando che i recuperi dal pozzo della miniera di Basovizza, oggi monumento nazionale, effettuati dagli angloamericani nell’autunno del 1945 si conclusero con la riesumazione di una quindicina di salme, alcune in divisa tedesca e le altre in abiti civili (tra le quali una donna), ci sembra abbastanza chiaro che i finanzieri arrestati a Trieste dagli Jugoslavi durante i combattimenti per la liberazione della città, e non rientrati dalla prigionia, qualunque sia stata la loro sorte, sicuramente non sono stati “infoibati” a Basovizza.
 
NOTE.
[1] Testimonianza del maresciallo Renato Cangiotti, raccolta da Vincenzo Cerceo (cfr. “Le Fiamme Gialle nel Litorale Adriatico”, dossier n. 56, la Nuova Alabarda, Trieste 2018).
[2] ANED Ricerche, “San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera”. ANED-Mondadori, 1988, p. 27/II e p. 25/I..
[3] I finanzieri di Trieste dipendevano dalla Legione di Udine..
[4] Archivio Ministero Affari Esteri, catalogato col n. CCXL.
[5] Annotazione del CLN triestino d.d. 18/4/45, in AUSSME, b. 91, n. 83401, 83402, 83403.
[6] Testimonianza di un ufficiale del IX Korpus, aggregato alla Kosovelova Brigada, raccolta da Samo Pahor.
[7] Lettera pubblicata su Trieste Oggi il 25/4/01.
[8] Archivio Odsek za zgodovino (OZZ), NOB 23..
[9] Arhiv Slovenije, Lubiana, zks ae 135.
[10] Guardiani fece poi parte della struttura Gladio.
[11] R. Spazzali, “… l’Italia chiamò”, Libreria Editrice Goriziana 2003, pag. 311.
[12] In Archivio IRSMLT 1156.
[13] AA. VV., “I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco Udine 1960, p. 108..
 
Claudia Cernigoi maggio 2019
 


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