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Da "Il Sole 24 Ore" del 6/4/2001

Serbia
Presto la nuova legge, è in vendita il gestore
Mobtel

Con la deregulation delle tlc Belgrado guarda al
futuro
Alberto Negri

BELGRADO L’antenna del portatile impazzisce. Hallo,
Hallo... Chi risponde
al telefono nei Balcani? Al confine tra Macedonia,
Serbia e Kosovo, lungo
l’autostrada Belgrado-Salonicco, sul Decimo
Corridoio pan-europeo, si
scatena nell’etere la battaglia silenziosa del
roaming. Per un tratto il server
è macedone, appena acquistato da un consorzio
ungherese guidato da
Deutsche Telekom, poi si inserisce quello kosovaro
dell’Alcatel francese, si
passa quindi al serbo Mobtel (063) e, alla fine,
quando ormai si imbocca la
valle della Morava, aggancia Telecom (064) gestita
dalla Tim italiana di
Belgrado.
A Gljiane, in un punto preciso, chiamato la «Roccia
del gatto», alcune
migliaia di serbi rimasti in Kosovo intanto si
danno appuntamento nella
campagna, come fanno ogni giorno, per catturare con
il portatile il campo di
trasmissione di Belgrado, esempio di etno-economia
balcanica nei servizi
che in Bosnia le tre comunità, croati, bonsiaci e
serbi, applicano da tempo.
In Serbia la battaglia del roaming ne annuncia
un’altra, a colpi di centinaia di
milioni di dollari, marchi ed euro, per
l’acquisizione del primo gestore di linea
mobile con 900mila utenti, la Mobtel, di proprietà
dei fratelli Karic, la famiglia
kosovara che ha compiuto una spettacolare ascesa
economica negli anni
di Milosevic. Lo conferma, per la prima volta in
modo ufficiale, la portavoce
del gruppo, Anna Bovan: «Per lo 063 siamo in
trattativa con diversi
investitori, tra cui in primo piano ci sono
Deutsche Telekom, Vodafone e
l’austriaca Mobilcom. Certo prima di concludere
serve un passo
fondamentale: approvare la legge che consente di
cedere la maggioranza
di un’industria strategica a un investitore
straniero».
La vendita Mobtel sarà il primo grande affare in
Serbia dell’era
post-Milosevic. E questa volta Slobo lo dovrà
seguire da lontano, forse da
molto lontano se verrà estradato all’Aja dopo il
processo a Belgrado.
Anche l’azionista pubblico, la Ptt, sarebbe
intenzionata a cedere tutta o
una parte della suo 49 per cento. Le quote di
questa joint venture,
costituita nel ’94, e la maggioranza, in mano ai
fratelli Karic, sono custodite
nella Beka Trade di Mosca. Una delle tante
curiosità che spiegano perchè
Mobtel, almeno dal punto di vista finanziario, non
è caduta nella rete delle
sanzioni.
La firma di questo contratto, come quello tra la
Stet italiana e la Telecom
serba, è ormai un pezzo di storia balcanica.
All’inizio tutto avrebbe potuto
essere diverso. La Mobtel infatti eredita, come
spiega Anna Bovan, un
contratto già definito con la società americana Cgi
che in joint venture con
un’altra compagnia Usa, la Spring International
Comm., aveva battuto nel
’92 la concorrenza di Vodafone e France Telecom per
aggiudicarsi la
prima concessione di telefonia mobile per 20 anni:
66 milioni di dollari e
l’obbligo di pagare alla Ptt 2 dollari al mese per
ogni abbonato. La guerra in
Bosnia e il primo embargo contro Belgrado, fanno
saltare l’accordo che
apre la strada ai Karic: partiti da Pec, nel
Kosovo, dove erano famosi per
rallegrare con la loro orchestra le feste di
matrimonio, i fratelli sono
diventati in questi anni il più ricco e importante
gruppo privato con interessi
dall’edilizia, all’editoria, dalla telefonia alle
televisioni.
Gli eccellenti rapporti tra questa famiglia di
kosovari e l’ultra-nazionalista
serbo Milosevic sono stati all’origine di questa
business story. Da un paio
d’anni però i Karic, che avevano anche ricoperto
posti di responsabilità nei
Governi controllati da Milosevic, si erano smarcati
da Slobo. La loro rete tv,
Bk, è stata la prima venerdì scorso a iniziare la
diretta davanti alla villa di
Dedinje dove era asserragliato Milosevic: con una
punta di esagerazione i
socialisti accusano la tv dei Karic di essere stata
tra i protagonisti
dell’arresto dell’ex presidente jugoslavo.
Decisiva per il futuro di Mobtel ma anche della
Telecom Serbia — 29% Tim
e 20% alla greca Ote — sarà invece la nuova legge.
La bozza è racchiusa
in un voluminoso faldone che l’italiano Sergio
Genchi, consigliere del
ministro delle telecomunicazioni serbo, sintetizza
così: «Istituzione di
un’Authority, deregulation immediata del settore,
fine del monopolio delle
linee fisse, liberalizzazione delle tariffe».
Il ministro delle telecom, la signora Marija Raseta
Vukosaljevic, ingegnere,
rappresenta lo Stato e quindi con il 51% il maggior
azionista della Telecom
Serbia, che ha chiesto alla Tim nel colloquio tra
il presidente Roberto
Colaninno e il primo ministro Zoran Dijndijc di
rimuovere l’attuale dirigenza
italiana che ha il controllo operativo. Il ministro
dà un giudizio secco
sull’operazione di vendita del 49% a italiani e
greci nel ’97 per 1,56 miliardi
di marchi: «Non è stato un buon affare per la
Serbia: il nostro obiettivo oggi
è rimettere ordine nella società e rivedere il
contratto».
Ma il fatto davvero sorprendente è che la signora
Raseta afferma di non
aver mai visto un bilancio Telecom. Una situazione
paradossale che il
ministro spiega in questo modo: «Una volta
incassati i contanti il regime
precedente si è disinteressato della società». E i
soldi, l’iniezione di cash
che nel ’97 ha tenuto a galla Slobo, dove sono
finiti? «Non lo sappiamo»
risponde il ministro che non vuole commentare gli
articoli della stampa
italiana su possibili tangenti internazionali
nell’affare.
In realtà i soldi dei serbi sono stati in parte
spesi o hanno fatto il giro del
mondo. La fetta maggiore, 1,2 miliardi di marchi è
transitata, ma solo di
passaggio, nel Fondo nazionale di Sviluppo, poi in
banche straniere e
offshore, oppure come prestiti in società dai
bilanci dolorosamente in
rosso, o ancora nel circuito del credito locale a
tassi di interesse molto alti.
La Slobo-economia ha spolpato la Telecom, come
tutto il resto,
distribuendo un po’ di consistenti mance qua e là.
Il direttore del Fondo di sviluppo ora è lo stesso
premier che ha piazzato
nei ministeri i suoi «Dijndijc Boys», quasi tutti
provenienti dall’estero dove
lavoravano per multinazionali o società di
consulenza: «Se creano
difficoltà a uno di noi andiamo tutti via»,
minaccia ironicamente il
vice-governatore della Banca centrale, ex McKinsey,
che continua a fare il
pendolare come i ministri delle Finanze, delle
Privatizzazioni e dell’Energia,
tra Belgrado, Francoforte, Parigi e Londra. Le
riforme economiche
dell’amministrazione saranno il test che dirà nei
prossimi mesi chi comanda
davvero a Belgrado tra il presidente Kostunica e la
Serbia tradizionale, da
una parte, e i modernisti filo-occidentali
dall’altra.
All’incrocio delle principali direttrici dei
Balcani, dal Danubio all’autostrada
Nord-Sud, la Serbia spera negli investimenti
stranieri per sfruttare questo
asset strategico che è la posizione di Belgrado tra
Est e Ovest: ferrovie,
telecomunicazioni e pipeline, interessano Germania,
Grecia, Austria, Italia,
ma anche gli Usa. Gli investimenti di importanti
capitali privati con la vendita
di qualche gioiello di famiglia e le infrastrutture
finanziate dall’Europa
possono fare recuperare ai serbi il decennio
perduto con Milosevic. Ma
nessuno può permettersi di dimenticare che i
Balcani sono soprattutto la
loro storia e soltanto in alcuni momenti anche la
loro economia.

Venerdì 6 Aprile 2001

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