Fosco Giannini recensisce la più famosa opera di Milan Kundera, scrittore recentemente scomparso
 
 

L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera e la teoria del non romanzo 

La più famosa opera di Milan Kundera parte dal presupposto di essere un romanzo filosofico, ma per la sua evanescente leggerezza letteraria e per il suo dogmatico pregiudizio politico si riduce a un pamphlet anticomunista che, per il suo schierarsi nel campo ideologico liberale, nulla racconta della vera società socialista cecoslovacca dell’epoca nelle sue inevitabili contraddizioni e problemi.

 
 

Si scriveva lucidamente su “La Città Futura” del 4 giugno 2021, in un articolo firmato da Renato Caputo e Holly Golightly e dal titolo Lukács: Teoria del romanzo: “La funzione utopica attribuita al romanzo consiste nel prefigurare – nello stesso momento in cui esso dà espressione alla negatività dell’esistente – un mondo nuovo, nell’anticipare idealmente il costituirsi di una realtà alternativa all’esistente. Per questi motivi, l’impostazione lukacsiana finisce col possedere un significato esplicitamente antihegeliano, proponendosi come dimensione alternativa a quella della «conciliazione» hegeliana”.

Quella descritta da Caputo e Golightly è esattamente l’essenza del romanzo moderno e “rivoluzionario”, segnato dalla volontà e dalla capacità di farsi “forma semantica sistemica preveggente”, una macchina letteraria, cioè, razionalmente volta a captare e portare alla luce i sommovimenti storico-sociali ancora non affiorati sulla crosta del reale, quei sommovimenti che i politici “senza qualità” non possono “sentire” ma che i rivoluzionari (Lenin innanzitutto, a partire da Lo sviluppo del capitalismo in Russia, del 1899, sino a Stato e rivoluzione del 1918, passando per Il sistema Taylor: l’asservimento della macchina umana del 1914) decodificano per trasformarli in azione trasformatrice.

Essenza del romanzo moderno, quella della “preveggenza”, che segna di sé l’opera intera di Honoré de Balzac (nel suo riuscito progetto di portare alla luce una nuova classe non ancora socialmente riconosciuta: la piccola borghesia nella sua nuova meschinità essenzialmente bottegaia, commerciale e delle “professioni”), una parte dell’opera di Stendhal, nella sua potente volontà di raccontare il nascente “bovarismo” di massa. E, per i poeti, la febbrile “preveggenza” ontologico-sociale di Arthur Rimbaud.

Se questa capacità di scendere nelle viscere del sommovimento storico-sociale al fine di portare anzitempo alla luce – anzitempo persino rispetto ai “tempi della storia” – il nuovo reale ancora in potenza è la qualità che connatura il romanzo moderno, la poesia moderna, come è stato possibile che il romanzo più noto e venduto di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, sia stato giudicato, sia alla sua uscita (1984), che di nuovo oggi (luglio 2023, in occasione della morte di Kundera) dall’intero sistema mediatico occidentale “uno dei più grandi romanzi del Novecento, un pilastro portante di tutto il romanzo moderno”?

Ci poniamo questa domanda poiché, anticipando, seppur brutalmente, il giudizio di chi scrive su L’insostenibile leggerezza, il romanzo appare, in verità, solo una vecchia carcassa letteraria del tutto priva di “olfatto” sociale, un’antitesi esatta della “preveggenza” alla Balzac e alla Rimbaud, un anziano pachiderma letterario, nel suo faticoso raccontare “anime” umane più collocabili nel primo Novecento degli emergenti languori freudiani, piuttosto che in quel 1968 solcato da grandi pulsioni e “strattonamenti” rivoluzionari, da totali “disorientamenti” ideologici ed esistenziali in cui L’insostenibile leggerezza è temporalmente collocato.

“De mortuis nihil nisi bonum” (dei morti niente si dica se non il bene) è una famosa frase idiomatica contenuta nell’opera Vita e opinioni di filosofi eminenti che lo storico greco Diogene Laerzio, autore dell’opera, attribuisce a Chilone, uno dei sette saggi di Sparta. La locuzione è importante poiché svolge sia il ruolo di rivelazione di una già vigente cultura, di un senso comune, volti alla venerazione, al rispetto dei morti (siamo circa a 200 anni dopo Cristo) che quello di propagazione del culto e persino dell’enfatizzazione della vita e delle opere dei morti. Una enfatizzazione spesso tanto vicina alla distorsione della realtà da spingere il giornale “Vita cattolica.it”, il 20 maggio 2016, in relazione alla morte di Marco Pannella a scrivere: “Non sempre «De mortuis nihil nisi bonum». A volte è meglio tacere”.

Lo scorso 11 luglio, a Parigi, a 94 anni, è morto appunto lo scrittore ceco Milan Kundera. Diversi giornali e telegiornali (tra i più enfatici il TG La7) hanno proclamato sul campo Milan Kundera “uno dei più grandi scrittori della seconda metà del Novecento” e incensato, come detto, L’insostenibile leggerezza dell’essere collocandolo tra i più grandi romanzi del secolo. Rilanciando in pieno, attraverso questo discutibile stile di lavoro, la retorica insita nell’asserzione apodittica “de mortuis nihil nisi bonum” dell’antico Chilone. Un’asserzione apodittica, lo abbiamo già visto, per la quale anche la cultura cattolica contemporanea chiede più sorveglianza etica e culturale.

Liberati dalla gabbia ideologica del panegirico pregiudiziale dei morti possiamo chiederci: ma davvero Milan Kundera è uno dei più grandi scrittori della seconda metà del Novecento? E davvero L’insostenibile leggerezza dell’essere è uno dei più grandi romanzi di quel secolo?

È bene, intanto, parlare della trama poiché, a nostro avviso, già in essa è fortemente ravvisabile una zoppia letteraria che non depone certo a favore di un’opera affascinante come un cavallo razza, ma piuttosto evocativa di un Ronzinante alla Miguel Cervantes. La trama è complessa e, peggio ancora, inutilmente complessa, poiché essa non risponde a nessuno dei princìpi retorici che richiedono la complessità del plot, dal romanzo d’appendice, o feuilleton, che attraverso una vasta “ragnatela” di relazioni sociali e familiari può raccontare il popolo e una fase storica, sino alla complessità oscura (che ad esempio segna di sé il thriller, ma anche il “colpo di scena” shakespeariano) funzionale alla messa in campo della suspense, dell’inaspettato.

La complessità della trama dell’Insostenibile leggerezza vorrebbe piuttosto evocare – attraverso una sorta di struttura letteraria modernista ceco-morava concettualmente rintracciabile nell’opera di Antoni Gaudí, attraverso, dunque, una sorta di architettura volutamente “obliqua” rispondente ai canoni stilistici della Sagrada Familia – il corposo non dicibile che domina il campo delle relazioni umane, politiche e sociali. Lo vorrebbe evocare ma, per chiaro difetto letterario, dogma ideologico e meschino utilizzo del pensiero filosofico, non riesce ad evocare altro che i “mal di pancia” e i “bovarismi” della piccola borghesia intellettuale e (peggio ancora) pseudoartistica della Cecoslovacchia ancora socialista che la degenerazione liberale della “Primavera di Praga” sta già aggredendo e disfacendo. 

Avanziamo questo nostro punto di vista, cioè che il romanzo non ha la forza letteraria di evocare nulla al di là della propria trama dichiarata (rimanendo dunque uno scatolone vuoto, una trama inutilmente piena di “intrecci” come quella de I Miserabili, ma senza il cuore pulsante del feuilleton di Victor Hugo), e affermiamo ciò perché il proposito dichiarato di Kundera era quello di scrivere, invece, un romanzo collocato all’interno di una cornice filosofica, un romanzo-saggio avente il compito, attraverso la trama e la messa in scena dei personaggi, di offrire una “concezione del mondo”, una weltanschauung da formarsi attraverso la dialettica oppositiva di Parmenide tra “pesante e leggero”, tra il non essere e l’essere, tutto ciò sotto il cono d’ombra dell’idea nietzschiana dell’Eterno ritorno.

Un progetto letterario-filosofico dichiarato (da Kundera stesso e ripetuto didascalicamente dai suoi mille esegeti occidentali) non così facile da rintracciare nelle pagine del romanzo, sia perché debole “in nuce”, sia perché non emergente nella sua fatiscente traduzione letteraria. Una trasposizione nella struttura semantica del progetto letterario-ideologico piuttosto segnata, nella sua oscura grammatica concettuale, da una chiara subordinazione al mercato editoriale occidentale affamato di esotismo. Subordinazione che già appare in tutta la sua evidenza nella delineazione di un titolo, L’insostenibile leggerezza dell’essere, che sia Kundera che i recensori/lanciatori del romanzo sanno essere un formidabile Cavallo di Troia per la vendita di massa, poiché fortemente accattivante nella sua magistrale somiglianza ai migliori spot pubblicitari occidentali.

Parmenide, Nietzsche, l’essere, il non essere, l’Eterno ritorno: categorie filosofiche maldestramente piegate a sostenere una trama che doveva essere allusiva, evocativa, volta a dare un’anima a personaggi che, nell’intento di Kundera, avrebbero dovuto, nella loro sofferenza e disorientamento esistenziale, denunciare – questa è l’essenza scarnificata del discorso, piaccia o non piaccia – il socialismo cecoslovacco e con esso tutto il socialismo, iniziando da quello sovietico. Ciò cercando “un altro mondo”, quello delle “libertà”, della fine di quel non essere mostruosamente cresciuto, per Kundera, nella “triste” uguaglianza imposta dal socialismo cecoslovacco.

Oltre che con la dialettica essere-non essere di Parmenide, Kundera gioca con la categoria nietzschiana dell’Eterno ritorno, identificato da una parte come grigia ripetizione del sé nelle società costituite da individui dalla vita priva di imprevisti del socialismo (gli intellettuali borghesi che non conoscono la durezza della vita non apprezzano certo la garanzia del vivere materiale che offre il socialismo, anzi ne disprezzano, per la loro fascinazione esistenzialista e per la loro inclinazione ideologica alla pirateria del vivere, la natura egualitaria e non “eroica” per l’individuo). D’altra parte, Kundera gioca con la categoria dell’Eterno ritorno interpretandola positivamente, nella speranza che esso possa riportare, dopo “l’oscurità del socialismo” e anche attraverso le crepe liberiste che può aprire la Primavera di Praga, il mondo idilliaco borghese, tutto amore, erotismo liberato e libertà individuali.

Nell’essenza, il cuore filosofico dell’Insostenibile leggerezza risiede in una miserevole riproposizione di un esistenzialismo d’accatto volto – secondo Kundera e i suoi mille aedi liberali – a riguadagnare la totale “libertà” del soggetto individuale, non importa se a scapito dell’uguaglianza e dell’equilibrio socialista, forme oscure, per Kundera, dell’Eterno ritorno. Povera e distorta superfetazione dell’individualismo in salsa anticomunista. Super bovarismo di Kundera. 

Vediamo i personaggi: il primo è Tomáš, medico a Praga (nelle pagine di Kundera sale l’odore della sanità pubblica socialista come cosa ammuffita e grigia, non troppo buona). Tomáš ha un figlio, nato da un matrimonio fallito, figlio col quale non ha più rapporti. Da quando Tomáš si è separato ha avuto diversi rapporti con altre donne, ma mai più relazioni stabili, solo, come egli stesso asserisce, “amicizie erotiche”, guidate da una sua regola: mai dormire insieme. Come si vede, questioni di grande rilevanza sociale, che di certo avrebbero affascinato un Balzac e che la nuova letteratura cecoslovacca postsocialista e antisocialista elegge a paradigmi delle nuove libertà neoborghesi (l’auspicato riaffermarsi, come una Vandea, dell’Eterno ritorno).

In una piccola città della Boemia, Tomáš incontra una barista, Tereza. Dopo la partenza di Tomáš, Tereza decide di raggiungerlo a Praga. Tereza si ammala e Tomáš è costretto ad ospitarla a casa sua, infrangendo la regola del “mai dormire assieme”. L’intento di Kundera di addensare di potenza filosofica tale evento è una vera caduta nel ridicolo, filosofico e letterario. Un’ala degenerata dell’esistenzialismo francese segna miserabilmente di sé questo atto letterario e questo intento “filosofico” dello scrittore ceco. La libertà individuale, nella metafora di Kundera, cade sotto la dittatura della ragione illuminista, propedeutica all’odiato socialismo regolatore malsano di ogni casualità.

A Praga Tereza diventa fotografa, ma dopo quella che il sistema mediatico occidentale di allora e di oggi chiama “invasione sovietica dell’agosto 1968 e soppressione violenta della Primavera di Praga” e che Kundera fa risaltare, nella sua griglia evocativa di neri e di grigi, come l’orrore comunista, Tereza e Tomáš fuggono in Svizzera, a Zurigo. Quando tornano a Praga (lui che rincorre lei), Tomáš, “naturalmente” – poiché ovvia è la ferocia comunista –,perde il lavoro. Intanto – colpa del socialismo? – il rapporto tra Tereza e Tomáš si complica: lui la tradisce regolarmente e finisce per avere un rapporto più stabile con Sabina, naturalmente pittrice (come nei film di Woody Allen, nei quali si perlustra la piccola borghesia intellettuale e artistica di Manhattan, anche nel romanzo di Kundera appaiono solo medici, artisti e intellettuali, come se essi fossero l’intera società, l’intero sociale).

Tereza diviene amica di Sabina, poi quest’ultima lascia Praga (chi non vuole lasciare l’oscura Praga socialista, rievocata da Kundera con i malsani segni della Praga del Golem, il romanzo del 1915 di Gustav Meyrink?) e a Ginevra si innamora di Franz (finalmente un operaio, un postino, un infermiere? No: un professore universitario), il quale, in un ginepraio sentimentale degno di Liala, confessa il suo tradimento alla moglie Marie-Claude. Sabina si trasferisce poi in America (dove si va, se non negli USA, a conquistare la propria libertà?), Franz in Cambogia (la colpa del tradimento si punisce inviando il “traditore” a contatto col socialismo asiatico, il più truce nel pregiudizio di Kundera), Tereza e Tomáš in una località di campagna, inseguendo l’illusione, come Bouvard e Pècuchet, della “bella vita agraria lontana dal chiassoso mondo”, solo che Flaubert ironizza su Bouvard e Pècuchet, ridicolizzandoli nel loro desiderio piccolo-borghese, mentre Kundera manda davvero Tereza e Tomáš a guadagnare pace nella campagna, dove peraltro moriranno in un incidente automobilistico. Morte banale, perché banale è la vita, e la morte, di chi è stato segnato dal socialismo e da esso non riesce totalmente a liberarsi?

L’insostenibile leggerezza è un romanzo di rara inconsistenza, segnato da trame sentimentali sul piano letterario imbarazzanti, da un erotismo continuo, da una sorta di sessualità seriale e di maniera che strizza l’occhio al botteghino e diviene per questo piatta pornografia. Un’opera che ricorda il grande successo di un’altra opera insulsa, Histoire d’O, del 1954, di Dominique Aury, che con qualche pagina di ridicola pornografia si assicurò un vitalizio. Un’opera che parte dal presupposto di essere un romanzo filosofico ma per la sua estrema leggerezza (questa sì è presente: l’evanescente leggerezza letteraria) e per il suo dogmatico pregiudizio politico diventa un povero pamphlet anticomunista. Che, per il suo schierarsi decisamente nel campo ideologico liberale, nulla racconta della vera società socialista cecoslovacca dell’epoca nelle sue inevitabili contraddizioni e problemi. Senza invece ridursi, come un filosofo di serie “C” della Scuola di Francoforte o di un rappresentante di serie “D” della scuola esistenzialista parigina di Jean-Paul Sartre, a raccontare malamente le vite della piccola borghesia praghese nella fase della “Primavera di Praga”, evento, peraltro, tutto ancora da raccontare nella sua essenza filocapitalista, mentre Kundera narra a un mondo, ben disposto ad ascoltare, la cupezza del socialismo antindividualista.

Forse non ci piace L’insostenibile leggerezza perché chiaramente liberale e antisocialista? No. Non si tratta di questo. Louis Ferdinand-Céline, autore del capolavoro letterario Viaggio al termine della notte, era un fascista e un razzista dichiarato. Ma la sua arte letteraria è così grande che occorre ogni volta fare uno sforzo enorme per non essere catturati, anche ideologicamente, dalla magnifica trappola del suo sistema letterario. Una nassa stracciata, invece, è la “rete” letteraria di Kundera e dovrebbe essere più agevole, dunque, sfuggire al suo lacciolo liberale, a meno che non si appartenga al popolo dell’individuo-massa che sostiene il mercato, in questo caso editoriale. Ma la forza del mercato è vasta e capillare…

Forse non ci piace L’insostenibile leggerezza perché troppo “erotico”? Abbiamo già visto che il suo erotismo esangue scivola, proprio per questa sua natura “dissanguata”, in una noiosa pornografia. Il Marchese De Sade, in Le 120 giornate di Sodoma, sparge perversione e violenza sessuale in ogni pagina, ma alla fine, compreso che questa scelta è funzionale a una denuncia senza pari del potere oscuro dell’aristocrazia, l’opera di De Sade perde ogni parvenza pornografica, trasformandosi in un manifesto illuminista e rivoluzionario.

L’insostenibile leggerezza non ha nulla, sul piano letterario, che possa dargli valore. E se ci chiediamo il perché del suo grande successo mondiale e di mercato la risposta è semplice: scritto nel 1982 ed uscito, in Francia, nel 1984, il romanzo di Kundera, nel suo totale antisocialismo esistenzialista (segnato, cioè, da quell’esistenzialismo  occidentale così ben letto, smontato e stigmatizzato da Domenico Losurdo, ma anche da teologi quali Dionigi Tettamanzi, capaci di contrapporre, come Lukacs, una concezione della totalità al relativismo esistenzialista), ha la fortuna di anticipare d’un soffio la crisi dell’URSS e dei Paesi socialisti, divenendo così un’opera “cult” per chi ha voluto credere, anche se per un solo minuto, alla “fine della storia” “ratificata” da Francis Fukuyama. Per un solo minuto poiché poi la storia vera delle rivoluzioni in America Latina, in Africa e in Asia ha celermente ri-cambiato il mondo ricollocando prepotentemente al centro la questione del socialismo e della rivoluzione. Facendo di botto invecchiare opere insipide come L’insostenibile leggerezza.

L’insostenibile leggerezza è di una fatiscenza stilistica, letteraria, per così dire, “nativa”, connaturata, cioè, alla sorgente astorica e atemporale stessa dell’opera, nel senso che l’opera – producendo uno “straniamento” teatrale – non coglie affatto lo “spirito del tempo” in cui è collocata.

Un vizio di forma insanabile che trova platealmente la propria matrice nel progetto di dar forma al romanzo attraverso la sua immersione in quel flusso temporale, tanto vandeano quanto storicamente marginale, del neoliberismo cecoslovacco anticomunista della fine degli anni ’60, un neoliberismo che, una volta totalmente vincente, avrebbe poi plasmato di sé, sino alla rovina sociale ed etica del Paese già socialista, sino alla drammatica secessione tra Repubblica Ceco-Morava e Slovacchia, la Cecoslovacchia.

Per riprendere il già citato articolo Lukács: Teoria del romanzo di Caputo e Golightly apparso su “La Città Futura” del 4 giugno 2021:

“L’arte sorge dalla dissonanza della vita: è un nonostante, che testimonia l’eterogeneità dell’esistente, ma si contrappone a esso per trascenderlo, innestando un processo in cui appare qualcosa di nuovo. Il trascendimento, l’anticipazione ideale, deriva dalla presenza nel romanzo dell’etica, i cui contenuti entrano strutturalmente nella costruzione della forma poetica”.

Non servirebbe aggiungere altro. Se non un’ultima, secca, considerazione: l’etica non esiste nell’Insostenibile leggerezza, non esiste nella misura in cui essa non può far parte oggettivamente di un’impalcatura letteraria sorretta a priori e non costruita nell’intento di agire la letteratura come preveggenza, ma in quello di mettere la letteratura al servizio bruto della propria concezione del mondo. Nel caso di Kundera, una concezione reazionaria.

21/07/2023