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Sembra aver suscitato solamente un leggero stupore nei media russi il mancato invito a Vladimir Putin alle celebrazioni per il 75° anniversario dello sbarco in Normandia, il 5 e 6 giugno. A Parigi, la cosa sarebbe stata motivata con l’organizzazione della cerimonia, prevista a livello di Primi ministri. Pare che nemmeno il neoeletto Presidente ucraino, Vladimir Zelenskij sia stato invitato, ma ci sono pochi dubbi sulla presenza di Donald Trump, già ora sul vecchio continente.
Il politologo Mikhail Aleksandrov scrive su Svobodnaja Pressa che lo stesso Cremlino non ardeva dal desiderio di partecipare all’iniziativa: nel 2015, per il 70° della vittoria, a Mosca arrivò solo Angela Merkel, che peraltro non assistette alla parata sulla Piazza Rossa.
Una cosa sembra abbastanza prevedibile: quest’anno assisteremo al definitivo trionfo delle “democrazie occidentali” sul nazismo e sul suo “pari” di colore rosso, sconfitti uno nel 1945 e l’altro nel 1991 (o prima). Oltre al 75° anniversario dell’inizio dell’operazione “Overlord”, da sempre celebrata quale evento fondamentale della Seconda guerra mondiale, che avrebbe deciso, da solo, le sorti di tutto il conflitto, tra pochi mesi si ricorderà l’80° dello scoppio della guerra.
Nel primo caso, si è da sempre trasformato un evento effettivamente rilevante (per la verità, più politicamente che militarmente) in una vera e propria epopea, praticamente lasciando in sott’ordine la vittoria sovietica a Stalingrado e quella, forse ancora più determinante, del luglio 1943, allorché, rintuzzando l’offensiva tedesca nel saliente di Kursk e decidendo, in pratica, le sorti della Wehrmacht,
Mosca aveva con ciò stesso convinto Londra e Washington ad affrettare lo sbarco in Sicilia, per timore di lasciar campo libero all’Armata Rossa verso la Germania. E, soprattutto, si è di fatto taciuto il peso che l’operazione “Bagration” in Bielorussia, Polonia orientale e Paesi baltici – condotta quasi in contemporanea a quella “Overlord” a occidente, annientò l’intero gruppo di armate “Centro” tedesco – ebbe per alleggerire la pressione tedesca sugli Alleati.
Se nel 1944 l’URSS si fosse limitata a liberare il proprio territorio, concludendo poi una pace separata coi nazisti, a ovest la Wehrmacht avrebbe facilmente ributtato a mare gli Alleati.
Nel secondo caso, già da alcuni decenni si tenta di far ricadere le responsabilità per lo scatenamento nazista della guerra sul cosiddetto “protocollo aggiuntivo segreto”, allegato al patto di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto 1939 che, si dice a ovest, avrebbe “dato il via libera” a Hitler per attaccare la Polonia.
Non c’è bisogno di esser indovini, per immaginarsi come nei prossimi mesi la Germania nazista verrà trasformata in “vittima” delle “mire sovietiche”: lo aveva già anticipato quattro anni fa il golpista ucraino Arsenij Jatsenjuk e non sembra che, all’epoca, qualche capitale occidentale lo abbia sbugiardato.
Il Ministero degli esteri russo ha ora pubblicato la versione in lingua russa sia del protocollo, che della relativa illustrazione, sinora disponibili solo nella versione tedesca: a suo tempo, ci ritorneremo; per ora è sufficiente ricordare come si continui a tacere su patti di non aggressione simili, sottoscritti dalle potenze occidentali con la Germania, sull’accordo tra Varsavia e Berlino per la spartizione di Lituania e Cecoslovacchia, ecc.
Le premesse per tale indirizzo ci sono già tutte. In vista del 75° anniversario della vittoria sul nazismo, che si celebrerà l’anno prossimo, negli Stati Uniti è già stata emessa una speciale moneta commemorativa, su una faccia della quale sono raffigurati due personaggi, somiglianti a Harry Truman e Dwight Eisenhower, mentre sull’altra faccia sono incise le bandiere di USA, Gran Bretagna e Francia, ma non quella dell’Unione Sovietica.
L’URSS non esiste più: dunque, perché ricordarla? Il nazismo è stato sconfitto dagli “Alleati”; senza discussioni. Sicuramente, l’anno prossimo tutti verremo chiamati a onorare le tre potenze “vittoriose”, mentre gli autentici vincitori del Drittes Reich saranno, nel migliore dei casi, passati sotto silenzio; nel peggiore, verranno assimilati al “male assoluto”, peggiori dei nazisti sconfitti.
Cosa significano i 26 milioni di cittadini sovietici caduti, civili e militari, a fronte del milione e mezzo di morti di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna prese insieme? Cosa importa che dal 1941 al 1944, quando l’Armata Rossa riuscì infine a portare il fronte al di là dei confini sovietici, le oltre 230 divisioni – da Germania e paesi satelliti, Italia compresa – schierate sul fronte orientale, avessero condotto una guerra di sterminio, volta ad annientare la popolazione civile, mentre a ovest 60 divisioni tedesche tenevano impegnati gli Alleati quel tanto che bastava per rimandare fino al 1944 l’apertura del secondo fronte?
Cosa importa che i cittadini sovietici di nazionalità ebrea venissero sterminati a milioni; che la popolazione bielorussa si fosse ridotta di un terzo alla fine della guerra; che nella Leningrado assediata per 872 giorni, siano morti dai 650.000 al milione e mezzo di civili; che dei soldati sovietici delle classi d’età dal 1921 al 1924, solo 3 su 100 siano sopravvissuti alla guerra; che le Marzabotto, le Sant’Anna, le Oradour, si siano contate a decine nel territorio sovietico occupato dai nazisti, in cui i villaggi venivano dati alle fiamme insieme agli abitanti: quasi 200 nella sola Bielorussia.
Cosa importa che ad appena qualche settimana dalla fine della guerra, quando ormai l’Armata Rossa era prossima a Berlino, il futuro capo della CIA, Allen Dulles, si incontrasse in Svizzera col generale Karl Wolff, inviato di Heinrich Himmler, per negoziare la pace separata tra Germania nazista e potenze “Alleate”…
L’unione Sovietica non c’è più e si può tranquillamente riscrivere la storia.
In Russia circola un aneddoto, tra il vero e l’ironico: sembra che alla firma della capitolazione tedesca, l’8 maggio 1945, al quartier generale di Georgij Žukov a Berlino, il comandante in capo del OKW, Wilhelm Keitel, abbia osservato sarcasticamente “e anche loro ci hanno sconfitto?”, intendendo i rappresentanti alleati lì presenti.
Ora, osserva News Front, la storia “non si riscrive: si ruba. E in buona parte noi stessi ne siamo stati responsabili”, trent’anni fa; così, “abbiamo pagato e fatto pentimento. Non c’era nulla di cui pentirsi, ma ci convinsero che fosse necessario. Abbiamo pagato un prezzo enorme; abbiamo pagato, rinunciando alla nostra memoria”.
Questo avveniva, mentre “venivamo sottoposti al lavaggio del cervello” e ci convincevano che tutta la nostra “storia fosse stata un crimine e un errore storico”. Tentavano di convincerci che fosse “nostra la colpa se era iniziata la seconda guerra mondiale, per via del patto Molotov-Ribbentrop; che Stalin fosse peggio di Hitler; che tutta la storia del nostro paese fosse fatta di gulag e battaglioni di punizione. Migliaia di “storici” e propagandisti si sono dati da fare; hanno riscritto i manuali scolastici”.
Ed è così che nei paesi ex-socialisti d’Europa orientale si distruggono a centinaia i monumenti ai soldati sovietici caduti per liberare quelle terre dall’occupazione nazista: seicentomila morti solo in Polonia, per dirne una, quasi tre volte tanti quanti gli stessi soldati polacchi. E’ così che domenica scorsa, a Kharkov, i neonazisti ucraini hanno distrutto il monumento al “Maresciallo della vittoria”, Georgij Žukov.
Ed è difficile dar torto a News Front sul fatto che “in buona parte noi stessi ne siamo stati responsabili”, quando nella stessa Russia si è cominciato a inaugurare monumenti, busti, steli ai più spietati generali bianchi della guerra civile e a canonizzare gli zar responsabili di impiccagioni e fucilazioni: l’ultimo in ordine di tempo, l’aeroporto di una delle 12 “città eroe” dell’URSS, Murmansk, è ora intitolato a Nicola II “il sanguinario”. Che altro?
Inizio messaggio inoltrato:
Da: Partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana <partigiani7maggio @ tiscali.it>Oggetto: Una base dell'esercito partigiano jugoslavo a Gravina-AltamuraData: 1 giugno 2019 10:10:52 CEST
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Ma soprattutto si scontra con una mantra falso quanto mai: “l’Europa ha garantito la pace e la sicurezza nel continente per 70 anni”. Al massimo ha garantito la pace tra i Paesi membri dell’Unione ma fino a un certo punto. Sarebbe meglio dire che l’Unione ha limitato, e pure male, le conseguenze delle sanguinose e devastanti guerre in Europa e nel Mediterraneo. I flussi migratori e le tragedie del mare derivati dal caos libico in Italia hanno regalato a sovranisti e populisti l’arma migliore che potessero trovare: le élite tradizionali non erano state in grado di difendere il Paese. E’ la vecchia leva della paura che spinge a votare a destra.
L’Italia per esempio sulla secessione Jugoslavia aveva idee assai diverse da quelle di una Germania che dopo il crollo del Muro nel 1989 si era appena riunificata. La disgregazione della Jugoslavia è stata la fine dello stato più multi-etnico e multi-religioso dell’Europa, un evento drammatico che poi è stato foriero di altre guerre, di altre secessioni e di altri guai.
Durante le stesse guerre della Jugoslavia l’Europa non è stata capace di fermare il conflitto in Bosnia la cui fine è stata dovuta all’intervento degli americani, non degli europei. Più o meno lo stesso discorso vale per la guerra in Kosovo che è stata portata dalla Nato ma che evidenziava l’obiettivo americano di spingersi verso Est e tenere sotto pressione la Russia che aveva dato addio da un pezzo all’Urss e si trovava allora in piena decadenza. Se poi la Russia di Putin ha replicato in Ucraina, Crimea e Siria, lo si deve anche a quegli eventi.
L’Europa non ha garantito nulla e non ha fermato alcun massacro, anzi ha contribuito a crearne altri. Non solo. Va in ordine sparso e davanti o scelte epocali come la pace e la guerra ragiona secondo gli interessi degli stati nazionali.
Prendiamo la guerra all’Iraq del 2003, il conflitto che ha scatenato l’attuale destabilizzazione del Medio Oriente, voluto da americani e britannici sulle false prove che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa. L’Italia per esempio si è unita alla guerra, dove ha subito il massacro di Nassiriya, mentre la Francia di Jacques Chirac ha tenuto a casa le truppe ed era contraria al conflitto.
E veniamo alla Libia e alle cosiddette “primavere arabe” del 2011. La guerra in Libia contro Gheddafi è stata scatenata dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. La Francia ha cominciato i raid su Gheddafi senza neppure farci una telefonata, pur sapendo che il Colonnello era il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo.
Ma il peggio doveva ancora venire. Gli Stati europei, senza una politica comune ma dettata dagli interessi nazionali, hanno determinato la frantumazione della Libia e destabilizzato con la questione dei migranti il quadro politico italiano. Le missioni europee come quella denominata Sophia per frenare il traffico dei migranti non hanno avuto alcun successo e non sono mai state pienamente attuate con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Né tanto meno abbiamo ottenuto, se non in parte, la redistribuzione dei migranti mentre sei Paesi sospendevano gli accordi di Schengen.
C’è dell’altro. L’attuale governo e quelli precedenti si sono fatti prendere in giro con la promessa americana di una “cabina di regia” sulla Libia che nessun Paese europeo e della regione ha mai voluto affidare all’Italia. Così siamo stati presi di sorpresa anche dall’avanzata del generale Haftar. Come ben si vede in Libia non c’è nessuna politica europea e l’Italia ne paga il prezzo con il suo isolamento. A Tripoli abbiamo sostenuto un governo Sarraj appoggiato dalla Turchia e dal Qatar, due stati non europei. E’ chiaro che siamo sbilanciati e ora tentiamo di smarcarci senza troppo successo.
Tutto questo sarà determinante per il futuro e in caso di conflitto tra Usa e Iran. Nonostante gli stati europei aderiscano all’accordo sul nucleare con Teheran del 2015, finiranno per decidere la partecipazione a una guerra in base ai loro interessi nazionali.
Questi interessi sono determinati dall’industria bellica, dai flussi di armi e dagli accordi economici con gli Usa, Israele e le monarchie del Golfo, tutti nemici dell’Iran e anche maggiori clienti dell’export di armamenti, oltre che fornitori di petrolio ed energia.
La stessa Italia potrebbe essere chiamata dagli Usa a concedere le basi nel Sud in caso di conflitto con Teheran. E dove sarà allora la politica estera europea comune? Resterà un pezzo di carta straccia di false intenzioni.
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