Jugoinfo


Incessante propaganda mirata allo squartamento della Siria

1) LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia
2) MOSTRA “CAESAR”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?
3) E' INIZIATO IL LINCIAGGIO contro gli archeologi occidentali che "osano" collaborare con i colleghi siriani. Nel mirino anche PAOLO MATTHIAE, il più grande archeologo italiano vivente


Vedi anche:
L'Esercito siriano entra nella città di Palmira (1.3.2017). VIDEO e MAPPA:
Le prime immagini di Palmira liberata (2.3.2017):


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LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia


Con il vostro Comunicato CS 028 – 2017 diffuso il 1° marzo, dopo aver genericamente parlato di inchieste sull’uso di armi chimiche riguardanti “tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria”, rivelate, dalle parole della stessa Tadros,  il vero scopo del comunicato: attaccare il governo siriano impegnato da 6 anni in un durissima battaglia contro orde di terroristi e mercenari etero diretti dall’esterno che hanno il compito di distruggere e smembrare quello sfortunato paese; e attaccare nel contempo Russia e Cina colpevoli di volerlo salvare. Grazie ai loro veti infatti si è evitata la legittimazione di una ennesima aggressione “umanitaria”  da parte della Nato contro un Paese sovrano, come successo nel marzo del 2011 contro la Libia,  le cui conseguenze devastanti sono oggi sotto gli occhi di tutti!

Anche allora avete fornito al “mondo” utili coperture propagandistiche per giustificare bombardamenti e attacchi militari, accusando Gheddafi di orribili stragi di civili e stupri di massa ottenuti distribuendo fiumi di Viagra ai soldati governativi, salvo poi riconoscere, a distruzione del paese avvenuta, che si trattava di fatti non provati o falsità evidenti.

Riguardo alla Siria, avete sponsorizzato una mostra fatta di foto di cadaveri torturati anonimi, di cui  non era possibile accertare identità e circostanze della morte. Foto attribuite a un fantomatico agente siriano “Caesar” di cui non siete stati in grado di fornire né il nome né altre indicazioni, alimentando il generale sospetto che si tratti di pura invenzione.

In altra circostanza avete pubblicato dossier attribuibili all’opposizione armata terrorista e jihadista siriana, in cui si parla senza prove del fantomatico numero di 13.000 impiccati- tutti rigorosamente anonimi – nelle carceri siriane.

Siate certi che queste “informazioni”, prive di riscontri e caratterizzate da una evidente faziosità, sono accolte da un numero crescente di cittadini con sempre maggiore scetticismo, e sempre un maggior numero di persone apprezza il comportamento di Russia, Cina e altri Paesi. Grazie a loro la Siria, malgrado gli attacchi e la devastazione da parte di migliaia di mercenari armati, addestrati e finanziati dalle petromonarchie e dall’impero Usa, è riuscita a difendere e mantenere la sua integrità e sovranità.

Ripensateci ed agite con maggiore responsabilità e dignità.


Cordiali saluti
Vincenzo Brandi, Stefania Russo della Rete No War Roma.




COMUNICATO STAMPA                                                               
CS028-2017 

SIRIA, ALTRO VERGOGNOSO VETO DI RUSSIA E CINA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA 

Russia e Cina hanno per l'ennesima volta usato il loro potere di veto all'interno del Consiglio di sicurezza per bloccare, il 28 febbraio, una risoluzione che avrebbe contribuito ad accertare le responsabilità per l'uso e la produzione di armi chimiche da parte di tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria. 

"Ponendo il veto alla risoluzione, Russia e Cina hanno mostrato un palese disprezzo per la vita di milioni di siriani. Entrambi i paesi fanno parte della Convenzione sulle armi chimiche e anche per questo non c'è alcuna scusa per il loro comportamento", ha dichiarato Sherine Tadros, direttrice dell'ufficio di Amnesty International presso le Nazioni Unite. 

"Da sei anni la Russia, sostenuta dalla Cina, blocca le decisioni del Consiglio di sicurezza riguardanti il governo siriano. Questo atteggiamento impedisce la giustizia e rafforza la tendenza di tutte le parti coinvolte nel conflitto a ignorare il diritto internazionale. Il messaggio della comunità internazionale è che, quando si parla di Siria, non esiste alcuna linea rossa", ha aggiunto Tadros. 

Dall'inizio della crisi siriana, la Russia ha fatto ricorso per sette volte al diritto di veto. La risoluzione del 28 febbraio proponeva sanzioni nei confronti di singole persone collegate alla produzione di armi chimiche in Siria e un embargo su tutti i materiali che potrebbero essere usati per produrle in futuro. 

La proposta su cui Russia e Cina hanno posto il veto faceva seguito alla risoluzione 2118 del settembre 2013, redatta da Russia e Usa, che impone misure sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite sul "trasferimento non autorizzato di armi chimiche e su ogni uso di armi chimiche, da parte di chiunque, nella Repubblica araba siriana". 

Nell'agosto 2015 il Consiglio di sicurezza aveva anche adottato all'unanimità la risoluzione 2235, che aveva istituito un Meccanismo d'indagine congiunto per identificare i responsabili degli attacchi con armi chimiche in Siria. Da allora, il Meccanismo è giunto alla conclusione che tanto il governo siriano quanto il gruppo armato Stato islamico hanno compiuto attacchi con armi chimiche. 

"Il vergognoso atteggiamento della Russia è un ulteriore esempio di come Mosca usi il potere di veto per garantire al suo alleato, il governo siriano, che eviterà di subire conseguenze per i suoi crimini di guerra e contro l'umanità. Ora è di fondamentale importanza che il neo-nominato segretario generale Onu e gli stati membri del Consiglio di sicurezza agiscano con fermezza quando alcuni stati impediscono l'approvazione di risoluzioni per impedire o porre fine a crimini di guerra. Il Consiglio di sicurezza è diventato un luogo in cui fare sfoggio di posizioni politiche e il popolo siriano ne sta pagando il prezzo definito", ha concluso Tadros. 

FINE DEL COMUNICATO                                                       
Roma, 1 marzo 2017 

Per interviste: 
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa 
Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361, e-mail: press@...


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Mostra “Caesar”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?

Comunicato del Comitato Contro La Guerra Milano sulla mostra “Nome in codice Caesar”

Da venerdì 3 marzo giunge anche a Milano la mostra “Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura”, con il Patrocinio del Comune di Milano.

La stessa mostra era stata proposta, la scorsa primavera, alla Camera e al Senato della Repubblica, ma non accettata, poiché serve solo a “scatenare reazioni emotive facilmente strumentalizzabili”, aggiungiamo noi, finalizzate ad accusare il legittimo Governo della Repubblica Araba di Siria di “crimini contro l’umanità”.

I promotori di queste campagne, sono gli stessi che hanno giustificato e fiancheggiato i bombardamenti all’Iraq e alla Libia, motivati con “i falsi”, ampiamente dimostrati, dei bimbi Kuwaitiani uccisi nelle incubatrici da Saddam Hussein, o delle fosse comuni di Gheddafi e altre falsità, ormai conosciute in tutto il mondo, fino ad arrivare alle “famose” provette di antrace mostrate all’ONU dall’allora Segretario di Stato USA, Generale Colin Powell, di cui, persino lo stesso ex Primo Ministro britannico, Tony Blair, dovette scusarsi di fronte al mondo.

Tra i principali finanziatori di “Caesar” compare lo stesso Qatar, paese che, con Arabia Saudita e Turchia, è tra i principali sponsor delle bande armate islamiste della cosiddetta “opposizione siriana”, ISIS inclusa (a cui l’appoggio di questi paesi è ora conclamato), che dal 2011 hanno messo a ferro e fuoco la Siria e il vicino Iraq, provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi in esodo verso l’Europa.

Per approfondimenti sulla mostra “Caesar” si legga il report di SibiaLiria e L’Antidiplomatico (Report sull’attendibilità delle “Foto di Caesar” e sulla relativa mostra – goo.gl/A0YDg8).

Questi approfondimenti legittimano il sospetto che molte di esse non raffigurino “ribelli uccisi da Assad”, ma “poliziotti e soldati uccisi dai ribelli”.

E’ preoccupante il sostegno che la mostra ha ricevuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, è inoltre oltraggioso e dannoso il Patrocinio del Comune di Milano, città simbolo della lotta per la Liberazione dal nazifascismo.

Chiediamo, quindi, spiegazioni all’Amministrazione del Comune di Milano, segnatamente nelle figure del Sindaco Sala e dell’Assessore Majorino, delle ragioni per cui hanno deciso di patrocinare questa mostra, vista la scarsa credibilità della stessa ed anche visto che all’interno della mostra si sono tenuti dibattiti dove hanno avuto modo di pontificare soggetti ripresi in trasmissioni televisive e più volte fotografati in manifestazioni di piazza a fianco di elementi jihadisti, come ad esempio Haisam Sakhanh (https://youtu.be/8VXykI1OGjQ), appena condannato all’ergastolo dalla procura di Stoccolma, poiché colpevole di una esecuzione sommaria, nel corso della quale venivano  assassinati 7 prigionieri, soldati di leva dell’esercito regolare siriano; la condanna all’ergastolo è stata inflitta poiché è stata dimostrata l’aggravante della particolare ferocia e crudeltà del crimine, che pone questo episodio fuori dal diritto internazionale. Si consideri che Sakhanh appare in molte fotografie con armi di ogni tipo. Infine riteniamo opportuno che, dopo questa offesa alla città, l’Amministrazione del Comune di Milano porga le sue scuse, prendendo atto della leggerezza con cui ha agito in questa occasione, laddove le scuse non arrivassero, sarebbe lecito pensare che, come gli amici di Sakhanh, anche l’Amministrazione Comunale sia fortemente condizionata dai rapporti che il Qatar intrattiene con settori economico-finanziari della città di Milano.




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Siria, la grande lite tra gli archeologi 

«Collaborazionista chi va da Assad»

Convegni a Damasco, lettere e email infuocate, accuse in Italia, Gran Bretagna, America
E il decano degli scavi siriani Paolo Matthiae finisce sotto accusa. Lui: «Esigo le scuse»

di Lorenzo Cremonesi, 7 febbraio 2017

Archeologi in Siria: che fare? Riprendere a scavare come nulla fosse stato, oppure rifiutare di collaborare con un regime macchiato di crimini orribili? «Sino a prova contraria, ciò che resta dei siti è ancora al suo posto e solo le autorità e gli archeologi siriani rimasti possono cercare di restaurarli dopo i vandalismi dell’Isis. Ecco perché è nostro compito aiutarli al meglio», ci spiega pragmatico e disincantato l’italiano Paolo Matthiae, il celebre scopritore delle tavolette di Ebla che a 77 anni, di cui circa 50 trascorsi a scavare in Siria, resta il decano dei tanti studiosi che da tutto il mondo hanno operato nel Paese. A lui si affiancano i colleghi (non sono pochi in Italia e all’estero) disposti a scendere a patti con il regime di Assad pur di ritornare.
«Assolutamente no. Impossibile far finta che non sia accaduto nulla. Non si tratta con la dittatura. Si passerebbe per collaborazionisti di un regime sanguinario, repressivo, macellaio che cerca anche nel ritorno degli archeologi stranieri un modo per riacquistare legittimità agli occhi della sua popolazione e sul teatro internazionale. Tornare significa diventare complici dei massacratori», replicano i contrari, tra cui Marc Lebeau, noto studioso di Bruxelles scopritore del sito di Tell Beydar, e Annie Sartre Fauriat, anch’essa ricercatrice del Vicino Oriente, oltre a diversi nomi celebri come Piotr Steinkeller, che insegna a Harvard e Cambridge e Gonzalo Rubio della Pennsylvania State University. Le loro lettere aperte di condanna al«collaborazionismo» dividono gli accademici. Tra i critici non mancano gli italiani come Maria Giovanna Biga, della Sapienza di Roma, la quale con Matthiae ha intavolato uno scambio non proprio amichevole di email di chiarificazione-accusa, in realtà destinato a riacuire lo scontro.
Punto di partenza di questa vera e propria «guerra tra archeologi» è l’ormai noto convegno tenuto a Damasco l’11 e 12 dicembre scorsi per volere del ministero delle Antichità siriane assieme a quello del Turismo con l’intenzione di riprendere i lavori e restaurare i siti danneggiati. Il regime per facilitare l’arrivo degli studiosi dall’estero non ha richiesto visti, in più ha organizzato i trasporti in Siria. Tra gli italiani, Giorgio Buccellati, noto per i suoi scavi a Urkesh, ha steso una delle più rilevanti relazioni in cui magnifica gli interventi delle autorità locali a salvaguardia dei reperti, specie a Palmira. «Non ho potuto esserci per motivi famigliari, ma ci sarei andato molto volentieri e comunque ho inviato la mia relazione», dice Matthiae.
Ma critiche durissime arrivano dai colleghi siriani espatriati per non cadere nelle mani della polizia segreta di Assad. Sette di loro hanno firmato uno degli appelli più noti per il boicottaggio. «Impossibile lavorare in Siria. Il regime continua a reprimere e uccidere. Oltre il 70 per cento di noi è fuggito all’estero, restano solo quelli asserviti. Inoltre i bombardamenti indiscriminati russi e dell’aviazione di Damasco hanno provocato più danni all’archeologia e al patrimonio storico che non tutti i vandalismi dell’Isis messi assieme», ci dice un archeologo di Aleppo. 
Un dato questo confermato da altri colleghi scappati in Europa: quelle stesse autorità che oggi vorrebbero presentarsi come paladine del ripristino del retaggio culturale ne sono state in effetti i peggiori vandali. Le bombe siro-russe sarebbero cadute copiose sui tesori di Palmira, Ebla, Krak dei Cavalieri, sui centri storici di Ariha, Idlib, Homs, Hama, e sulle parti più antiche di Aleppo a partire dal mercato coperto. Per cercare un possibile compromesso, un gruppo di archeologi «critici» ha smussato i toni, proponendo una «carta etica» per chi opera in regioni controllate dalle dittature. Ma la polemica resta aspra. Commenta Matthiae: «Concordo con l’80 per cento di quel documento. Ma le accuse contro di me sono state troppo offensive. Esigo scuse formali prima di firmarlo».

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La guerra in Siria ora si combatte tra gli archeologi

Il belga Marc Lebeau e i suoi seguaci: no ai rapporti con Assad. Matthiae: politicizzazione devastante

di Francesca Paci, 19/01/2017 (Ultima modifica il 27/01/2017)

Qual è il momento giusto per occuparsi delle antichità archeologiche in una guerra come quella siriana in cui, giunto nel 2014 a quota 191 mila, l’Onu ha rinunciato a contare le vittime per concentrarsi sugli oltre 5 milioni di profughi? La domanda, nient’affatto oziosa di fronte alla maggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale, spacca da un mese la comunità degli studiosi internazionali, accomunati dall’amore per la terra ospite di ben 6 siti Unesco ma divisi oggi su come e con chi cooperare per proteggerli.  

 

A Palmira  
Il casus belli risale al 10 dicembre scorso, giorno del ritorno dell’Isis a Palmira precedentemente liberata e celebrata dall’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, quando a Damasco s’incontrano una ventina di specialisti di vari paesi per ragionare insieme sulle sorti del patrimonio archeologico siriano. Damasco significa Bashar al Assad e per diversi accademici, che pure avevano lavorato sotto di lui prima del 2011, la partecipazione dei colleghi equivale a un «deplorevole» sostegno politico al suo regime nel momento in cui, dopo 5 anni di bombardamenti seguiti alla inizialmente pacifica richiesta di riforme, sta sferrando l’ultimo decisivo e cruentissimo assalto alla Aleppo ribelle.  

 

«E’ impossibile far finta che non sia accaduto niente mentre infuria la guerra civile, dobbiamo attendere e rispettare la lotta del popolo siriano» ci spiega da Bruxelles l’archeologo Marc Lebeau, direttore europeo degli scavi di Tell Beydar e promotore di una lettera di fuoco contro il meeting di Damasco. Frequenta la Siria dal 1975, era lì anche quando nel 1982 Hafez al Assad radeva al suolo Hama. Adesso, giura, è diverso: «Chi si occupa del vicino Oriente ne conosce bene l’assenza di democrazia, ma ci sono molte scale di grigi nelle violazioni dei diritti umani. Di Hama abbiamo saputo solo molto tempo dopo, oggi invece vediamo in diretta il massacro dei civili. E soprattutto, diversamente da quanto accaduto a dicembre, gli archeologi di prima non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». 

 

L’implicita assimilazione con gli artisti graditi a Hitler nella Berlino degli Anni 30 ha scatenato l’indignazione dei luminari additati dal j’accuse di Lebeau, del mensile «L’Histoire», di Annie Sartre Fauriat e di altri studiosi firmatari della Carta Etica per l’Archeologia e l’Assiriologia del Vicino Oriente pubblicata martedì sul sito del Penn Cultural Heritage Center. Ora è guerra.  

 

Sul campo  
«Se è il momento giusto per l’archeologia? Si è già tardato troppo - tuona Paolo Matthiae, decano della Siria a cui si deve la scoperta di Ebla -. E’ grave che la comunità internazionale abbia isolato la Direzione generale delle antichità di Damasco, impeccabile e valorosa nell’aver salvato dai musei di tutto il paese 300 mila preziosi oggetti di cui ora, con tono neo-coloniale, la Francia si dice pronta a prendere la custodia». E i morti? I raid? Il professor Matthiae tiene al ruolo dello studioso: «Questa polemica avrà conseguenze serie perché ha portato a quella politicizzazione dell’archeologia che io ho sempre evitato sin dalla fondazione dell’Icaane, dove hanno collaborato iraniani e iracheni, israeliani e palestinesi, turchi e ciprioti. Noi studiosi del Vicino Oriente sappiamo bene quanto già gravato sia da logiche politiche e dovremmo prevenirne ulteriori». 

 

Eppure, replicano gli altri, parlare di Siria nel 2017 non può che essere politica. Perché, insiste Lebeau, «il 75% degli alti responsabili della Direzione generale delle antichità siriane ha lasciato il paese» e perché «stando all’Onu, l’80% delle vittime dipende dai bombardamenti lealisti ma anche la distruzione dei beni archeologici, da Aleppo ad Homs, è frutto dei raid». Sulla sua linea è la storica de La Sapienza e a lungo epigrafista a Ebla Maria Giovanna Biga, convinta che l’impegno per i civili preceda quello per le antichità, in Siria come in Yemen: «Molti miei studenti siriani hanno la famiglia là. Ci sono zone non bombardate tipo Tell Mozan, dov’è possibile curare il patrimonio archeologico. Ma altre sono sotto tiro, Aleppo prima e ora Idlib o Tell Mardikh. La Direzione generale delle antichità siriane dovrebbe chiedere al suo governo la fine dei raid. Non sono politicizzata, confidavo negli Assad, Asmaa aveva fatto molto per Ebla. Ma non hanno ascoltato il loro popolo».  

 

I puristi ribaltano su chi li giudica degli opportunisti alla corte di Assad e del suo sponsor Putin l’accusa di covare motivi personali o professionali. L’archeologo emerito Pierre Leriche era al famigerato incontro. Anzi, l’ha organizzato: «Sostenere che ci fosse dietro il governo di Damasco è assurdo, significa ricalcare la posizione propagandistica del governo francese sulla Siria. Dietro c’era solo chi lavora da sempre in Siria e vuole sostenere l’eroico direttore generale delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, riconosciuto dall’Unesco e acclamato anche a Strasburgo la settimana scorsa per aver salvato 13 mila pezzi solo a Deir Ezzor. L’organizzazione nasce in tandem con l’amministrazione delle antichità, tra i cui bravi funzionari ce ne sono anche di non in linea con il governo. La data poi, era stata decisa in estate quando nessuno poteva prevedere Aleppo».  

 

“Nessuna propaganda”  
Come Leriche anche lo scopritore di Urkesh, Giorgio Buccellati, era in Siria il 10 dicembre. E lo rivendica: «Anziché polemizzare bisognerebbe raccontare il sacrificio dei dipendenti delle antichità siriane per il patrimonio del loro paese, nella difesa del quale sono morti almeno in 15. Non c’erano ministri all’incontro di Damasco, è venuto solo un sottosegretario a darci il benvenuto. E la tv che aspettava fuori non ci ha fatto domande». Fine della storia? È improbabile, perché le domande difficili sulla Siria in agonia non finiranno presto.



(русский / english / italiano)

APPELLI INTERNAZIONALI DAL DONBASS

1) DOMENICA 5 MARZO GIORNATA INTERNAZIONALE DI MOBILITAZIONE
Manifestazioni a Venezia e Napoli
2) PETIZIONE per la condanna delle azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko
Ukraine, stop the bloody war in Donbass! / To the United Nations Human Rights Council
3) APPELLO ai leader mondiali perché pongano un freno al massacro che continua ai danni della popolazione civile del Donbass
Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire
4) VERSO LA CAROVANA ANTIFASCISTA 2017


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MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE CONTRO I CRIMINI DI POROSHENKO

5 marzo 2017
PRESIDIO A VENEZIA (stazione Santa Lucia [dalle ore 15:00]) 
PRESIDIO A NAPOLI (via Toledo [dalle ore 10:00])

Il 5 marzo, contemporaneamente, in tante piazze europee, si svolgerà un evento a carattere internazionale: saranno ricordati i bambini del Donbass, vittime della politica genocida ucraina. Per i crimini di Poroshenko contro l’umanità verrà inoltrata richiesta di deferimento al Tribunale Internazionale. Noi saremo a Venezia e a Napoli per dire NO al massacro dei civili in Donbass. 
Oggi come ieri il fascismo non passerà!
Coordinamento Ucraina Antifascista

Link eventi:
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/
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МЕЖДУНАРОДНАЯ МАНИФЕСТАЦИЯ ПРОТИВ ПРЕСТУПЛЕНИЙ ПОРОШЕНКО

Мероприятия пройдут в Венеции - ж-д вокзал Санта Лучия и в Неаполе - улица Толедо

5марта - на многих площадях Европы, ОДНОВРЕМЕННО пройдет мероприятие международного значения : будут помянуты дети Донбасса, павшие жертвами украинской политики геноцида. В Международный Трибунал будут направлены требования о рассмотрении всех противочеловечных преступлений, совершенных Порошенко и его правительством. 
Мы скажем наше НЕТ массовым убийствам гражданского населения Донбасса в Венеции и Неаполе. 
Сегодня, как и вчера - ФАШИЗМ НЕ ПРОЙДЕТ!  
Координационный центр Антифашистская Украина.
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/



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“Come abitante dell'Europa aggiungo la mia firma per associarmi alla denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte dell'Ucraina nel Donbass”. Così si esprimono i cittadini dell'Unione Europea, autori di una petizione online, segnalata dai compagni del Partito Comunista di Ucraina, che è indirizzata al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e che ha già raccolto migliaia di adesioni.
A supporto dell'iniziativa, è stato creato anche il progetto internet 101life.net, dove è contenuto l'elenco con i nomi e le fotografie degli oltre 100 bambini morti in conseguenza dell'aggressione nazista sostenuta da USA/UE/NATO, insieme al testo della petizione che condanna le azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko.
Questi cittadini dell'UE chiedono alla comunità internazionale di premere sulle autorità ufficiali di Kiev, perché interrompano i combattimenti nell'est dell'Ucraina e risolvano il problema del conflitto interno al paese mediante la ricerca del consenso nazionale. 


Pétition - Droits de l'homme / #101life: 

Ukraine, stop the bloody war in Donbass!

14/02/2017  

À l'attention : To the United Nations Human Rights Council

We, unindifferent inhabitants of Europe,

expressing deep concern about the situation of prolonged armed conflict, that has been going on for over 2 years in the Eastern part of Europe, sincerely wishing the senseless bloodshed to stop and peace, order in the European continent to be restored as soon as possible, guided by a desire to lend support in defense of unalienable rights and liberties of Donbass people, appear with the following address:

In 2014, as a response to a coup in Kyiv, the peaceful protest demonstrations were organized by millions of Ukrainian people calling for self-elected Kyiv authorities to comply with the laws of Ukraine. New leadership of Ukraine reacted to the actions of Ukrainian citizens by unleashing of an undeclared war – the so-called anti-terrorist operation. In a moment millions of civilians, who attempted to resist happening lawlessness, were deprived of their basic human’s civil and political rights: the right to life, freedom to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, right to freedom of movement, right to freedom of opinion and expression, and many other unalienable rights recognized by the world community.

Ukrainian propaganda machine systematically tries to represent in front of us people, who are not afraid to express their opinion about the coup in Kyiv in 2014, as the terrorists and militants. 

Ukrainian authorities meticulously conceal and hide everything that happens in Donbass from the international community, withheld information about the blockade and the shelling of schools and hospitals. The mass media of the European Union member States, in their turn, also don’t not provide the society with an objective picture of the events taking place in Donbass, thereby they connive the marginal nationalist groups, which are in power in Ukraine.

Only because of individuals of our fellow citizens, who are not afraid of sanctions by Ukraine and who personally visited the territory of Donbass, we have found out the information about all the adversities, which inhabitants of this region have been rubbing through for the last 2 years.


According to eyewitnesses, it is clear that Ukraine "state" is waging war against its own citizens: against children, the elderly, women - millions of civilians, who are going through the inhuman ordeals and excessive suffering without any opportunity to leave their houses, which come under fire; against people, whose rights must be protected by the civilized world community and primarily by our governments.

Now we know that economic and transport blockade of Donbass, alongside with the unceasing battle actions, leads to starvation and suffering of the socially vulnerable citizens, who have found themselves on the brink of survival. Having got no opportunity to produce and export products, industrial giants have to stop production, leaving thousands of workers without a livelihood. The social facilities, such as schools and hospitals, regularly come under the shelling. Erected by the Ukrainian authorities, borders and checkpoints factitiously have separated a part of the territory of the state, and these actions have led to the impossibility of the people of Donbass to be full citizens of their country. 

As a result of actions of the central government of Ukraine, thousands of families have been separated: children and their parents can not see one another; the marriages are breaking down, unable to weather the separation of loved ones. In addition, Kyiv authorities have stopped social payments and by this they have actually abandoned hundreds of thousands of pensioners, mothers, the disabled and others with state-guaranteed right to social security to their own fate.

Having learned about such outrages of Ukrainian authorities, we can no longer bear to watch our governments and international organizations stay inactive or providing passive assistance to the crimes of Ukrainian authorities. 

We can not remain silent, and we responsibly declare:
We are convinced that the people of Donetsk and Luhansk regions are not extremists, terrorists or criminals. These are people that require respect for fundamental human rights, which are based on the fundamental principles of humanism: right to life, right to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, for the observance of which we stand!

We believe that the war in Donbass can be stopped only by the peaceful means, 
through the negotiations and a national consensus, which is possible only with the active impartial assistance of European states and the entire world community.

We are certain that every person has the right to information, to freedom of speech and belief and, therefore, we demand that our governments stop the information blockade.

We call on Ukraine to stop the bloody war in Donbass, and the governments of our countries to lend active assistance for the withdrawal of the Ukrainian troops by the President Poroshenko P.A., for the peace negotiations and establishing a lasting peace in the territory of Donbass.

In accordance with Article 1 of the Charter of the United Nations, the actual organization is intended to achieve international cooperation in promoting and encouraging respect for human rights and fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language or religion. 
This is our common aim as people and citizens in the XXI century. Therefore, we can not ignore what is happening in close proximity to us and we urge the United Nations to pay attention to the flagrant violations of human rights in Ukraine.

I, an inhabitant of Europe, append the signature under this petition to show my commitment to the information stated in petition and join to the complaint to the United Nations Human Rights Council, regarding the human rights violations by Ukraine in Donbass.




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ORIG.: Совместное обращение председателей Народных Советов ДНР и ЛНР к мировым лидерам (ЯНВАРЬ 31, 2017) 
Председатели Народных Советов ДНР и ЛНР Денис Пушилин и Владимир Дегтяренко сообщили, что с сегодняшнего дня организован сбор подписей жителей Республик и дополнительных свидетельств действий Украины по усугублению гуманитарной катастрофы под их совместных обращением к мировым лидерам...


Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire al seguente APPELLO al Presidente della Federazione Russa Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Merkel perché pongano un freno al massacro contro la popolazione civile del Donbass da parte del regime neonazista ucraino e del suo esercito:


APPELLO URGENTE!

I Presidenti dei Consigli del Popolo, Denis #Pushilin e Vladimir #Degtjarenko, hanno riferito di aver organizzato un appello con raccolta di firme, tra gli abitanti delle Repubbliche Popolari, per denunciare la situazione gravissima nelle città del Donbass sottoposte ai bombardamenti dell’esercito ucraino. 

Situazione che rischia di diventare un vero e proprio disastro umanitario. 

Questo appello sarà consegnato al Presidente della Federazione Russa Vladimir #Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Donald #Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Angela #Merkel.

“Dichiarazione dei Presidenti dei Consigli Popolari della LNR e della DNR Vladimir Degtjarenko e Denis Pushilin”

Le autorità ucraine continuano il genocidio della popolazione del Donbass.
Gli attacchi e i bombardamenti continui sulla linea di contatto hanno danneggiato una serie di infrastrutture sociali, industriali e edifici residenziali. Alla fine del 2016, come risultato del sabotaggio da parte dell’esercito di Kiev, l’80% della LNR è stata lasciata senza energia elettrica. Si trova sotto la minaccia continua di sabotaggio del sistema idraulico e di distribuzione del gas per il riscaldamento.

Più volte ci sono stati tentativi ucraini di fermare il flusso di acqua dall'impianto di filtraggio occidentale (sito industriale "Carbon") di Petrovsky nel territorio della LNR. 

A causa di ciò circa 400.000 persone sono state colpite dalla carenza di acqua potabile nelle città di #Lugansk#Alchevsk#Stakhanov#Bryanka#Pervomaisk e di un certo numero di altri insediamenti. 

I distretti della DNR hanno dovuto collegarsi alla rete di alimentazione della città di Yasinovataya e molti insediamenti circostanti sono ancora senza acqua. 

Parte di Makeyevka è ancora a secco. La struttura di pompaggio dell'acqua dal fiume Kalmius è stata sottoposta al fuoco di artiglieria. Pervomaysk è scollegata dalla rete del gas. Il malfunzionamento di queste strutture mette in pericolo più di 500.000 residenti.
L’esercito ucraino ha deliberatamente scelto come obiettivi le strutture industriali civili la cui distruzione può provocare un disastro ecologico nella regione. 

Sotto costante fuoco di artiglieria si trova l’impianto di filtraggio di Donetsk in cui ci sono stoccati reagenti chimici pericolosi. Sono più di 500.000 le persone che vivono nei distretti di quest’area limitrofa al confine Ucraino. 

La situazione è simile, a causa di sostanze potenzialmente pericolose, nell’impianto di “fenolo” Dzerzhinsk vicino al villaggio Novgorod e nell'impianto di "stirene" vicino alla città di Gorlovka.
Inoltre l'Ucraina non ha fatto nulla per ripristinare il sistema bancario, a causa del quale non vi è alcuna possibilità di trasferimenti di denaro. I cittadini delle Repubbliche non sono dotati di pensioni e prestazioni sociali. Questa restrizione colpisce soprattutto i pensionati e le categorie più socialmente vulnerabili (circa il 30%) della popolazione.
Vi chiediamo di intervenire presso il Presidente dell’Ucraina, Poroshenko, per fermare le attività criminali contro il popolo del Donbass. 

Fate smettere di sparare contro i civili!

Fate smettere il blocco economico!

Questo deve essere fatto prima che sia troppo tardi! 

Ancora siamo il tempo a fermare il disastro ambientale e umanitario!

Stop a Poroshenko! Salvare la gente del Donbass!


=== 4 ===

CAROVANA ANTIFASCISTA 2017
Il Primo Maggio di nuovo a Luganksk!

[La Banda Bassotti presenta l'iniziativa della Carovana Antifascista per il Donbass alla Rosa-Luxemburg-Konferenz di Berlino]
Берлин: в поддержку жителей Донбасса (17 Январь 2017.)

1.2.2017: USB e Banda Bassotti in collegamento video
Video conferenza dal Donbass: "sono a rischio le vite di 500 mila persone" (01/02/2017)
Parlamentare del Lugansk: "Puo' essere bombardato in queste ore un impianto che contiene al suo interno sostanze chimiche con possibili fuoriuscite di scorie nocive. Sono a rischio 500 mila cittadini che vivono nella zona"...
in collegamento con la federazione sindacale di Lugansk, Donbass
__ CAMPAGNA PER IL DONBASS __
Donbass : la guerra in europa con il nazifascismo che rialza la testa e uccide di nuovo (Unione Sindacale Di Base, 1.2.2017)
Da due giorni sono riprese le azioni di attacco delle bande naziste e delle truppe ucraine contro i territori delle repubbliche popolari del Donbass.
Sono state bombardate centrali elettriche e idriche che hanno lasciato senza acqua potabile, al buio e senza riscaldamento centinaia di migliaia di persone in presenza di temperature proibitive.
Questa mattina nella sede Usb è stato organizzato un collegamento in videoconferenza con il sindacato della repubblica Popolare di Lugansk . 
Usb, insieme al gruppo musicale della Banda Bassotti, lancia la Carovana di Solidarietà con il Popolo del Donbass che si batte per l'autodeterminazione del popolo contro il nazifascismo.
1° Maggio 2017 a Lugansk e Donetsk con una delegazione di Usb e la Banda Bassotti.

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BANDA BASSOTTI - La Brigata Internazionale - Official Trailer (rizomafilmproduzioni,14 ott 2016)
Trailer del documentario sulla Banda Bassotti con accenni al Donbass. Dal 23 Ottobre il film in anteprima su:
https://vimeo.com/ondemand/bandabassotti
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=tNmdUt4dwrY



(italiano / français)

Guerre mediatique

1) Les chauffards du bobard (Pierre Rimbert / LMD)
2) « Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles (P. Michel / Acrimed)


vedi anche:

La propaganda occidentale contro le fake news (La Tana dell'Orso, 23 feb 2017)

L’ennesima bufala dei “bombardamenti con il Cloro” (di Francesco Santoianni, 20.2.2017)
Brucia ancora ai media mainstream la liberazione di Aleppo. Che ora rispondono diffondendo la “notizia”– patrocinata da un Rapporto di Human Rights Watch (HRW) – del Cloro che, a dicembre, sarebbe stato sganciato dall’aviazione russa e siriana sui quartieri di  Aleppo presidiati dai “ribelli”...

Cosa ne sa Laura Boldrini della corretta informazione (Pandora TV, 10.2.2017)

Fake news. Su Internet sono gratis, su Repubblica le paghi (di Redazione Contropiano, 10 febbraio 2017)
... Nei giorni scorsi è circolato un rapporto di Amnesty International che, tra le altre cose, accusava Assad di aver fatto impiccare almeno 13.000 prigionieri... Repubblica non sapeva proprio come "provare" anche fotograficamente una simile notizia ed è ricorsa a un metodo semplice quanto truffaldino: ha preso una foto utilizzata tre anni fa da un giornale russo...

Il sapore “orwelliano” di Decodex, il motore di ricerca di Le Monde (di Jacques Sapir, 9 febbraio 2017)
Il sito web del quotidiano Le Monde ha lanciato nei giorni scorsi, uno “strumento” chiamato “Decodex“, che dovrebbe consentire agli utenti dei diversi siti di discernere la verità dalla menzogna...


=== 1 ===


Le MONDE diplomatique, janvier 2017, page 2

Les chauffards du bobard


Depuis la défaite de Mme Hillary Clinton à l’élection présidentielle, les chefferies éditoriales de New York, Londres ou Paris découvrent une effarante vérité : les médias mentent. Pas eux, bien sûr : les autres. Des journaux en ligne proches de la droite radicale américaine, d’obscurs blogs créés en Macédoine, des « trolls » qui publient à la pelle des fausses nouvelles (fake news) : la ministre de la justice aurait ordonné d’« effacer immédiatement tous les tatouages représentant le drapeau confédéré », le pape soutiendrait M. Donald Trump, Mme Clinton dirigerait un réseau pédophile basé dans l’arrière-salle de la pizzeria Comet Ping Pong à Washington... Ces boniments relayés par Facebook, Twitter et Google auraient altéré le jugement des esprits simples qui ne lisent pas chaque jour le New York Times.
Il n’en fallait pas davantage à la presse vertueuse pour entrer en résistance. « C’est une menace pour la pertinence et l’utilité même de notre profession, estime la reporter-vedette de Cable News Network (CNN) Christiane Amanpour le 22 novembre 2016. Le journalisme et la démocratie sont en danger de mort. » Un avis partagé par le New York Times, dont un éditorial-fleuve intitulé « Vérité et mensonges à l’ère Trump » (10 décembre 2016) incrimine les réseaux sociaux et déplore l’indifférence populaire à l’égard des informations fiables — cruelle ironie, la version numérique de ce texte était illustrée par une publicité pour un site de fake newsannonçant la mort de l’acteur Alec Baldwin. À en croire le Washington Post (1), l’épidémie de fausses nouvelles provient plutôt d’une « campagne de propagande sophistiquée » pilotée par la Russie ; mais son enquête repose sur des sources si peu fiables qu’elle est à son tour dénoncée comme un « cas chimiquement pur de “fake news” » par le journaliste Glenn Greenwald (The Intercept, 26 novembre 2016).
C’est entendu : avant l’entrée en campagne de M. Trump, la démocratie et la vérité triomphaient. Certes, les médias vivaient grâce à la publicité qui promet le bien-être aux buveurs de Coca-Cola, et relayaient les « actualités » fabriquées par des agences de communication. Mais les « fausses nouvelles » s’appelaient « informations », puisqu’elles étaient publiées de bonne foi par des journalistes professionnels.
Ceux qui trompaient la Terre entière en décembre 1989 avec les faux charniers de Timişoara, en Roumanie ; ceux qui diffusaient sans vérification, en octobre 1990, la fable des soldats irakiens détruisant des couveuses à la maternité de Koweït afin de préparer l’opinion à une intervention militaire ; ceux qui révélaient à la « une » du Monde (8 et 10 avril 1999) le plan « Fer à cheval » manigancé par les Serbes pour liquider les Kosovars — une invention des services secrets allemands destinée à légitimer les bombardements sur Belgrade. Sans oublier les éminences du New York Times, du Washington Post ou du Wall Street Journal qui relayèrent en 2003 les preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak pour ouvrir la voie à la guerre.
À présent, leur monopole de l’influence s’effrite, et ils fulminent : les poids lourds de la désinformation s’indignent que des chauffards du bobard roulent les lecteurs sans permis.

Pierre Rimbert


(1) Craig Timberg, « Russian propaganda effort helped spread “fake news” during election, experts say », The Washington Post, 24 novembre 2016.


=== 2 ===


« Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles

PATRICK MICHEL, 24 Fév 2017


Apparu dans les années 2000 et remis au goût du jour dans les suites du Brexit puis de l’élection de Donald Trump, le concept a fini par s’imposer : nous vivrions actuellement dans l’ère de la « post-vérité », dans laquelle la vérité a perdu sa valeur de référence dans le débat public, au profit des croyances et des émotions suscitées ou encouragées par les fausses nouvelles devenues virales grâce aux réseaux sociaux. Sans doute la diffusion de fausses nouvelles est-elle une réalité, mais la façon dont certains journalistes des grands médias, et en particulier les cadres des rédactions, posent le problème, ne nous en apprend pas tant sur l’idée bancale de « post-vérité » que sur les croyances de ces mêmes journalistes et les points aveugles de la conception du rôle qu’ils jouent dans les événements politiques en général, et dans la situation actuelle en particulier.


Concepts flous, utilisations orientées

L’expression « post-vérité » (post-truth politics en version originale), apparue dès les années 2000 [1] connaît actuellement une deuxième vie, tellement riche qu’elle a été désignée « mot de l’année 2016 » par le dictionnaire Oxford. C’est Katharine Viner, rédactrice en chef « Informations et Médias » du quotidien britannique The Guardian, qui l’a remis au goût du jour, en l’actualisant, dans un éditorial du 12 juillet 2016. Au lendemain du Brexit, cette journaliste spécialiste des questions médiatiques donne ainsi un nouveau cadre à l’expression : les électeurs, trompés par de fausses nouvelles (fake news), ont voté pour le Brexit alors même que les médias favorables au maintien de la Grande-Bretagne dans l’Union européenne leur exposaient à longueur de colonnes et d’émissions les faits qui auraient dû les convaincre de voter « remain ».

Avoir la vérité de son côté ne suffit plus, nous dit-on, à persuader les électeurs, davantage enclins à suivre celles et ceux qui font appel à leurs émotions et à leurs croyances personnelles [2].

Cette utilisation de l’expression est celle qu’on retrouve depuis dans la grande majorité des médias dominants, avec une fréquence accrue après les élections « surprises » de Donald Trump aux États-Unis, et de François Fillon puis Benoît Hamon aux primaires de leurs camps respectifs en France. Chaque défaite électorale de l’option préférentielle des médias dominants (Hillary Clinton, Alain Juppé [3], Manuel Valls [4]) semble alors confirmer le diagnostic.

Dans un dossier consacré au sujet, un article de Libération résume le lien présumé (auquel son auteure ne semble pas souscrire complètement) entre fausses informations, crédulité du public et résultats électoraux : « Les médias dits traditionnels vérifient, contredisent, rétablissent les faits. Pour quels effets ? Après le Brexit, Trump est élu… Un faux tweet fait-il une vraie élection ? Mal informés voire désinformés, les électeurs voteraient pour Donald Trump ou Marine Le Pen. »

L’auteure de cet article est l’une des rares à prendre la précaution du conditionnel pour exposer cette théorie. Or celle-ci, reprise au moins implicitement dans nombre de contributions médiatiques au sujet de la « post-vérité » [5], souffre d’un point aveugle important : la réalité d’un changement de la crédulité du public est pour le moins mal étayée. En effet, on ne peut qu’être curieux de savoir ce qui a bien pu modifier à ce point le rapport que le public entretient avec la vérité. Pour se limiter à la question des élections, on pourrait se demander lesquelles ont été remportées par des candidats faisant campagne autour de faits (forcément vrais), et lesquelles ont été remportées par ceux qui auraient fait appel à l’émotion et à la croyance (forcément irrationnelles). Mais ces questions ne sont jamais posées sérieusement. Tout au plus peut-on apprendre que l’émergence de nouveaux moyens de diffusion de l’information a augmenté le nombre de personnes exposées à des fausses nouvelles. Ce qui conduit logiquement à l’idée que les réseaux sociaux doivent être contrôlés, ou au moins régulés [6].

 

Fausses nouvelles, fabrications ou mauvais journalisme

Les esprits mal tournés, et ceux disposant d’un peu de mémoire et de quelques archives, feront également remarquer que la diffusion de fausses nouvelles n’est pas apparue avec la création des réseaux sociaux : si les médias dits traditionnels vérifient, contredisent et rétablissent les faits, il ne fait aucun doute qu’il leur arrive également de diffuser des mensonges, et plus fréquemment encore des informations biaisées ou tronquées. C’est ce que rappelle l’article du Monde Diplomatique dans lequel Pierre Rimbert liste les principales fabrications médiatiques sur les questions internationales des trente dernières années, des faux charniers de Timişoara aux preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak. C’est ce que nous a rappelé récemment l’affaire de la fillette sauvée par des CRS dans une voiture en feu à Bobigny : une information diffusée par la préfecture et reprise sans vérification (et sans conditionnel) par, entre autres, Le ParisienLe Journal du dimanche ou encore Valeurs actuelles, alors qu’il a rapidement été établi que c’était un jeune manifestant qui avait sorti la fillette de la voiture, et que cette dernière n’était pas encore en feu.

Pour reprendre le cas du Guardian, on aura noté que l’éditorial de Katharine Viner a suscité bien plus de reprise et de commentaires que l’article du journaliste Glenn Greenwald qui dénonçait la falsification d’une interview de Julian Assange par le quotidien britannique. Le même Greenwald, ancien journaliste du Guardian à l’origine des premières publications de « l’affaire » Edward Snowden et aujourd’hui directeur du site d’information The Intercept, exposait aussi récemment deux autres fabrications parues dans le quotidien américain The Washington Post, grand pourfendeur de la post-vérité et des « fake news », qui dispute la place de « quotidien de référence » outre-Atlantique au New York Times [7]. Greenwald relevait également que les articles dans lesquels apparaissent ces fabrications sont très profitables au journal qui les publie puisqu’ils génèrent beaucoup de trafic sur son site. Surprise : la course à l’audience et aux publications spectaculaires pourrait donc être à l’origine de la diffusion de fausses nouvelles, y compris au sein des médias traditionnels… Quant aux correctifs ajoutés après coup, qui reconnaissent la fausseté des informations centrales des articles originaux, ils n’ont pas été relayés par les journalistes du « Post » sur leur compte Twitter, pas plus que leurs tweets diffusant les articles originaux n’ont été supprimés.

En France aussi, il arrive que des journalistes professionnels diffusent de fausses informations : par exemple sur les circonstances de la mort d’Adama Traoré ou les prétendus mensonges d’une interne en médecine critiquant la ministre de la Santé. Ou lorsque l’AFP reprend les fausses informations du Washington Post dans une dépêche qui donnera lieu à plusieurs articles, dont celui du Monde, qui lui-même sera par la suite corrigé discrètement [8].

Mais, comme le note Greenwald, ceux qui distinguent la catégorie de « fake news » de celle de « mauvais articles » le font à dessein. Dans le lexique de la rubrique « Les Décodeurs » du Monde, déjà cité plus haut, une « fake news » est ainsi un « faux prenant l’apparence d’un article de presse ». Cette distinction fondée sur l’intentionnalité, souvent difficile à déterminer, de la personne qui produit l’information, permet surtout d’immuniser par avance le journalisme professionnel qui pourrait ainsi être à l’origine de mauvais articles, mais jamais ou très rarement de « fake news ».

Quoi qu’il en soit, il incombe aux tenants de la notion de « post-vérité » de répondre aux questions suivantes : pourquoi les fabrications des médias traditionnels n’ont-elles pas présenté dans le passé, et ne présentent-elles pas aujourd’hui le même type de menace que les « fake news » dont on s’inquiète tant ? Et comment expliquer que le public, autrefois rationnel et raisonnable, soit devenu aussi hermétique aux faits, vérifications et explications fournis par les médias traditionnels ? L’explication qui prend uniquement en compte le rôle de diffusion des réseaux sociaux semble un peu courte, a fortiori si l’on s’intéresse aux audiences massives de certaines émissions d’information (environ 8 millions de téléspectateurs combinés chaque soir pour les journaux télévisés de 20 heures de TF1 et France 2), ou que l’on remarque le poids croissant des productions de médias mainstream dans les contenus partagés sur Facebook ou Twitter. Notons ici que, selon l’ACPM, les cinq sites d’information les plus consultés en France étaient, en mai 2016, LeMonde.fr, LeFigaro.fr, 20minutes.fr, LeParisien.fr et Bfmtv.com [9]. Soit une écrasante domination des médias « traditionnels »…

 

Derrière la « post-vérité » : une conception particulière du rôle du journaliste

À bien y regarder, l’ère de la « post-vérité » ne se singularise donc pas essentiellement par une attitude radicalement différente du public par rapport à la vérité (qui reste à démontrer), mais bien par la perception par les journalistes que l’opinion ne les suit plus. On pourrait même donner une assez bonne définition de l’ère de la « post-vérité » comme période au cours de laquelle les électeurs votent contre les options électorales soutenues par la majorité des grands médias. Et ce n’est pas un hasard si une grande partie des articles [10] traitant de « fake news » ou de « post-vérité » font un lien direct avec les événements électoraux récents, preuves douloureuses, administrées à plusieurs reprises en 2016, que les médias ne font pas l’élection, en tout cas certainement pas tout seuls [11].

Ce qui semble poindre derrière l’idée de la disparition de la vérité comme valeur référence du combat politique est une certaine angoisse devant l’impossibilité pour certains journalistes de remplir le rôle qu’ils semblent s’assigner : permettre aux électeurs de voter correctement. Il est donc naturel que Céline Pigale, directrice de la rédaction de BFM-TV, résume ainsi les enjeux [12] : « Il faut rétablir, il faut obtenir que les gens nous croient. » Ce que l’on peut traduire ainsi : « Lorsque les citoyens-électeurs ne nous écoutent pas, ils votent n’importe comment ; il est donc impératif qu’ils nous écoutent et nous croient à nouveau. »

Cette conception du rôle du journalisme comme responsable de la certification des faits pertinents, mais aussi de leurs interprétations acceptables, est celle qui fait tenir aux éditorialistes leurs sempiternels discours sur le « réalisme », « le pragmatisme », l’inquiétante « montée des populisme », etc. C’est cette conception qui était la cible de l’article de Frédéric Lordon que nous avions recensé : si les médias professionnels ont une responsabilité dans les évolutions politiques des dernières décennies, c’est bien celle d’avoir, au nom d’un rôle prescriptif rarement revendiqué mais néanmoins assumé, marginalisé avec beaucoup de constance et d’application un certain nombre d’options politiques qui sortent du « cercle de la raison », et d’avoir rendu une immense partie de l’espace médiatique impraticable pour les tenants de ces options [13].

 

Une crise de confiance : mais confiance en qui ?

Or les options admises semblent intéresser un public de moins en moins nombreux, mais pour des raisons qui ne sont pas fondamentalement liées à leur traitement médiatique ou à celui de leurs concurrentes exclues. Et l’on est frappé de voir la victoire de Donald Trump analysée principalement comme un échec des médias qui avaient pris parti pour son adversaire, et qui n’avaient pas su prédire le résultat de l’élection en raison d’une déconnexion d’avec une large part des électeurs américains : cette analyse, modèle d’auto-centrisme aveuglé, néglige à peu près tous les facteurs politiques, économiques et sociaux qui ont pu pousser les électeurs à voter pour le candidat républicain – aussi bien les aspects de son programme et de son positionnement politique qui ont pu trouver un écho auprès des électeurs, que ceux qui les ont rebutés dans le programme de son adversaire et dans le bilan de la présidence Obama qu’elle défendait. Autant d’éléments, régulièrement écartés des discussions « post-vérité » [14]. Mais il est vrai que la prise en compte de ces éléments pourraient amener à soulever des questions autrement plus fâcheuses : « Et si ces gens qui ne nous écoutent plus avaient en fait quelques bonnes raisons pour cela ? »

Et l’analyse autocentrée se poursuit par cette esquisse de solution : en reprenant contact avec les « vrais gens », avec la France (ou l’Amérique) « profonde », les médias restaureront leur crédibilité et la confiance que leur accorde le public. Malheureusement, il apparaît qu’un projet comme celui du Monde, qui annonce « une “task-force” de six à huit journalistes lancés à la rencontre de “la France de la colère et du rejet” » [15] a bien peu de chance d’atteindre cet objectif. La raison en est aussi simple que difficile à entendre de la part de journalistes qui, souvent généreux, prétendent « rétablir la confiance » à coup de faits et d’enquêtes : tant que la quasi-totalité des grands médias restera dans la sphère d’influence des pouvoirs politique et économique, les journalistes resteront souvent victimes, qu’ils le méritent ou non, du discrédit et de la contestation qui frappent les oligarchies économiques et le microcosme politique. Autrement dit : la défiance et la critique à l’égard des journalistes et des informations se nourrissent de raisons diverses et nombreuses qui sont également, voire essentiellement extra-médiatiques.

Sans doute notre association s’intéresse-t-elle surtout à la façon dont la discussion – thèmes possibles à aborder et opinions possibles à défendre – est fermement encadrée dans une grande partie de la production médiatique mainstream : « pragmatisme » et « réalisme » versus « populisme » et « utopie ». Mais nous tentons de ne pas nous laisser griser par notre enthousiasme : ce n’est pas l’efficacité grandissante de cette critique qui explique prioritairement la perte de crédit des médias dits professionnels. Il semble plutôt qu’après plusieurs décennies catastrophiques aux plans politique, social, économique et environnemental, les principaux pouvoirs suscitent de plus en plus de défiance, ce qui se répercute quasi mécaniquement sur les satellites médiatiques de ces pouvoirs.

 

Restaurer la confiance : l’énergie dispersée du désespoir

C’est assez dire que la capacité de restaurer leur crédit ne dépend pas des seuls médias. Sans doute, traquer les fausses informations, comme le font par exemple les « Décodeurs » du Monde, est-il utile, voire indispensable. Il ne s’agit alors que de rehausser le travail ordinaire des journalistes d’information : vérifier, recouper et, quand il le faut, corriger. Mais ce serait une illusion d’attribuer des vertus quasi miraculeuses à ces tentatives de reconquête.

Cela ne signifie pas que rien ne dépend du monde médiatique. Mais la capacité de faire revenir la confiance, et donc le public, en particulier pour la presse écrite qui continue de perdre des lecteurs à un rythme soutenu, repose notamment sur le développement de médias indépendants des pouvoirs économique et politique [16] et plus généralement d’une transformation démocratique de l’ensemble de l’espace médiatique : une transformation dont la nécessité est éludée par les journalistes et les chefferies éditoriales qui animent le débat médiatique sur la « post-vérité ».

Or, outre l’idée de la « reconnexion » au terrain, symbolisée par l’expérience militaro-journalistique de la « task-force » du Monde, on voit se diffuser la conviction que c’est en exposant les « fakes news » que les « fact-checkeurs » des médias dominants renverseront la vapeur. Là encore, et peut-être de façon encore plus visible, ces louables intentions révèlent le rôle que les chefs de rédaction assignent au journalisme : informer, certes, mais pour encadrer.

Tel est le rôle assigné au dispositif annoncé par Facebook en France, sur la base de ceux existant en Allemagne et aux USA, et rapporté dans un article des Échos : n’importe quel utilisateur du réseau social y trouvant un article relayant une information suspecte pourrait la signaler, et des journalistes soumettraient l’article à une vérification, puis y accoleraient si nécessaire un label « intox », qui diminuerait la visibilité de l’article sur le réseau social, ainsi qu’un article correctif. Les journalistes préposés à ce « fact-checking » ne seraient pas rémunérés par Facebook, mais par leur rédaction [17

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Guerra a cannonate

1) Le colombe armate dell’Europa (Manlio Dinucci su il manifesto, 21 febbraio 2017) 
2) Un voto che prepara la guerra (Giulietto Chiesa su SputnikNews, 20.02.2017)
3) A sinistra dirimente è la guerra (Tommaso Di Francesco su il manifesto, 19 febbraio 2017)
4) La NATO in marcia verso Est (Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda”)
5) Altro che obsoleta, la Nato con Mattis si allarga a sud con un «Hub» di guerra (Manlio Dinucci su il manifesto, 16 febbraio 2017) 
6) Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo (Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017)
7) Guantanamo (Cuba), 4-6 maggio 2017: SEMINARIO INTERNAZIONALE CONTRO LE BASI MILITARI STRANIERE


Read also:

TORCHBEARER OF THE WEST (Berlin calls to replace the US as the West's "torchbearer", GFP 2017/02/14)
In the run-up to the Munich Security Conference this weekend, leading German foreign policy experts are calling on the EU to reposition itself on the world stage, replacing the United States as the West's "torchbearer." Since Washington's change of government, the United States no longer "qualifies as the symbol of the West's political and moral leadership," according to Wolfgang Ischinger, Chair of the Munich Security Conference. It is therefore up to Europe "to make up for this loss." ... "We Europeans" could become an "impressive political and military power," Ischinger cajoled...


=== 1 ===


L’arte della guerra
 
Le colombe armate dell’Europa 

Manlio Dinucci
  

Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali. 

A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero. 

Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi. 

Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia. 

Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner». 

Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa». 

L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva». 

I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca. 

Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. 

Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. 

A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».
 
(il manifesto, 21 febbraio 2017) 



=== 2 ===


Un voto che prepara la guerra

20.02.2017
Giulietto Chiesa

“Nella mia qualità di Presidente sono guidato dalla volontà del mio popolo e indirò un referendum sulla questione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato”. Con queste parole Poroshenko annunciava, il 9 febbraio scorso, le intenzioni sue e dei suoi burattinai per “chiedere” il cerchio del colpo di stato che lo portò al potere a Kiev nel febbraio 2014.

La citazione testuale, nello strano silenzio di tutti i media occidentali, venne pubblicata dall'importante quotidiano tedesco Frankfurter allgemeine Zeitung. Ed era a corredo della notizia di un recente sondaggio d'opinione, secondo il quale il 54% degli ucraini sarebbe ora favorevole a un immediato ingresso nella Nato. Il condizionale è d'obbligo, ma la cifra potrebbe essere credibile se si tiene conto del martellamento propagandistico cui gli ucraini sono stati sottoposti negli ultimi tre anni da tutti i media del regime (cioè da tutti i media).
Il contenuto di un tale martellamento non è stato diverso, in sostanza, da quello subito dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi occidentali, e i suoi contenuti sono noti: la causa di tutti i mali dell'Ucraina, remoti, passati, presenti, è la Russia (inclusa l'Unione Sovietica); la Russia ha aggredito l'Ucraina e l'ha invasa; la Russia ha "annesso" con la forza la Crimea; la Russia ha preso il Donbass etc.
Se si tiene conto che l'ultimo sondaggio prima del colpo di stato a Kiev del 22 febbraio 2014, aveva detto che i favorevoli a un ingresso dell'Ucraina nella Nato erano soltanto il 16%, si può misurare l'efficacia di un tale martellamento. Del resto identico a quello cui sono stati sottoposti i cittadini di Estonia, Lettonia, Lituania, già membri della Nato e convinti in maggioranza di una cosa del tutto assurda e priva di elementi di supporto, secondo cui la Russia di Putin sarebbe in procinto di invaderli.
Ma il punto non è questo. Il punto è che il governo fantoccio di Kiev ha già ri-avviato la guerra contro le due repubbliche di Donetsk e di Lugansk, in plateale violazione degli accordi di Minsk 1 e 2, bombardando i centri abitati, moltiplicando gli attentati terroristici. Ultimi in ordine di tempo l'assassinio di Mikhail Tolstykh (Givi)comandante del Battaglione Somalia dell'esercito della DNR, quello del capo di Stato Maggiore dell'esercito popolare di Lugansk, colonnello Oleg Anashenko, e quello del colonnello Arsen Pavlov, delle forze armate del Donetsk, dello scorso 16 ottobre. A queste provocazioni terroristiche si aggiungono quelle, anch'esso sanguinose, sventate dai servizi russi, contro la Crimea.
Il proposito è chiaro ed è perfino pubblicamente e ripetutamente proclamato. Come ha detto recentemente il ministro di Kiev per le "regioni temporaneamente occupate", Jurij Grymciak, "noi riteniamo che nel prossimo futuro, un anno e mezzo all'incirca, noi ci riprenderemo i territori (del Donbass e della Crimea, ndr) quando il loro mantenimento si rivelerà troppo costoso per la Federazione Russa".
Sbalordisce il silenzio dell'Europa di fronte a queste dichiarazioni, che rivelano le intenzioni di Kiev di non rispettare, né ora né mai, gli accordi siglati a Minsk, che prevedono un negoziato preliminare con le Repubbliche che si sono proclamate indipendenti, e che escludono la legittimità di una ripresa delle azioni belliche nei loro confronti. Un silenzio che non solo protegge l'aggressione, ma che indica la totale irresponsabilità verso le conseguenze. E' evidente infatti che l'isteria artificialmente creata nei confronti della Russia, sommata a un voto di adesione alla Nato, creerebbe una miscela esplosiva non disinnescabile. Una offensiva ben preparata (e tacitamente approvata dalla Nato) contro la DNR e la LNR metterebbe la Russia nella situazione di dover decidere se lasciare massacrare i russi delle due repubbliche, oppure se reagire. Per non parlare della Crimea che, in quanto parte integrante della Federazione Russa, è impensabile possa essere abbandonata a un destino di tragedia.
A quel punto ogni azione del Cremlino, diversa dallo scenario preparato da Kiev e dagli europei occidentali verrebbe qualificata come "aggressione". Ma non più soltanto come aggressione della Russia contro l'Ucraina (fake news ripetute anche dai nostri media italiani) come, bensì come aggressione della Russia contro la Nato. La "logica" di questa concatenazione di eventi dovrebbe balzare agli occhi a qualunque persona responsabile. Fidarsi dei nazisti di Kiev e dei generali Stranamore che guidano la Nato è cosa insensata. Fidarsi della CIA, che ha organizzato il colpo di stato nazista a Kiev e che sta organizzando l'impeachment contro Trump (il quale a sua volta, ha idee assai confuse sulla gestione di questa crisi, tant'è vero che ha fatto dichiarare al suo portavoce l'augurio che la Russia restituisca la Crimea ai nazisti), significa far precipitare la situazione. Come dice il già citato Grymciak, i tempi sono brevi: un anno e mezzo-due.
Infatti Petro Poroshenko, proprio il 9 febbraio, annuncava l'inizio di una esercitazione militare senza precedenti in territorio ucraino, con la partecipazione di ingenti forze della Nato, segnatamente di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Canada. Decine di convogli militari, e di treni speciali sono in movimento in tutta l'Europa centrale: direzione Ucraina. Solo un cieco potrebbe non connettere i punti di questo disegno. L'America di Trump non mostra segni di rinsavimento rispetto a quella di Obama-Clinton. L'Unione Europea tiene bordone. C'è solo una cosa da fare: impedire l'ingresso dell'Ucraina nazista nella Nato. Sappiamo che il governo italiano non muoverà un dito in questa direzione. È dunque un compito del popolo e dei suoi rappresentanti ancora non avvelenati dalla manipolazione dei dementi che spingono verso la guerra. Gli ucraini possono votare quello che vogliono, assumendosene collettivamente la responsabilità. Ma l'Italia ha un voto dirimente per decidere se questa Ucraina può o non può entrare nella Nato. Occorre fare tutto il possibile per costringere il governo a opporre il proprio diniego. Non si tratta qui di uscire dalla Nato, si tratta di impedire che la Nato ci trascini in una guerra insensata e mostruosa, dove molti di noi moriranno. Poiché è di questo che stiamo parlando.


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A sinistra dirimente è la guerra

il manifesto, 19 febbraio 2017

di Tommaso Di Francesco
La Nato incrollabile. Il vice-presidente Usa Mike Pence in Europa a rassicurare sul rifondato Patto atlantico. Come dimenticare che la guerra è entrata nel dna della sinistra che si è fatta governo?
«Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te»: non sappiamo a chi attribuire questa massima ma certamente ha una attualità sconcertante. Parliamo del silenzio assordante e sempre più affluente sulla condizione della crisi mondiale che attraverso la guerra mostra il suo vero volto, internazionale quanto domestico.
Accade sotto i nostri occhi che, al di là degli annunci ondivaghi, teatrali quanto sprezzanti, alla fine la scelta del nuovo presidente di destra degli Stati uniti d’America Donald Trump sia quella di considerare l’Alleanza atlantica come baluardo «incrollabile».
Lo ha trasmesso ieri il vice-presidente Usa Mike Pence in visita in Europa dove è venuto a rassicurare sulla condivisione del rifondato Patto atlantico. Quello che ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia portandoli da decenni in tutte le guerre devastanti che l’Occidente ha consumato non solo in Medio Oriente e che si allarga a est sulla frontiera russa con truppe, sistemi d’arma, scudo antimissile che monta testate nucleari.
E prima lo aveva affermato due giorni fa il nuovo capo del Pentagono Jim Mattis, non solo ribadendo «amicizia incrollabile» ma chiedendo – bene accolto dagli alleati – un aumento della spesa per la difesa, del 2% del Pil, ai Paesi europei dell’Alleanza atlantica.
Così l’Italia che è «solo» all’1,1% del Pil in speseper la difesa, per un equivalente di 55 milioni di euro al giorno, potrà serenamente arrivare a circa 100 milioni di euro al giorno. Perché l’Unione europea, dalla Merkel alla Mogherini rispondono che sì, «la Nato va rafforzata» e certo anche «l’Ue e l’Onu». La Nato che resta istituzionalmente sotto comando militare dello Stato maggiore americano. Mentre Mike Pence l’Ue nemmeno la nomina.
Allora, vista la crisi drammatica dell’Unione europea che non a caso ha perso con la Brexit la sua fetta atlantica, forse è meglio riflettere. Perché al punto in cui siamo appare evidente che più atlantismo vuol dire solo meno europeismo. Infatti è la Nato che resta «incrollabile», che aumenta il suo bilancio, che si allarga a est, che riempie di basi il Vecchio continente, che si allunga a Sud. Mentre è in forse l’esistenza dell’Unione europea. Sullo sfondo c’è certo la crisi ucraina. Ma come dimenticare che nel 2013 sarebbe stata possibile una diversa soluzione di quella crisi, prima economica e poi politica, se su piazza Majdan fosse arrivata la Commissione di Bruxelles a trattare le condizioni della crisi economica simile a quella greca. Invece arrivarono il capo della Cia John Brennan, il vice presidente democratico Joe Biden e il repubblicano anti-trumpista McCain, a fare comizi e ad arringare folle per buona parte guidate dall’estrema destra xenofoba ucraina. Aprendo un precipizio, dall’impunita strage di Odessa, all’annesione russa della Crimea, alla guerra civile in Donbass. Un precipizio su cui la Nato ha soffiato e soffia con passione. A Est e a Sud. Come in Libia dove, alla fine del memorandum trattato con l’Italia, di fronte alle divisioni del paese e alla rottura con il generale Haftar, il «nostro» premier Sarraj, che non controlla neanche Tripoli, richiama in soccorso proprio la Nato. Lo stesso organismo militare che ha distrutto con i raid aerei il Paese nel marzo 2011.
La guerra è distruzione di vite umane e risorse, è seminagione di odio, è dominio-imperio degli spazi economici e finanziari con la violenza militare; è attivazione della asimmetrica (e strumentale) spirale terroristica. La fuga disperata di milioni di esseri umani che chiamiamo migranti è epocale perché corrisponde all’epoca delle guerre occidentali in Medio Oriente, che hanno distrutto tre stati, l’Iraq, la Libia e la Siria, fondamentali per gli equilibri mondiali; ed è epocale perché corrisponde alla rapina epocale, da parte delle multinazionali, delle ricchezze dell’immensa Africa dell’interno. Ora di fronte a chi fugge dalle guerre e dalla «miseria da rapina» l’Europa, nonostante le evidenti responsabilità, erige muri e militarizza i propri confini. Fino alla soluzione del blocco navale militare e alla pratica di esternalizzare l’accoglienza dei profughi a Paesi esperti in tortura e campi di concentramento. Ecco la nuova governance: la guerra e gli universi concentrazionari.
Nelle stanze domestiche, solo pochi giorni fa in Italia si è consumato un vero e proprio «golpe» da parte del governo Gentiloni (fotocopia di Renzi) che ha approvato un disegno di legge per implementare il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale». Di fatto si istituzionalizza la guerra con l’assegnare alle Forze armate missioni che stravolgono la Costituzione: gli «interessi vitali» del Paese (invece della patria, come da art.52 della Costituzione); il contributo alla difesa collettiva della Nato e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo; la gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento; e, dulcis in fundo, si affida alle Forze armate sul piano interno «la salvaguardia delle libere istituzioni…con compiti specifici in casi di straordinaria necessità e urgenza». Non si tratta di spalare la neve. Siamo alla istituzionalizzazione della «guerra umanitaria» che dai Balcani, all’Afghanistan – dove le truppe italiane sono nel contingente Nato in una inutile quanto sanguinosa guerra da 16 anni – fino all’Iraq e alla Libia non solo non hanno risolto le crisi internazionali ma le hanno aggravate.
Come dimenticare che la guerra sia entrata negli ultimi 25 anni prepotentemente nel dna della sinistra che si è fatta governo? Fino a diventare bipartisan? E come sorprendersi se una nuova destra nazional-populista cresca sui disastri sociali che la guerra e lo sfruttamento di risorse e ambiente hanno prodotto?
A sinistra dirimente è la guerra. È l’assunzione della parola d’ordine della pace costituente. Il rifiuto della guerra e la difesa dell’articolo 11 della costituzione non vanno in appendice alla consapevolezza individuale e collettiva, ma al primo posto. Non c’è alternativa se non si mobilita una nuova umanità contro lo stato di guerra delle cose presenti.
il manifesto, 19 febbraio 2017

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La NATO in marcia verso Est

17 Febbraio 2017
Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda” | da kprf.ru
Traduzione dal russo di Mauro Gemma

La creazione di quattro battaglioni multinazionali in Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia sono già stati pianificati per il 2017. La Germania assumerà il comando del battaglione della NATO in Lituania, gli Stati Uniti saranno al comando in Polonia, i britannici in Estonia e i canadesi in Lettonia.

La Lituania ha dato ufficialmente il benvenuto al primo battaglione militare internazionale della base avanzata della NATO. Alla cerimonia nella città di Rukla (distretto di Jonava) il presidente lituano, la bellicosa Grybauskaité ha evidenziato che i reparti internazionali opereranno come forza di deterrenza.

La dislocazione dei soldati della Bundeswehr sul territorio della Lituania, secondo la leadership locale, è un segnale di fiducia verso la Germania. Ma il parere della gente non importa a nessuno. E non c'è stato un referendum sulla presenza delle truppe straniere nel paese. E' in atto un'evidente violazione della Costituzione. E' ciò che ricordano le forze progressiste della sinistra nelle manifestazioni e nelle azioni di protesta.

Nella cittadina di Rukla sono già state rinnovate le caserme, i dormitori e le aree attrezzate in cui si suppone saranno collocati i container delle forze della NATO e le attrezzature militari. In seguito si prevede di trasformare tutto ciò in una moderna cittadella militare, eretta non lontano dalla capitale Vilnius.

Dal febbraio 2017 è iniziato il dispiegamento principale delle truppe straniere. E' previsto che tutte le unità del battaglione delle forze avanzate della NATO arriveranno in Lituania, in piena capacità operativa, entro la metà di giugno. Il battaglione potrà così prendere immediatamente parte all'esercitazione “Spada di ferro”.

Nel 2017-2018 nel battaglione serviranno militari di Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Croazia e Francia. La Germania, al comando del battaglione, partecipa con circa 600 soldati, mentre gli altri paesi ne forniranno tra 200 e 250. Ma in tutto, in Lituania, dovrebbero essere dislocati 1.200 uomini e la NATO si è detta disponibile ad aumentare il contingente delle sue forze avanzate.

I militari portano con loro un equipaggiamento militare pesante: 13 carri armati Leopard-2, 38 veicoli per la fanteria, artiglieria, forze di difesa aerea a corto raggio, blindati CV90, Boxer, Fennek, ecc.

La Lituania fornirà supporto al battaglione della NATO. Il ministero della Difesa del paese spenderà solo nel 2017 8 milioni di euro per il mantenimento e la formazione del contingente militare straniero.

Nel 2018 la spesa per la difesa della Lituania raggiungerà il 2% del PIL, vale a dire circa 1 miliardo di euro. I leader dei partiti politici parlamentari si sono accordati di aumentare fino al 2,5% del PIL, entro il 2020, le spese per la difesa. E perché no, anche per la guerra? Nell'agosto dello scorso anno è stato firmato con la Germania un accordo per l'acquisto di BMP Boxer per un ammontare di 386 milioni di euro: è il più grande contratto nell'intera storia dell'esercito lituano. Le forze armate lituane acquistano anche obici tedeschi semoventi, autocarri, e i soldati da molti anni utilizzano fucili automatici G-36.

I propagandisti della NATO sono convinti che le unità militari dell'alleanza sul fianco est saranno in grado di “evitare il conflitto, frenando il potenziale aggressore”. Ma la Russia ha ripetutamente dichiarato di non avere alcuna ambizione territoriale nella regione del Mar Baltico, e che sono le forze dell'Alleanza a costituire una minaccia alla sicurezza della Russia.

“Siate vigili!”, esclamò negli ultimi istanti della sua vita l'antifascista ceco Julius Fučík. Non è meno vero anche nei nostri giorni quando l'occupazione strisciante sta inghiottendo i paesi dell'Europa orientale.


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Altro che obsoleta, la Nato con Mattis 
si allarga a sud con un «Hub» di guerra 

Manlio Dinucci
  

Alla riunione del Consiglio Nord Atlantico, apertasi ieri a Bruxelles, la ministra Pinotti e gli altri ministri europei della Difesa hanno tirato un sospiro di sollievo: la Nato non è «obsoleta», come aveva detto il presidente Trump. Nella sua prima dichiarazione ufficiale ieri a Bruxelles, il nuovo segretario statunitense alla Difesa, Jim Mattis, ha assicurato che la Nato resta «la base fondamentale per gli Stati uniti». 

È «l’alleanza militare che nella storia ha avuto il maggior successo», ha detto ai giornalisti mentre era in volo per Bruxelles, portando come prova dell’impegno statunitense nella Alleanza il fatto che l’unico comando Nato con quartier generale negli Stati uniti è quello del Comandante supremo alleato per la trasformazione (Sact), carica già ricoperta dallo stesso Mattis. Il Sact, responsabile del Comitato militare (la più alta autorità militare della Nato), «promuove e controlla la continua trasformazione delle forze e capacità della Alleanza». 

Negli ultimi 20 anni, ha sottolineato Mattis, la Nato si è trasformata (ha infatti inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Urss e tre della ex Jugoslavia), ma «deve continuare a trasformarsi per adattarsi a ciò che è avvenuto nel 2014, anno di svolta in cui le nostre speranze di una qualche partnership con la Russia si sono dimostrate infruttuose». Occorre per questo  «essere certi che il legame transatlantico resti forte». 

A riprova di ciò, il segretario generale della Nato Stoltenberg, nella sua dichiarazione congiunta con il segretario Mattis, ha confermato ieri che «truppe ed equipaggiamenti Usa stanno arrivando in Polonia e nei paesi baltici, dimostrando chiaramente la determinazione degli Stati uniti di stare a fianco dell’Europa in questi tempi travagliati».

Sotto comando degli Stati uniti (cui spetta la carica del Comandante supremo alleato in Europa), la Nato continua continua ad allargarsi ad Est, a rafforzare lo schieramento sul fronte orientale in funzione anti-Russia, nonostante le dichiarate intenzioni del presidente Trump di aprire un negoziato con Mosca. 

Allo stesso tempo, la Nato potenzia il fronte meridionale con nuovi dispositivi militari. «Oggi decideremo di costituire un nuovo Hub per il Sud presso il nostro Comando della forza congiunta a Napoli», ha annunciato Stoltenberg, sottolineando che «questo ci permetterà di valutare e affrontare le minacce provenienti dalla regione, a complemento del lavoro svolto dalla nostra nuova Divisione di intelligence costituita qui al quartier generale Nato».

Con grande soddisfazione della ministra  Pinotti, aumenta l’importanza dell’Italia in quella che Stoltenberg, aprendo il Consiglio Nord Atlantico, ha definito «proiezione di stabilità oltre i nostri confini». Il nuovo «Hub per il Sud», che verrà realizzato a Napoli, costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali in una «regione» dai contorni indefiniti, comprendente Nordafrica e Medioriente ma anche aree al di là di queste. È disponibile per tali operazioni la «Forza di risposta» della Nato, aumentata a 40mila uomini, in particolare la sua  «Forza di punta ad altissima prontezza operativa», che può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento». 

Il nuovo «Hub per il Sud», realizzato presso il Comando della forza congiunta alleata con quartier generale a Lago Patria (Napoli), sarà agli ordini dell’agguerrita ammiraglia statunitense Michelle Howard che, oltre ad essere a capo del Comando Nato, è comandante delle Forze navali Usa per l’Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa. Quindi anche il nuovo «Hub per il Sud» rientrerà nella catena di comando del Pentagono.

Tutto questo costa. Mattis ha ribadito la richiesta perentoria che tutti gli alleati europei portino la spesa per la «difesa» ad almeno il 2% del Pil. Solo cinque paesi Nato hanno raggiunto o superato tale livello: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. 

L’Italia è indietro con «appena» l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: secondo i dati ufficiali Nato, la spesa italiana per la «difesa» è aumentata nel 2015-2016 da 17.642 a 19.980 milioni di euro, equivalenti in media a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende le missioni militari all’estero, finanziate con un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze, né il costo di importanti armamenti finanziati anche dalla Legge di stabilità. 

Stoltenberg, felice, annuncia che finalmente la Nato «ha voltato pagina», accrescendo la spesa militare nel 2015-2016 del 3,8% in termini reali, ossia di circa 10 miliardi di dollari. La ministra Pinotti è fiduciosa che l’Italia arriverà al 2%, ossia a spendere 100 milioni di euro al giorno per la «difesa». 

Aumenterà la disoccupazione, ma avremo la soddisfazione di avere a Napoli il nuovo «Hub per il Sud».
 
(il manifesto, 16 febbraio 2017)


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http://contropiano.org/news/politica-news/2017/02/15/missioni-militari-15-miliardi-mostrare-muscoli-giro-mondo-088947

Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo


di Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017

Nel 2017 il contingente italiano di militari in Iraq sarà secondo solo a quello statunitense. A deciderlo è stato il governo Gentiloni, che ha deciso di aumentarlo fino a 1.497 militari, nell’ambito della “Coalizione dei volenterosi” per la lotta contro l'Isis. I militari italiani avranno anche compiti di ‘force protection’ nell’area di Mosul, in particolare per quanto riguarda la diga, appaltata alla societa’ Trevi. Lo stanziamento previsto per il 2017 e’ di 300,7 milioni. Il contingente militare in Iraq supera quello ancora operativo in Afghanistan.

Ma non c'è solo l'Iraq, c'è anche la Libia dove è stata avviata l'operazione ‘Ippocrate’, intorno all’ospedale da campo di Misurata. Oltre al personale sanitario, ci saranno infatti dei militari con compiti di ‘Force protection’. In tutto saranno impiegati fino a 300 uomini e lo stanziamento per il 2017 e’ di 43,6 milioni. Per fronteggiare l’immigrazione clandestina e assistere la Guardia costiera libica, lo stanziamento e’ di ulteriori 3,6 milioni. Per proteggere il traffico mercantile e le piattaforme petrolifere antistanti la costa libica (operazione Mare sicuro), lo stanziamento e’ di 84 milioni con 700 uomini. Per l’operazione Sophia-Eunavformed contro gli scafisti nel Mediterraneo lo stanziamento è di 43,1 milioni per 585 uomini.

In questo modo le spese complessive dell'Italia per le missioni militari all’estero nel 2017, saliranno a 1,13 miliardi, ai quali vanno aggiunti 295 milioni per la cooperazione che affianca i militari nei teatri di guerra. Gli uomini impiegati nelle missioni militari all'estero saranno 7.459 militari e 167 agenti delle forze di polizia. 

Occorre poi tenere conto che il prossimo anno altri 140 militari partiranno per la Lettonia nell'ambito dello stanziamento di un contingente della Nato. Verrà inoltre rafforzata anche la presenza in altre operazioni in Europa, delle quali quella più numerosa vede impegnati 550 soldati italiani in Kosovo.

Enrico Piovesana, su Il Fatto del 30 gennaio, sottolinea anche il triplicare dello stanziamento (da 5 a 15 milioni) per le operazioni d’intelligence a supporto delle missioni condotte dagli agenti operativi dell’Agenzia di informazione e sicurezza esterna (Aise), attivi soprattutto in Libia, Iraq e Afghanistan. L’incremento è legato alla novità (introdotta un anno fa da Renzi) dell’impiego di assetti militari (forze speciali) a supporto delle operazioni d’intelligence per operazioni segrete.

Secondo l'Osservatorio sulle Spese Militari italiane, nel 2017 verranno spesi 1,28 miliardi di euro contro gli 1,19 miliardi del 2016. Soldi destinati a finanziare l’impiego di 7.600 uomini, 1.300 mezzi terrestri, 54 mezzi aerei e 13 navali in decine di missioni attive in 22 Paesi, nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. 

Da troppo tempo su tutto questo si assiste ad un assordante silenzio, sia in Parlamento che fuori. Sarà il caso che le realtà antimilitariste, antimperialiste, tornino a battere un colpo contro le missioni militari? E non è solo una questione di spese, sono la natura e gli obiettivi di queste missioni che dovrebbero inquietare. Soprattutto quando diventano la proiezione della politica dei fatti compiuti dai quali è sembra rognoso recedere.



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Seminario Internazionale contro le basi militari straniere (4-6 maggio 2017)

17 Febbraio 2017

L'invito del Consiglio Mondiale della Pace (CMP)

da cebrapaz.org.br – Traduzione di Marx21.it

Il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) ha lanciato un appello alla partecipazione al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, che si svolgerà a Guantanamo, Cuba, tra il 4 e il 6 maggio 2017. Oltre che dal CMP, l'importante evento è organizzato dal Movimento Cubano per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) e dall'Istituto Cubano di Amicizia con i Popoli. Tra i promotori vanno segnalati l'Organizzazione della Solidarietà ai Popoli di Asia, Africa e America Latina (OSPAAL), il Centro Martin Luther King Jr. e il Centro di Riflessione Oscar Arnulfo Romero. Anche tutte le entità antimperialiste che fanno parte del CMP promuovono la campagna globale contro le basi “avamposti dell'imperialismo” I contatti per le informazioni riguardanti la partecipazione all'evento sono indicati nel comunicato di MovPaz in cebrapaz.org.br.

Invito alla partecipazione al Seminario Internazionale per la Pace e contro le Basi Militari Straniere, a Guantanamo

All'inizio di quest'anno, sulla base dei nostri più recenti incontri e Assemblea, abbiamo nuovamente esaminato le sfide che i popoli di tutto il mondo affrontano nel rafforzamento della lotta antimperialista per la pace. Tra le sfide che continuano e si intensificano abbiamo messo in evidenza soprattutto la diffusione delle basi straniere al servizio dell'agenda imperialista degli Stati Uniti e delle altre potenze dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Per questa ragione il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) si unisce al Movimento per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) nell'invitare tutte le forze di giustizia e di pace, che difendono la sovranità delle nazioni e si oppongono alla logica della minaccia e della guerra imposta dall'imperialismo al pianeta, al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, tra il 4 e il 6 maggio 2017.

Il luogo in cui si svolgerà il seminario è profondamente simbolico: Guantanamo, Cuba, che ha parte del suo territorio occupata da una base navale degli USA da oltre un secolo. E' la base più antica del mondo, ancora sotto controllo statunitense contro la volontà espressa dal popolo cubano.

Rafforziamo, così, la nostra campagna globale contro le basi militari straniere, chiamando anche a una mobilitazione coordinata in vari paesi e in tutti i continenti, con azioni che esprimano in modo inequivocabile la nostra richiesta di smantellamento di questi avamposti dell'imperialismo, che violano la sovranità dei popoli e cercano di sottometterli in qualsiasi modo.

Ci opponiamo a tutte le forme di manifestazione della minaccia imperialista contro i popoli, di cui le basi militari straniere sono tra le principali. Dall'Africa all'America Latina, dalle Malvine al Giappone, chiediamo finalmente la chiusura delle basi militari imperialiste!

E' per questo che, ancora una volta, abbiamo invitato attivisti e organizzazioni della pace a mobilitarsi e a partecipare al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, denunciando queste postazioni imperialiste. Troviamoci a Guantanamo!

Socorro Gomes
Presidenta del Consiglio Mondiale della Pace