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Prossime iniziative antifasciste

* Modena 19/2: FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
Forlì 20/2: NOI RICORDIAMO TUTTO… 
Trieste 22/2: GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Roma 24/2: GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA
Roma 3/3: DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA


=== Modena, domenica 19 febbraio 2017
alle ore 15.30 nella Sala Ulivi dell’Archivio Storico della Resistenza
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese



=== Forlì, lunedì 20 febbraio 2017
alle 18:30 presso la Sala Foro Boario, piazza Foro Boario 7
NOI RICORDIAMO TUTTO… Per una lettura storicamente corretta delle questioni nord-orientali
ne parliamo con Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
organizzano ANPI e UDU



=== Trieste, mercoledì 22 febbraio 2017
alle ore 17:00 in via Tarabochia 3, presso la sala di Rifondazione Comunista, primo piano
GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Intervengono:
Alessandra Kersevan, La criminalizzazione della ricerca storica;
Claudia Cernigoi, Chi nega cosa;
Sandi Volk, Chi ricorda la Repubblica nata dalla Resistenza



=== Roma, venerdì 24 febbraio 2017
alle ore 18.30 presso Baccelli d’Idee in via Orciano Pisano 9

(ex scuola Baccelli a Montecucco dietro l’AMA) 

l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sezione Trullo-Magliana “Franco Bartolini” di Roma, in occasione della festa del tesseramento 2017, presenterà il libro:

"GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44" di Davide Conti, Odradek 2017

Ne discutiamo con l’autore e storico Davide Conti, con il partigiano dei GAP di Roma Nando Cavaterra, e con lo scrittore ed editore della Red Star Press Cristiano Armati.

Sarà l’occasione per ribadire e ricordare perché la città di Roma merita una medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, di cui è ancora in attesa di assegnazione.
Vogliamo qui citare solo alcuni dati: duecentosettantuno giorni di occupazione nazista, migliaia di caduti civili e militari, quasi quattromila partigiani inquadrati nelle organizzazioni armate, centinaia di azioni di guerra e sabotaggio compiute quotidianamente. Questa è stata la Resistenza a Romauna guerriglia urbana di nove mesi organizzata dalle forze antifasciste e resa possibile dall’appoggio della popolazione civile.
 

Le drammatiche vicende della «Città Aperta», iniziate con i seicento caduti a Porta San Paolo e chiuse dalla strage di La Storta, furono caratterizzate da una guerra partigiana che rifiutò l’ordine nazista su Roma e fece della Resistenza armata la leva storica «costituente» in grado di conferire ai cittadini un nuovo protagonismo all’interno della sfera pubblica, facendo della guerriglia urbana una delle radici fondamentali della Repubblica.

All’interno del perimetro urbano della capitale, il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito d’azione, si dotarono di reparti armati che diedero vita ad un conflitto asimmetrico in grado di infliggere all’esercito nazista gravi danni strategici e pesanti perdite materiali.

In ogni zona della città, centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio vennero realizzate dai partigiani lungo tutti i nove mesi di occupazione, confliggendo apertamente contro l’ordine pubblico criminale dei nazifascisti gestito attraverso la pratica militare della «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti e deportazioni (carabinieri, ebrei, quartieri popolari), di stragi (Pietralata, Forte Bravetta, Fosse Ardeatine, La Storta) e di “camere di tortura” (via Tasso e le Pensioni Oltremare e Jaccarino).

Le otto zone in cui i tre partiti della sinistra del CLN divisero la capitale divennero campo di battaglia accidentato e pericoloso per nazisti e fascisti grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione che permise ai partigiani di ricevere protezione e collaborazione in tutti i quartieri della città e di combattere un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse.

 

Davide Conti, storico. È consulente dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica presso cui ha curato il riordino degli archivi personali dei membri dei GAP centrali Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini. Ha pubblicato: L’occupazione italiana dei Balcani (Odradek 2008); Alle radici del sindacato. La fondazione della Cgil e le carte del congresso costitutivo del 1906 (Ediesse 2010); Criminali di guerra italiani (Odradek 2011); L'anima nera della Repubblica. Storia del Msi, (Laterza 2013); La Resistenza di Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini dai GAP alle Missioni Alleate, (Senato della Repubblica 2016).

Nando Cavaterra, partigiano. Ex combattente della Resistenza romana nel quartiere di Centocelle, inquadrato nei Gap dell’ VIII zona. Attualmente è membro del Comitato Provinciale dell’ANPI di Roma. 

Cristiano Armati, scrittore ed editore. Impegnato nell’industria editoriale dal 1999, lavora per Coniglio Editore, Newton Compton, Castelvecchi e Perrone prima di tentare di assaltare il cielo con la casa editrice Red Star Press, che contribuisce a fondare nel 2012 e che vanta nel suo catalogo diversi libri dedicati alla Resistenza. Ha scritto fra gli altri i romanzi Rospi acidi e baci con la lingua L’amore che ho cercato, la narrativa non finzionale di Roma criminaleItalia criminaleCuori rossi La scintilla.


=== Roma, venerdì 3 marzo 2017 

alle ore 17:30 alla Casa della Memoria e della Storia, Via San Francesco di Sales 5


Presentazione del libro 

"DONBASS - i neri fili della memoria rimossa"

di Silvio Marconi


intervengono: Silvio Marconi, Giovanni Russo Spena, Davide Conti, Fabrizio De Sanctis
organizza: ANPI prov. Roma
scarica la locandina: 

Silvio Marconi 
DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA
Roma: Ed. Croce, 2016

"Donbass, i neri fili della memoria rimossa" vuole essere un contributo alla rottura di una operazione di rimozione storica che si compie non solo nel caso dell'Ucraina, ma più in generale su aspetti rilevanti di vicende europee la cui eredità è tutt'altro che estinta. Grazie alla "guerra fredda", agli interessi delle élites conservatrici occidentali, alle complicità fra mandanti ed esecutori dei crimini dei nazisti e dei loro collaborazionisti e settori degli apparati istituzionali occidentali post-1945, una coltre di silenzio e mistificazione è calata su molti aspetti di quei crimini, il che ha permesso scandalose impunità e riesumazioni di personaggi assurti ad eroi. È il problema dell'Ucraina, che i media e le cancellerie occidentali fanno finta di non vedere. Importante, poi, è il fatto che spezzando quella rimozione, risulta che il caso del Donbass e del nero filo che collega i neonazisti attuali all'opera contro le genti di quella terra e i collaborazionisti ucraini dei nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, riguarda direttamente noi Italiani: in quella guerra di 70 anni fa partecipammo all'aggressione nazifascista all'URSS e occupammo per un certo periodo proprio il Donbass. Introduzione di Giovanni Russo Spena.
http://www.edizionicroce.com/libro.asp?idlibro=733

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Donbass, i neri fili della memoria rimossa


di Silvio Marconi

Sono sempre stato convinto, condividendo in questo le idee di autorevoli storici come Le Goff, Braudel, ecc., che la falsificazione e mistificazione della Storia sia stata e sia uno degli strumenti essenziali per la realizzazione delle fondamenta di qualsiasi progetto di oppressione, di aggressione, di guerra, di etnocidio, di genocidio e che, conseguentemente, lo studio ed il disvelamento non solo della realtà storica ma dei processi di sua mistificazione, dei loro autori e dei loro scopi, rappresenti un elemento imprescindibile di qualsiasi battaglia contro quei progetti disumani, se non ci si vuole affidare alla sloganistica generica, al richiamo a semplici emozioni o alla demagogia.

Quando quella mistificazione si presenta non solo e non tanto sotto la veste della aperta falsificazione (che pure è sempre componente di tale processo) ma come rimozione voluta di aspetti “scomodi” della Storia e soprattutto di quella Storia che si ama presentare come “propria”, come fondante la “propria” identità, a cui abbeverarsi per forgiare miti e realtà, comportamenti collettivi e decisioni politiche, linee educative e tendenze mediatiche, paradossalmente il danno è maggiore e più profondo perché tende a dilatarsi nei decenni e talora nei secoli, pronto a farsi alimento di qualsiasi infamia sciovinista, militarista, razzista, revisionista, di qualsiasi demagogia mobilitante, di qualsiasi banalizzazione tesa a creare confusione voluta.

Il 2 maggio 2014, i neonazisti ucraini bruciarono vive almeno 45 persone nella Casa dei Sindacati di Odessa, mentre a Kiev, nuovi leaders affermatisi grazie a quegli eventi di Maidan (in realtà un vero golpe etero diretto da ambienti NATO) in cui tali forze neonaziste erano state determinanti e che venivano presentati ciecamente dai media italiani come “rivoluzione democratica”, avevano iniziato un processo che li avrebbe portati rapidamente ad integrare quei neonazisti nelle forze armate ucraine, a rispondere alle manifestazioni di chi si opponeva alla svolta di Maidan con tanks e bombardamenti, innescando una guerra civile, a distruggere i monumenti ai caduti nella lotta contro l’invasore nazifascista del 1941-1943, ad assumere esplicitamente come riferimenti mitico-eroici i collaborazionisti ucraini dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Era per me chiaro, proprio sulla base delle mie analisi sui processi di rimozione e falsificazione storica ( Banditi e banditori, Manni, Lecce, 2000; Reti mediterranee, Gamberetti, Roma, 2002; Il nemico che non c’è, Dell’Albero/COME, Milano, 2006), che quel laboratorio di neonazismo in cui si stava trasformando l’Ucraina, sotto gli auspici e con la complicità dell’intero Occidente, basava il suo agire ancora una volta su quei processi di rimozione e falsificazione storica e che al tempo stesso si doveva non solo all’azione di media embedded e di settori politici UE ma anche all’azione pluridecennale di processi appartenenti a quella categoria il fatto che tale laboratorio di neonazismo era largamente sottovalutato in Italia.

Sottovalutato volutamente dagli ambienti più direttamente succubi rispetto al volere di NATO, UE, governi occidentali, ma anche, forse non volutamente, da buona parte delle forze antifasciste e democratiche, dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali antirazziste, da tanti che si proclamano “rivoluzionari” o anche “innovatori” nel modo di far politica. Dietro quella sottovalutazione grave, che oltre tutto lascia e lasciava spazio a confusioni “rosso-brune” (che mascherano il volto fascista dietro l’anti-americanismo) ed a simpatie esplicitamente dimostrate verso settori dei neonazisti di Kiev da parte di esponenti di partiti italiani che si dicono “democratici” (come il PD Pittella con “Pravy Sektor”) ci fosse anche stavolta una operazione di rimozione complessa, articolata e prolungata, iniziata non nel 2014, né al momento della dissoluzione dell’URSS, ma decenni fa. Una rimozione  di molteplici aspetti storici delle vicende ucraine in generale e del loro rapporto, ancor più nascosto, con la Storia stessa del nostro Paese.

La ricerca che dal maggio 2014 al febbraio 2016 ha portato infine alla pubblicazione del mio nuovo libro Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016) si è quindi incentrata su alcuni di quegli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati, per mettere a disposizione di chi non accetta i frutti orrendi del laboratorio neonazista ucraino e del suo ruolo nelle strategie dei circoli neoliberisti occidentali più radicali strumenti di approfondimento, e quindi di lotta, posto che smascherare quelle rimozioni, analizzare quegli elementi volutamente censurati rappresenta uno degli elementi imprescindibili per opporsi alle strategie ed alle tattiche di chi ne è l’autore e li usa per realizzare, fra l’altro, quel laboratorio neonazista ucraino e non solo (si pensi alla situazione nei Paesi Baltici, in Polonia, in Turchia, ecc.).

Se si vuole collocare la realtà attuale ucraina nel suo vero contesto, innanzi tutto storico prima ancora che geopolitico, ed in rapporto con una tendenza alla costruzione sistematica della “russofobia” (così ben analizzata da Guy Mettan nel suo recentissimo Russofobia. Mille anni di diffidenza; Sandro teti editore, Roma, 2016) va prima di tutto notato che gli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati relativi all’Ucraina e specificamente alla realtà del Donbass sono molti e riguardano anche ambiti storici antichi, come il fatto che in realtà Kiev, lungi dall’essere “cuore della patria ucraina” è il luogo dove nasce nel IX secolo d.C. …il primo stato proto-russo, la Rus’ di Kiev, appunto,  cristianizzata a cavallo fra X e XI secolo dal Principe Vladimir, che il simbolo scelto dai “nazionalisti” ucraini (detto “tridente”) è in realtà un girifalco, uccello che rappresentava lo stemma araldico della famiglia del suddetto Principe Vladimir della Rus’ di Kiev  e che quella Galizia culla del “nazionalismo ucraino”, del collaborazionismo coi nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e del neonazismo ucraino attuale non solo appartiene all’Ucraina solo grazie alle annessioni all’URSS realizzate dal tanto odiato Stalin, che la sottrasse alla Polonia (ricompensata con territori ad Ovest, ex-tedeschi, dopo la sconfitta del nazismo), non solo era abitata prevalentemente da Polacchi ed Ebrei prima delle stragi che nazisti e collaborazionisti ucraini vi compirono dal 1941, ma, nella sua fase di sudditanza all’Impero Austro-ungarico, prima, ed in quella di occupazione germanica durante la Prima Guerra Mondiale, poi, fu teatro della costruzione di quel “nazionalismo” ucraino (inizialmente chiamato “ruteno”, termine che in realtà nel Medioevo significava “della Rus”, ossia…”russo”!) che nacque come strumento della cultura e della politica germano-centrica contro lo zarismo russo e sulla base delle concezioni del nazionalismo-romanticismo germanico.

Sebbene, però, questi ed altri elementi relativi alle fasi storiche fra il Medioevo e la Prima Guerra Mondiale non vadano affatto trascurati ed anzi vadano ulteriormente portati alla luce per combattere la disinformazione ed il pressappochismo e siano citati nel libro, esso si concentra su altri aspetti, più recenti e significativamente proiettati sull’oggi. In primo luogo sul ruolo dell’Italia nelle politiche di conquista, rapina e massacro di impronta germanica in quella che da poco più di 150 anni si suole chiamare “Ucraina” come parte del progetto di espansione genocida tedesca ad Est. Ruolo che trova i suoi germi concettuali e concreti addirittura in politiche italiane largamente antecedenti alla presa stessa del potere in Germania da parte del nazismo, sia relative alle pratiche coloniali di annientamento e sfruttamento (in Eritrea, in Libia, poi in Etiopia e Somalia), sia a quelle di snazionalizzazione e deculturazione delle minoranze attuate nel SudTirolo e nelle aree slovene del Friuli-Venezia Giulia dal 1919, sia allo stabilirsi di strutture italiane finalizzate allo sfruttamento economico nei territori austroungarici dopo la vittoria italiana del 1918, inclusi appunto territori galiziani.

Ruolo che si intreccia con l’ideologia antisemita ed antirussa (prima ancora che antibolscevica), della Chiesa cattolica, che del resto dopo la frattura con quella ortodossa del 1054, è motore significativo di aggressioni alla Russia ed agli Ortodossi, fin da quando papa Gregorio VII (1073-1085) promuove l’azione del feudalesimo tedesco contro le genti russe in funzione di una loro auspicata conversione forzata al Cattolicesimo, fin da quando nel 1220, con questa scusa, i Cavalieri teutonici aggrediscono la terra russa (e vi vengono battuti nel 1242 dalle forze guidate da Aleksandr nevskji), fin da quando la Chiesa cattolica patrocina “crociate” dei cattolici polacco-lituani contro gli Ortodossi russi per tutto il XIII secolo o quando, nel 1596, il regno cattolico polacco-lituano impone alla Chiesa Ortodossa delle regioni galiziano-voliniane di sottomettersi all’autorità papale (nascita del fenomeno “uniate”) o nel 1612 si spinge ad attaccare la città di Mosca.

Una pratica ideologica che continua nei secoli seguenti, con l’appoggio di vescovi cattolici (fra cui quello di Tulle nel 1854 che dichiara relativamente agli Ortodossi russi: “vi sono uomini che rispondono al nome di cristiani più pericolosi per la Chiesa che i pagani stessi) e dell’arcivescovo di Parigi Sibourg (che la definisce “guerra contro l’eresia ortodossa”) alla Guerra di Crimea contro la Russia e si proietta fino alle “apparizioni di Fatima” in cui la madonna chiederebbe la “conversione della Russia” (mesi prima che avvenga la Rivoluzione bolscevica!!!) e prende vigore dal 1918 nella campagna contro il bolscevismo definito sì ateo ma spesso anche “giudeo” (identificazione che sarà cara ai nazisti….).

Ruolo che, però, trova la sua massima e piena realizzazione col e nel fascismo, ancora una volta sia sul piano teorico che pratico, fino a fare da base alla realtà della partecipazione italiana alla guerra hitleriana di aggressione all’URSS, con uno specifico ruolo proprio in Ucraina.

Su questo piano sono molti i miti da sfatare e lo si può fare, se solo lo si vuole, agevolmente, se si interconnettono a rete elementi contenuti in studi realizzati da Del Boca, Conti, Focardi, Oliva, Pisanty, Rochat e soprattutto Schlemmer e li si arricchiscono di analisi comparate (come si è cercato di fare nel mio testo) con frammenti di verità conservati in quel che resta nell’Archivio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano (al netto delle depredazioni angloamericane e soprattutto di un “provvidenziale” incendio di parte cospicua dei documenti avvenuto il 23 aprile 1945….), con contraddizioni palesi fra schegge di memoria contenute in testi diversi di reduci italiani della Campagna di Russia, a partire da quello del comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), generale Messe, e con altro materiale reperibile da varie fonti.

Il primo mito da sfatare è quello che l’Italia fu trascinata nella Campagna di Russia da Hitler. In realtà Hitler preferiva vedere l’Italia concentrarsi sul fronte africano e fu Mussolini che ripetutamente ed insistentemente chiese di poter far partecipare truppe italiane all’aggressione all’URSS, con due scopi dichiarati: avere un ruolo nella “crociata antibolscevica” ed ottenere territori e risorse da sfruttare. Scopi che già esplicitano che la partecipazione italiana aveva caratteristiche di fondo non diverse da quelle naziste, perché l’intervento italiano si configura sia come “guerra ideologica” che come “guerra di rapina” e porta con sé in entrambi gli aspetti la necessità evidente di praticare una strategia di massacro ed affama mento.

Il secondo mito da sfatare è quello di una massa di soldati ed ufficiali italiani gettati nella carneficina del fronte orientale senza convinzione e senza concezioni radicali; lettere, testimonianze, memorie confermano invece che l’ideologia nazista del Mein Kampf  (testo largamente diffuso negli ambienti colti e soprattutto giovanili italiani da cui proveniva la maggioranza degli ufficiali) era ampiamente nota ed accettata, che gerarchie ecclesiastiche e parroci di campagna “caricarono” i soldati di un senso sacrale della lotta contro il “bolscevismo ateo”, che l’antisemitismo diffuso dal 1938 attraverso una panoplia di strumenti mediatici aveva largamente attecchito e che erano condivise (anche dallo stesso Messe) concezioni care ai nazisti che ebbero traduzione pratica in ordini e pratiche di massacro, come quella che identificava “boslcevichi” ed “ebrei”, destinandoli alla eliminazione.

Il terzo mito da sfatare, collegato al secondo, è quello degli “Italiani brava gente”, ossia di una contrapposizione fra i “cattivi tedeschi” ed i “buoni italiani”, che in realtà è significativamente una estensione della menzogna tedesca che contrapponeva e per decenni ha contrapposto i “cattivi SS” ai “buoni soldati della Wehrmacht”. In realtà, certamente i gruppi speciali di sterminatori (einsatzgruppen) e le SS commisero sul fronte orientale e soprattutto in URSS crimini insuperabili per orrore e quantità, ma la Wehrmacht non fu affatto “innocente”, partecipando attivamente ai massacri di Ebrei, partigiani, comunisti, civili in genere, alle deportazioni e schiavizzazioni di massa, alle rapine e distruzioni sistematiche, all’annientamento per fame dei prigionieri di guerra. Le truppe italiane (e non solo i reparti di camicie nere come la Legione Tagliamento) non si resero responsabili di una quantità e qualità di crimini equiparabile a quelli tedeschi ma presentarli in massa come “brava gente” è una menzogna densa di conseguenze. I reparti italiani, che operarono in Russia sempre sotto il comando tedesco, erano reduci da crimini di guerra terribili in Etiopia (e in Libia prima ancora del fascismo!), in Grecia, in Albania e soprattutto in Yugoslavia; in URSS parteciparono ai rastrellamenti, crearono campi di concentramento per prigionieri di guerra (affamandoli), consegnarono ai tedeschi per destinarli a sicura morte partigiani, comunisti, Ebrei, civili rastrellati, praticarono distruzioni e rappresaglie e se non poterono rapinare su vasta scala (ed usare come programmato le risorse agricole ucraine per sfamare gli Italiani e migliaia di prigionieri russi per le miniere sarde) è solo perché i tedeschi non vollero spartire il bottino  e la rapina con gli Italiani e questi ultimi furono costretti a servirsi solo….dei pacchi da inviare a casa (volutamente aumentati di peso….).

Truppe, ufficiali italiani, perfino la Polizia Politica fascista erano a conoscenza dei crimini enormi che i nazisti commettevano, con l’appoggio dei collaborazionisti locali, ma non vi fu una reazione istituzionale di alcun tipo e si proseguì tranquillamente a cooperare con gli autori e garantire condizioni perché molti di quei crimini avvenissero.

Da tante lettere di semplici soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani impegnati sul fronte russo 8e specificamente, per tanti mesi, proprio in Ucraina) emerge entusismo nella partecipazione ad una “impresa” che viene vissuta come “crociata contro il bolscevismo ateo”, come “campagna per portare la superiore civiltà romana ai barbari delle steppe russe”, come “lotta alle sanguisughe giudee”.

Per non parlare della “cameratesca” complicità durante l’invasione nazifascista all’URSS fra reparti nazisti e reparti maggiormente ideologizzati delle truppe italiane, come quella X MAS che fu di stanza a Mariupol o della Legione Tagliamento, i cui superstiti dopo la ritirata dalla Russia formarono il nerbo dell’omonimo reparto repubblichino che si distinse dopo l’8 settembre 1943 nella repressione antipartigiana, nelle stragi in Italia.

L’altro aspetto affrontato nel libro è il ruolo dei collaborazionisti ucraini in rapporto sia coi Tedeschi che con gli Italiani. Anche qui ci sono miti da sfatare, tanto più gravi in quanto sono oggi rilanciati ufficialmente dalla giunta oligarco-fascista di Kiev, primo fra i quali il considerare tali collaborazionisti come “nazionalisti ucraini”. Erano invece tanto poco veri “nazionalisti” che non evitarono né di essere arruolati a migliaia come guardiani dei lager nazisti, operando nei centri polacchi di Sobibor, Treblinka, Majdanek, ecc. ma perfino nella Risiera di San Sabba a Trieste, né di combattere al servizio dei nazisti in aree che nulla avevano a che vedere con l’Ucraina, come la Slovacchia o l’Italia settentrionale.

Erano soprattutto autori di crimini in questo caso assolutamente equiparabili a quelli nazisti, sia in termini di crudeltà degli aguzzini che di stragi di massa di Ebrei, Polacchi (oltre 200.000 trucidati solo in Galizia e Volinia dai collaborazionisti ucraini), prigionieri sovietici, partigiani, civili sospettati di aiutarli, sia di rapina ai danni delle vittime e dei propri concittadini. Anche in questo caso, un aspetto volutamente dimenticato è che vi fu organica cooperazione di simili bande di criminali anche con le truppe italiane, in particolare proprio nel Donbass, visto che esso fu il teatro di impiego del CSIR nel 1941 (mentre quando gli Italiani estesero la partecipazione e crearono un’armata, l’ARMIR, nel 1942 essa venne schierata sul Don) e che Stalino (l’attuale Donetsk) era la sede del Comando Italiano, oltre che uno dei luoghi di deportazione ancora nel 1942-43 in lager per prigionieri di guerra sovietici gestiti da Italiani e che di stragi efferate di migliaia di civili compiute dai nazisti.

Si arriva perfino al paradosso che gli attestati di “benemerenza” da parte di criminali collaborazionisti ucraini verso ufficiali italiani vengono usati nel dopoguerra per inventare un rapporto positivo di alcuni di costoro (accusati dai Sovietici di crimini di guerra e mai processati in Italia) con l’insieme della popolazione locale, mentre si nascondono i propositi di ufficiali italiani (come il col. Piccinini) che propongono lo sgombero totale della popolazione da località del Donbass come Rykovo perché “infestata da bolscevichi”!

Ancora, alla fine della guerra, se tante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini dei nazisti, compresi i membri della famigerata XIV Divisione SS “Galizien”, riusciranno a sfuggire alla giusta punizione sovietica arrendendosi agli Angloamericani e verranno perfino fatti emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, ciò avviene con la complicità sia di esponenti anticomunisti come il generale polacco Anders (che certifica falsamente la cittadinanza polacca di tutti i membri di quella divisione), sia di ambienti vaticani e di conventi in territorio italiano. Saranno quei collaborazionisti che nella “diaspora”, per decenni, durante la Guerra Fredda, alleveranno figli e nipoti ai disvalori, ai simboli, ai riti del collaborazionismo, della russofobia, del nazismo, forniranno reclute alla rete di spie e sabotatori occidentali contro l’URSS che vedeva nella sua leadership l’ex-capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Gehlen, daranno vita, dopo la dissoluzione elstiniana dell’URSS, ai nuclei dei movimenti di destra radicale nell’Ucraina diventata indipendente ed i cui confini, tanto “sacri” per chi si definisce “nazionalista” e pratica lo sport della russofobia, includono territori che proprio l’URSS dell’aborrito Stalin aggregò all’Ucraina sottraendoli a Polonia, Slovacchia e Ungheria!

Solo se si ricostruisce questa trama storica, di cui si è dato in questa sede qualche cenno, si può, allora, comprendere cosa sta avvenendo in Ucraina in questi ultimi anni. Non è un caso se la NATO ha scelto l’Ucraina, ed in diversa misura Paesi Baltici in cui si negano i diritti civili a chi è discendente di Russi, si distruggono i monumenti antinazisti, si esaltano come eroi anche in questo caso i collaborazionisti dei nazisti (co-autori anche in quelle terre di stragi di Ebrei, Russi e prigionieri sovietici…), come laboratorio principale per riattivare su larga scala quella russofobia criminale che fu una delle molle non solo del fascismo, dell’hitlerismo, dei suoi collaborazionisti orientali (baltici, ucraini, croati, ecc.) e di tanti regimi fascisteggianti europei (da quello stesso polacco a quello ungherese, ad esempio) ma per decenni delle cosiddette “democrazie occidentali” pre-Seconda Guerra Mondiale, da quella britannica a quella statunitense.

Una russofobia che, come si è detto, affonda nella Storia, anch’essa, ben al di là dello stesso antibolscevismo e dello stesso atteggiamento della Chiesa cattolica ed ha esempi lampanti quali il disprezzo di Voltaire e quello di Napoleone per quelli che definiva assieme “tartari” e “barbari del Nord” e che si intreccia ovviamente, dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, con l’odio assoluto verso il Paese reo di aver portato a compimento la prima costruzione di un esperimento sociale non asservito alla logica del capitale occidentale.

A quella russofobia di sfondo, fa riscontro, dalla fase in cui fascismo e poi più ancora nazismo furono scelti dal capitale internazionale (inclusi settori di quello USA, come Ford) come strumenti di distruzione delle velleità di giustizia sociale redistributiva del proletariato europeo, appunto l’uso del nazifascismo come strumento estremo per imporre la volontà del capitale monopolistico, ieri, globalizzato, oggi, anche a costo di vedersi sfuggire di mano quegli strumenti esattamente come accade in altro modo e per altro verso con gli integralismi religiosi estremistici (alimentati in passato contro i nazionalismi laici e marxisteggianti o, ancora una volta, contro la vecchia URSS) e vederseli trasformare in soggetti autonomi capaci di mordere anche la mano di chi li ha allevati, come già avvenne negli anni ’30 proprio con fascismo e nazismo.

Se, quindi, in Ucraina come altrove (ma con le debite differenze da non sottovalutare) la rete dei fili neri della ragnatela dell’oppressione pseudo-nazionalista, sciovinista, fascista, intrisa di mistificazione storica, affonda le sue radici perfino in lontani passati proto-borghesi, come ci insegnava Gramsci parlando del Risorgimento italiano, dinanzi ad essa, ai ragni che la tessono, alle conseguenze nefaste che ne scaturiscono non ha senso domandarsi quale livello di affidabilità rivoluzionaria, quale dose di progettualità socialisteggiante, quale tasso di eredità classista abbiano le forze che ad essa si oppongono, fermo restando ogni rifiuto indispensabile di qualsiasi contaminazione “rosso-bruna”. Chi si opponeva ieri all’invasione ed alle rapine di Napoleone (anche quando era perfino più retrogrado dello stesso Napoleone, ma difendeva la sua terra), chi si è opposto all’orrore nazifascista (si trattasse di un liberale britannico convertitosi per necessità all’antifascismo o di un bolscevico russo convertitosi all’alleanza con i “capitalisti” inglesi per altrettanta necessità, di un ufficiale sovietico recuperato dal fondo di un gulag staliniano o di un ufficiale monarchico italiano pronto a non tradire i suoi compagni di lotta comunisti sotto le torture a Via Tasso, di un minatore del Donbass sabotatore della produzione asservita ai Tedeschi o di un resistente gaullista francese, ecc.), chi si oppone oggi ai nuovi laboratori in cui quell’orrore si vuole riprodurre (si tratti di un miliziano cosacco del Donbass o di un antifascista milanese, di un antinazista tedesco o di un comunista ucraino costretto alla illegalità, di un aderente all’ANPI di Roma o di un Polacco che scende in piazza contro il regime, di un Siriano che si batte contro l’ISIS foraggiata dal fascista Erdogan o di un pilota russo che lo appoggia, ecc.) e non si fa adescare da fascisti e razzisti, antisemiti e provocatori mascherati da “antiamericani” e perfino da “filoputiniani” fa storicamente parte della risposta necessaria a quella ragnatela: una rete del colore del sangue che affermava, afferma ed affermerà che la memoria non si deve rimuovere e la lotta prosegue, in forme sempre diverse, contro lo stesso orrore di sempre.

Silvio Marconi, 9 luglio 2016



(srpskohrvatski / italiano)

N.B. Tra le forze politiche comuniste esistenti nell'area jugoslava, il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) è quella che segue la tradizione "filosovietica", da cui la Jugoslavia di Tito si allontanò nel 1948, come è esplicitato al termine della intervista che riportiamo di seguito. Per una più ampia panoramica delle formazioni comuniste in Serbia e nelle altre repubbliche ex-federate rimandiamo alla nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/politica.htm

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Svečana akademija povodom 25 godina od obnove SKOJ-a – http://www.skoj.org.rs/
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Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale / FSM) e candidato alle elezioni della presidenza della Serbia per la lista "IL LAVORATORE NON È MERCE", interviene di fronte alla platea dell'organizzazione giovanile del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia. Dietro di lui, tra le altre, la bandiera della RFSJ. L'iniziativa si è aperta con il canto dell'inno jugoslavo "Hej Slaveni":

Veselinović: Srbiju treba vratiti u vreme kada su radnici bili gospoda
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Svecana akademija SKOJA
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Веселиновић: Србију треба вратити у време када су радници били господа
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www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 13-02-17 - n. 620

NKPJ: La nostra tradizione poggia sull'internazionalismo proletario

International Communist Press (ICP) | sol.org.tr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Speciale intervista della International Communist Press con Aleksandar Banjanac, Segretario Generale del Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ)

13/02/2017

ICP: Di recente assistiamo alla riproduzione di forme di nazionalismo serbo. Il Partito Radicale Serbo del criminale di guerra Vojislav Seselj ha ottenuto 22 seggi alle ultime elezioni parlamentari. Dall'altra parte, il governo della Serbia ha cercato di ripristinare l'onorabilità di collaboratori nazisti quali Milan Nedic. Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) ha avviato una serie di proteste per resistere a questi tentativi e per contrastare l'esistenza di organizzazioni fasciste nelle università. In che modo il vostro Partito intende continuare l'azione anti-nazionalista?

Aleksandar Banjanac: Dalla creazione del nostro Partito in poi, ci siamo sempre opposti a ogni forma di sciovinismo, fascismo e discriminazione.
In Serbia, così come nelle repubbliche post-jugoslave, il nazionalismo è stata l'ideologia che ha legittimato le classi dirigenti e gli obiettivi imperialisti. Questa idea ha diviso la classe operaia su base etnica, portandola a un crollo sociale e materiale. Inoltre, ha aperto la strada alla restaurazione dell'onorabilità di collaborazionisti nazisti e del revisionismo.
Noi cerchiamo sempre di disvelare e mostrare il terreno su cui attecchisce il nazionalismo. Abbiamo sostenuto la nostra posizione nelle proteste contro la restaurazione dell'onorabilità di nemici pubblici vissuti ai tempi della seconda guerra mondiale. Presentiamo questa posizione nel nostro programma di Partito, nei nostri comunicati, nelle discussioni pubbliche e nelle riunioni di partito.

ICP: Durante quest'anno si svolgeranno probabilmente in Serbia le elezioni presidenziali e forse quelle parlamentari. Quale sarà la posizione di NKPJ?

Aleksandar Banjanac: Il Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia mostrerà una posizione organizzata, presentando il presidente del sindacato "Sloga", compagno Željka Veselinović, come candidato. Sloga è l'unico sindacato affiliato alla Federazione sindacale mondiale, FSM-WFTU, in Serbia. Prima delle elezioni verrà presentato un programma elettorale articolato in dieci punti. Tra i nostri bersagli presi di mira nei dieci punti: le collaborazioni con il FMI, la Banca Mondiale, la UE e la NATO, così come le politiche di privatizzazione e le politiche nazionaliste. E' ancora prematuro parlare di elezioni parlamentari.
Il sistema elettorale della Serbia non consente parità di condizioni per i partecipanti. Senza una copertura finanziaria sufficiente, si incontrano problemi; grazie alla collaborazione con Sloga ci auguriamo di superare l'ostacolo.
Ci aspettiamo un salto di qualità in nome della classe operaia nelle elezioni e anche il creare delle forme organizzative più forti tra i nostri membri e alleati.

ICP: Pochi giorni fa, un treno che viaggiava sulla linea ferroviaria da poco ristabilita tra Belgrado e Mitrovica nel Kosovo, è stato fermato dai funzionari kosovari a causa dello slogan scritto sui convogli in 21 lingue: "Kosovo è Serbia", cosa che ha causato una nuova crisi politica. Quali sono le vostre previsioni sull'evoluzione del clima politico sul Kosovo?

AB: La "Repubblica del Kosovo" è una base NATO proprio nel centro dei Balcani. I discorsi sul "Kosovo indipendente" sono il risultato della guerra espansionista, di occupazione e di intervento contro la Repubblica Socialista della Jugoslavia da parte delle forze NATO nel 1999.
Allo stesso tempo, questo intervento significa l'occupazione del Kosovo e Metohija, che è una regione di importanza strategica. D'altra parte, i Balcani sono sotto il controllo delle forze Usa da così tanto tempo. Una delle più grandi basi americane in questa regione è "Bondstil", situata in Uroševca, Kosovo. Di recente sono emerse sulla stampa prove dell'esistenza di una prigione di guerra all'interno della base. In altre parole, possiamo parlare della Guantanamo europea. Inoltre, è previsto un nuovo aiuto militare da parte del governo di Trump in Kosovo.
Entrambi i governi di Kosovo e Belgrado sono asserviti alla NATO in egual misura. Il fatto del treno, orchestrato dal governo serbo, era pura propaganda pre-elettorale. Allo stesso tempo, vale come graduale riconoscimento del Kosovo da parte del governo, che è diretto dall'imperialismo occidentale. La situazione attuale può solo surriscaldare il nazionalismo serbo e quello albanese a discapito dei serbi in Kosovo. Queste attività non sono utili a nessuno, tranne che a loro. Si dimostrano le incapacità dei rispettivi governi.
L'occupazione imperialista deve volgere al termine. Sostenere la pace e la realizzazione della solidarietà tra i popoli albanesi e serbi non è utile alla NATO. Entrambe le parti sono vittime della NATO. I popoli dei Balcani saranno in grado di determinare il proprio futuro solo se i Balcani gli apparterranno.

ICP: La posizione della Russia in Ucraina ha portato la UE a levare delle sanzioni contro la Russia. Allo stesso tempo la Russia ha annunciato la realizzazione di un gasdotto turco, un progetto che include la Serbia nel suo percorso. Poco dopo, il presidente russo Vladimir Putin ha visitato Belgrado, con la rivista della parata militare congiunta degli eserciti russo e serbo. Il governo della Serbia è stato criticato di mostrare un eccesso di senso pratico nel processo di negoziazione in corso sul lato opposto, con l'UE. Qual è il vostro commento sulla posizione del governo serbo riguardo a queste relazioni?

AB: Sì, il governo della Serbia ha mostrato un atteggiamento "pragmatico", sostenendo le bande fasciste e l'illegittimo Presidente Poroshenko, mentre negoziava con la Russia. Anche l'Unione europea è stata criticata per non premere abbastanza sulla Serbia. Questa è chiaramente una prova del predominio della UE sul governo.
Subito dopo la visita di Putin a Belgrado e la parata militare, il governo è stato costretto a rendere una dichiarazione alla NATO, rendendo noti accordi coperti. Questi accordi forniscono una serie di priorità alla NATO in entrambi i campi militari e civili. In uno stato di guerra, dovremo dare il controllo delle nostre basi, ospedali e aeroporti alla NATO.
Non abbiamo bisogno di un tale pragmatismo. Uno dei nostri modi di dire, recita: "se non nutri il tuo esercito, nutri un altro esercito".

ICP: Qualche tempo fa, il NKPJ ha tenuto il suo congresso. Una delle decisioni più importanti prese nel congresso è stata l'obiettivo del ringiovanimento, scommettendo sulla vostra organizzazione giovanile, SKOJ. Qual è l'obiettivo atteso in NKPJ per questa transizione?

AB: L'obiettivo di svecchiamento era un progetto pianificato da molti anni. Si è concretizzato nel nostro V Congresso straordinario. Sono stato eletto come nuovo Segretario generale del nostro Partito nello stesso Congresso e la mia età non supera ancora i 34 anni. Abbiamo anche compagni più giovani nella Segreteria, nell'Ufficio politico e nel Comitato centrale. Siamo uno dei rari partiti nella regione con una così giovane dirigenza.
Nonostante tutte le difficoltà e le limitazioni, puntiamo a realizzare un potente partito dei lavoratori. Abbiamo bisogno di un NKPJ che sia in grado di rispondere alle esigenze dei lavoratori. Abbiamo bisogno di organizzare i giovani e indurli a staccarsi dal sistema di sfruttamento e a considerare il socialismo non come un periodo nostalgico ma come unica alternativa contro il capitalismo. Finché il NKPJ si basa sui giovani, i giovani si baseranno sul partito.

ICP: Perché considerate la Jugoslavia, oggi divisa in molti stati diversi, come scala politica, invece che la Serbia?

AB: Prima di tutto, anche se la Jugoslavia è divisa in più parti, anche se manipolata e le sue risorse sono sottratte, noi non pensiamo che abbia perso il suo significato storico.
Siamo l'unico partito che affronta la questione nazionale con l'identità jugoslava. Abbiamo la volontà di risolvere questo problema attraverso la ridefinizione di tutti i popoli nella regione nel suo complesso. Un altro problema passato, era l'esistenza di confini interni dentro la Jugoslavia. E' stato uno dei motivi principali della guerra che si è verificato subito dopo la dissoluzione.
Inoltre, è evidente che dal '90 la pace non è stata stabilita nella regione. Frizioni tra i popoli e i governi dei paesi della ex Jugoslavia, spesso si surriscaldano.
L'intervento dell'imperialismo occidentale divide il nostro Paese in termini economici, militari, nazionali, sociali ed educativi. Dopo lo scioglimento, hanno anche esportato le loro politiche per i nuovi governi.
Usando il termine di Jugoslavia, noi presentiamo la sua effettiva legittimità. Oltre ad utilizzare questo termine, denunciamo l'occupazione della NATO. Insistiamo sul fatto che tutte le forze progressiste devono mostrare una posizione congiunta contro questa occupazione.
Persone che ancora oggi si definiscono con l'identità jugoslava, esistono. Esse condannano il clima politico attuale e danno il loro sostegno al nostro Partito.

ICP: Il vostro Partito ha una posizione diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia rispetto l'URSS e l'ideale del socialismo. Qual è l'eredità per il NKPJ?

AB: Giusto, abbiamo una posizione molto diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia. Questa presa di posizione poggia principalmente su principi riguardanti la costruzione del socialismo.
Poiché abbiamo fatto nostra la posizione del Partito Comunista di Jugoslavia, diciamo che la Lega dei Comunisti, istituita dopo il 1948, cambiando il nome del Partito, è stata una mutazione opportunista e revisionista, che ha voltato le spalle al movimento comunista internazionale.
Dopo il XX Congresso, anche in URSS si è avviato un periodo revisionista. Tuttavia, allo stesso tempo, hanno mostrato un'opposizione realistica contro l'imperialismo durante la Guerra Fredda. La Jugoslavia ha scelto di rimanere neutrale in questa guerra di classe. Come dice Lenin, ogni terza via respinge la seconda. Così la terza via jugoslava ha rifiutato di opporsi alla principale questione: quindi, la Jugoslavia di Tito ha diretto il movimento dei Non Allineati. Da questa posizione, la Jugoslavia si è allineata all'imperialismo e ha istituito la "piccola NATO", collaborando con la Turchia e la Grecia negli anni '50.
Tito e i quadri di Partito avevano organizzato la guerra di sovranità nazionale, eroicamente e trionfando con una rivoluzione. Il ruolo di Tito in questo periodo storico non può essere svalutato. Ma, purtroppo, non sostennero la rivoluzione che avevano stabilito. Al contrario, hanno giocato il ruolo di "cavallo di Troia" all'interno del movimento comunista internazionale e si sono diretti verso la restaurazione del capitalismo.
La nostra tradizione si basa sul Partito socialdemocratico e successori: il Partito Comunista di Jugoslavia, che ha sostenuto le rivendicazioni dell'internazionalismo proletario, la III Internazionale, il Cominform e il socialismo scientifico fino al 1948.




L’arte della guerra
Il Libro (del golpe) Bianco 

Manlio Dinucci
  
Mentre i riflettori mediatici erano puntati su Sanremo, dove si è esibita anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti cantando le lodi delle missioni militari che «riportano la pace», il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio il disegno di legge che consentirà l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, delegando al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». 

Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione. Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio. 

Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «
interessi vitali del Paese». Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese»

Il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’Art. 11, viene sostituito nella terza missione dalla  
«gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale»

Il Libro Bianco demolisce in tal modo i pilastri costituzionali della Repubblica italiana, che viene riconfigurata quale potenza che si arroga il diritto di intervenire militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri interessi economici e strategici, e , al di fuori di tali aree, ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando degli Stati uniti. 

Funzionale a tutto questo è la Legge quadro entrata in vigore nel 2016, che istituzionalizza le missioni militari all’estero, costituendo per il loro finanziamento un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze. 

Infine, come quarta missione, si affida alle Forze armate sul piano interno la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive. 

Il nuovo modello accresce fortemente i poteri del Capo di stato maggiore della difesa anche sotto il profilo tecnico-amministrativo e, allo stesso tempo, apre le porte delle Forze armate a «dirigenti provenienti dal settore privato» che potranno 
ricoprire gli incarichi di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti. Incarichi chiave che permetteranno ai potenti gruppi dell’industria militare di entrare con funzioni dirigenti nelle Forze armate e di pilotarle secondo i loro interessi legati alla guerra. 

L’industria militare viene definita nel Libro Bianco 
«pilastro del Sistema Paese» poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati». 

Non resta che riscrivere l’Art. 1 della Costituzione, precisando che la nostra è una repubblica, un tempo democratica, fondata sul lavoro dell’industria bellica.
 
(il manifesto, 14 febbraio 2017)   

Il giorno 02 feb 2017, alle ore 18:50, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:


Il velo “umanitario” sulle missioni militari all’estero va strappato


di Sergio Cararo

Il vice presidente della Commissione Difesa, on. Massimo Artini (ex M5S), ha replicato con un lungo e articolato commento al nostro articolo di venerdi – ovviamente e fortemente critico – verso la legge approvata a luglio 2016 ed entrata in vigore il 31 dicembre 2016. Ci contesta una lettura negativa di un impianto legislativo a suo dire positivo. A noi così non sembra affatto, e non sembra esserlo stato neanche per 41 senatori che si sono astenuti o votato direttamente contro (al Senato l'astensione vale come voto contrario, ndr).

La legge quadro sulle missioni militari all'estero, infatti è stata approvata al Senato con 194 sì, un no e 40 astenuti, tra questi ultimi i senatori del M5S e alcuni del gruppo misto. Il voto contrario alla legge e' stato della senatrice Paola De Pin (anche lei ex M5S).

La legge disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO e la Ue), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese. 

All'apparenza la Legge prevede che la decisione di spedire militari in teatri di guerra adottata dal governo, vada inviata al Parlamento, il quale con appropriati atti di indirizzo, può dare luce verde o meno alla missione. Tale autorizzazione può essere sottoposta a condizioni. Dal momento che si è in presenza del totale coinvolgimento dei due rami del Parlamento, se non venisse dato l’assenso dai deputati e senatori, la missione internazionale non si potrebbe realizzare. Probabilmente, su questo impianto, a luglio 2016, quando la legge è stata approvata, il governo già riteneva che il Senato non ci sarebbe più stato in base alla controriforma costituzionale che il paese ha respinto a maggioranza il 4 dicembre con il referendum. Avevano insomma fatto i conti senza l'oste e venduto la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.

Un risultato è stato comunque raggiunto dal governo. Le missioni militari all'estero non dovranno essere rinnovate (anche economicamente) ogni sei mesi ma saranno una decisione strategica che può essere revocata solo con un atto politico del governo. Nè ci sembra che la gravità della Legge sulle missioni militari possa essere attenuata da una delle operazioni più insidiose che abbiamo denunciato negli anni scorsi: i cosiddetti Corpi civili di pace che potranno affiancare le missioni militari vere e proprie. Su questo vedi un articolo pubblicato tempo addietro.

E' una lettura catastrofista e pregiudiziale della legge? Per dimostrare che su questo pesano e fanno la differenza i presupposti di partenza, è interessante vedere come invece i “laboratori” legati agli apparati di potere hanno dato la loro lettura delle legge stessa.

Ad esempio secondo la fondazione Astrid:“La legge quadro in questo senso costituisce un vero e proprio salto di qualità nella governance della nostra politica estera e di difesa”. Prendiamo ancora a prestito le valutazioni positive espresse dall'Astrid che, come noi coglie il dato secondo cui questa legge cerca di sanare le molteplici contraddizioni manifestatesi nella politica militare italiana dalla prima guerra del Golfo nel 1991. “L’importanza della cooperazione internazionale nelle missioni di peace-keeping, peace-making e peace-enforcement si è andata affermando soprattutto negli ultimi venti anni. Lo spartiacque può essere considerato la prima guerra del Golfo chevide operare, sotto l’egida di una risoluzione Onu, una coalizione di 34 nazioni, tra cui l’Italia, guidata dagli Stati Uniti”. Non solo. Lo stesso think thank ammette che quelle contraddizioni andavano sanate con un apparato legislativo che adeguasse la proiezione militare dell'Italia al nuovo scenario nelle relazioni internazionali: “Da allora, a causa di contesti internazionali sempre più complessi e di vincoli costituzionali molto stringenti, tale paradigma cooperativo si è rapidamente imposto come la principale modalità di intervento delle nostre Forze armate all’estero. Di fronte al moltiplicarsi degli eventi che hanno richiesto una partecipazione dell’Italia a missioni internazionali si è dunque reso necessario il rinnovamento di un quadro normativo che rimaneva troppo legato alle logiche rigide e bipolari della guerra fredda”.

L'on. Artini, di cui apprezziamo l'attenzione per il nostro articolo, ragiona su un presupposto diverso e distante dal nostro. In questa legge vede una razionalizzazione dell'impianto legislativo sulle missioni militari all'estero, noi ci siamo battuti sistematicamente contro l'idea e le decisioni di partecipare alle missioni militari italiane nei teatri di guerra. Perchè di questo si è trattato. Adesso ci sono 300 militari in Libia “per proteggere la costruzione di un ospedale a Misurata” e 1300 militari in Iraq “per proteggere la ristrutturazione della diga a Mosul”. Tremiamo all'idea che una azienda italiana vinca l'appalto per la costruzione di una autostrada in Siria o in qualche altro paese in guerra.

Negli anni scorsi, la cortina fumogena “umanitaria” in Jugoslavia, Libia, ha nascosto orrori e decisioni politicamente vergognose dei nostri governi. Quella poi dell'intervento militare in Afghanistan e Iraq è quanto ha somigliato di più ad una partecipazione vera e propria ad una guerra di aggressione ad altri Stati. E su questo non c'è alcuna mediazione possibile, né in parlamento né fuori. Su questo presupposto, e proprio per questo, abbiamo fatto a sportellate e poi rotto con i senatori e i deputati della sinistra al tempo del secondo governo Prodi. Purtroppo e per fortuna abbiamo buona memoria e senso della coerenza.

18 gennaio 2017



Il giorno 13 gen 2017, alle ore 18:00, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:

http://contropiano.org/news/politica-news/2017/01/13/litalia-si-dota-della-legge-la-guerra-087877

L’Italia si dota della Legge per la guerra


di Sergio Cararo

Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:


a) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea;


2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".


3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)


“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge. 

 

E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.
 

13 gennaio 2017





(english / deutsch.
Il nuovo presidente della Repubblica Federale Tedesca è una vecchia conoscenza. Durante la guerra di aggressione contro la Jugoslavia era Ministro degli Esteri, ed i servizi segreti militari (BND) sono stati a lungo sotto la sua supervisione. Fanatico delle politiche recessive della UE in economia, questo esemplare del revanscismo gran-tedesco è in prima fila da un paio d'anni nel sostegno alla rinascita del nazismo in Ucraina. Gravi le sue responsabilità anche in Medio Oriente, dove a molti anni di oscillazioni nella scelta dei referenti politici è seguito, infine, lo sdoganamento di settori jihadisti e terroristi come "Ahrar al Sham" in Siria. È il campione perfetto, insomma, della Unione Europea realmente esistente. [a cura di Italo Slavo]

--- DEUTSCH ---


Präsidiable Politik
 
13.02.2017
BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Frank-Walter Steinmeier, designierter Präsident der Bundesrepublik Deutschland, verkörpert wie kaum ein zweiter die Berliner Expansionspolitik der vergangenen zwei Jahrzehnte vom Kosovokrieg bis zur Einmischung in den Syrienkrieg. Den Überfall auf Jugoslawien vom Frühjahr 1999, mit dem Deutschland unter Bruch des Völkerrechts in seinen ersten Angriffskrieg nach 1945 zog, begleitete Steinmeier als Staatssekretär im Bundeskanzleramt. Danach beteiligte er sich als Kanzleramtschef am Kampf um Zugriff auf die riesigen russischen Erdgasvorräte, um sodann als Außenminister mit dem Streben nach EU-Assoziierung der Ukraine Russland machtpolitisch massiv zurückzudrängen. Dabei nahm er einen Umsturz in Kiew unter Beteiligung von Faschisten in Kauf. Lange hat auch der "Anti-Terror-Krieg" Steinmeiers Wirken geprägt; im Kanzleramt war er an führender Stelle in die Folterkooperation mit der CIA involviert. Der nächste Bundespräsident hat im Herbst 2002 dazu beigetragen, die Freilassung eines unschuldigen Mannes aus Bremen aus dem US-Folterlager Guantanamo nach Deutschland zu verhindern. Zudem trug er Mitverantwortung für Verhöre deutscher Verdächtiger in syrischen und libanesischen Foltergefängnissen. Zuletzt hat Steinmeier einer jihadistischen Miliz, die von der deutschen Justiz als Terrororganisation eingestuft wird, politische Rückendeckung gewährt.
Unter Bruch des Völkerrechts
Die erste große außenpolitische Operation, in die Frank-Walter Steinmeier involviert war - damals noch als Staatssekretär im Bundeskanzleramt und als Beauftragter für die Nachrichtendienste des Bundes unter Kanzler Gerhard Schröder -, war der Angriffskrieg gegen Jugoslawien im Frühjahr 1999. Über den Überfall auf Jugoslawien hat später Schröder selbst geurteilt, es sei ein "Verstoß gegen das Völkerrecht" gewesen: "Da haben wir unsere Flugzeuge, unsere Tornados nach Serbien geschickt, und die haben zusammen mit der NATO einen souveränen Staat gebombt - ohne dass es einen Sicherheitsratsbeschluß gegeben hätte."[1] Als Staatssekretär im Kanzleramt ist Steinmeier damals eng in die Vorbereitung und das Führen des Krieges involviert gewesen. Als Geheimdienst-Beauftragtem kann ihm zudem nicht entgangen sein, dass der Bundesnachrichtendienst (BND) die damaligen Berichte über angebliche jugoslawische Massaker, mit denen die Bundesregierung den Krieg legitimierte, klar als Kriegslügen einstufte; ein Journalist mit guten Kenntnissen über den Dienst berichtete bereits im April 1999, "viele der Geschichten über angebliche Massengräber und Greueltaten der Serben" würden "von Pullach als nachrichtendienstliche Desinformation bewertet, mit denen Politik gemacht" werde.[2] Zu denen, die damals Politik machten, gehörte Steinmeier; die Erkenntnisse des BND hielten ihn nicht von der Unterstützung des Krieges ab.
Mit Faschisten und Oligarchen
Nach dem Kosovokrieg hat für das Bundeskanzleramt, in dem Steinmeier ab Juli 1999 als Chef amtierte, rasch die Russlandpolitik erhebliche Bedeutung erlangt. Hatte der Kosovokrieg nicht nur Jugoslawien, sondern zugleich mit Belgrad auch dessen traditionellen Partner Moskau empfindlich geschwächt, so strebte Berlin nun nach Zugriff auf die riesigen russischen Erdgasressourcen. Dazu war eine Phase der Kooperation mit Russland unumgänglich. Schröder hatte die Erdgaskoooperation in seiner Amtszeit als Ministerpräsident Niedersachsens (1990 bis 1998) gemeinsam mit einem seiner engsten damaligen Mitarbeiter, Frank-Walter Steinmeier, eingeleitet (german-foreign-policy.com berichtete [3]); beide setzten sie nun im Berliner Kanzleramt fort. In den folgenden Jahren ist es Berlin - auch dank Steinmeier, der 2005 an die Spitze des Auswärtigen Amt wechseltes - gelungen, deutschen Konzernen eine starke Stellung in der russischen Erdgasproduktion und beim Transport des Rohstoffs per Pipeline in Richtung EU zu sichern.[4] Das hat den damaligen Außenminister nicht davon abgehalten, ab 2007 die Weichen in Richtung EU-Assoziierung der Ukraine zu stellen, um den deutschen Einflussbereich auf Kosten Russlands nach Osten auszudehnen. Den Umsturz in Kiew im Februar 2014 hat Steinmeier - nach vierjähriger Zeit in der Opposition - dann wieder als Außenminister begleitet. Um Moskau zurückzudrängen, hat er unter anderem den Führer einer faschistischen ukrainischen Partei [5] sowie berüchtigte ukrainische Oligarchen [6] zu akzeptierten Verhandlungspartnern aufgewertet. Die Folgen für die Ukraine sind bekannt.
Verschleppung und Folter
Jenseits der deutschen Expansion nach Ost- und Südosteuropa ist für Steinmeier - vor allem in seiner Amtszeit als Kanzleramtschef - der sogenannte Anti-Terror-Krieg prägend gewesen. In die systematische Verschleppung von Verdächtigen durch die CIA in geheime Folterkeller in Europa, Afrika und Asien waren von Oktober 2001 an per Zuarbeit auch deutsche Stellen involviert; darüber hinaus nahmen BND-Agenten, andere Geheimdienstler und Polizisten mehrfach an Verhören verschleppter Deutscher teil.[7] Steinmeier, damals im Kanzleramt zuständig für den BND, war zudem als Teilnehmer der Kanzleramts-"Sicherheitsrunden" immer wieder in den Komplex von Verschleppung und Folter involviert. Über die Berliner Kollaboration mit der CIA hat sich später etwa der liberale Schweizer Politiker Dick Marty in seiner Funktion als Sonderermittler des Europarats zu den kriminellen Geheimdienstmachenschaften beklagt.[8] Einer Entscheidung der Bundesregierung, die Steinmeier mit verantwortete, verdankt der Bremer Murat Kurnaz vier Jahre Internierung im US-Folterlager Guantanamo. Kurnaz, der 2001 von US-Stellen verschleppt, gefoltert und in Guantanamo festgehalten worden war, sollte nach dem Willen der US-Regierung im Herbst 2002 nach Deutschland überstellt werden; die US-Behörden waren zu der Erkenntnis gekommen, er habe sich nichts zuschulden kommen lassen. Bei einer Besprechung im Kanzleramt wurde am 29. Oktober 2002 unter Steinmeiers Mitwirkung entschieden, Kurnaz nicht aus den Vereinigten Staaten einreisen zu lassen. Das sei sogar "bei US-Seite auf Unverständnis" gestoßen, hielt der BND wenig später fest. Die Kanzleramtsentscheidung führte dazu, dass Kurnaz erst am 24. August 2006 aus der US-Folterhaft freikam: nach dem Regierungswechsel in Berlin.[9]
Geheimdienstkooperation mit Syrien
Von aktuellem Interesse ist, dass der BND - unter der Oberaufsicht des Kanzleramtschefs - Anfang 2002 in Gespräche mit der syrischen Auslandsspionage über einen Ausbau der geheimdienstlichen Zusammenarbeit eintrat. Dabei ging es - neben der Abwehr unerwünschter Migration - ebenfalls vorrangig um den "Anti-Terror-Krieg". Die Kooperation mit Damaskus war selbst im Kanzleramt nicht unumstritten, weil die syrischen Dienste für ihre Folterpraktiken berüchtigt waren; so berichtete etwa der damalige Kanzleramts-Referent für Internationalen Terrorismus, Guido Steinberg, er habe vor einer engeren Zusammenarbeit mit Syrien "wegen der dort praktizierten Menschenrechtsverletzungen gewarnt".[10] Unter seinem Chef Steinmeier schlug das Kanzleramt die Warnungen jedoch in den Wind, baute die Kooperation aus - und entsandte von Oktober bis Dezember 2002 mehrmals Geheimdienstler und Polizisten nach Damaskus und in das damals unter starkem syrischen Einfluss stehende Beirut, um dort an Verhören in Foltergefängnissen inhaftierter Deutscher teilzunehmen (german-foreign-policy.com berichtete [11]). Er habe es damals für "notwendig" erachtet, "dem jungen Präsidenten Assad Wege der Zusammenarbeit mit dem Westen aufzuzeigen", erklärte Steinmeier kürzlich.[12] Seit dem Sommer 2011 zieht Berlin allerdings die syrischen Folterpraktiken, aus denen es zuvor Profit zu schlagen versuchte, heran, um das Streben nach einem Umsturz in Damaskus zu legitimieren.
Rückendeckung für Jihadisten
Dabei hat das Auswärtige Amt unter Steinmeier in Syrien zuletzt Jihadisten den Rücken gestärkt, die es zuvor sogar unter faktischer Billigung von Folter bekämpft hatte. Anfang 2016 etwa setzte Steinmeier sich persönlich dafür ein, die salafistisch-jihadistische Miliz Ahrar al Sham zur Verhandlungspartnerin in Friedensgesprächen aufzuwerten. Ahrar al Sham kooperiert eng mit dem syrischen Ableger von Al Qaida, dem Hauptfeind im früheren "Anti-Terror-Krieg". Die deutsche Justiz stuft die Miliz entsprechend als Terrororganisation ein und stellt daher die Unterstützung für sie unter Strafe (german-foreign-policy.com berichtete [13]). Der Sache nach trifft die Einstufung einen wichtigen Aspekt der Syrienpolitik des Auswärtigen Amts unter seinem einstigen Minister, dem künftigen Bundespräsidenten.

[1] Gerd Schumann: "Weil ich es selbst gemacht habe". junge Welt 24.04.2014.
[2] Hans Leyendecker, in: Süddeutsche Zeitung 14.04.1999.
[3] S. dazu 4.500 Kilometer um Berlin.
[4] S. dazu Deutsch-russische Leuchtturmprojekte und Die Umgehung der Ukraine.
[5] S. dazu Vom Stigma befreit.
[6] S. dazu Die Restauration der Oligarchen (IV)Steinmeier und die Oligarchen und Zauberlehrlinge (III).
[7] S. dazu Oktober 2001Mitwisser und Profiteure und Kein Eingeständnis.
[8] S. dazu Abgleiten in die Barbarei (II).
[9] S. dazu Perioden des "Anti-Terror-Kriegs".
[10] S. dazu Deutsch-syrischer Herbst.
[11] S. dazu Die FoltererUnd warten noch immer und Steinmeier und seine Komplizen.
[12] Steinmeier kritisiert Trumps Folter-Lob. www.n-tv.de 27.01.2017.
[13] S. dazu Steinmeier und das Oberlandesgericht und Terrorunterstützer.

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A President's Policy
 
2017/02/13
BERLIN
 
(Own report) - Frank-Walter Steinmeier, President-elect of the Federal Republic of Germany is the epitome of the past two decades of Berlin's expansionist policy - from the war over Kosovo to intervention in the Syrian war. As State Secretary in the Federal Chancellery, Steinmeier was implicated in the aggression against Yugoslavia in the spring of 1999, with which Germany, in violation of international law, entered its first war of aggression since 1945. As head of the Federal Chancellery, he had participated in the struggle to obtain access to Russia's vast natural gas reserves. As Foreign Minister, he was massively striving to roll back Russia's political influence by associating Ukraine with the EU, even condoning a coup - with fascist participation - in Kiev. Steinmeier's activities had also been influenced by the so-called war on terror. In the Chancellery, he played a leading role in cooperation with the CIA's torture program. In the fall of 2002, he helped to prevent an innocent native of Bremen from being released to Germany from the US Guantanamo torture camp. He was complicit in the interrogation of German suspects in Syrian and Lebanese torture chambers. Just recently, Steinmeier provided political support to a jihadist militia, classified a terror organization by the German judiciary.
Violating International Law
The war of aggression against Yugoslavia in the spring of 1999 was the first major foreign policy operation, in which Frank-Walter Steinmeier was involved - at the time as State Secretary in the Federal Chancellery and as Coordinator for the Federal Intelligence Services under Chancellor Gerhard Schröder. Schröder, himself, later called the aggression against Yugoslavia a "violation of international law." "We dispatched our planes and Tornados to Serbia and, together with NATO; they bombed a sovereign country - without authorization from the Security Council."[1] As State Secretary in the Chancellery, Steinmeier had been deeply involved in preparing and waging that war. As Commissioner for the intelligence services, he must have been aware that the reports of alleged Yugoslav massacres, with which the German government justified the war, had been clearly classified by the Federal Intelligence Service (BND) as war propaganda. A journalist, well informed on the intelligence services, had reported already in April 1999 that, "Pullach [the BND Headquarters] considers many of the stories of mass graves and atrocities allegedly committed by Serbs to be intelligence-related disinformation for the purpose of making policy."[2] Steinmeier was one of those politicians, and the BND's findings did not prevent him from supporting the war.
With Fascists and Oligarchs
Following the war over Kosovo, Russia quickly became a major policy issue for the Chancellery, headed by Steinmeier, beginning in July 1999. The war over Kosovo had not only significantly weakened Belgrade but also its traditional partner Moscow. Berlin was now striving to obtain access to Russia's vast natural gas reserves, necessitating a period of cooperation with Russia. As Prime Minster in Lower Saxony (1990 - 1998), Schröder had initiated the natural gas cooperation together with one of his closest collaborators at the time, Frank-Walter Steinmeier. (german-foreign-policy.com reported.[3]) Both continued this cooperation in the German Chancellery. In the years that followed - thanks also to Steinmeier, who became foreign minister in 2005 - Berlin was able to secure a strong position for German companies in the production of Russian gas and its pipeline transport to the EU.[4] Starting in 2007, this did not prevent the foreign minister, at the time, to set the course for Ukraine's EU association, aimed at expanding Germany's sphere of influence eastward, at Russia's expense. After four years in the opposition, Steinmeier - again, foreign minster - was implicated in the Kiev coup in February 2014. To curb Russia's influence, he also promoted the leader of one of Ukraine's fascist parties [5] and infamous Ukrainian oligarchs [6] to acceptable negotiating partners. The consequences, this has had on Ukraine, are well known.
Kidnapping and Torture
Beyond Germany's expansion into eastern and southeastern Europe, the so-called war on terror was formative for Steinmeier - particularly during his incumbency as head of the German Chancellery. Beginning in October 2001, German government agencies had provided the legwork for the CIA's systematic kidnapping of suspects, taking them to secret torture chambers in Europe, Africa, and Asia. BND agents and other secret services and police officials were even on hand during interrogations of kidnapped German suspects.[7] At the time, Steinmeier, as the BND supervisor in the chancellery, as well as a participant in the chancellery's "security round tables," was repeatedly involved in the issues of kidnapping and torture. Later, the liberal Swiss politician, Dick Marty, serving as the European Council's special investigator into the crimes committed by the secret services, complained of Berlin's collaboration with the CIA.[8] A native of Bremen, Murat Kurnaz, owes four of his years of incarceration at the Guantánamo torture camp to a German government decision, Steinmeier helped formulate. In the fall of 2002, the US government had wanted to release Kurnaz - who had been kidnapped, in 2001, by US officials, tortured and held captive in Guantanámo - to German custody. The US officials had drawn the conclusion that Kurnaz was innocent. After consultations in the chancellery with Steinmeier participating, it was decided October 29, 2002, not to permit Kurnaz' entry into Germany from the United States. A short time later, the BND noted that this decision had "even caused stupefaction among the Americans." The chancellery's decision meant that Kurnaz was only released from the US torture chamber on August 24, 2006, after a change in government in Berlin.[9]
Intelligence Service Cooperation with Syria
The fact that, in early 2002, the BND - under the supervision of the head of the chancellery - had entered talks with the Syrian foreign intelligence service on expanding their intelligence-gathering cooperation is also currently of interest. Alongside the question of blocking undesirable migration to Germany, the talks centered particularly on the "war on terror." However, cooperation with Damascus was not uncontested, even in the chancellery, because of the Syrian services' being notorious for using torture. Guido Steinberg, at the time, consultant to the chancellery on questions of international terrorism, reported that he had warned against too close of a cooperation with Syria "because of their practice of human rights violations."[10] Under Steinmeier's direction, the chancellery ignored these warnings, expanded their cooperation - and between October and December 2002 - repeatedly sent intelligence and police officials to Damascus and Beirut (at the time under strong Syrian influence) to be on hand at interrogations of German prisoners in torture chambers. (german-foreign-policy.com reported.[11]) Steinmeier recently declared that he had deemed it "necessary" to "point out to the young President Assad ways to cooperate with the West."[12] However, since the summer of 2011, Berlin has been denouncing the use of torture - from which it had earlier benefitted - to help legitimize the pursuit of a coup in Damascus.
Backing for Jihadis
Recently, in Syria, Steinmeier's foreign ministry had supported jihadis, it had previously been fighting, even under de facto endorsement of torture. In early 2016, for example, Steinmeier was personally engaged in embellishing the Salafist Ahrar al Sham jihadi militia, to make it presentable as a partner for the peace talks. Ahrar al Sham is a close partner of the Syrian al Qaeda subsidiary, the main enemy in the previous "war on terror." Germany's justice system has accordingly classified that militia a "terrorist organization," outlawing any support it may be given. (german-foreign-policy.com reported.[13]) In fact, that classification corresponds to an important aspect of the German Foreign Ministry's policy toward Syria under its former minister - the future President of Germany.

[1] Gerd Schumann: "Weil ich es selbst gemacht habe". junge Welt 24.04.2014.
[2] Hans Leyendecker, in: Süddeutsche Zeitung 14.04.1999.
[3] See 4,500 Kilometers around Berlin.
[4] See German-Russian Flagship Projects and Die Umgehung der Ukraine.
[5] See Vom Stigma befreit.
[6] See The Restoration of the Oligarchs (IV)Steinmeier and the Oligarchs and Zauberlehrlinge (III).
[7] See Oktober 2001Mitwisser und Profiteure and Kein Eingeständnis.
[8] See Sinking into Barbarism (II).
[9] See Perioden des "Anti-Terror-Kriegs".
[10] See Deutsch-syrischer Herbst.
[11] See The TorturersAnd Still Waiting and Steinmeier and His Accomplices.
[12] Steinmeier kritisiert Trumps Folter-Lob. www.n-tv.de 27.01.2017.
[13] See Steinmeier und das Oberlandesgericht and Terrorunterstützer.